AUGUSTO, Gaio Giulio Cesare Ottaviano (Gaius Iulius Caesar Octavianus Augustus)
Gaio Ottavio, figlio di Gaio e nipote di Gaio, nacque in Roma il 23 settembre del 63 a. C. sotto il consolato di C. Antonio e di M. Tullio Cicerone. Derivava da famiglia equestre, imparentata con la casa Giulia, e da Gaio Giulio Cesare nominata patrizia; sua madre, Attia, era figlia di Giulia, sorella minore di Cesare. Questi intravide nel giovinetto Ottavio, che amava, un possibile erede, gli diede molte distinzioni e doni militari anche prima che prestasse il suo regolare servizio. Il 13 settembre del 45 Giulio Cesare lo adottò come figlio, e poi lo mandò nell'Illirico per ricevervi un'educazione militare. Da circa sei mesi Ottavio era ad Apollonia quando gli giunse la notizia della morte di Cesare. Nel maggio del 44 fu a Roma, ove, assumendo il nome di Gaio Giulio Cesare Ottaviano, rivendicò i suoi diritti di figlio ed erede del morto dittatore.
L'inizio della carriera e della fortuna politica del giovane Ottaviano si può dire coincida con la richiesta ch'egli fece a M. Antonio della sottratta eredità. Questa richiesta e il rifiuto che gli venne opposto riunirono intorno alla sua persona tutte le forze che, alla morte di Cesare, volevano riprendere la posizione che dal dittatore era stata loro tolta e che speravano di poter dominare più facilmente col giovinetto figlio adottivo del loro nemico che con il potentissimo console Antonio. Tale nuova distribuzione di forze, che gli creava la particolare e singolare situazione di avere al suo seguito veterani di Cesare e, nello stesso tempo, quel gruppo senatorio di cui Cesare era stato avversario e poi vittima, doveva naturalmente metterlo in aperto conflitto con Antonio. Il nome che Ottaviano assunse, le scarse simpatie che Antonio era riuscito a conquistarsi, le promesse e la liberalità dell'erede di Cesare raccolsero intorno a lui molte delle stesse truppe cesariane su cui Antonio contava. Nell'Italia settentrionale, nella valle del Po, si venne all'aperto conflitto; ed in due battaglie a Mutina (44-43 a. C.) Antonio fu sconfitto e costretto a riparare in Gallia, ove stazionavano gli eserciti di Lepido e Planco: dalla loro attitudine dipendevano le sorti di Antonio, come Cicerone stesso aveva tempestivamente previsto. Le truppe di Lepido manifestarono la loro volontà di appoggiare Antonio: e si unirono alle forze del vinto di Mutina, come pure fece Planco con tutte le altre forze di quella regione. Nello stesso tempo si può dire finisse l'artificiosa alleanza fra i veterani di Cesare al servizio di Ottaviano e il gruppo dell'antica oligarchia senatoria: una rapida marcia militare di Ottaviano su Roma rinnovò i tempi delle lotte di Silla e di Cinna, e, appoggiato dalla forza armata, egli assunse il consolato. Ormai Ottaviano si era separato dalle forze senatorie che erano state la prima ragione della sua fortuna: e mentre Antonio era minacciosamente accampato nell'alta Italia, occorreva che si creasse un temporaneo accordo fra i capi delle due grandi frazioni dell'antico esercito cesariano per poter fronteggiare il pericolo imminente dei repubblicani cesaricidi. Una magistratura straordinaria, foggiata sul modello della dittatura rei publicae constituendae di Silla, fu creata a Bologna (43 a. C.), cioè il secondo triumvirato, magistratura che poneva alla testa dello stato per cinque anni gli uomini più importanti del gruppo cesariano, Antonio, Ottaviano e Lepido. Questa magistratura rinviava il conflitto fra i due aspiranti alla successione monarchica di Cesare e permetteva loro di coalizzarsi contro Bruto e Cassio, che in Oriente si stavano preparando al conflitto decisivo. Valendosi dei loro poteri eccezionali, i triumviri sull'esempio di Silla iniziarono le proscrizioni, eliminando così molti avversari e raccogliendo imponenti somme di denaro. La preparazione dei repubblicani in Siria, in Asia Minore e nella penisola balcanica aveva permesso a Bruto e Cassio di concentrare in Macedonia un esercito forte di 19 legioni: con altrettante legioni, più numerose come effettivi, mossero loro incontro Ottaviano e Antonio. Fra Macedonia e Tracia, a Filippi, nell'autunno del 42 a. C. i due eserciti vennero al terribile urto, in una lotta che durò venti giorni, culminante in due combattimenti, dopo i quali, suicidatisi Bruto e Cassio in seguito alla rotta delle forze repubblicane, queste capitolarono. Ottaviano e Antonio, superata la temibile ostilità dell'antica tradizione repubblicana che sopravviveva per il valore e per la capacità degli uccisori di Cesare, si trovavano nuovamente avversarî, con i problemi creati dalla vittoria e soprattutto con quello, assai più grave, dei loro rapporti futuri. All'indomani della vittoria li attendeva il consueto problema che pesava sui generali che s'erano procurati seguito nelle soldatesche, e cioè la sistemazione dei veterani. Ottaviano s'era riservato il compito delle assegnazioni di terre in Italia, sapendo che con questo si assicurava un largo seguito fra i veterani cupidi e bisognosi di larghi e immediati premî e compensi. Antonio, che si attribuiva il maggior merito della vittoria, volle la parte del leone nella divisione dell'impero, e cioè prese per sé l'Oriente, la parte più ricca e più promettente di forze e di guadagni; ma tuttavia non trascurò, per mezzo della moglie Fulvia e del fratello Lucio Antonio, di creare serie difficoltà all'opera che Ottaviano stava per intraprendere in Italia. I conflitti e le ribellioni, che questi provocavano, portarono ad una lunga guerra civile che culminò nella sconfitta data da Ottaviano ed Agrippa a Lucio Antonio a Perusia (40 a. C.). Dopo quella vittoria Ottaviano era ormai libero nel possesso di tutto l'Occidente; ma l'intervento diretto di Antonio obbligò ad un compromesso, provocato anche dalla volontà pacifica delle truppe, che divise definitivamente in due parti l'impero: il matrimonio di Ottavia, sorella di Ottaviano, con Antonio, suggellò palesemente il forzato, provvisorio e insincero accordo. Questa temporanea sosta permise ad Ottaviano di iniziare una delle sue maggiori imprese militari, la guerra navale contro Sesto Pompeo che esercitava irregolarmente e piratescamente un pericoloso dominio sul mare, razie al quale, padrone della Sicilia e della Sardegna, teneva sotto la sua discrezione gli approvvigionamenti di Roma e d'Italia. Antonio aveva promesso aiuti in questa guerra: non li mandò, e Ottaviano, con l'aiuto di Agrippa, iniziò lo svolgimento di un gigantesco piano mirante ad attaccare Sesto Pompeo nella sua roccaforte, in Sicilia. Fatto centro in Pozzuoli, egli portò in Sicilia grandissime forze terrestri con cui tolse l'isola all'avversario, che, battuto nella battaglia navale di Nauloco (36 a. C.), morì poco dopo: una defezione dei soldati di Lepido liberò Ottaviano di un avversario che poteva divenire pericoloso, e così, avuta anche l'Africa, fu signore dell'Occidente e dei suoi mari senza alcuna possibile opposizione. Mentre Ottaviano proseguiva di grado in grado la sua trionfale ascesa, Antonio stava svolgendo il suo piano politico, che, in prosecuzione dei disegni di Cesare, doveva fare dello stato romano una monarchia di tipo ellenistico ed orientale. Una lunga guerra, destinata a rimediare il disastro di un'improvvisa incursione dei Parti, terminò in un nuovo insuccesso, soltanto riparato dalla fortunata conquista del regno d'Armenia: l'impresa contro i Parti già progettata da Cesare, finiva in una delusione; tuttavia il successo notevolissimo contro gli Armeni permise ad Antonio di celebrare in Alessandria un solenne trionfo. Questo fatto senza precedenti, che sembrava preporre Alessandria a Roma, e gli accordi intervenuti fra Antonio, Cleopatra e Cesarione, bastardo di Cesare, sono altrettanti episodî dell'opera iniziata da M. Antonio per la prosecuzione nella sistemazione dell'impero romano, cui era dato il compito di continuare i disegni di Alessandro Magno. Naturalmente questa tendenza, come aveva suscitate fortissime opposizioni a Cesare costandogli la vita, doveva provocare il risentimento dei Romani e soprattutto di coloro che comunque erano devoti alle antiche tradizioni della città; quindi larghissime simpatie, da parte di costoro, dovevano andare ad Ottaviano, il quale, benché nominalmente erede di Cesare, tendeva già, fin d'allora, ad avvicinarsi alla politica caratteristica di Pompeo, cioè a rispettare scrupolosamente i sentimenti e le tradizioni dei Romani, la maestà del popolo e dell'Urbe. Il conflitto fra Cesare e Pompeo si ripeteva, con larghissime mutazioni nelle circostanze esterne, fra Antonio e Ottaviano. Le truppe di Antonio, composte per la maggior parte di uomini nativi della penisola italica, non potevano comprendere il piano del loro capo; assai meglio capiva la loro mentalità Ottaviano, che sapeva essere il loro maggior ideale un premio rappresentato da un lotto di terra in Italia, e cioè proprio quello che Antonio, in quel momento, non poteva offrire loro, dato il predominio conquistato da Ottaviano in Occidente. Roma, d'altra parte, non sapeva e non poteva interpretare gli accordi di Alessandria altro che come sottrazioni di parti delle provincie, patrimonio del popolo romano, per farne donazione alla regina d'Egitto; o almeno in questo senso le venivano spiegati gli avvenimenti da coloro che avevano interesse ad alienare gli animi da Antonio: a questo modo l'opinione pubblica guardava sempre più favorevolmente e con sempre maggiori speranze ad Ottaviano. Nel 32, in queste condizioni, sembrava impossibile la rinnovazione del patto che costituiva l'accordo fra i due avversarî; infatti, fallite le trattative, Ottaviano riuscì a far dichiarare guerra a Cleopatra, cioè, di fatto, allo stesso Antonio, che però, com'è naturale, non fu apparentemente messo in causa, ma soltanto privato di tutte le sue dignità.
