CESARE, Gaio Giulio (C. Julius C. f. C. n. Caesar)
Di nobile famiglia patrizia che riteneva di risalire a Iulo, figlio di Enea, nacque il 13 luglio 102 a. C., da Gaio Giulio Cesare e da Aurelia, consoli Gaio Mario, suo zio materno, e Q. Lutazio Catulo; compì la sua educazione con studî largamente fondati sul greco. Nell'85, alla morte di L. Cornelio Merula, fu eletto flamen dialis, carica che non tenne per molto tempo dopo la morte di Mario e il trionfo di Silla, dacché il dittatore volle colpire in lui il nipote del suo avversario e il genero di Cinna (Cornelia, figlia di Cinna, divenne sua seconda moglie dopo che egli divorziò dalla prima, Cossuzia), e lo mise al bando, privandolo della carica e del patrimonio. Allora fu in Asia per il servizio militare, agli ordini del propretore M. Minucio Termo, poi in Bitinia presso il re Nicomede III, dando luogo, col suo contegno, a scandalose dicerie; partecipò all'assedio di Mitilene e vi si guadagnò, con il suo valore, la corona civica; infine fu con P. Servilio nella campagna del 8 a. C. contro i pirati. Durante queste operazioni gli giunse la notizia della morte di Silla. Immediatamente tornò in Italia, ma non aderì all'effimero movimento insurrezionale di M. Emilio Lepido; cercò invece di farsi conoscere prendendo l'iniziativa dell'accusa in processi de repetundis contro note personalità. Recandosi nel 75 a Rodi per studiare rettorica fu sorpreso dai pirati e fatto prigioniero; liberato, organizzò un audace colpo di mano contro quei pirati stessi che lo avevano imprigionato, poi, dopo breve permanenza a Rodi, passò in Asia ove partecipò alla terza guerra mitridatica, e infine, nel 73 a. C. eletto pontefice, sfuggendo nuovamente alle insidie dei pirati, tornò a Roma ove ferveva la lotta per la restaurazione del potere tribunizio e per la remissione dell'esilio ai fautori di Lepido. Cesare vi partecipò attivamente e riuscì anche a farsi investire della dignità di tribuno militare. Quando, nel 70, la legislazione di Pompeo e Crasso segnò la fine della costituzione sillana, il ripristino dell'autorità tribunizia e l'abolizione della supremazia senatoria, si fece notare fra i più attivi fautori della politica dei due consoli. Nel 68 fu questore in Spagna, e ritornandone favorì l'agitazione dei Transpadani per l'acquisto della cittadinanza romana; agitazione che rientrava pienamente nelle direttive della sua parte politica. Nel 67 sostenne in senato la legge Gabinia per la creazione di un comando unico contro i pirati a favore di Gneo Pompeo, divenuto suo congiunto dopo il matrimonio con Pompeia; nel 65 fu eletto edile curule, dopo essere stato uno dei curatores della Via Appia; e nella sua nuova carica ravvisò soprattutto un'occasione per procacciarsi il favore popolare, spendendo del suo somme assai rilevanti in giuochi ed opere pubbliche, ed esaltando fra i Romani il ricordo di Mario. Per approfittare della raggiunta popolarità e rifarsi delle ingentissime spese tentò, d'accordo con Crasso, di avere un imperium straordinario per l'Egitto che si sarebbe trattato di ridurre a provincia; ma la proposta fu respinta. Oppresso dai debiti, non sufficientemente conosciuto né apprezzato, C. finiva la sua edilità senza aver avuto ancora occasione di dare la misura del suo genio. Legatosi con Crasso, non fu estraneo al primo tentativo di Catilina dopo l'elezione consolare di L. Aurelio Cotta e L. Manlio Torquato. Poco dopo tentò di modificare la situazione generale appagando le aspirazioni dei Transpadani al diritto di cittadinanza romana; continuò a tenere rapporti amichevoli con Catilina assolvendolo, nella quaestio de sicariis da lui presieduta, dall'accusa di omicidio; per ottenere il pontificato massimo, fece proporre da Labieno, tribuno della plebe, il ripristino dell'elezione popolare anche per quella carica; per mezzo del tribuno Servilio Rullo, d'accordo con Crasso, fece presentare una proposta di legge agraria, per la quale le assegnazioni di terre si facevano senza nessuna delle garanzie introdotte in passato per evitare la cessione delle terre assegnate, dando larghissimi poteri a un collegio decemvirale incaricato dell'esecuzione della legge stessa. In sostanza Crasso e C. conducevano una complessa politica demagogica, soprattutto allo scopo di non rischiare d'essere soverchiati da Pompeo al suo ritorno dall'Oriente. L'autorità e l'eloquenza di Cicerone impedirono l'approvazione della proposta di Rullo; però C. riuscì a salvarsi da una situazione difficile ottenendo, grazie al successo della proposta di Labieno, di farsi eleggere dalle XVII tribù (63 a. C.) pontefice massimo. Intanto Catilina maturava il suo secondo colpo di mano; presentando la candidatura al consolato e preparando contemporaneamente l'eventuale intervento armato contro l'oligarchia dominante, rappresentata da Cicerone, interprete dei cavalieri, e alleata di Pompeo. Ma non appena le sorti volsero chiaramente contro Catilina, Crasso e C. lo abbandonarono, e non vollero condividere con lui nessuna responsabilità. C., pretore designato per il 62 a. C., nella seduta del senato del 5 dicembre parlò in nome delle consuetudini giuridiche costituzionali e pur non tentando la difesa dei catilinarî, cercò di evitare loro la condanna a morte proponendo per essi il confino in diversi municipî italici e la confisca di tutte le proprietà. La proposta di C. fu respinta e fu accolta quella di Catone che chiedeva la pena di morte; e C., nell'uscire dal senato, fu seriamente minacciato dai partigiani di Cicerone riuniti dinanzi al tempio della Concordia. Il piano di Crasso era fallito; tuttavia Crasso e C., pur diminuiti nel loro prestigio, per la potenza ormai acquisitasi sfuggirono alla reazione ciceroniana.