Ottaviano nel 31, come console per la terza volta, assumeva il comando delle forze destinate alla guerra: 80.000 uomini e parecchie squadre navali. Per molti mesi i due avversarî stettero a fronte nell'Adriatico senza venire a nessuna decisione. Finalmente il 2 settembre del 31 un tentativo di sfondamento della linea di blocco da parte di Cleopatra e di Antonio portò al salvamento personale dei due capi e di 60 navi, ma ad una piena vittoria di Ottaviano (battaglia di Azio), che gli permise di trattenere e di incendiare 440 navi nemiche: intanto anche l'esercito di terra di Antonio era costretto a capitolare mentre cercava di ritirarsi in Oriente. Nell'estate successiva (30 a. C.), Ottaviano giunse con minuziosa preparazione in Egitto, ove la sua vittoria fu coronata dalla presa di Alessandria e dai suicidî successivi di Antonio e di Cleopatra: con la caduta della grande regina, ultima degna erede di Alessandro Magno, Ottaviano poteva conquistare il ricco regno da tanti decennî desiderato cupidamente dai Romani. In quell'anno ottaviano era console per la quarta volta: il suo quinto consolato fu nell'anno successivo, e in tale dignità egli tornò a Roma, celebrò un triplice trionfo e poté ordinare la chiusura del tempio di Giano, in segno della raggiunta pace.
La creazione della monarchia. - All'indomani della clamorosa vittoria, quando Roma era ai piedi di Ottaviano, come all'indomani di Farsaglia era stata ai piedi di Cesare, il problema fondamentale che si ripresentava, e che dai tempi di Cinna e di Mario incessantemente tormentava lo stato romano, era quello della sistemazione della posizione personale del dominatore e della riforma della vetusta costituzione repubblicana. L'esperienza di Pompeo e di Cesare era ricca di ammaestramenti per chi stava per affrontare nuovamente il problema; e la risoluzione che Ottaviano diede, fu e resta forse il suo maggior titolo di gloria. Dal 32 a. C. egli aveva rinunziato alla carica di triumviro rei publicae constituendae, carica che, rinnovando i tempi e il ricordo di Silla, non poteva essere lungamente mantenuta senza nuocergli, e che tanto da Pompeo quanto da Cesare era stata accuratamente evitata. Del resto, anche per dare l'apparenza esteriore della restaurazione della repubblica, egli ebbe dal 32 il consolato rinnovato annualmente; consolato però che si collegava di più alle magistrature eccezionali di Cinna che non al suo consolato repubblicano, poiché egli, come Cinna, s'era fatta attribuire la facoltà di nominarsi un collega. Dal 28 però egli volle rientrare nella legalità anche per la magistratura consolare e si fece nominare un collega, Agrippa, con cui, secondo l'antico uso, divise in egual numero l'onore dei littori e dei fasci, assumendone di nuovo 12 ognuno. Tuttavia la sistemazione definitiva dei nuovi rapporti, che, fin dai tempi di Cinna e di Silla, si erano andati spesso tragicamente creando, chiedeva ben altro che una pura e semplice restaurazione repubblicana, e la posizione stessa di Ottaviano richiedeva un ordinamento che eliminasse dallo stato romano la permanente minaccia della guerra civile. L'antica repubblica aveva una forza che derivava, più che da persone o da interessi, dal prestigio stesso del suo passato, dalla sua tradizione gloriosa, dalla mentalità particolare dei Romani che in essa, nella sua maestà, nei suoi ordinamenti vedevano qualcosa di sacro, un elemento fondamentale della grandezza dello stato, una ragione di superiorità sulle popolazioni suddite e vinte, che non avevano mai saputo far altro che affidarsi a un padrone, a un re. Re, del resto, erano i vinti che avevano percorso in catene le vie di Roma, quasi ad ornamento dei trionfi dei generali vittoriosi e a maggior splendore del senato e del popolo dell'Urbe; le monarchie, sconfitte e devastate, erano spesso state oggetto di disprezzo da parte dei cittadini romani. Distruggere la repubblica era, in certo modo, distruggere Roma stessa, era dare la rivincita all'Oriente sconfitto: non senza ragione Cesare ed Antonio, nei loro piani di creazione d'una monarchia, tendevano a superare e abbandonare il romanesimo dell'impero romano e ad usare le vittorie e la forza di Roma per raccogliere l'eredità dispersa del grande Alessandro. D'altra parte, sino dai tempi di Mario, il generale vittorioso aveva sperimentato l'enorme difficoltà di tradurre in atto il desiderio altamente preveggente e politico, di rispettare le forme e le tradizioni della repubblica, pur sistemandole ed accordandole col potere monarchico del capo delle legioni, resosi ormai necessario. Soprattutto Gneo Pompeo, attraverso i progressi della sua carriera politica, con delusioni e deviazioni continue, aveva dovuto constatare come fosse arduo compito l'abbandonare, in ossequio alle leggi, la forza militare, e come fosse impossibile il conservarla quando talvolta si sacrificava la volontà dei legionarî a quella del senato repubblicano. Apparentemente rientrato nella legalità e nella normalità, Ottaviano aveva anzitutto davanti a sé il problema della conservazione del comando delle sue truppe: Cesare l'aveva risolto mantenendo, contro gli usi repubblicani, la dittatura militare con continuità; Ottaviano si limitò a chiedere quel comando proconsolare la cui attribuzione spettava al senato da lui ricostituito e riformato, e che era stato l'elemento fondamentale del potere di Pompeo. Egli lasciò che molte provincie, come Creta, Cirene, la Sardegna, la Sicilia, l'Asia (cioè una parte dell'Asia minore), l'Africa, la Macedonia, fossero amministrate da proconsoli e propretori nominati dal senato; e anzi, per poter ottenere che vi fossero magistrati sufficienti per tutte le accresciute funzioni dell'impero, fissò il numero dei pretori a 10 e il numero dei questori a 20 (Silla aveva creato 8 pretori e 20 questori); viceversa si riservò la Spagna, la Gallia, la Siria e inoltre conservò la sua conquista, l'Egitto; cioè l'intero occidente, la provincia asiatica più popolosa e più importante perché confinante coi Parti, e la più ricca e fertile riserva di tesori e grano che l'impero avesse. Con questo gesto Ottaviano poteva dire, come disse, bella ubi civilia extinseram, per consensum universorum potitus rerum omnium, rem publicam ex mea potestate in senatus populique romani arbitrium transtuli; poiché la magistratura proconsolare, anche nella forma in cui egli l'assunse, rientrava perfettamente nel quadro delle istituzioni repubblicane. Infatti il senato aveva, ancora in base alle leggi di Silla e di Pompeo, la facoltà di consigliare ai consoli di delegare a singole persone la loro autorità derivante dall'imperium infinitum. Questa delega, che teoricamente avrebbe dovuto farsi anno per anno poiché ogni console poteva impegnare soltanto sé stesso, nella pratica veniva fatta dal senato anche per un numero d'anni maggiore: questo era già avvenuto per i comandi concessi a Pompeo e a Cesare e si ripeteva, restando quindi sempre nella linea repubblicana, nel caso di Ottaviano. Ma il comando delle truppe non bastava, occorreva avere anche il comando marittimo, per il dominio del Mediterraneo, occorreva stabilire la posizione del dominatore di fronte alla città e di fronte al senato, occorreva insomma risolvere tutte quelle contraddizioni fra la tradizione repubblicana e la monarchia affermantesi, che erano state la principale ragione degl'insuccessi dei precedenti tentativi di risoluzione monarchica della crisi dello stato romano. Per Ottaviano, capo contrastato di una fazione politica, era sufficiente un ampio comando militare, truppe e denaro a sua disposizione, e poi i mezzi per ricompensare con donazioni di terra i suoi soldati: con questo egli poteva dominare Roma, combattere gli avversarî, affermare la superiorità sua e della sua parte: ma sul trionfatore, che grazie alla sconfitta di Antonio e Cleopatra aveva potuto raccogliere su di sé tutto il peso e tutta la responsabilità dell'impero romano, non incombeva soltanto il problema di affermare sé stesso e di agire per i proprî personali interessi. Ormai egli aveva il dovere di dare un assetto stabile allo stato romano, avendo a sua disposizione tutti i mezzi per farlo: la vittoria di Azio e gli avvenimenti d'Egitto avevano identificata la sua persona e i suoi fini con quelli dello stato stesso; da lui dipendeva di dare alla sua posizione e all'ordinamento interno dell'impero quella sistemazione che garantisse la fine della crisi e delle lotte intestine. Cosicché il comando militare continuativo poteva essere non un fine ma un mezzo, come avrebbe voluto Pompeo, il quale aveva già intravisto e sfuggito i pericoli della monarchia militare. Una netta opposizione con la classe dirigente dell'antica repubblica e l'aperta rottura con le tradizioni politiche antiche avrebbero precisamente obbligato Ottaviano, come obbligarono Cesare, a cercare appoggio soltanto nelle legioni e quindi a formare quella monarchia militare che fatalmente avrebbe dovuto cercare nell'oriente ellenistico e nelle sue tradizioni d'assolutismo la sua ragion d'essere. Ottaviano, che aveva voluto essere sempre e soprattutto, come fu Pompeo, un cittadino romano, assertore della gloria della sua patria, doveva affermare il suo potere personale rispettando Roma e le sue tradizioni. Il consolato rinnovato anno per anno, le forme repubblicane volutamente conservate con una certa ostentazione raggiungevano lo scopo di dimostrare il suo ossequio per le tradizioni, ma non quello di dare alla sua posizione di predominio altra ragione legale o morale che non fosse quella, pericolosissima, di essere un generale fortunato e vittorioso. A questo scopo fu di eccezionale importanza quella seduta del senato (26 gennaio 27 a. C.) in cui l'alto consesso, ampiamente rinnovato da ottaviano con elementi a lui amici e fedeli, lo insignì del titolo di Augusto, che divenne il suo nome e fu poi il titolo dei suoi successori. Il nome di Augusto dava ad Ottaviano un titolo quasi religioso, l'indicazione della superiorità della sua persona degna di venerazione, e si collegava mirabilmente con l'appellativo di Divi filius, venutogli dopo l'erezione della memoria di Gaio Giulio Cesare a culto ufficiale dello stato. Augustus, cioè "degno di venerazione e di onore" (come è chiaramente detto dalla traduzione greca del nome, Σεβαστός), senza circondarlo di alcuna ragione teocratica o comunque cultuale di supremazia, tuttavia dava una reale sanzione a quella sua posizione predominante che egli non voleva unicamente giustificata dalla violenza implicata nei suoi formidabili comandi militari e nel suo seguito di legioni, ma che desiderava fosse riconosciuta dal consenso di tutti i romani i quali, attraverso le loro istituzioni repubblicane, riconoscevano nel primo dei loro concittadini, nell'erede di Cesare nel salvatore della romanità dal pericolo della rivincita dell'ellenismo e dell'Oriente, una posizione predominante che nessuno degli antichi appellativi, come quello di pater patriae, che pure gli era stato attribuito, poteva bastare a significare. Uno degli elementi complessi che concorrevano alla formazione di questa posizione, che nel nome di Augusto aveva trovato una sintesi esteriore, era la tribunicia potestas, dignità che già era stata attribuita a Giulio Cesare e che restò uno dei fondamentali attributi dell'impero. La facoltà tribunizia dell'auxilium ferendi, e cioè il diritto che aveva dato ai tribuni la posizione predominante che fu una delle armi usate nelle lotte civili, la loro sacrosancta potestas che li metteva all'infuori di ogni eventualità di veto da parte di altri magistrati, era stata attribuita ad Augusto, anche oltre il pomerio romano; con essa, egli veniva ad avere una maior potestas di fronte a tutte le magistrature, anche di fronte ai governatori delle provincie senatorie: essa e la sua dignità proconsolare, estesa, per le esigenze della flotta, al comando totius orae maritimae, e quindi anche in Italia, entro il pomerio, formavano le principali ragioni giuridiche della sua superiorità di fatto. La dignità proconsolare portava come conseguenza l'imperium militiae, le sue cariche civili il titolo di princeps civitatis, come il titolo e la funzione di pontefice massimo e la sua condizione di Divi filius creavano i motivi principali della sua superiorità religiosa: ma nessuna di queste funzioni e di queste dignità bastava a spiegare il suo titolo ufficiale di Augusto, che è la risultante di tutte assieme le ragioni di superiorità, della sua posizione militare come di quella civile o religiosa, della sua supremazia su Roma come di quella sulle provincie. E Augusto sarà il primo dei Romani in Roma, il successore e l'erede dei Faraoni in Egitto (tanto che in quella terra, per non creare conflitti di poteri, sarà inibito l'ingresso ai senatori romani) e l'imperator, non nel senso militare e romano della parola, ma in quello che verrà ad assumere più tardi per le provincie soggette, in cui il dominio romano non era ancora conosciuto che per il tramite dell'imperium militiae: sarà, in sostanza, Cesare, nel significato che questo nome grave di destini doveva necessariamente aver la tendenza ad assumere, dopo che la personalità di Giulio Cesare, per opera e per interesse dei suoi eredi, aveva assunto, con la deificazione, l'importanza e il carattere del mito della romanità trionfante, conquistatrice e creatrice di leggi e d'imperi. Egli fu l'imperator, il generale vittorioso; fu il restauratore e il salvatore di Roma e del suo impero; fu il pater patriae, il princeps civitatis, poiché seppe infondere vita e forza alla tradizione repubblicana per asservirsela e farne un elemento di solidità e di equilibrio per la nascente monarchia; fu generale, senza però voler essere soltanto questo, ed evitando di chiamare commilitones i soldati; fu politico, pur conservando il comando di truppe; fu colui che i romani considerarono superiore a tutti loro e a cui, per i suoi meriti, fu attribuito, col nome di Augusto, il segno della pubblica perpetua venerazione; ma fu soprattutto il creatore del mito cesareo, oltre la persona umana del dittatore, cioè del mito della monarchia, la quale altro non è se non una auctoritas, non dipendente da nessuna delle magistrature di Ottaviano, ma dal complesso di queste e, più ancora, dalla sua superiorità su tutti i Romani.