Il primo triumvirato. - Quando Pompeo tornò dall'Oriente, nel 62, C., che assumeva allora la pretura, ebbe cura di procacciarsi, con ogni mezzo, l'amicizia del trionfatore. Cercò di favorirlo autorizzandolo a portare le sue legioni nel pomerio per la repressione definitiva del movimento catilinario, ma il senato non accettò questa proposta; intanto Catilina fu sconfitto e ucciso a Pistoia, e venne così a mancare ogni giustificazione per il mantenimento dell'imperium militiae a Pompeo. Dopo i due scandali che compromisero le mogli di Pompeo e di C., C. stesso ovette assumere la propretura in Spagna, ma fu necessario l'intervento di Crasso con una forte somma affinché i creditori gli permettessero di abbandonare Roma. Investito dell'imperium con tre leġloni, egli impose obbedienza e sottomissione a molte tribù ribelli, riordinò l'amministrazione finanziaria della provincia e soprattutto accrebbe molto d'importanza la città di Gades (Cadice), consigliato dal gaditano Cornelio Balbo (61-60 a. C.); dopo di che tornò a Roma, con l'affidamento del trionfo e con l'intenzione di porre la sua candidatura per il consolato. Nel frattempo Pompeo era preoccupato per il riconoscimento dei suoi ordinamenti in Asia, e per la sistemazione dei veterani che attendevano i premî consueti, poiché, privo di un vero ascendente sui comizî, non riusciva a ottenere l'approvazione delle sue proposte. Conveniva perciò a Pompeo di unire la sua forza a quella di altri: fu cosi progettata la coalizione fra C. e Pompeo, cui Crasso apportò il contributo della sua potenza finanziaria, a rincalzo del prestigio militare di Pompeo e della forza politica di C. Con la creazione del primo triumvirato era di fatto vulnerata l'essenza della costituzione repubblicana: ma il travaglio per la creazione di un nuovo ordinamento era tuttora tale da imporre la divisione del supremo potere fra tre, ciascuno dei quali non poteva padroneggiare da solo la situazione. Pompeo e Crasso, riconciliati da C., sostennero la sua candidatura presentata insieme con quella del ricco senatore Lucceio, il quale fece inutilmente le spese per sé e per C., dacché quest'ultimo riuscì eletto console per il 59 a. C., ma con Bibulo. In base agl'impegni presi, C. presentò una sua proposta di legge agraria, che, rispettando i possessori di terre demaniali italiche, ordinava la divisione del terreno ancora disponibile, compreso quanto era ancora libero nell'Agro Campano e nel Campo Stellatino, e in più, altre terre da acquistarsi con fondi provenienti dalle provincie asiatiche o dal bottino di guerra di Pompeo. A differenza dalla legge di Rullo faceva l'obbligo di non vendere almeno per venti anni le terre assegnate; e incaricava dell'esecuzione una commissione di 20 membri eletti dai comizî, con potestà sacrosanta, ma vincolata a nulla compiere contro le leggi e coadiuvata da una sottocommissione tecnica di 5 membri. La proposta incontrò vivissima opposizione da parte di Bibuio e del senato; ma C. fece occupare il foro dalla plebe e dai veterani di Pompeo, e a questo modo fu imposta la votazione e il giuramento senatorio che rendeva sacrosanta la commissione. Ottenuta l'approvazione della legge che più stava a cuore a Pompeo, per potersi servire della turbolenta audacia di Clodio, nemicissimo di Cicerone e del ceto equestre, Pompeo e C. lo favorirono nella sua aspirazione a divenire tribuno della plebe, abbandonando, a questo scopo, la sua condizione di patrizio; poco dopo si legarono anche più intimamente, dacché Pompeo sposò Giulia, figlia di Cesare, mentre C. sposò in quarte nozze Calpurnia, figlia di L. Calpurnio Pisone. Indi C., proseguendo nella sua legislazione come console, provvide alla pubblicità dei processi verbali del senato e degli atti dei magistrati (v. acta); appoggiò una proposta di legge del pretore Fufio Caleno per la votazione separata delle tre classi di giudici nelle quaestiones composte secondo la legge Aurelia giudiziaria del 70 a. C.; regolò la definizione giuridica del crimen repetundarum. Per assolvere gl'impegni triumvirali presi con Pompeo, propose ancora una legge per la quale, ratificando gli ordinamenti di lui in Asia, lo lasciava in realtà libero di disporne come credeva; per cercare di cattivarsi il ceto equestre, propose, malgrado la contraria volontà del senato, di rimettere un terzo dei crediti che l'erario aveva verso i publicani della provincia d'Asia; e infine con l'apposita legge riconosceva Tolomeo Aulete, re d'Egitto, come re socius atque amicus populi Romani. Sempre secondo gli accordi triumvirali, egli ebbe il compenso dei servigi resi a Pompeo nel comando militare che più ambiva; e, in dispregio della volontà del senato, si fece concedere, con plebiscito proposto da P. Vatinio, il comando nella Gallia Cisalpina e nell'Illirico, ai limiti del pomerio, con tre legioni, con diritto di eleggersi legati e con una forte somma di denaro da prelevarsi sulle casse dello stato. Il senato per cedere alla pressione dei suoi amici o forse per allontanare il pericolo della sua vicinanza armata, gli aggiunse ancora, con una legione in più, quel comando nella Gallia Narbonese che doveva poi essere la ragione maggiore della sua gloria. Con un altro plebiscito, pure di P. Vatinio, ebbe facoltà di dedurre a Como una colonia di diritto latino. Finito l'anno del primo consolato, C. restò a Roma ancora qualche tempo per prevenire ogni tentativo, soprattutto da parte di Cicerone, di negare validità alla sua legislazione: e a troncare ogni possibile attività di Cicerone e anche di Pompeo lasciò in Roma Clodio, che, con la sua instancabile opera demagogica e sediziosa, doveva seminarvi l'anarchia. C. si era procurato il denaro per la campagna gallica facendo pagare a Tolomeo Aulete il titolo concessogli di socius atque amicus populi Romani: e dopo ciò poté muovere verso la Gallia, ove si apriva un vasto campo alla sua operosità. Già qualche anno prima una ribellione di Allobrogi aveva richiesto una pronta e severa repressione; ora le lotte fra gli Arverni e gli Edui e Sequani obbligavano i Romani a far sentire il peso della loro autorità, dacché Eli-Edui, preoccupati per l'intervento in Gallia del capo germanico Ariovisto, alleato degli Arverni, invocavano l'aiuto dei Romani, i quali li avevano riconosciuti come alleati ed amici. Ma Ariovisto oltre a servire le aspirazioni altrui, pretendeva dai Sequani l'Alsazia e, per questo motivo, entrava in guerra con i suoi alleati e con i loro e suoi avversarî, gli Edui. Intanto gli Elvezî, in cerca di nuove sedi, stavano per toccare i confini della Provincia romana. Fin dal 60 a. C. il senato aveva deliberato di fronteggiare tali pericoli e C., durante il suo consolato, ambì quindi il comando provinciale gallico, e, per agevolare la sua azione isolando gli Elvezî, indusse il senato ad accettare le profferte di amicizia che giunsero in quell'anno da Ariovisto, e a concedergli il titolo di rex socius atque amicus populi Romani.
La guerra gallica. - Con una lunga marcia forzata C., assunto il comando delle truppe stanziali della Provincia, riordinò l'esercito e giunse a Ginevra prima che gli Elvezî avessero passato il Rodano per la progettata invasione della Gallia; e, fortificando i passaggi per loro possibili, riuscì a prevenirne la marcia e a impedirla. Avendo poi tentato gli Elvezî d'invadere il paese degli Edui attraverso l'Arar (Saône), anche C., dopo aver sconfitta la retroguardia elvetica, tragittò alla sua volta il fiume per impedire quella marcia e inseguire la colonna della popolazione emigrante nell'alta valle della Loira; poi ancora presso Bibratte (58 a. C.) s'incontrò con gli Elvezî e inflisse loro una grave sconfitta. Questa importante vittoria fece sì che molte popolazioni galliche invocassero l'aiuto di Cesare contro Ariovisto. C. cercò dapprima inutilmente di venire ad accordi con il re germano, poi gl'intimò di attenersi alla linea del Reno e di non molestare gli alleati del popolo romano - e massime gli Edui - al di qua di quel fiume, condizioni che, naturalmente, Ariovisto rifiutò, rivendicando i suoi diritti di guerra. Movimenti offensivi di Ariovisto contro i Sequani decisero C. a un intervento immediato. Appena le truppe romane entrarono in contatto con i Germani nei pressi di Vesonzione (Besançon) la capitale dei Sequani, si manifestò un vivissimo panico fra i legionarî, i quali prestavano fede alle voci d'invincibilità e di sovrumano valore dei Germani che in quel tempo venivano diffuse in Gallia; ma C. poté rianimarli. Egli ed Ariovisto s'incontrarono personalmente e furono rinnovati varî tentativi d'accordo che non ebbero esito. Le trattative furono interrotte quando Ariovisto imprigionò due inviati di C. Il 26 settembre, dopo un tentativo di aggiramento sventato da C., questi, approfittando dell'indecisione dei Germani, li assalì e li costrinse a ritirarsi oltre il Reno. La Gallia, era, per allora liberata dal pericolo d'invasioni germaniche. Ma si era dimostrato che per difendersi da siffatti pericoli i Galli avevano bisogno dell'aiuto di Roma, si era data occasione a C. di passare i confini della Provincia; fatti forse più importanti ancora, per la politica di Roma e per l'azione di Cesare che non il risultato della prima campagna.
Intanto, in Roma, Pompeo si era assicurata una posizione politica di privilegio, che soltanto l'incessante opera demagogica di Clodio doveva infirmare. C. si ritirò nella Provincia a sorvegliare gli avvenimenti d'Italia, mentre le sue truppe svernavano a Vesonzione, non senza gravi preoccupazioni delle tribù galliche le quali si prepararono nascostamente contro C. Non appena egli ebbe dal suo luogotenente Labieno nozione di questi preparativi, di sua iniziativa e valendosi sotto la sua responsabilità dell'imperio proconsolare, arruolò nuove legioni e, sul far della primavera, si diresse verso i quartieri invernali delle altre truppe per unirsi a esse e iniziare la controffensiva contro i Belgi. Gli effettivi romani intanto venivano aumentati dalla sottomissione dei Remi, una delle popolazioni belghe. Le forze delle due parti si scontrarono dapprima a Bibrax nel paese dei Remi; poi i Belgi tentarono di tagliare le comunicazioni all'esercito romano, ma furono sconfitti. Questo primo successo portò alla sottomissione dei Suessioni, dei Bellovaci e degli Ambiani. La resistenza era impegnata sull'eroico sforzo dei Nervî, contro i quali C. diresse le operazioni, movendo verso la località ove si erano accampati insieme con i loro alleati Viromandui, Atrebati e Aduatici. Lo scontro avvenne tra i fiumi Scaldis (Schelda) e Sabis (Sambre) nei pressi dell'odierna Neuf-Mesnil, e fu una sanguinosa e difficile vittoria di C. Il vincitore trattò con clemenza i vinti, e proseguì la campagna per sottomettere gli Aduatici, i quali prima si arresero, poi lo aggredirono proditoriamente, onde furono duramente puniti. I successi di questa seconda campagna affermarono il prestigio e la capacità strategica di C. e la potenza romana sulle più bellicose e ribelli popolazioni galliche. Soltanto la spedizione di Galba con la XII legione diretta ad aprire ed assicurare il valico del Gran S. Bernardo verso l'Italia non fu fortunata, poiché, dopo qualche parziale successo, fu aggredita dalle popolazioni alpine dell'alta valle del Rodano e dovette ritornare nella provincia in cattive condizioni e senza aver raggiunto le mete prefisse. Ma questo scacco non diminuì il prestigio del nome romano e di C., dacché le sottomissioni continuarono da parte di qualche popolazione dei litorali normanni e brettoni in seguito allo stanziamento nella media valle della Loira di una legione al comando di Publio Crasso; le altre legioni, con le quali aveva finito la campagna del 57, presero i quartieri invernali nei territorî di recente conquistati sui Belgi. Ma la legione di Publio Crasso fu molestata da altre popolazioni normanne e bretoni, cioè i Veneti, i Coriosoliti e gli Esuvî, popolazioni le quali, vivendo del traffico con le tribù della vicina isola britannica, temevano una spedizione romana che soggiogasse anche quella regione. C., comprendendo la necessità di dominare il canale della Manica, diede ordine di allestire una flotta a questo scopo nell'estuario della Loira. La seconda campagna di C. in Gallia aveva quindi portato a un notevole allargamento dell'occupazione romana, ma non aveva ancora ottenuto risultati definitivi, dacché da varie parti le popolazioni, vinte ma non piegate, si preparavano contro i Romani. Intanto a Roma con ogni mezzo Cicerone e quelli della sua parte cercavano di combattere la legislazione del consolato di Cesare del 59 (marzo-aprile 56 a. C.) anche per ostacolare Pompeo, che mirava apertamente al principato con la proposta della creazione a suo favore di una eccezionale cura annonae munita di imperium maius. Le lotte interne di quegli anni e soprattutto del 56 a. C. avevano chiaramente dimostrato che nessuno dei triumviri, date le reciproche posizioni e le ostilità che incontravano in Roma, poteva prendere il sopravvento sugli altri due. Ma la rivalità dei tre alleati non permetteva alcuno sbocco alla crisi che era in atto. C. era ansioso di poter completare la sua grande opera in Gallia, cosicché in un convegno a Lucca i triumviri convennero in questi accordi: C. avrebbe fatto appoggiare Pompeo e Crasso nella loro aspirazione al consolato per il prossimo anno, e per il successivo proconsolato rispettivamente in Iberia e in Siria, per un quinquennio; egli in compenso avrebbe avuto la proroga dell'imperium per le Gallie per un altro quinquennio, coll'impegno che non si prendesse nessuna nuova deliberazione sul comando delle Gallie avanti il primo marzo del 50 a. C.
All'inizio della campagna gallica del 56 si manifestarono propositi offensivi da parte dei Belgi, che ora miravano a unirsi coi Germani, e da parte dei Veneti che proseguivano l'azione già iniziata alla fine della campagna precedente. I Romani intanto avevano ultimato l'allestimento della flotta agli ordini di Decimo Bruto nell'estuario della Loira: grazie all'appoggio di queste navi C. con le sue truppe poté raggiungere i Veneti fin nei loro più muniti recessi, infliggendo loro gravi sconfitte, mentre anche D. Bruto si scontrava vittoriosamente per mare con la loro flotta. I Veneti e i loro alleati furono così sottomessi a gravissime condizioni, mentre in successive campagne P. Crasso occupava l'Aquitania e C. compieva l'occupazione del Belgio sconfiggendo i Morini e i Menapî. Nei primi mesi del 55, nuovi nuclei di popolazioni germaniche, gli Usipeti e i Tencteri, urgevano ai confini renani e in Gallia si trattava segretamente con essi ai danni dei Romani. C. finse d'ignorare queffie trattative e, mentre preparava la nuova spedizione contro i Germani, riunì tutti i capi gallici a concilio, invitandoli ad aiutarlo contro il comune nemico e facendosi assicurare il contributo che più gli era necessario, cioè notevoli rinforzi di cavalleria celtica. I tentativi di accordi con i Germani furono inutili e, malgrado le mosse inopportune e malfide dei rinforzi indigeni, incontratosi a battaglia con le popolazioni nemiche, C. poté catturarne i capi e sconfiggerle, facendo gravissima strage e riducendo quei nuclei etnici ad entità irrilevanti. Così era assicurata la pace al confine renano. Gravi punizioni dovevano pure toccare ai Sigambri che avevano prestato aiuto alla cavalleria fuggiasca dei Germani sconfitti: e C. voleva anche maggiormente affermare il prestigio romano su tutte le popolazioni d'oltre Reno. Nei pressi di Coblenza, in soli dieci giorni fece gettare un ponte e poi marciò nei paesi dei Sigambri devastando il paese loro e quello degli Ubî; poi, non volendo troppo addentrarsi in Germania, ripassò il Reno, distruggendo il ponte. La spedizione audacissima aveva raggiunto il suo scopo di azione dimostrativa; e subito dopo C. progettò un'altra campagna in Britannia, decidendo di partire dai pressi della odierna Boulogne e mandando, per completare le informazioni avute dalle tribù galliche, Gaio Voluseno in esplorazione sulle coste britanniche. C. poteva preparare sicuramente la spedizione oltre la Manica dacché i suoi forti e severi metodi repressivi (che già avevano suscitato scandalo e proteste perfino a Roma) avevano seminato il timore anche fra le più bellicose popolazioni celtiche: ad alcune tribù di Morini e di Menapî che manifestavano volontà di resistenza C. provvide lasciando a sorvegliarle un forte distaccamento, comandato da due ufficiali superiori suoi dipendenti, Titurio Sabino e Aurunculeio Cotta; indi attraversò la Manica, sbarcando nella località prescelta sulle indicazioni di Voluseno. Fin dalle coste trovò vigorose resistenze: ma anche dalla vittoria non ebbe modo di trarre tutti i vantaggi, per mancanza della cavalleria che non era ancora riuscita a raggiungerlo. Malgrado questa grave debolezza, cui per le avversità della stagione non poté subito rimediare, egli poté avere sui Britanni notevoli ma non decisivi successi, e le intemperie, sul fare dell'autunno (55 a. C.), lo obbligarono al ritorno. Con una nuova spedizione contro i Morini e i Menapî si chiudeva la campagna del 55 a. C. L'inverno fu passato da C. nella Gallia Cisalpina e nell'Illirico, mentre le legioni riparavano la flotta per una seconda spedizione. Nell'anno 54, dopo aver sormontato (anche facendo uccidere il capo eduo Dumnorige) diverse difficoltà creategli in Gallìa dall'irrequietudine delle popolazioni, ritomò in Britannia, ove la sua spedizione fu nuovamente funestata da un disastro navale nella Manica; ciò che gli procurò gravi perdite e danni materiali e soprattutto morali, dacché le popolazioni maggiormente fidenti nelle loro forze contro i Romani si erano preparate meglio alla resistenza anche grazie all'abilità dimostrata dal loro nuovo capo Cassivellauno.