L'organizzazione amministrativa. - Augusto, risolta, come nel suo principato risolse, gradualmente, ma con un piano evidentemente prestabilito e fermamente attuato, la questione dell'organizzazione costituzionale del nuovo governo monarchico formalmente rispettoso delle tradizioni repubblicane, aveva il compito della totale organizzazione dell'impero in modo da dargli unità politica, morale, militare. Questo compito, superiore ad ogni vita umana, non aveva potuto essere comunque affrontato dalle generazioni a lui precedenti, tormentate dalle competizioni civili; ma egli, se pur non lo risolse compiutamente, tuttavia in ogni campo lo avviò verso decisivi orientamenti, che le generazioni a lui successe non poterono che seguire. Il centro dell'impero presentava un suo proprio problema, giacché la capitale e la classe dirigente imperiale non erano all'altezza dei compiti nuovi, essendo rimaste arretrate e insufficienti in confronto alla marcia trionfale delle conquiste. Di questo Augusto si preoccupò, come si preoccuparono i suoi amici: e la Roma di laterizî venne trasformata in città marmorea. Un nuovo piano regolatore, fatto a somiglianza di quello d'Alessandria, dava alla città tutte quelle comodità e quella grandiosità d'aspetto che le permettevano di non essere inferiore alle molte metropoli suddite. Sulle orme delle grandiose e costosissime costruzioni già intraprese da Cesare, egli diede strade e piazze lussuose; tre teatri, un anfiteatro, biblioteche, moltissimi nuovi templi; il magnifico nuovo foro di Augusto; cinque terme, di cui una costruita per iniziativa di Agrippa; provvide di ottima acqua la città, come, in qualità di supremo curator annonae, la provvedeva di grano, affinché non solo nella ricchezza esteriore, ma nella reale prosperità Roma corrispondesse alla sua funzione di capitale. A questo problema esteriore era collegato quello dell'immoralità e del mal costume prevalenti nella città, fatto che dolorosamente si ripercuoteva sull'amministrazione delle provincie in cui la nobiltà corrotta e indebitata non cercava che occasioni di arricchirsi e dava di sé scandaloso spettacolo. Il sistema della legislazione di Augusto per i costumi è un documento chiarissimo della sua preoccupazione per questi inconvenienti e della sua attività diretta a creare circostanze favorevoli per lo sviluppo della classe dirigente che con lui doveva collaborare. A questo scopo promulgò: la legge de collegiis, che permetteva di mettere le associazioni sotto il controllo e la sorveglianza del senato e sua; la legge de ambitu (18 a. C.), che puniva, in occasione di torbidi per le elezioni consolari dell'anno precedente, ogni forma di malversazione elettorale; la legge de maritandis ordinibus (18 a. C.), collegata con la contemporanea lex de adulteriis coërcendis e con la legge Papia Poppea del 9 d. C., leggi veramente fondamentali per la politica demografica di Augusto, con cui, tutelando ampiamente l'istituto famigliare e matrimoniale, incoraggiava la prolificazione e combatteva il celibato; inoltre, la legge suntuaria che, per combattere l'indebitamento, limitava la possibilità di spese; la legge de manumissionibus di Sesto Elio Cato e di Gaio Senzio Saturnino (consoli del 4 d. C.) che regolava le manomissioni di schiavi e la posizione dei liberti. Con questo complesso di provvedimenti, di cui non si citano che i principali, egli mirava a mantenere elevato il tenore di vita dei Romani e a prepararli ai compiti che nella sua mente andava loro assegnando. E di questi compiti venne a partecipare anzitutto la nobiltà. Augusto aveva tenuto a conservare in tutta la sua dignità l'antico senato repubblicano, perennemente rinnovato mediante le elezioni alle magistrature maggiori: fra i consoli si trovavano i nomi più illustri dell'antica nobiltà romana, i Cornelii Lentuli, gli Scipioni, i Fabii; attraverso il nuovo ordo magistratuum, che rendeva senatoria anche la carica tribunizia, si andava formando, nel senato, sempre maggiormente la caratteristica di una nobiltà intesa come casta chiusa, raccolta in un consesso ringiovanito, aumentato di numero e di forze, che collaborava col principe e doveva fornirgli le persone più indicate per le massime funzioni dello stato e per amministrare le provincie. Così, con vicenda assidua, si creavano gli elementi di quella classe dirigente adatta e preparata ai compiti nuovi, non solo allevata alla scuola delle armi, ma educata nelle discussioni e negli studî che formavano il compito principale di quel consiglio di stato che era rappresentato dalla vetusta curia, richiamata a nuove funzioni e a nuova vita, tanto mirabilmente adattata ai bisogni dell'impero quanto l'antica non era ormai più che un ricordo di passate glorie. Ma non la sola nobiltà doveva essere preparata a compiti nuovi dall'opera del nascente principato. Alla classe senatoria spettavano le funzioni politiche e le funzioni rappresentative, che ad essa delegava l'imperatore; ma urgeva una complessa opera di riforma finanziaria ed amministrativa, per cui non bastava l'opera della classe senatoria, ma occorreva ricorrere ad altre forze che erano sempre state notevoli elementi dell'organizzazione pratica ed economica di Roma. Le provincie erano un elemento fondamentale per i cespiti dell'erario romano: sottoposte alle dissanguatrici pretese dei pubblicani e alle ruberie dei governatori, soffrivano economicamente e per ciò si mostravano sempre inquiete e intolleranti del dominio romano. L'opera di Augusto doveva necessariamente rivolgersi anche alla sistemazione di tutta questa caotica organizzazione, che risentiva tuttora della provvisorietà della conquista e degli abusi contro i quali, dai Gracchi in poi, i migliori dei romani avevano lottato. Anzitutto riguardo all'Italia stessa. In questa regione l'unico cespite dell'erario erano i proventi delle terre pubbliche; terre che interessavano particolarmente il principe come imperator, poiché da esse si doveva trarre, come pel passato, il mezzo di compensare i veterani, sempre cupidi di proprietà terriere e di larghi donativi: per questo scopo Augusto procedette a una terminatio del terreno demaniale, onde fissarne nettamente la mappa catastale ed evitare il continuo trascinarsi di liti e questioni suscitate dalla mancanza di precise linee di confine. V'era poi la questione principale, cioè quella delle provincie, collegata direttamente con quella della privata amministrazione di Augusto, che di molte di esse era direttamente responsabile. Il principe aveva, in origine come comandante di truppe e poi per le altre sue funzioni, larghissime spese. Il proconsole del regime repubblicano, il magistrato munito di imperium militiae attingeva in anticipo dall'erario quanto gli era necessario per le sue spese, teneva una contabilità regolare sorvegliata da un questore e alla fine della sua amministrazione e della sua magistratura rendeva i conti. Naturalmente il principe non poteva sottoporsi a una procedura siffatta, anche perché dopo la conquista dell'Egitto sarebbe stato molto difficile venire ad una determinazione di quello che era la sua res privata e di quello che apparteneva all'erario: da questa condizione si venne all'esigenza della creazione di una particolare amministrazione del principe, che, per essere da lui direttamente dipendente come amministrazione privata, rispondeva a tutt'altri principî d'organizzazione. Solo in via amministrativa, e non in linea di diritto, si poteva distinguere il patrimonium principis dal fiscus, come si fece con Settimio Severo. Non si trattava più di tenere l'amministrazione finanziaria con i soliti sistemi di concessione di appalti; ma, viceversa, impiegati diretti dell'imperatore, in gran parte liberti e, per i gradi superiori, cavalieri, venivano così preposti a questi uffici, in modo da creare tutta una nuova gerarchia di funzionarî del fisco che amministravano, per conto dell'imperatore, le provincie e tutelavano i diritti privati del tesoro imperiale. Accanto a questi funzionarî puramente amministrativi, la posizione del principe l'obbligava a scegliersi dei collaboratori per il diretto governo politico delle provincie e per la delega di particolari funzioni: e per questo si continuò nell'uso, già invalso nei tempi repubblicani, per cui il magistrato munito di imperium militiae poteva delegare parte di questo imperium a legati; per funzioni non propriamente militari, si addivenne alla delega a praefecti: per gli uni e per gli altri, dato il posto che Augusto aveva assegnato ai senatori e la dignità che aveva loro riconosciuta, non poteva delegare altro che persone non rivestite di dignità senatoria, cioè equites. Augusto naturalmente stabiliva, a giustificazione stessa del fiscus Caesaris, che il denaro versato per mezzo di questa organizzazione nella res privata doveva essere speso a beneficio dello stato, come già in regime repubblicano si concepiva, in circostanze analoghe, per varie magistrature. Quindi il denaro del fisco veniva impiegato per le spese che Augusto si andava assumendo nella sua opera di progressivo acquisto dei principali poteri dello stato. Com'è naturale, Augusto originariamente si servì del suo fisco per pagare e compensare con donativi le sue truppe; ma, acquistando sempre maggior autorità, s'investiva di sempre maggiori funzioni: nel 22 la cura annonae, da lui assunta sull'esempio di Pompeo, poi la cura delle vie, degli acquedotti, degli argini del Tevere furono tutti nuovi oneri finanziarî. Lo stesso fisco, elemento fondamentale per la trasformazione burocratica dell'impero, obbligava Augusto a distribuire stipendî, anche assai vistosi, a quelli che chiamava a particolari funzioni dell'amministrazione fiscale stessa. Le entrate erano rappresentate dai proventi delle provincie cesaree e dei dominî diretti e indiretti, come l'Egitto; inoltre Augusto stesso assorbì nel fisco, per le sue spese, molte entrate dell'erario, come ad esempio il grano dell'Africa che gli occorreva per la cura annonae. Inoltre Augusto, all'epoca della guerra di Pannonia, istituì nuovi gravi imposte, come la vicesima populi Romani, tassa di successione (che colpì anche l'Italia), le quali non andarono al suo fisco, bensì all'aerarium militare, destinato ai bisogni dell'esercito e separato dall'erario ufficiale. Tutta questa riorganizzazione amministrativa augustea raggiungeva soprattutto lo scopo di dare la precisa direttiva per la nuova organizzazione unitaria dell'impero nell'unico modo ammissibile, cioè con una sistemazione burocratica, e quindi obbligava alla formazione di una classe dirigente amministrativa, di quella classe che costituì in seguito una delle più mirabili forze dell'impero. La creazione del fisco imperiale, imposta dalle circostanze, fu il mezzo per introdurre nella costituzione romana, che era ancora rimasta nelle forme repubblicane contemporanee alle guerre puniche, le riforme necessarie alla vita del nuovo organismo imperiale.