La campagna si svolse fra gravi rischi e difficoltà per la nessuna conoscenza che i Romani avevano del terreno e per l'ostacolo per loro rappresentato dai sistemi bellici di quelle popolazioni. Alla fine d'agosto del 54, Cassivellauno, stanco della guerra e scosso nel suo prestigio, chiese e ottenne pace a condizioni che davano a C. la possibilità di tornare in Gallia con una parvenza di successo, con molti ostaggi e con molti prigionieri. Al suo ritorno egli trovò i maggiorenti gallici in agitazione, e, per assicurarsi, distribuì opportunamente le legioni nei quartieri d'inverno, onde fossero di guarnigionc a varie parti della Gallia: ma ciò non impedì che Tasgezio, re dei Carnuti, amico e alleato dei Romani, fosse ucciso dai suoi e che Ambiorige. capo degli Eburoni, iniziasse un attacco eontro il campo di Sabino e Cotta, i quali, per evitarlo, decisero di ritirarsi, cadendo però nella disastrosa imboscata di Atuatuca, nella quale tutto quel corpo di esercito fu distrutto, togliendo così ogni presidio alla parte settentrionale del paese belgico. In seguito a questo rovescio anche il campo di Q. Cicerone fu assediato da Ambiorige, ma l'intervento di C., che poté congiungersi a Cicerone, riuscì a vendicare la giornata di Atuatuca, non però a cancellarne il ricordo. Un altro capo locale, Induziomaro, che tentava anch'esso un colpo di mano contro il campo di Labieno, fu da questo sconfitto in battaglia. Per fronteggiare gli effetti di tali avvenimenti C. reclutò due nuove legioni e un'altra ottenne da Pompeo prima dell'inizio della campagna del 53. In quest'anno, dopo aver nuovamente sottomesso i Nervî, i Carnuti, i Senoni, mosse contro Ambiorige, sprecando però le sue energie in una guerra di logoramento; fu costretto a chiudere la campagna senza alcun risultato positivo e mentre, per fronteggiare e impedire nuove agitazioni politiche, faceva uccidere il capo senone Acco, provocò nuovo malcontento e nuove agitazioni. Intanto, per la morte di Crasso alla battaglia di Carre (9 giugno 53), cessavano gli accordi del triumvirato; del resto la morte di Giulia (settembre 54) aveva reciso già in precedenza un altro dei legami che univano Pompeo a C., cosicché i due antagonisti si trovavano ormai uno di fronte all'altro. Quando, nel 53, fu offerta a Pompeo una dittatura rei publicae constituendae, sull'esempio di quella di Silla, egli non si sentì di assumere la responsabilità formale di quella magistratura, anche per timore di C. che certamente l'avrebbe interpretata come una sfida. Ma, già munito di un comando militare e della cura annonae, quando assunse, sia pure provvisoriamente, nel 52 a. C., il consolato unico, ebbe di fatto il principato di Roma, grazie all'intervenuto accordo con l'oligarchia equestre-senatoria, erede della tradizione repubblicana, in odio a C., la cui potenza, dovuta al prestigio sul popolo e ai successi militari, aumentava minacciosamente. I disordini che a Roma minavano l'autorità di Pompeo e le ribellioni che seguirono alla morte di Clodio (v.) diedero ai Galli l'illusione che la potenza romana fosse in pericolo. I Carnuti, fin dai primi mesi del 52, assassinarono alcuni dei Romani residenti: un giovane nobile di Gergovia, Vercingetorige, incitò molte tribù alla ribellione e fu riconosciuto come capo dalle popolazioni del centro della Gallia. In breve l'incendio divampò in modo tale che a C. fu persino difficile raggiungere il suo esercito. La campagna di Vercingetorige s'iniziò con l'assedio di Gorgobina, città forte da C. concessa agli Edui: C. volle venire in aiuto degli assediati, occupò diverse città e liberò anche Gorgobina, ma fu obbligato, dalle forti resistenze dei Biturigi, ad assediare la loro capitale Avarico, ove trovò gravi difficoltà, riuscendo però a entrare nella città e a fare sanguinosa strage fra gli abitanti. Indi C. mandò Labieno a ristabilire l'autorità romana nel bacino della Senna e marciò sull'Arvernia per colpire il nemico nel suo centro, a Gergovia, riuscendo ad approssimarsi di sorpresa e, tentando poco dopo di prenderla improvvisamente; ma, anche per le difficoltà creategli dagli Edui che avevano disertato l'alleanza romana, non vi riuscì; e dovette ritirarsi rapidamente, per non essere accerchiato e potersi congiungere con Labieno; il quale aveva intanto condotto una vittoriosa campagna contro i Parisî. Sempre insufficientemente provvisto di cavalleria, fu costretto a ricorrere a contingenti germanici; poi si propose di dirigersi verso sud per evitare pericoli alla provincia romana, ma si scontrò in un'azione di cavalleria con Vercingetorige, il quale, sconfitto, si rinchiuse in Alesia. Dopo un assedio in cui rifulse come non mai il genio strategico di C. (v. alesia), combattendo contro gli assediati che facevano frequenti sortite e contro un esercito di soccorso degli Edui che era giunto nel frattempo, C. ebbe completa vittoria e lo stesso Vercingetorige si arrese, e fu mandato prigioniero a Roma. La campagna del 52, nella quale all'inizio sembrava dovesse andar sommersa l'opera di C. in Gallia, terminò col completo trionfo romano sull'indipendenza celtica, che venne soffocata con la consueta energica durezza. Malgrado il faticoso ma grandissimo successo, la seguente campagna obbligò C. a diverse azioni contro varie tribù non ancora sottomesse, soprattutto contro i Bellovaci e gli Eburoni, e all'assedio di Uxelloduno, con il quale si può dire fosse compiuta l'opera di conquista già sicura dopo Alesia.
La guerra civile. - Con gl'impegni presi a Lucca nel rinnovamento del triumvirato, e con la susseguente legge Pompeia e Licinia del 55, si era preso l'impegno di non provvedere alla Gallia fino al 1° marzo 50 a. C.: ma la nomina di un successore a C., se non veniva fatta d'intesa con lui, era possibile soltanto assegnando la Gallia come provincia a un console, dacché esclusivamente riguardo alle decisioni per le provincie consolari non valeva, secondo la legge Sempronia del 123 a. C., l'intercessione tribunizia: ora, molto facilmente, C. fra i suoi amici avrebbe sempre trovato qualche tribuno disposto a valersi di questo diritto per servirlo. Nel 52 però, a rendere più complessa la situazione, un plebiscito autorizzò C. a porre la sua candidatura al consolato anche essendo assente, e una legge di Pompeo de iure magistratuum stabilì invece che i candidati dovevano essere presenti a Roma per presentare la loro candidatura. Ora, la conseguenza di questa situazione giuridica era che C. avrebbe potuto divenire console restando alla testa delle sue legioni (e sfuggendo ad ogni richiesta di conti) poiché la decisione per le provincie da assegnarsi ai consoli doveva essere fatta prima della loro nomina, e quindi per il 50 a. C. non sarebbe stato possibile provvedere alla Gallia, dato l'impegno di non provvedervi che dopo il primo marzo di quell'anno, mentre C. avrebbe potuto, nel 51, restando in Gallia, divenire console e conservare anche ipso iure il comando proconsolare. Gli avversarî di C., preoccupandosi di quest'anomalia giuridica che avrebbe messo Pompeo in condizioni di grave inferiorità rispetto a C., cercarono, con l'appoggio del senato, di costringere C. a lasciare l'imperium all'inizio della stagione invernale 51-50, cioè alla fine della campagna, per privarlo delle sue legioni. Questo grave dissidio, che fu il punto discriminante del conflitto fra i due era solo apparentemente una questione di diritto, ma in realtà era una questione di forza. Dopo diverse difficili trattative, C., nel luglio 50, tornato nella Gallia Cisalpina, ebbe calorose accoglienze: riordinò la Gallia Transalpina e si preparò all'intervento armato, mentre il senato votava una mozione per la quale C. e Pompeo dovevano ambedue tornare privati cittadini, abbandonando ogni autorità legale o illegale. Ogni compromesso fu da C. respinto (novembre 50) dacché tutti si fondavano sul principio dell'abbandono da parte sua del comando militare, e cioè l'obbligavano a rimettersi all'arbitrio di Pompeo: la risposta della parte oligarchica e pompeiana fu di far dichiarare C. dal senato nemico pubblico; onde i tribuni della plebe suoi amici, M. Antonio e Q. Cassio, al cui veto fu contrapposta la violenza, abbandonarono la città e si rifugiarono nel campo di C., mentre il senato dichiarava la patria in pericolo votando, in favore di Pompeo, il senatusconsultum ultimum. Per risposta C. allestiva la XIII legione, l'unica di cui disponesse in Italia delle nove sole che gli restavano (circa 40.000 uomini), dacché aveva dovuto mandarne una contro i Parti dopo la battaglia di Carre e rendere a Pompeo quella che gli era stata prestata. Assicuratosi il possesso di Rimini, passò il Rubicone (23 nov. 50 a. C.), entrando nel territorio italico, e mettendosi fuori della legge che non ammetteva la presenza entro quel limite di truppe e di magistrati investiti di imperium provinciale. Il conflitto fra Pompeo e C. involgeva ormai tutta la vita dello stato romano, ed era divenuto il contrasto fra due opposte concezioni dello stato stesso. Pompeo, in quell'inizio d'inverno, stava intraprendendo la sua minacciosa preparazione e sembrava che C. avesse pochissime probabilità di vittoria, tanto che fu abbandonato anche dal suo più fido luogotenente, Labieno; ma C., con le mosse fulminee caratteristiche della sua strategia, giunse a investire i centri di mobilitazione di Pompeo: Corfinio ove Domizio Enobarbo, un valoroso ufficiale pompeiano, di sua inopportuna iniziativa cercò di arrestarlo senza successo, ed anche Sulmona che si arrese facilmente, mentre i suoi corpi militari in formazione passavano al vincitore che aveva ormai raccolto sette legioni. Pompeo e il senato, disorientati da questi inattesi e rapidi successi del loro rivale, sgombrarono Roma, senza neppure portar via il tesoro statale. In Italia non era ormai più possibile sostenere la difesa, e il quartier generale, trasportato dapprima a Capua, poi a Luceria, fu fissato finalmente a Brindisi, sino a che fu deciso di passare in Grecia (gennaio 49), quando C. stava per approssimarsi a Brindisi e tentava di bloccarla. Mentre Pompeo riorganizzava le cinque legioni che aveva potuto trasportare a Dyrrachium (Durazzo), C. cercò di assicurarsi il possesso dell'Italia, diede alcuni parziali diritti, relativi alla cittadinanza, ai Transpadani, prese possesso del tesoro dello stato, svolse lunghe trattative con Cicerone per garantirsene l'appoggio, mandò forze e uomini fidati in Sicilia, in Sardegna, e in Africa e poi, prima di passare in Oriente, tanto più che gli mancavano le navi necessarie, volle avere il pieno possesso dell'Occidente e si diresse verso la Spagna. Massilia (Marsiglia) gli si era ribellata: egli lasciò una parte delle sue truppe al comando di Trebonio per cingerla di assedio e marciò contro Afranio e Petreio, che tenevano, per conto di Pompeo, la Spagna, facendosi soprattutto forti della sicura posizione di Ilerda, a nord dell'Ebro. I pompeiani iniziarono una guerra di logoramento, per dar tempo a Pompeo di organizzarsi: C. mandò contro Ilerda Fabio, poi lo raggiunse e investì immediatamente il caposaldo della resistenza avversaria. Quando Ilerda fu minacciata, in seguito al passaggio del fiume Segre, Afranio si risolse ad abbandonare la città e a ritirarsi (maggio 49 a. C.) nella regione montuosa a sud dell'Ebro. La ritirata fu molestata da C., che tagliò la via all'avversario e, quando le truppe di Afranio cercarono di tornare a Ilerda, C. le separò da Petreio, le circondò e le costrinse alla resa. Anche le truppe di Petreio furono obbligate ad arrendersi e a posare le armi. A dimostrazione di clemenza C. non volle esercitare vendette sugli avversarî, ma si limitò a stabilire il suo dominio nella penisola Iberica. Intanto anche Massilia cadde e fu occupata da Trebonio che ne demolì le difese, mentre C. la punì al suo ritorno con tale durezza che dal 49 a. C. si può dire che l'antico centro di cultura greca nel mare Mediterraneo occidentale abbia cessato di avere una vita politica di qualche momento. Mentre C. non era ancora in Italia, i comizî, presieduti dal pretore M. Emilio, in assenza dei consoli, lo nominarono dittatore comitiorum habendorum causa, carica che, assunta all'atto stesso del suo ritorno, tenne soltanto per undici giorni, tanti quanti ne occorsero per i comizî e per le ferie latine, e poi depose, avendo fatto eleggere consoli per il 48 sé stesso e P. Servilio ed avendo provveduto a sistemare la difficile situazione finanziaria e il regime del credito. Subito dopo marciò con la consueta rapidità contro Pompeo, il quale, frattanto, aveva ordinato nel vicino Oriente, con base a Durazzo, un esercito imponente, con ottima cavalleria e una flotta di 500-600 navi che gli permetteva di tenere il dominio dei mari. In pieno inverno C. traversò l'Adriatico con una flotta insufficiente che gli permise soltanto il trasporto di metà del suo esercito e il 6 novembre del 49 sbarcò a Paleste, puntando subito verso nord, cioè su Durazzo, che Pompeo, sorpreso, riuscì a stento a difendere. Ma l'inferiorità navale di C. gl'impedì di avere, per il blocco dei pompeiani, il rinforzo della seconda parte del suo esercito; solo dopo tre mesi fu possibile all'abilità e all'ardire di M. Antonio di far attraversare l'Adriatico alle truppe e di congiungersi a Cesare. Appena C. ebbe i suoi effettivi completi, diresse i suoi sforzi su Durazzo, ripetendo le manovre ossidionali di Alesia, ma Pompeo, dopo un tentativo fallito, e grazie allo spionaggio di due disertori galli, riuscì a sfondare il blocco e a liberarsi dall'assedio (maggio 48). I pompeiani credettero, forti delsuccesso e della superiorità numerica, di avere causa vinta; C. si ritirò in Tessaglia per congiungersi a un suo luogotenente, che comandava in quella regione un corpo distaccato, e per riordinare il suo esercito. Pompeo lo inseguiva a distanza, senza ardire di sfidarlo a una nuova battaglia. Ma, incitato dai suoi luogotenenti e dall'odio di Labieno, cesariano rinnegato, il 9 agosto del 48 Pompeo diede battaglia sui campi di Farsaglia, dove fu pienamente sconfitto. Arresesi le sue truppe, Pompeo riuscì a sfuggire, ma finì assassinato mentre cercava scampo in Egitto.
C., dopo una breve permanenza nella provincia d'Asia, di cui riformò in parte gli ordinamenti amministrativi, con forze insufficienti navigò verso Alessandria, dove si fermò benché avesse avuto accoglienze ostili e fosse stato quasi assediato nella dimora reale dei Lagidi. Grazie all'appoggio di Cleopatra, che egli diede in isposa a Tolomeo associandola con lui nel regno, riuscì a vincere con forze molto inferiori la flotta e l'esercito tolemaico e a lasciare l'Egitto in condizioni a lui favorevoli. Intanto a Roma il senato, per onorarlo, gli faceva conferire la dittatura militare (rei gerundae causa), il consolato per cinque anni e il diritto tribunizio di veto dandogli cioè tre dei fondamentali poteri dello stato, imperium militiae, imperium domi e veto. C. nominò suo magister equitum M. Antonio e gli affidò l'amministrazione dell'Italia; poi passò in Giudea e Siria, ove prese varie deliberazioni amministrative, indi con una fulminea campagna vendicò la disfatta subita da Domizio Calvino combattendo contro Farnace re del Ponto (aprile-luglio 47). Al suo ritorno in Italia trovò Antonio in difficoltà, perché i suoi avversarî avevano fatto diversi tentativi contro di lui, soprattutto per i suoi provvedimenti circa il regime del credito: in una breve permanenza C. cercò di ristabilire l'ordine e si preparò a fronteggiare le notevoli frazioni pompeiane, che, con l'aiuto del re di Numidia Giuba I, spadroneggiavano m Africa dopo aver gravemente sconfitto presso Utica Gaio Scribonio Curione, luogotenente di C. Oramai la posizione dei pompeiani in Africa sembrava saldissima e minacciosa dacché erano padroni del paese e forti di quattordici legioni e 10.000 cavalieri. Nel settembre del 47 a. C. con forze assai inferiori C. sbarcò fra molte difficoltà e dovette attendere, sfuggendo a mala pena alle insidie di Labieno, prima di poter aver completi i suoi effettivi composti di 10 legioni per la maggior parte veterane, che gli giunsero soltanto in tre riprese. Quando fu in condizione d'attaccare cercò in diverse occasioni battaglia campale, ma gli avversarî tentavano di fuggire; finalmente poté circondare d'assedio l'esercito nemico chiuso in Tapso e venire quindi, nell'aprile del 46, a battaglia campale, terminata con una sua grande vitioria, che distrusse l'esercito dei pompeiani. I figli di Pompeo e Labieno fuggirono in Spagna: Giuba, Catone e molti altri maggiorenti non sopravvissero alla sconfitta.