Il governo delle provincie. - Come si era imposta la necessità, per l'impero, della creazione di un ordinamento amministrativo permanente, così Augusto comprese che occorreva provvedere in modo egualmente permanente al presidio e alla difesa delle varie parti dei dominî di Roma. Anche l'esercito, rimasto ancora alla riforma ideata da Gaio Mario in occasione della guerra giugurtina, invaso dal professionalismo di coloro che si facevano soldati per provvedere alla loro famiglia e a sé stessi in previsione non tanto degli stipendi militari quanto dei bottini, delle donazioni ai veterani, dell'influenza politica dei soldati, richiedeva una radicale riforma. Augusto creò contingenti fissi di legioni per le zone di confine: in tutto 25 legioni, di cui gli effettivi non raggiunsero i 6000 uomini di fanteria pesante, ma restarono sempre fra i 4000 e i 5000; vi erano poi gli auxilia e la cavalleria. Gli effettivi delle legioni erano quindi di circa 10.000 uomini l'una, e l'esercito permanente, nel suo complesso di 25 legioni (come almeno Augusto lasciò al suo successore), era di 250.000 uomini. Tre legioni erano in Ispagna, otto ai confini renani, sei ai confini danubiani, tre in Egitto, una in Africa e quattro ai confini asiatici, soprattutto contro i Parti; i legionarî prestavano servizio per 25 anni, erano in gran parte costretti, se non altro dalle circostanze, al celibato, e per queste loro condizioni tendevano a formare, forzatamente, un ceto a parte che veniva ad allontanarsi da quella vita politica a cui avevano preso tanta parte negli ultimi decennî della repubblica.
Nei riguardi delle provincie, Augusto, il quale per primo provvide all'istituzione del censo provinciale che fu poi il fondamento dell'amministrazione finanziaria dell'impero, subito dopo il riordinamento costituzionale del 27 a. C. mise sotto la sua diretta gestione la Gallia, che divise in tre nuove provincie: Aquitania, Gallia Lugdunese e Belgica; fece costruire in quella regione strade militari che, facendo capo a Lugdunum, trasformarono quella città, in poco tempo, nel più importante e più vitale centro della Gallia; nel 27 stesso decise di assicurare la posizione romana anche in Ispagna, ove il suo legato Gaio Antistio, che lo sostituiva poiché una malattia lo obbligava a trattenersi a Tarraco, negli anni successivi vinse i Cantabri, cosicché Augusto poté procedere alla più ferma repressione e alla deduzione di colonie militari; nello stesso tempo un altro legato, Aulo Terenzio Varrone Murena, procedeva a spedizioni punitive contro gl'irrequieti Salassi e, nel 25, fondava, sull'esempio di quanto altrove si andava facendo, la colonia di Augusta Praetoria (Aosta). Mentre sotto la direzione di Augusto stesso e dei suoi prossimi collaboratori si stava così svolgendo in occidente una prima fase del suo programma politico relativamente alle provincie dell'impero, quella di garantire nei recenti acquisti l'ordine e la nuova amministrazione romana, in Oriente la situazione lasciata da Marco Antonio era così preoccupante ed incerta che molti Romani temevano fosse ancora necessaria una guerra difensiva. Nel 25 a. C. il prefetto d'Augusto per l'Egitto faceva un infelice tentativo sull'Arabia Felice, durante il quale un audace colpo di mano dei Nubî Etiopici sconfinava nei territorî dell'Egitto meridionale occupando alcune città. Dinnanzi a questi fatti, e per la necessità di provvedere al difficile riordinamento amministrativo ed economico dell'Oriente, Augusto vi si stabilì per alcuni anni: in questo periodo il prestigio romano, scosso dagli ultimi tempi, fu restaurato col raggiungimento di una brillante pace con i Nubî; con gli accordi col re Erode della Giudea, che diventò fedele vassallo dei romani; con l'atto di omaggio, preteso ed ottenuto dai Parti minacciando loro una spedizione che avrebbe dovuto dirigere il figliastro di Augusto, Tiberio; con l'imposizione all'Armenia del riconoscimento a re di Tigrane, amico dei Romani, in luogo di Artaxia, protetto dai Parti: atti, questi, d'importanza assai grande, che destarono una mirabile impressione a Roma, festeggiati come un trionfo in guerra aperta, e che effettivamente avevano raggiunto lo scopo d'imporre il rispetto del nome di Roma e di Augusto in regioni in cui guerre sfortunate e sterili lotte avevano fatto credere all'impotenza romana verso i regni ancor liberi d'Oriente. Al suo ritorno a Roma, Augusto poté dichiarare (19 a. C.) che ormai i Romani non dovevano più aspirare ad altre conquiste, poiché l'impero aveva raggiunto quella estensione che la ragione doveva far considerare massima. Tuttavia, prima ancora che potesse essere affrontato il problema di dare al nuovo stato un confine strategicamente conveniente, il che avrebbe obbligato a nuove guerre ed anche, malgrado le dichiarazioni di Augusto, a nuove necessarie conquiste, Agrippa, il quale, nonostante un periodo di disgrazia, restava il migliore collaboratore del principe, compieva (19 a. C.) una spedizione in forze contro gli Spagnoli, di nuovo ribelli, e otteneva, con sanguinose punizioni, con deportazioni e con la fondazione di nuove colonie, la pacificazione definitiva della penisola iberica. Queste nuove benemerenze convinsero Augusto a premiare convenientemente Agrippa, il quale, già da alcuni anni divenuto suo genero per avere sposata sua figlia Giulia, venne in certo modo associato a parte della dignità imperiale con la concessione della dignità tribunizia per cinque anni (18 a. C.).