Al suo ritorno a Roma C. ebbe dal senato onori pari al suo successo: oltre a quattro trionfi (per la Gallia, per l'Egitto sui Tolomei, per il Ponto su Farnace e per l'Africa su Giuba) pei quali gli furono concessi 72 littori, come segno dell'imperium militiae dittatoriale per tre volte ripetuto, gli fu concessa la dittatura rei gerundae causa decennale ma da computarsi anno per anno e la praefectura morum, gli fu decretata una statua di bronzo sul Campidoglio che, precedendo la concezione religiosa della monarchia, sull'esempio ellenistico, lo rappresentava come semidio, e infine furono stabilite particolari solennità religiose. Ma l'ora della pace esterna non era ancora giunta né C. poteva deporre le armi. Le malversazioni e l'incapacità amministrativa di Q. Cassio che C. aveva lasciato in Spagna dopo Ilerda avevano resa difficilissima la posizione della parte cesariana in quella provincia: ma tanto più difficile fu quando la morte di Q. Cassio lasciò la provincia senza capo. I pompeiani colà rifugiatisi dopo la sconfitta africana avevano avuto buon giuoco nel preparare un nuovo esercito con l'appoggio degl'indigeni. C. si portò rapidamente ancora nel dicembre dello stesso anno 46 in Iberia: riprese i consueti suoi metodi strategici mirando a sorprendere con. rapidità l'avversario e a costringerlo a battaglia in posizione ad esso sfavorevole. Le operazioni si svolsero nella Spagna meridionale; C. mirò a togliere agli avversarî le città più importanti finché riuscì a costringere Gneo Pompeo (figlio) a battaglia presso Munda (17 marzo 45 a. C.) vincendo l'ultimo esercito della parte pompeiana e costringendone il capitano a una fuga nella quale trovò la morte. Indi C. occupando Cordova, Munda, Urso, si assicurò il possesso della Spagna e ne sistemò l'amministrazione, lasciandovi Asinio Pollione con l'incarico preciso di mantenere l'ordine con le armi, anche perché in quella regione sopravvivevano la memoria e l'esempio di Pompeo Magno per la presenza dell'altro figlio, Sesto, il quale, benché con poche milizie, riusciva a molestare i cesariani. Prima che C. tornasse in Italia il senato gli concesse nuovi onori religiosi e civili e la salutatio ad imperator, fatto del tutto nuovo in quanto il senato si assumeva la concessione di un titolo che per consuetudine veniva dato soltanto dalle legioni sul campo di battaglia, mutandone così notevolmente il significato. C. preoccupandosi della futura successione, adottò Ottavio, colui che doveva diventare Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto; quindi, per la prima volta, celebrò il trionfo per una vittoria riportata combattendo su un esercito concittadino. Cominciava, nel 45, per C. la possibilità di procedere a una riforma dello stato secondo i suoi ideali. Anzitutto egli, con provvedimento diretto a dimostrare la sua volontà di pacificazione, emanò un'amnistia e volle persino far restaurare le statue di Silla e Pompeo Magno; aumentò il numero dei senatori, sostituendo i posti vacanti con persone a lui fidatissime: compensò i suoi veterani con distribuzioni di terre in Italia e nelle provincie, e dedusse colonie per riedificare con elementi romani grandi città distrutte, come Cartagine e Corinto, o per assicurarsi località importanti come Arles, qualche centro della Sicilia, delle regioni alpine e della Spagna. Precorrendo le concezioni organiche di Augusto, intese che Roma doveva essere degna del suo impero; e attese ad abbellirla, a renderla illustre conferendone la cittadinanza ad uomini di scienza stranieri; a risanarne i dintorni iniziando la bonifica delle Paludi Pontine e del Lago Fucino. Preparò campagne per sistemare i confini dello stato romano, ideando quelle spedizioni daciche e partiche che sarebbero stato il compito dei futuri imperatori; riordinò le leggi giudiziarie, le leggi provinciali e sistemò in nuova forma talune magistrature. Con l'anno 44 il senato gli riconobbe la facoltà di sedere sui banchi dei tribuni nei ludi pubblici e l'inviolabilità personale, concessioni che completavano quella tribunicia potestas che fu poi una delle caratteristiche costituzionali dell'impero; gli aggiunse il titolo di parens patriae che, con gli altri, contribuiva a fissare la posizione monarchica di C. nel nuovo stato, benché in realtà fosse un antico e altissimo onore repubblicano. E, del resto, tale posizione C. stesso accentuava, ricevendo il senato senza alzarsi in piedi, affermandosi così monarca assoluto. Questa posizione monarchica, che rientrava nel suo piano di riforma politica, non poteva derivare dalle magistrature repubblicane, che pur rivestiva, ma che, da sole, lo avrebbero messo in condizione d'inferiorità politica di fronte al senato e di parità di fronte ai colleghi, e lo avrebbero quindi obbligato a usare permanentemente la forza armata (cioè a restare fuori d'ogni legge) per dominare Roma. Invece l'autorità sacrosanta dei tribuni della plebe rendeva inviolabile la sua persona e gli dava modo di proibire gli atti dei magistrati senza che nessuno potesse fare altrettanto con lui: e la volle distinta, come potestas astratta dalla magistratura tribunizia, affinché non fosse incompatibile con tutte le altre cariche. Aggiunta alla praefectura morum che gli dava facoltà dispotiche anche sulla vita privata degli altri cittadini, all'imperium militare che gli fu concesso a vita, al pontificato massimo e alla dignità semidivina, rappresentava il complesso degli elementi della monarchia assoluta e teocratica. E la monarchia era preparata, e non mancava che sostituire alla corona d'alloro, che il senato gli aveva concesso di portare permanentemente, il diadema che Marco Antonio tentò di offrirgli il 15 febbraio del 44. Già si vedeva in tutta la sua ampiezza il disegno della monarchia di C. I suoi abiti avevano già gli attributi della regalità (toga purpurea e, all'uso dei re albani, scarpe rosse); una regina ellenistica, la sovrana egizia Cleopatra, viveva accanto a lui, quasi a simboleggiare l'universalità dell'impero romano. E non diversamente si dovevano interpretare quelle ammissioni di Galli nel senato di Roma che avevano suscitato lo sdegno dei Romani, ma che, nella mente di C., dovevano significare l'avviamento ad una monarchia mondiale unitaria, in cui non vi fosse differenza, nel nome di Roma, fra i sudditi dell'impero.
Questa costruzione di un nuovo regime era in pieno sviluppo, e sarebbe stata completata dopo l'impresa partica, che avrebbe dovuto vendicare il disastro di Carre. Già C. si sentiva talmente indispensabile per la vita e il bene dello stato che aveva licenziato la sua guardia del corpo, quando un gruppo di giovani della nobiltà romana, capeggiati da Bruto, Cassio, e Trebonio, legati da comune odio per C., o perché delusi in qualche aspirazione, o perché sinceramente avversi alle sue concezioni statali e alla sua aspirazione monarchica, decise di assassinarlo. Il delitto delle idi di marzo del 44 a. C., che stroncò sotto 23 colpi di pugnale colui che era riuscito a imporre l'identificazione della sua persona con lo Stato romano, lasciò Roma sotto il peso di un'eredità che nessuno sembrava in condizioni di poter raccogliere. Così finiva nella storia di Roma il grande episodio cesareo: col prestigio di un nome, di un'impareggiabile gloria militare e di una grandissima popolarità, C. aveva tentato di risolvere la lunga crisi delle istituzioni repubblicane insufficienti a creare un organismo statale unitario là dove non erano che disiecta membra di una conquista affrettata e fatta senza unità di direttive. La soluzione che egli imponeva, estranea allo spirito della romanità, era la monarchia assoluta e teocratica sull'esempio ellenistico: con un'eroica audacia che ancor oggi appare mirabile, C. si poneva contro la tradizione e contro la storia, e, ricollegandosi al sogno di Alessandro Magno, vedeva la monarchia universale, sola degna di sé stesso e di Roma. La sua opera costituzionale fu antistorica e il pugnale di Bruto vendicò i diritti d'una tradizione secolare. Ma i futuri imperatori si chiameranno Cesari e da lui trarranno la giustificazione del loro potere; e l'impero, territorialmente e politicamente, sarà destinato a essere quello che egli aveva previsto. (V. tav. CCXXXI).
Fonti: Le fonti per la storia di Cesare sono naturalmente, anzitutto, i suoi Commentarii de bello gallico e de bello civili, dei quali però non sempre la critica ha saputo fare il conto che doveva, ricordando trattarsi di scritti a un tempo autobiografici e apologetici. Del tutto impari all'altezza dell'eroe, ma preziose per i molti particolari e anche, per quello che possono valere, per gli aneddoti, sono le due biografie di Plutarco e di Svetonio, e valore anche minore dovrà essere attribuito alla Vita Caesaris dell'amico di re Erode, Nicola Damasceno. L'opera cìceroniana, importantissima in tutte le sue parti e massime negli epistolarî e in talune orazioni per la storia di C., deve essere studiata naturalmente senza dimenticare che Cicerone militava nella parte politica a C. avversa e anzi che il De republica di Cicerone rispecchia pienamente le idee politiche di Pompeo. Per i primordî di C. importantissime sono la Congiura di Catilina e frammenti di altri scritti di Sallustio, però partigiani per C. stesso. Dione Cassio e le Guerre civili di Appiano rispecchiano fonti greche, più largamente che rettamente informate sulle cose romane. Attraverso le epitomi liviane e le opere da Livio derivate si ha un incerto riflesso del pensiero del grande storico augnsteo, al quale non fu inibito di manifestare la sua preferenza per quella forma di tradizione repubblicana che, attraverso il principato, si impersonava in Pompeo e veniva continuata da Augusto. Malgrado la relativa abbondanza di fonti, spesso non abbiamo notizie precise, forse anche perché non sempre gli storici contemporanei seppero essere all'altezza della genialità di C. e confusero dati, avvenimenti, e soprattutto sbagliarono nelle interpretazioni. Così avviene che per molti dati preziosi e utilissimi, ove non soccorrono più gli scritti di C. stesso, si deve ricorrere, come per età assai più oscure, a frammentarie notizie desunte da iscrizioni e da fonti di scarsissima e indiretta importanza.
Bibl.: La letteratura moderna su C. è vastissima; qui si elencano alcune opere fondamentali. Ancora nei primi anni del sec. XX dominava in questi argomenti la concezione di T. Mommsen, con la sua Römische Geschichte e soprattutto con il Römische Staatsrecht, confermata dalla vasta biografia cesariana contenuta nel vol. III della Geschichte Roms (2ª ed. del Groebe, Lipsia 1906) di W. Drumann, la quale era per l'appunto ispirata alla stessa concezione del Mommsen. Col rinvigorirsi delle ricerche storiche e con il prevalere di una nuova mentalità prese a dominare il campo una nuova visione di C., quella presentata da E. Meyer in uno dei migliori saggi della moderna critica storica: Caesars Monarchie und das Principat des Pompeius, 2ª edizione (immutata nelle successive 3ª e 4ª), Berlino e Stoccarda 1919. Con una grande opera sintetica (The Roman Republic and the founder of the Empire, voll. 3, Oxford 1923), T. Rice Holmes ha conchiuso i suoi preziosi e lunghi studî dedicati a Cesare, e cioè soprattutto i fortunati scritti precedenti, Caesars' Conquest of Gaul, 2ª ed., Oxford 1911 e Ancient Britain and the invasions of Julius Caesar, Oxford 1907. Vedi A. v. Göler, Caesars gallischer Krieg, 2ª ed., Friburgo in B. 1880; C. Jullian, Histoire de la Gaule, Parigi 1908-1909; G. Veith, Geschichte der Feldzüge C. Iulius Caesar, Vienna 1906; J. Kromayer e G. Veith, Antike Schlachtfelder, III, Berlino 1912; Sihler, Annals of Caesar, New York 1911; e ancora: Th. Mommsen, Die Rechtsfrage zwischen Caesar und dem Senat, Breslavia 1857 (Gesammelte, Schriften, IV, Berlino 1906, p. 92 segg.). Una recente rassegna di scritti su C. è pubblicata a cura del Kalinka, Berichte über Cäsars und seiner Forsetzer Schriften (1898-1928), in Jahresb. üb. die Fortschritte der klass. Altertumswiss. Inoltre M. A. Levi, La costituzione romana dai Gracchi a Giulio Cesare, Firenze 1928.
Cesare come scrittore e fonte storica.
C. fu uomo di penna, oltreché di armi e di stato; né lo scrittore rimase in lui al di sotto del guerriero o del politico: se anche scrittore non fu di professione, nel che anzi sta la sua eccellenza e singolarità in questo campo: uno scrittore senza velleità e mire letterarie, che non conosce modelli o scuole, ma solo il suo genio. È una mente universale. Divinum ingenium lo disse Tacito: anche nelle lettere e nelle scienze, dove il suo spirito si ferma, lascia un'impronta gagliarda. Dappertutto si rivela tempra di uomo superiore: primo sempre o fra i primissimi.
I tempi in cui si trovò a vivere, l'alta famiglia da cui usciva gli assicurarono un'educazione compiuta. Aurelia, la madre di C., è esaltata nel Dialogo degli oratori, accanto alla Cornelia dei Gracchi e ad Azia madre d'Augusto, come donna del vecchio stampo, di quelle che dirigevano l'educazione dei figli avviandoli da sé verso le discipline a cui natura li chiamava. La madre stessa gl'insegnò quel mirabile strumento del dire che sarà il suo linguaggio: solo nell'aristocrazia, e più fra le donne, era rimasta in tale età la purezza antica dell'idioma. Per via di madre, C. era poi imparentato con l'oratore C. Aurelio Cotta; un personaggio molto in vista dei dialoghi ciceroniani, che Cicerone (De or., II, 98) loda come acutissimum ac subtilissimum ingenium, uomo che nel parlare mirava alla forza dimostrativa delle cose più che alla passione, all'intelligenza più che al cuore. Ci si sente, con C., aria di famiglia. Né meno ciò vale per C. Giulio Cesare Strabone, un altro parente di C. da parte di padre: l'urbanitas, il brio, la giovialità furono doti spiccatissime di entrambi. E qui c'è Svetonio a testimoniare l'azione esercitata dall'illustre oratore sul giovane negli anni del suo primo formarsi, fino all'87, quando improvvisamente cadde tra le violenze dei mariani. Maestro della fanciullezza di C. fu un Gallo educato ad Alessandria, M. Antonio Gnifone, che associava nel suo insegnamento il greco al latino, la rettorica alla grammatica. In grammatica, Gnifone fu primo a portare in Roma il puro indirizzo alessandrino, dopo che la filologia romana aveva seguito insieme l'influsso e degli Alessandrini e dei Pergameni. O noi, almeno, ignoriamo che altri trattasse avanti a lui, col problema della latìnitas, le norme regolatrici del linguaggio, in che consisteva un'attività particolare dei dotti d'Alessandria. Gnifone era analogista: se degli estremi, tipo Sisenna, o dei più concilianti, tipo Varrone, di coloro che temperavano il rigido purismo coi criterî più larghi dei Pergameni stoicizzanti, non possiamo dire. Comunque, il maestro di C. andava incontro ai gusti del tempo in Roma, a quel senso di squisita elegantia che comincia ora a dominare nelle lettere e che nella prosa proprio in Cesare troverà la più perfetta espressione. Nascerà di qui quella rifinita maniera di scrivere ch'è il sermo urbanus dell'età aurea, il cui rovescio della medaglia sarà però l'impoverimento della lingua letteraria.