Le guerre. - Le condizioni generali dell'impero provavano però continuamente come le affermazioni dell'anno 19 a. C. circa la politica estera fossero in realtà illusorie: nell'anno 16, movimenti di popolazioni e forze barbariche fra il Norico e la Pannonia, incursioni delle popolazioni della Val Camonica e della Val Venosta nei territorî di Como e di Verona davano la netta impressione di pericoli da parte delle popolazioni germaniche rimaste libere al di fuori dell'impero; un'impressione anche più grande fu suscitata dal fatto che, per la sconfitta del legato augusteo delle Gallie Marco Lollio Paolino, per la prima volta nella storia un'aquila, quella della legione V Macedonica, cadeva in mano ai Germani. In seguito a questi fatti Augusto e il figliastro Tiberio andarono a stabilirsi a Lugdunum, ove studiarono ampiamente il problema dei rapporti con le popolazioni germaniche e la necessia d'iniziare quella che fu la seconda fase dell'opera militare dell'impero augusteo, cioè la creazione di una frontiera strategica stabile. Nel 16 a. C. il proconsole per la Dalmazia, Publio Silio, aveva avuto successi parziali, ma notevoli, contro i Pannoni ed i Taurisci: questo fu il segnale d'una grande spedizione, condotta da Tiberio e dal suo minor fratello Druso, diretta contro i Reti ed i Vindelici, movendo il primo dall'Elvezia e il secondo dalla valle dell'Adige. Il successo dei Romani, nell'estate del 15 a. C., fu amplissimo; la loro conquista giunse sino alle sorgenti del Danubio ed al Norico, mentre le vie di comunicazione attraverso le Alpi occidentali, grazie all'ottenuta sottomissione del capo locale Cozzio, venivano definitivamente assicurate all'impero. La organizzazione della conquista venne fatta assai rapidamente con la deportazione di popolazioni, con la fondazione di colonie e con la costruzione di strade militari attraverso la valle del Reno superiore, per la valle atesina sino al Brennero e, oltre, sino alle Alpi Bavaresi e alla colonia di Augusta Vindelicum, linea che però fu condotta a termine solo dai successivi imperatori; alcune delle nuove regioni furono amministrate a provincia, come la Rezia, o aggregate a territorî di precedente acquisto; altre regioni, come il Norico, subirono la sorte dell'Egitto, cioè divennero privata proprietà dell'imperatore. Col magnifico successo di Tiberio e Druso nel 15 a. C. sembrava fosse possibile la guerra che avrebbe dovuto dare la vera e sicura sistemazione ai confini settentrionali, cioè la guerra contro le popolazioni della Pannonia e contro le tribù germaniche, che costituivano un perenne pericolo per la pace e la tranquillità del grande impero. Le popolazioni pannoniche nel 14 e nel 13 a. C. si erano ribellate contro i Romani; quelle germaniche con la loro situazione indipendente erano un continuo e pericoloso esempio per la Gallia, talvolta ancora irrequieta sotto il giogo romano. La guerra contro la Pannonia avrebbe dovuto, secondo il pensiero di Augusto, essere diretta da Agrippa, tornato nel 13 a. C. da una permanenza di quattro anni in Oriente, fruttuosa di ottime riforme ed acquisti: se non che Agrippa, mentre si stava apprestando alla difficile spedizione, morì nel marzo 12 a. C., e allora Tiberio fu destinato al comando di quella guerra, mentre suo fratello Druso ebbe l'imperium per le Gallie, allo scopo di iniziare le operazioni militari contro i Germani. Tiberio condusse la lotta con la consueta energia prima contro i Pannoni e poi (9 a. C.) contro i Daci che avevano fatto irruzione, attraversando il Danubio, in Pannonia, e ottenne, con tre anni di sanguinosa guerra, di portare il confine al Danubio, fortificando particolarmente la zona più arretrata fra la Sava e la Drava (Siscia e Petovio) e lasciando lioera la zona pianeggiante del Lago Pelso (Balaton). Nello stesso tempo Druso, dopo avere accuratamente preparato la difesa della linea renana con la costruzione di moltissimi luoghi forti, stava iniziando un'offensiva contro le popolazioni della Germania settentrionale, offensiva che avrebbe dovuto essere sostenuta dalla flotta, la quale, attraverso il Reno e canali appositamente costruiti al suo sbocco al mare, doveva giungere nelle acque germaniche, con l'appoggio di parte di quelle popolazioni con cui Druso era riuscito a stringere accordi, soprattutto con i Batavi e con i Frisî. La spedizione, preceduta da trattative politiche che ottennero lo scopo di stringere sempre più sicuramente le popolazioni celtiche attorno a Roma e ad Augusto e che culminarono nell'erezione della gigantesca ara di Lugdunum, s'iniziò nella primavera del 12, preparata con cura e con mirabile genio militare e diplomatico, seguita con simpatia e con fiducia da Roma e dalla Gallia, e ottenne subito, nelle prime operazioni terrestri e navali, importanti successi e adesioni e sottomissioni di popolazioni costiere, come i Cauci. Nella successiva primavera, l'11 a. C., Druso si propose d'iniziare la spedizione contro la più ostile e bellicosa delle popolazioni nordiche, i Sugambri: i primi successi parziali e la sua facile avanzata sino al paese dei Cherusci furono coronati da una grande vittoria ottenuta quando queste popolazioni, tesogli un agguato mentre stava per tornare ai quartieri d'inverno, furono da lui sconfitte in modo tale ch'egli poté stabilire fortemente il dominio romano in quella regione. L'anno seguente fu speso a preparare una spedizione verso l'Elba, che fu attuata con grande spiegamento di forze nella primavera del 9 a. C., ed ebbe completo successo in quanto riuscì a giungere alla riva sinistra dell'Elba; sennonché al suo ritorno il corpo di spedizione fu privato del suo capo, che perì vittima di una caduta da cavallo. La notizia della morte di Druso, che addolorò l'intero mondo romano, fu un gravissimo colpo per Augusto e Livia, che lo amavano teneramente; gli vennero apprestati onori funebri e civili grandiosi: il suo posto venne subito assunto da Tiberio, che nell'8 a. C. entrò nel territorio dei Sugambri provocando la defezione fra i popoli germanici, che mandarono ambasciatori ad Augusto per chiedere pace: nel seguente anno la regione fra il Reno e l'Elba era assoggettata al dominio romano. L'azione contro i Germani, anche per il ritiro di Tiberio in seguito ai contrasti della famiglia augustea, fu interrotta. Nel 6 a. C. in Oriente gli accordi presi contro i Romani da Tigrane IV, successore di Tigrane III al trono d'Armenia, e dal re Fraate V dei Parti, obbligarono Augusto a far deporre Tigrane IV da P. Quintilio Varo e a fargli sostituire Artavasde, il quale però, a sua volta, fu ben presto deposto dagli Armeni. Questi fatti, che minacciavano nuovamente la pace al confine orientale, obbligarono Augusto ad allestire una spedizione cui prepose il suo nipote e figlio adottivo, il figlio di Agrippa e di Giulia, Gaio Cesare, spedizione che spaventò i Parti, i quali, prima dell'inizio della guerra, vennero ad accordi (1 a. C.), mentre la guerra con gli Armeni portò, durante l'assedio di Artagira (3 d. C.), al ferimento di Gaio Cesare per il tradimento di un capo armeno, ferimento che condusse a morte (4 d. C.) il giovane generale. Due anni prima l'altro figlio di Agrippa, Lucio Cesare, era morto di malattia a Marsiglia. Nel 4 d. C. Tiberio, ritornato a Roma e nel favore di Augusto, riprendeva ad occuparsi delle cose di Germania che in quegli anni avevano ripreso a presentare dei pericoli per i Romani: un capo dei Marcomanni, Maroboduo, esperto conoscitore delle cose di Roma, andava costituendosi uno stato a formazione monarchica e militare, che aveva destato preoccupazioni assai serie in Augusto, il quale fino dal 6 a. C. aveva mandato Lucio Domizio Enobarbo a sorvegliarlo e molestarlo con spedizioni dimostrative e con accordi con le popolazioni finitime. Tiberio nel 4 d. C. assunse nuovamente il comando sul Reno, sconfisse i Cherusci e i Longobardi i quali avevano traversato l'Elba, e assicurò nuovamente a Roma la linea di questo fiume. Nel 6 d. C. fu intrapresa da più parti la spedizione contro Maroboduo: questa si svolgeva minacciosa quando la notizia di un'improvvisa insurrezione in Pannonia e in Dalmazia obbligò Tiberio a offrir pace al Marcomanno, il quale accettò, ottenendo così di essere riconosciuto dai Romani. La rivolta era un gravissimo pericolo e per un momento si rinnovarono i timori del tempo di Annibale o delle invasioni cimbriche, poiché enormi forze d'insorti, con capi preparati ed abili, minacciavano l'Italia stessa. Solo verso la fine dell'anno 6 d. C. Tiberio si riunì a Siscia, col legato Valerio Messalino che sino allora aveva, con enormi difficoltà, resistito all'ondata barbarica. Nell'estate del 7 d. C. Tiberio, con 15 legioni, iniziò una serie di offensive che riaffermarono la superiorità romana e nell'estate successivo ottenne la capitolazione dei Pannoni. Le spese ingentissime imposte da questa guerra obbligarono ad istituire la vicesima hereditatum (v. sopra), per poter mantenere l'aumento delle legioni che da 18 erano state portate al numero di 26, cioè al massimo raggiunto nella età augustea: e lo sforzo fu tanto grande che solo nel 9 d. C. Tiberio e suo nipote Germanico, figlio di Druso, riuscirono a domare completamente la rivolta dalmatica. Nello stesso tempo in cui Roma giubilava per questa vittoria, il legato d'Augusto in Germania, Quintilio Varo, incaricato dell'organizzazione della nuova provincia e della compilazione del censo, fu travolto col suo esercito da una nuova insurrezione germanica e si diede la morte nella selva di Teutoburgo, sorpreso in una disgraziata marcia sotto le piogge torrenziali di settembre dalla lunga e paziente preparazione diplomatica e militare di Arminio e dei Cherusci, che riuscirono a distruggere quasi completamente tre giovani legioni romane. La terribile notizia produsse un giustificato sgomento in Augusto, che disarmò e deportò la sua guardia germanica, espulse tutti i Celti e Germani dall'Italia, fece solenni voti a Giove per la salute e la prosperità del popolo romano e infine tentò con ogni mezzo e con ogni forza di restaurare l'esercito romano, d'iniziare nuovi reclutamenti e nuove difese. Ma fra Arminio e Maroboduo, il re dei Marcomanni, mancò l'accordo, anzi quest'ultimo non lo volle nemmeno; le popolazioni celtiche non osarono o non vollero sollevarsi e congiungersi con gl'insorti al di là del Reno: i timori principali del vecchio principe non erano giustificati. Asprenate, da Vetera, giunse in soccorso ai fuggiaschi e poté difendere la linea del Reno dai Cherusci che, rimasti isolati, dovettero deporre le le armi, e le legioni, nuovamente sotto la guida di Tiberio (10 d. C.), rafforzarono la loro posizione sulla destra del Reno, ristabilendo su quella linea il dominio romano e iniziando la costruzione del limes. Nell'anno 13 Tiberio, apertamente designato successore di Augusto, aveva aggiunto alla potestà tribunizia, che gli era stata conferita sin dal 4 d. C., anche l'imperium proconsulare associato con Augusto stesso. Nel 14 d. C., il 19 agosto, a Nola, il vecchio principe veniva a morte.
Il problema della successione. - La successione, che toccò pacificamente a Tiberio, era stata una delle più grandi preoccupazioni della vita di Augusto. Nell'anno 40 egli aveva sposato Scribonia, ma poco dopo si era innamorato di Livia Drusilla, figlia di M. Livio Druso Claudiano e quindi discendente da una delle più illustri famiglie patrizie romane, sposa da alcuni anni a Tiberio Claudio Nerone suo cugino: dopo la vittoria di Perusia egli riuscì ad imporre il divorzio mentre Livia era ancora in istato di gravidanza, e subito si sposò, portando nella sua nuova casa la figlia Giulia, che aveva avuta da Scribonia pochi mesi prima, e il primo figlio di Livia, Tiberio; dopo tre mesi, nacque il secondo figlio del precedente marito di Livia, ch'ebbe nome Druso. Ottaviano, alla morte di Tiberio (34 a. C.), divenne poi anche tutore dei due figliastri. Livia era donna di severi e nobili costumi, di grande abilità e tatto, che, amata appassionatamente dal marito, poté esercitare su di lui una larga influenza, alla quale (non forse del tutto giustificatamente) si vuole attribuire da taluno gran parte dell'opera di Augusto per la riforma dei costumi; ma non poté dargli un figlio, cosicché venne a crearsi per lui il doloroso problema della successione. Problema tanto più grave in quanto Augusto teneva in modo assoluto a che il prestigio del nome di Cesare, dell'eroe divenuto divinità e mito, dovesse continuare ad essere quello ch'egli aveva voluto farne, cioè il fondamento della sua posizione di dominatore e quindi non gli sfuggiva che quanto era possibile per la famiglia Giulia, attorno a cui si era creata, con lo sforzo suo e la collaborazione di tutta una generazione, un'aureola religiosa, non sarebbe stato altrettanto facile per qualsiasi nome, anche illustre, del patriziato romano. Livia operò in modo evidente, favorita dalle circostanze, avverse in questo alla volontà di Augusto, perché la successione toccasse ad uno dei suoi figli, cioè passasse a coloro che discendevano da una famiglia il cui nome, fra i più antichi di Roma, era di per sé solo un elemento di rivalità con i Giulii. Per molti anni Augusto sperò di avere un erede in Marco Claudio Marcello, figlio di sua sorella Ottavia; nel 25 a. C. il giovane Marcello sposò sua cugina Giulia, la figlia di Augusto, e fu da lui adottato, suscitando il malumore di Agrippa che, per questo, fu allontanato da Roma: ma due anni dopo, nel 23 a. C., il giovane Marcello morì a Baia. Nel 22 a. C. Augusto ebbe bisogno di Agrippa: richiamatolo in Roma, mentre la questione della successione era completamente priva di soluzioni che piacessero, lo fece divorziare da Marcella, altra figlia di Ottavia, e gli diede in moglie la giovanissima Giulia, già vedova da due anni; e, come genero del principe, Agrippa parve, in certo modo, successore designato, essendo entrato a far parte della famiglia Giulia. In quegli anni però andava distinguendosi notevolmente nelle cose militari e amministrative il giovane figliastro di Augusto, Tiberio, che cominciava a tenere qualche comando importante quando Agrippa (18 a. C.) fu insignito della tribunica potestas quinquennale: intanto nel 20 a. C. Giulia aveva dato al marito un primo figlio, Gaio, e nel 17 a. C. gliene diede un altro, Lucio, che Augusto adottò dando ad ambedue il nome di Cesare, e credendo così di avere finalmente assicurato la continuità della dinastia nella famiglia Giulia. Nel 12 a. C. moriva Agrippa; da questa scomparsa trasse nuove ragioni di gloria e nuove occasioni di affermarsi Tiberio, che naturalmente aveva l'appoggio della madre Livia, mentre fece le sue prime prove, subito brillantissime, l'altro figlio della stessa, Druso, il quale, dotato in sommo grado della caratteristica mentalità degli aristocratici romani, si segnalò come uno dei più popolari, beneamati e brillanti membri della famiglia augustea, e certamente sincero fu il larghissimo compianto che l'accompagnò nell'autunno del 9 a. C. alla prematura tomba. Restavano i figli di Giulia e di Agrippa, i due Cesari, gracile prole di un padre anziano e d'una madre viziosa; Vipsania Agrippina e Agrippa Postumo, altri due figli degli stessi; Germanico, figlio di Druso, ed infine Tiberio, il migliore, ma forse il meno gradito, fra quanti in quel tempo erano intorno al principe. Mentre il primo figlio di Giulia, Gaio Cesare, era ancora bambino, Augusto, consigliato da Livia, costrinse Tiberio a separarsi dalla moglie Vipsania ed a sposare Giulia, per la seconda volta vedova da alcuni anni: matrimonio infelice, che fu causa non ultima del volontario esilio di Tiberio (11 a. C.), tanto più ch'egli vedeva come, nonostante il sacrificio da lui fatto, i due figliastri suoi, i due Cesari, erano sempre considerati da Augusto gli eredi della potestà cesarea. Ma gli eventi tragici della famiglia Giulia volgevano a favore di Tiberio anche contro la volontà del principe: nel 2 a. C. Giulia, la cui condotta fomiava argomento di pubblico scandalo a Roma, fu colpita con un severissimo confino dal padre in ossequio alle sue leggi sui costumi; pochi anni dopo Lucio e Gaio Cesare morivano, cosicché Tiberio si trovava nuovamente a essere l'unico erede possibile.
E forse, mentre il disastro di Varo amareggiava gli ultimi anni dell'imperatore, il passaggio del potere a Tiberio doveva farlo dubitare della stabilità e della durata dell'opera sua: infatti, con la prima successione, il principato romano perdeva quel fortissimo elemento di prestigio che, con il culto di Cesare, Augusto aveva saputo dargli, ma che non conservava valore se non restando nella famiglia Giulia.
L'opera gigantesca di Augusto, che nel corso d'una vita umana, se pure non riuscì a compiere che in piccola parte le intraprese iniziate, riuscì a dare le direttive principali del riordinamento dell'immenso dominio conquistato dall'antica repubblica, lasciò completamente trasformata Roma. Non solo negli edifizî dell'Urbe, ma in tutta la vita dell'Impero, chi avesse potuto accompagnare il grande erede di Gaio Giulio Cesare nel corso della sua opera, avrebbe visto l'inizio della trasformazione che eliminava rapidamente e sicuramente tutte le scorie dell'antica repubblica, e, lasciando intatto tutto quanto poteva essere ancora utile o profittevole degli antichi ordinamenti, accentrava attorno a un principato d'origine militare, circondato d'ogni fulgore di prestigio umano e quasi religioso ed eroico, tutta la vita di terre e di genti diversissime fra loro, diversissime dalla città che le dominava, e su tutte stendeva, con una rapidità che ancor oggi appare impressionante, la rete ferrea d'una organizzazione burocratica, tributaria e militare che doveva tener assieme un impero formato dall'amalgama, apparentemente strano di civiltà troppo decadenti e di popolazioni che cominciavano appena ad abbandonare la notte della prima barbarie.
Nell'età che fu di questo uomo dal genio eccelso e singolare, tutti dovettero forzatamente collaborare con lui, secondo la sua volontà, in un lavoro talvolta senza splendore, in guerre che non creavano nuove provincie, in amministrazioni che non davano ricchezze e tirannico potere, in un lavoro diuturno e creatore, in un'opera veramente romana, o, meglio, nell'opera che più d'ogni altra diede piena e intera al mondo la misura del valore e della capacità, delle doti caratteristiche e del genio peculiare del popolo romano.
La letteratura della sua epoca rispecchia mirabilmente tutta la mentalità della Roma augustea: il luminoso mito cesareo, la rinnovata ammirazione per la gloria della repubblica conquistatrice che vive il suo tramonto nel senato augusteo, la serena concezione diffusa della pace romana che sorride al mondo, al popolo delle città e dei campi, la metropoli folle di ricchezza e di gioia, di piaceri e di gloria, l'ardua fatica dei nuovi legionarî e la sagace amministrazione della burocrazia augustea, tutto trova un'eco nella fastosa e mirabile letteratura che soffuse di gloria la corte del primo monarca.
Monete e circolazione. - Augusto, valendosi dei diritti derivantigli dall'imperium militiae, creò una zecca propria per coniare oro e argento. Questa zecca, per ragioni di riguardo verso il senato che sino allora aveva avuto la prerogativa dell'emissione, fu posta a Lugdunum; ma tuttavia fornì tutta la valuta necessaria all'impero, riducendo a un'ombra il diritto di coniazione del senato. Del resto, la più antica tradizione repubblicana limitava la coniazione al bronzo: questa tradizione fu rispettata, e al senato rimase quindi questa facoltà di emissione, che rappresentava, in sostanza, la moneta divisionaria. Le monete augustee portano quasi sempre la testa dell'imperator, con un uso già invalso poco prima della morte di Cesare; però sulle monete divisionarie di bronzo permane la sigla senatoria S. C.
La circolazione aurea era variamente distribuita nelle varie parti dell'impero ed a Roma. Le provincie che, come l'Egitto, avevano l'uso della circolazione fiduciaria, usavano poco oro, ma ne dovevano comprare per il commercio con altre parti dell'impero; i Germani invece, per esempio, per antica tradizione pregiavano essenzialmente l'argento, e la circolazione aurea era nei loro mercati assai difficile.
Augusto scrittore. - Come letterato, Augusto ebbe vasta cultura, e fu scrittore puro ed elegante. Istruito nelle lettere latine dal retore Epidio, alla scuola del quale si trovò con Virgilio giovinetto, e nelle lettere greche da insigni maestri, quali Apollodoro di Pergamo, Ario di Alessandria, Atenodoro di Tarso, acceso di grande amore per gli studî, che coltivò anche nei periodi più torbidi e faticosi della sua vita militare e politica - racconta il suo biografo Svetonio (Aug., 84) che anche durante la guerra di Modena non lasciò passare giorno senza leggere, scrivere, esercitarsi nel declamare - non solo fu amico e protettore di poeti e letterati, ma egli stesso molto scrisse in versi e in prosa.
Un suo poema in esametri, intitolato Sicilia, forse una descrizione dell'isola famosa, esisteva ancora ai tempi di Svetonio; e pure nel secondo secolo d. C. ancora esisteva un suo libro di epigrammi, due dei quali, di scarso valore letterario, sono giunti a noi: uno, riferito da Marziale (XI, 20), conferma la notizia di Plinio (Epist., V, 3, 4), che cita Augusto fra gli autori di versi licenziosi, l'altro, conservato nel codice Bernense 109 del sec. X, contiene una spensierata esortazione a cacciare gli affanni e godere la vita. Si provò anche, con poco successo, nella poesia drammatica: dopo avere cominciato con grande ardore una tragedia, Aiax, non contento di sé, distrusse quello che aveva scritto e agli amici che gliene domandavano notizia rispondeva Aiacem suum in spongiam incubuisse (Svet., Aug., 85; Macrob., Saturn., II, 4, 2). Al tempo del triumvirato scrisse versi mordaci contro un pervicace fautore di Antonio, Asinio Pollione; e più tardi, quando gli morì il figliastro Druso, oltre alla vita in prosa, ne compose anche, in versi, l'epitaffio (Svet., Claud., 1). Coltissimo nelle lettere greche, non solo citava versi di Omero e dei tragici, ma versi greci scrisse egli stesso e improvvisò in varie occasioni (Plin., Nat. Hist., XXXV, 10, 91; Macrob., Saturn., II, 4, 31; Svet., Aug., 98, 4).
Delle epistole di Augusto ai famigliari si possiedono frammenti abbastanza numerosi e oltremodo interessanti, che ci rivelano il sovrano nella vita intima, pieno di sollecito affetto per i suoi, pronto all'arguzia e al motteggio, geloso della dignità della sua famiglia, talora pensoso della posterità. Né meno importanti sono le lettere di carattere ufficiale, conservateci dagli scrittori antichi o da iscrizioni: notevole tra esse quella ad quindecemviros urbis Romae, contenente le istruzioni per le feste secolari del 17 a. C., della quale furono trovati frammenti lapidei a Roma nel 1890.
Una cura singolare egli dedicò sempre all'arte del dire: aveva bella e corretta pronuncia, un'eloquenza pronta, scorrevole e veramente degna d'un principe (Tac., Ann., XIII, 3), uno stile elegante e chiaro, rifuggente sia dagli arcaismi, sia dalle espressioni ricercate e leziose. Benché non gli facesse difetto la facoltà d'improvvisare, non volle mai ad essa affidarsi e, certo per prudenza politica, scrisse sempre i suoi discorsi; anzi, talvolta, perfino nei rapporti privati e famigliari, per questioni gravi e importanti, ricorse a libelli o memoriali scritti, per esser certo di dire tutto e solo quello che doveva (Svet., Aug., 84). Delle orazioni da lui tenute al popolo, al senato, ai soldati, e delle laudationes funebres pronunziate in onore di congiunti, rimangono testimonianze e frammenti.
Si dilettò anche di studî filosofici, frutto dei quali furono le Hortationes ad philosophiam, composte forse ad imitazione dell'Hortensius di Cicerone, e i Rescripta Bruto de Catone, risposta al panegirico che di Catone Uticense aveva scritto Bruto.
Né trascurò gli studî geografici: condusse infatti a termine la carta geografica del mondo intero, con la quale Agrippa aveva voluto ornare il suo portico e che la morte gli aveva impedito di finire. E se, nel compiere quest'opera grandiosa, si valse dei materiali lasciati da Agrippa, lavoro suo originale fu, invece, la Chorographia, che servì di fonte ai geografi posteriori e specialmente a Plinio, il quale dichiara (Nat. Hist., III, 46) d'avervi attinto la sua descrizione dell'Italia, solo apportando qualche modificazione nell'ordine delle notizie. Della storia egli si valse come di un'arma politica: nelle sue memorie, che, in tredici libri, giungevano sino al termine della guerra cantabrica (24 a. C.), raccontava la vita sua dalla nascita, giustificava certi suoi atti, si difendeva da accuse e sospetti. Prima di morire, depositò presso le Vergini Vestali cinque volumi sigillati, che furono, dopo la sua morte, portati in senato e quivi aperti e letti: il primo conteneva il testamento, dettato il 3 aprile dell'anno 13 d. C., del quale Tacito (Ann., I, 8) e Svetonio (Aug., 101) ci hanno conservato il contenuto; il secondo comprendeva le disposizioni per i suoi funerali; il terzo era l'index rerum gestarum, ch'egli volle fosse inciso in tavole di bronzo da porre dinnanzi al suo mausoleo nel Campo Marzio; il quarto, il breviarium totius imperii; il quinto finalmente conteneva le prescrizioni a Tiberio sull'amministrazione dello stato.
Di questi scritti s'è conservato solo il terzo, che fu riprodotto in varî punti dell'impero, nei templi dedicati ad Augusto e Roma: quasi integra è la copia, accompagnata dalla traduzione greca, che fu incisa nel pronao del Σεβαστεῖον di Ancira (Angora) in Galazia, dove fu scoperta nel 1544 da Ghislain de Busbecq e da Antonio Wrantz, ed è nota sotto il nome di Monumentum Ancyranum; della copia che dovette esistere ad Apollonia nella stessa provincia, restano solo frammenti della traduzione greca; infine, negli scavi fatti nel foro di Antiochia di Pisidia nel 1914 da William M. Ramsay e nel 1924 dallo stesso con la collaborazione di tre membri dell'università di Michigan; David M. Robinson, Enoch E. Peterson, H. S. Feizy, furono trovati numerosi e importanti frammenti di una terza copia (Monumentum Antiochenum), non accompagnata dalla traduzione greca, che non era necessaria in quella colonia militare romana: frammenti che giovano in molti punti a colmare le lacune del testo ancirano. Questo scritto singolare, che il Mommsen felicemente definì la regina inscriptionum, non può essere assegnato ad alcuna determinata categoria di monumenti epigrafici: l'uomo che per più di cinquant'anni resse il mondo intero e che compì una delle più grandi trasformazioni politiche che la storia ricordi, espone in esso, con grandiosa semplicità, le cariche e gli onori che gli furono conferiti, le opere da lui compiute per il vantaggio e il decoro dello stato romano, le imprese di guerra e di pace che contribuirono ad accrescerne la gloria e la potenza. È una fredda enumerazione di cose e di fatti, che pure ha in sé una suggestiva solennità ed esercita ancora, a distanza di secoli, profonda impressione sul lettore.
V. Tavv. LXXXIII e LXXXIV.
Fonti: La più importante trattazione antica del periodo augusteo è forse quella che ne fece lo stesso imperatore nel suo index rerum gestarum. Principali edizioni di esso: Th. Mommsen, Res gestae divi Augusti, 2ª ed., Berlino 1883; R. Cagnat e C. Peltier, Res gestae divi Augusti d'après la dernière recension avec l'analyse du commentaire de Th. Mommsen, Parigi 1886; E. Diehl, Res gestae divi Augusti (Das Monumentum Ancyranum), 4ª ed., Bonn 1925; D. M. Robinson, The Deeds of Augustus as recorded on the Monumentum Antiochenum, Baltimora 1926; W.M. Ramsay e A. von Premerstein, Monumentum Antiochenum (Die neugefundene Aufzeichnung der Res gestae divi Augusti), in Klio, suppl. XIX, Lipsia 1927. Cfr., inoltre, le raccolte complessive degli scritti di Augusto: Imp. Caesaris Augusti operum notatio, genus et scriptorum fragmenta, ed. J. A. Fabricio, Amburgo 1727; A. Weichert, Imp. Caesaris Augusti scriptorum reliquiae, I, Grimma 1846 (pubblicata solo la prima parte); Imp. Caesaris Augusti operum fragmenta, ed. E. Malcovati, Torino 1921, 2ª ed. 1928. Fra le altre fonti si ricordino anzitutto le vite plutarchee di Antonio e di Bruto e il III e IV libro delle Guerre civili di Appiano, compilazioni di diverso valore, ma assai utili per le notizie che forniscono sulla vita e l'opera di Augusto e dei suoi avversarî sino ad Azio. L'opera di Cassio Dione è completa solo per la parte che riguarda la fine delle guerre civili e l'inizio del principato: vasta e paziente opera, concepita secondo i metodi dell'epoca dell'autore, è assai ricca di notizie, attinte da diverse fonti, talvolta parzialmente contraddittorie, largamente fuse nella consueta manipolazione retorica. Il libro I degli Annali di Tacito, dopo essere stato lungamente considerato la fonte principale per la storia dell'età imperiale, è oggi circondato da molto scetticismo. Ma si deve osservare che da un'esatta interpretazione di molti luoghi di quel libro si ha la chiara percezione della mentalità comune dei Romani di fronte ad Augusto ed anche, talvolta, della loro incomprensione, che, naturalmente, Tacito fa sua. Svetonio dà larga parte alla cronaca scandalosa dell'epoca, e ha scarso valore per la parte militare e politica. Per i principali monumenti concernenti Augusto e qui non riprodotti, v. angora, aosta, arco, e, in particolare, per i monumenti augustei in Roma, v. roma: Topografia.
Bibl.: V. Gardthausen, Augustus und seine Zeit, Lipsia 1891-1904; H. Dessau, Geschichte der Römischen Kaiserzeit, I, Berlino 1924; E. Meyer, Kaiser Augustus, in Kleine Schriften, I, Halle 1910, p. 441 segg.; Th. Mommsen, Le provincie romane da Cesare a Diocleziano, trad. De Ruggiero, Torino-Roma s. a.; W. Drumman e P. Gröbe, Geschichte Roms, IV, Berlino 1910, pp. 258-308; H. Willrich, Livia, Berlino 1911; M. Strack, Kleopatra, in Historische Zeitschrift, CXV, p. 473 segg.; F. Burr Marsh, The founding of the Roman empire, pubblicato dalla University of Texas, 1922; Rice Holmes, The Architect of the Roman empire, Oxford 1928; A. Ferrabino, La battaglia d'Azio, in Rivista di filologia e d'istruzione classica, n. s. II, 1924, p. 433 segg.; A. Segrè, Metrologia e circolazione monetaria nell'antichità classica, Bologna 1928. Cfr. anche, per indicazioni di fonti epigrafiche, E. Ciccotti, s. v. Augustus, in Diz. Epigrafico del De Ruggiero. Su Tacito, v. p. es. C. Marchesi, Tacito, Messina 1924.
Il Mausoleo di Augusto.
È chiamato nell'antichità Mausoleum (Svetonio e le epigrafi), Tumulus Augusti o Caesarunt (Tacito), Sepulcrum Augusti (Aurelio Vittore), Μαυσώλειον (Strabone), Μνημεῖον o μνῆμα τοῦ Αυγούστου (Dione Cassio); nel Medioevo le rovine del monumento vengono chiamate: Mons Agustus, Agustum, Augusta (o Lagusta) - oggi: Augusteo.
Per sé, per la sua famiglia e per i suoi successori Augusto costruì durante il suo sesto consolato (28 a. C.), nella parte nord del Campo Marzio, fra il Tevere e la Via Flaminia, una tomba di grandezza e magnificenza mai prima d'allora, in Italia, conosciute.
Era "un grande tumulo elevantesi presso il fiume sopra un alto basamento di pietra bianca, fittamente coperto fino alla cima d'alberi sempre verdeggianti. Sulla sommità di esso v'era poi una statua di bronzo di Cesare Augusto e sotto il tumulo le sepolture di lui, dei suoi parenti e dei suoi congiunti, e dietro un grande parco con meravigliosi viali" (Strabone, V, 236).
Dai resti esistenti si è potuto calcolare che la base dell'immenso monumento raggiungesse, con i rivestimenti, un diametro di 90 metri circa; non è stato invece possibile stabilirne esattamente l'altezza, perché Baldassarre Peruzzi, mentre ci ha lasciato un profilo misurato del tamburo, il quale dà una altezza di 12 metri circa, e potrebbe esser completo, in uno schizzo di ricostruzione fa pensare invece che ciò fosse solo quanto restava ai suoi giorni, e che l'intero tamburo dovesse comprendere un'altra zona analoga alla prima, alla cui sommità s'impostasse quella grande cornice dorica con triglifi e metope, di cui egli ci ha pure conservato un ricordo misurato. La parete curva del tamburo era lavorata a bugne, e tra queste erano inscritti gli elogi dei nipoti d'Augusto Gaio e Lucio (del primo dei quali fu scoperto un frammento nel 1519: Corpus Inscr. Latinarum, VI, 894).
La porta del mausoleo si apriva verso sud e presso di essa, dopo la morte d'Augusto, furono erette o affisse le grandi stele o tavole di bronzo contenenti l'index delle cose compiute dal grande imperatore; il testo di esse ci è conservato attraverso le copie che le città asiatiche (Ancira, Antiochia di Pisidia) avevano fatto incidere sulle pareti dei proprî templi (v. sopra, Augusto scrittore). Più tardi, pure ai lati dell'ingresso, furono elevati - alla maniera egiziana - due obelischi di mediocre grandezza che, ritrovati nel Rinascimento, furono eretti l'uno dietro l'abside di S. Maria Maggiore, l'altro sulla Piazza del Quirinale.
L'area intorno al monumento, costituente un quadrato di circa 120 metri di lato, era recinta da cippi congiunti da sbarre metalliche. Il grandioso gruppo sepolcrale era completato, oltre che dal retrostante parco, dall'ustrinum, che elevava presso la via Flaminia il suo recinto circolare di pietra piantato all'interno di pioppi. Scoperto casualmente questo monumento nel 1777, vi furono sul pavimento trovati ancora infissi alcuni cippi (oggi nella Galleria Lapidaria del Museo Vaticano: Corp. Inscr. Lat., VI, nn. 888-893), dei quali gli uni ricordavano il luogo ove era stato fatto il rogo di determinati personaggi della famiglia imperiale, gli altri quello ove furono sepolti coloro tra essi che erano morti in tenera età. Le ceneri di uno di questi bimbi si rinvennero racchiuse in un prezioso vaso di vetro, che pure si conserva nelle collezioni vaticane.
Le proporzioni del monumento, il peso del tumulo ond'era coronato e, d'altra parte, il poco spazio richiesto dalle sepolture, dettero al Mausoleo una struttura quanto mai singolare, che però s'inquadra perfettamente nei concetti direttivi dell'architettura romana contemporanea, quali ci appaiono in altre tombe minori e in edifizî (serbatoi, sostruzioni, ecc.) nei quali si presentavano le stesse esigenze costruttive.
Il monumento, secondo hanno mostrato con molta chiarezza gli ultimi scavi, ha un'ossatura formata da cinque muri concentrici di fortissimo spessore e da un pilone centrale, che costituiva l'asse della costruzione e il sostegno della statua, che si ergeva alla sommità del tumulo. I muri s'innalzavano ad altezze diverse, degradanti dal centro verso la periferia, ed erano collegati tra loro da una organica serie di vòlte, speroni e contrafforti che, mentre servivano a sostenere, trasmettere e ripartire il carico, dividevano la massa in un gran numero di elementi, e formavano nel tempo stesso l'ambiente sepolcrale vero e proprio, e i suoi accessi.
Le parti perimetrali (contrafforti semicircolari e concamerazioni), chiuse e inaccessibili, erano probabilmente a un solo piano, quelle centrali ne avevano certamente due o più. Le sepolture occupavano solo il piano inferiore delle parti centrali, mentre tutte le altre parti dovevano forse soltanto servire a costituire la massa resistente e vuota del colossale monumento.
Per accedere alla cripta si attraversavano gli elementi perimetrali mediante un ambulacro rettilineo, che aveva gradini all'inizio e poi pavimento in leggiera salita; oltrepassato il terzo muro anulare, si sboccava in un primo corridoio, anulare anch'esso, da questo, attraverso due porte, in un secondo corridoio, e quindi per una sola porta, che si trovava nuovamente sull'asse dell'ambulacro rettilineo, nella cripta. Questa, per la presenza del pilone centrale cui si è già accennato, aveva anch'essa una forma anulare. Nella parete esterna di essa, in corrispondenza degli assi, si aprivano tre grandi nicchie rettangolari, poco profonde, entro le quali erano poste alcune custodie sepolcrali, probabilmente quelle di Augusto e dei suoi più cari famigliari; le altre tombe invece, con le statue dei defunti, dovevano affollarsi all'intorno, estendendosi forse anche nel limitrofo corridoio.
La muratura era in opera reticolata, meno alcune parti interne rivestite d'opera quadrata a blocchi di travertino; similmente in opera quadrata erano, per ovvie ragioni costruttive, il nucleo e il rivestimento del pilone centrale. Sul travertino era steso un intonaco o, nelle nicchie della cripta, un rivestimento di marmo.
Le custodie, entro le quali i preziosi vasi contenenti le ceneri dei defunti stavano racchiusi, erano formate tutte o quasi tutte di un semplice blocco marmoreo, cui solo ornamento erano i nomi incisi in magnifici caratteri lapidarî sulla faccia anteriore.
Di queste custodie se ne sono rinvenute sei, dal Medioevo a oggi: quella di Gaio Cesare (Corp. Inscr. Lat., VI, 884) e quella di Tiberio (Corp. Inscr. Lat., VI, 885), che i Colonna avevano fatto portare presso le loro case ai Ss. Apostoli, e che andaron perdute: quelle di Agrippina Maggiore (Corp. Inscr. Lat., VI, 886) e di suo figlio Nerone (da non confondersi con l'imperatore dello stesso nome [Corp. Inscr. Lat., VI, 887]) che erano state invece trasportate in Campidoglio - ove la prima resta tuttora - dopo aver servito lungamente come misura di solidi (rugiatella); infine le due, trovate nei recenti scavi, delle quali una appartenne alla sorella d'un imperatore (probabilmente Ottavia, sorella di Augusto), e l'altra a un personaggio il cui nome è perduto.
Oltre a queste due custodie, e al frammento di una terza, questi scavi hanno portato alla luce anche un altro blocco, piuttosto basso, decorato di scorniciature su tutti i lati e cavo superiormente, il quale potrebbe aver pure servito di custodia, ma è anepigrafe; inoltre furono rinvenuti, presso la nicchia di sinistra, entro la quale fu trovata la custodia supposta di Ottavia, un blocco recante uniti i nomi della stessa Ottavia e del figlio suo Marcello, e, sul lato opposto, un grande cippo dedicato all'imperatore Nerva.
Dalle testimonianze storiche o epigrafiche risultano sepolti nel mausoleo quasi tutti i membri della famiglia Giulio-Claudia, più Vespasiano, Nerva e Giulia Domna.
Furono escluse dalla tomba, per volere d'Augusto, le due Giulie, figlia e nipote di lui; successivamente ne rimasero fuori Nerone e i membri della famiglia morti ancora bambini (che sembra, come si è accennato, fossero invece sepolti nell'ustrinum). Vi si condussero invece le ceneri di personaggi morti lontano, come avvenne per esempio di Germanico.
All'epoca di Adriano il sepolcro era completo e dopo d'allora non vi fu sepolto più nessuno, tranne Giulia Domna (Cass. Dione XXVIII, 24). Il mausoleo era sotto la custodia di un procurator (Corp. Inscr. Lat., VI, 8686), e, finché Roma fiorì, dovette essere mantenuto gelosamente con i suoi parchi: ma dopo le invasioni barbariche, nelle quali certo ebbe molto a soffrire, l'abbandono lo ridusse presto a una specie di monticello (mons Agustus), sul quale fu elevata una chiesuola.
Nel sec. XII i Colonna fecero di esso una fortezza, che fu due volte espugnata e devastata dai Romani. Nel 1354 fu bruciato nel vicino campo il cadavere di Cola di Rienzo. Successivamente il luogo passò agli Orsini, e, per due secoli e mezzo almeno, divenne teatro del più sistematico saccheggio di pietra che si possa immaginare, ad alimento delle vicine calcare. Alla prima metà del'500 risalgono i preziosi studî di Baldassarre Peruzzi, che ebbe la fortuna di trovarsi presente agli scavi compiuti per l'estrazione della base dell'obelisco di S. Maria Maggiore e per la costruzione di S. Rocco: egli vide ancora alcuni tratti del rivestimento del tamburo, di cui oggi forse ben poco avanza. Verso la metà dello stesso secolo i Soderini ne ridussero la parte interna a giardino all'italiana, come è riprodotto in una stampa del Du Pérac, importante anche perché mostra lo stato delle rovine senza le costruzioni che vi sono oggi addossate: già allora nulla più emergeva della zona periferica, che però esiste tuttora sotto il livello del suolo; anche le parti centrali, che erano le più alte, appaiono in essa già crollate, per effetto del saccheggio di pietra compiuto nella cripta e nel corridoio sottostanti.
Dai Soderini le rovine passarono in proprietà ai Fioravanti, poi ai Correa, i quali pensarono di utilizzarne l'interno come anfiteatro. L'idea ebbe successo, e giostre, tornei, rappresentazioni drammatiche, fuochi d'artifizio s'avvicendarono sulle sepolture imperiali alla fine del sec. XVIII e nella prima metà del successivo, finché, coperto e sistemato nel modo attuale il monumento, fu, dopo lungo intervallo, destinato nel 1907 alle audizioni musicali sotto il nome, che divenne giustamente famoso, di Augusteo.
I varî possessori vi tentarono dopo il Rinascimento scavi per ricerche d'antichità, ma s'ignorano con precisione i loro risultati che, comunque, debbono essere stati piuttosto esigui.
I primi lavori utili per la conoscenza del monumento furono compiuti nel 1907, in occasione dell'apertura della sala dei concerti, con la liberazione dell'antico ingresso e di una concamerazione attigua. Nel 1926 furono iniziate le prime ricerche sistematiche, riprese e continuate poi negli anni successivi; nell'estate del 1928 è stata infine liberata completamente la cripta.
Bibl.: S. Du Pérac, Vestigi, Roma 1575, tav. 36; P. S. Bartoli, Gli antichi sepolcri, ecc., Roma 1629, tavv. 71-73; G. B. Piranesi, Campo Marzio, tav. 21; Antichità, II, tavv. 61-63; R. Lanciani, in Bull. della Comm. arch. com. 1882, pp. 152-155, tavv. 16-17; O. Hirschfeld, Die kaiserlichen Grabstätten in Rom (Sitzungsber. Berliner Akademie, 1886, II s., pp. 1149-1168); Ch. Hülsen, Topographie der Stadt Rom, I, iii, Berlino 1907, pp. 614-621; E. Kornemann, Mausoleum und Tatenbericht des Augustus, Lipsia 1921; V. Gardthausen, in Röm. Mitth., 1921-1922, pp. 111-144; A. M. Colini e G. Q. Giglioli, Relazione della prima campagna di scavo nel Mausoleo d'Augusto, in Bull. della Commissione arch. com., 1926, pp. 191-234, con 3 tavv.; R. A. Cordingley e J. A. Richmond, The Mausoleum of Augustus, in Papers of the Brit. School at Rome, X, (1927), pp. 23-35, tavv. 9-19; A. Bartoli, L'architettura del Mausoleo d'Augusto, in Bollettino d'arte, 1927 (luglio); E. Fiorilli, A proposito del Mausoleo d'Augusto, ivi, 1927, pp. 214-219; A. M. Colini, Il Mausoleo d'Augusto, in Capitolium, aprile 1928; S. B. Platner e T. Ashby, Topographical Dictionary, Oxford 1929, p. 332 segg.