Le prove iniziali del suo genio letterario C. le dette in versi. Amore per la poesia c'era stato nella sua famiglia, ché C. Strabone non si segnalò soltanto nell'oratoria, ma anche nella tragedia. E anche la scuola si avviava ormai energicamente alla conoscenza e al gusto della poesia, di che è documento tutta la letteratura di questo periodo. Gnifone, il maestro di C., è un interprete di Ennio, il che vuol dire della più alta poesia nazionale, né meno dovette far ćonoscere al suo allievo il mondo poetco greco. Di C. giovane si cita un poemetto dal titolo Laudes Herculis. Anche la tragedia lo attrasse: trattò drammaticamente il personaggio tragico per eccellenza del ciclo sofocleo, Edipo. E pare che si deliziasse di poesia leggiera: tutte cose manifestamente di poco conto, se Augusto ne vietò la pubblicazione, e Tacito nel Dialogo degli oratori per ciò le chiama più fortunate delle cose poetiche ciceroniane, perché rimasero più sconosciute. In ogni modo C., anziché distruggere i suoi versi, li depositò nelle biblioteche da lui fondate; e di Muse si dilettò ancora nella vita, quest'uomo tutto intelletto e azione, nei momenti di sosta o di attesa. Giovane di 24 anni, nei trentotto giorni di prigionia che gl'inflissero i corsari di Farmacussa nelle vicinanze di Mileto, andava poetando e declamando da padrone, più che da prigioniero; e a 54 anni, mentre si preparava ad affrontare e abbattere in Spagna l'ultimo formidabile sforzo dei pompeiani, in 24 giorni di marcia da Roma verso i pericolosi campi di Munda scrisse ancora un poemetto, col titolo di Iter, che vien fatto di ravvicinare all'Iter Siculum di Lucilio, e, posteriori a C., all'Iter Brundisinum di Orazio e al De reditu suo di Rutilio Namaziano: impressioni di viaggio. Che codesti versi, almeno di fattura, non si debbano valutare, malgrado il giudizio di Augusto e di Tacito, così bassi, ci apparisce da sei esametri, unici rimasti della produzione di C., che facevan parte d'un carme dove con fine gusto di critico è colta l'essenza della commedia di Terenzio: un gioiello di eleganza che pareggerebbe il poeta ai Greci, se a lui non facesse difetto la forza.
Particolari tendenze dello spirito di C. si scoprono in altra occupazione; che cominciata, pare, fin dalla prima giovinezza, si protrae fino agli anni della dittatura: quella di raccogliere modi di dire arguti, Dicta o Apophthegmata. Qui si riflette chiara l'indole di quest'uomo, che conobbe e amò il riso e la lepidezza del parlare, di che aveva in casa un esempio vivente in Cesare Strabone. Augusto di nuovo non fece pubblicare i Dicta collectanea.
S'intende che l'educazione intellettuale di C. mirò in primo luogo all'eloquenza. Nonostante che da tempo le grandi forze della vita pubblica fossero, accanto al fascino della tradizione famigliare e della nobiltà, la spada e il danaro, l'eloquenza rimaneva sempre un mezzo efficace per farsi valere. Nelle antiche casate l'eloquenza fioriva da secoli come in terreno suo. E qui più ancora che in altre forme letterarie da lui trattate, noi troviamo C. a perseguire idealità politiche. Non aveva del tutto compiuto la sua formazione di oratore, e già nel 77 - non nel 79, come si legge 1fel testo, probabilmente corrotto, del Dialogo degli oratori di Tacito - accusa Cn. Cornelio Dolabella di concussione nel governo della provincia di Macedonia, che questi, il caldo fautore e sostenitore di Silla, aveva ottenuto di seguito al consolato dell'81. Il giovane parente di Mario, il giovanissimo sposo della figlia di Cinna, si allacciava, così, all'agone politico. Dolabella fu assolto; ma l'orazione di C. fu letta poi con ammirazione (Tac., Dial., 34) e l'oratore ebbe nome fin d'allora di principe nell'eloquenza (Suet., Iul., 55). Molte città greche, narra Plutarco, avevan fornito iestimoni contro l'accusato; e C. per dimostrar gratitudine alla buona volontà loro, sorge nel medesimo anno a sostenere un'altra lotta, a pro' di esse e contro M. Antonio, quello che sarà collega di Cicerone nel consolato, il quale a capo della cavalleria di Silla aveva fatto incursioni e depredato in Grecia. Legatissimo anch'egli a Silla, si era arricchito con le sue proscrizioni ed era comparso nell'83 auriga del suo trionfo. Contro di lui si levò C. con tanta eloquenza che "Antonio, sotto pretesto di non poter in Grecia ottener giustizia contro i Greci, si appellò ai tribuni" (Plut., Caes., 4). Così le grazie e la forza dell'eloquio furono al giovane patrizio valido strumento di favore tra il popolo di Roma e della Grecia, e una delle vie per le quali dapprincipio emerse la sua personalitâ.
Come Cicerone, egli ebbe la ventura di poter affinare le sue qualità di oratore sotto la guida del celebre Apollonio Molone a Rodi, dove andò nell'inverno del 76 e si trattenne circa un anno. Che di là tornasse, come Cicerone un anno avanti, prope mutatus, non è probabile: la sua natura, gli esenpî che aveva in famiglia lo tennero certamente fin da principio lontano da quella esuberanza ch'è propria del Cicerone della prima maniera. Purtroppo di C. non ci è dato conoscere direttamente, se non attraverso un paio di brevissimi saggi, né l'eloquenza giovanile né quella della maturità; non si hanno che notizie di orazioni, tutte di carattere o dí mire politiche, compresa quella in morte della zia Giulia, la vedova di Mario: la popolarità e l'amore delle folle, questo il loro scopo ultimo: però i suoi gusti s'incontrarono, è facile indovinarlo, con le tendenze di Apollonio, se non altro in questo, di rifuggire in tutto dalla tumidezza asiatica. Cicerone parla dei Rodî, e cioè sostanzialmente di Apollonio, di fronte agli Asiani, come di saniores et Atticorum similiores (Brut., 51), e Quintiliano (XII, 10, 18) li designa neque attice pressi neque asiane abundantes. Fu detto che C. debba assenarsi all'indirizzo atticista; ma il Tero è ch'egli fece parte per sé stesso. Non era spirito da legarsi a scuole, e tanto meno in un campo delle lettere, nel quale, a giudizio concorde degli antichi, portava doti eccezionali. Anche nei Commentarii non è proprio la stringatezza qualità precipua di C.: la concisione non è mai a scapito della chiarezza, e viceversa, perché il pensiero riesca lucido, non si rifugge dall'abbondanza. E fu giustamente osservato che Cicerone non avrebbe portato alle stelle un oratore atticista, come fa di C. nel Brutus, e che nemmeno la caratteristica ch'egli ne dà indica un seguace dell'atticismo. L'elegantia verborum fu indubbiamente uno dei punti più personali e proprio caratteristici di C.; l'urbanità, la signorilita delle espressioni e dei modi vengono dall'intimo della sua natura, né vi è alcuno che gli possa contendere il primo posto in codest'abito tra i prosatori romani.
Ed ecco il teorico della lingua, sulle orme di Antonio Gnifone. La schietta eleganza è agli antipodi di ogni ricercatezza del nuovo o del peregrino. Il trattato De analogia, che C. scrisse ancora in una pausa di guerra passando le Alpi di ritorno in Gallia, forse nel 54 o nel 52, e dedicò a Cicerone, padre della lingua letteraria, insegnava due massime fondamentali che ci sono rimaste: e cioè che la scelta delle parole è il principio d'ogni eloquenza, e che voci insolite e inaudite si vogliono evitare siccome scogli. Dunque, oratio bene latina, non già sfigurata da vocaboli stranieri o da volgarismi o da íorme meno corrette. Così C. si fa regolatore del linguaggio. Principio suo basilare e metodo d'indagine era la ratio, l'analogia degli Alessandrini nella flessione e nella derivazione delle parole: tra il variare delle forme egli sceglieva le razionali, rigettava quelle che uscivano dalla logica specialmente del paradigma, ma anche della derivazione. Così non fluivius né annis, ma flumen egli voleva, in conformità di numen, acumen, ecc.; absque no, perché non conosceva preposizioni composte con que; mortuus non lo trovava regolare, avrebbe dovuto essere mortus, perché ci sono sostantivi in -uus, non però participî; non approvava con altri teorici della grammatica lact, bensì lac, perché non v'è nome finito in due mute; esigeva nanctus, non nactus, quantunque codesta doppia varietà esista nei verbi tra forma fondamentale e participiale, perché nella oscillazione la logica del paradigma sta per nanctus. Teoricamente andava anche più in là: si dice Iuno, Iunonis, e perché non anche Calipso, Calipsonis alla maniera degli antichi? E perchè non turbo, turbonis, se Carbo, Carbonis? E tirò fuori un participio ens da sum, es sul modello di potens da possum, potes. Questo estremo analogismo del ragionatore in base a leggi organiche del linguaggio trovava un freno nel buon gusto a cui si riduce il principio già detto del tamquam scopulum sic fugias inauditum atque insolens verbum: entro codesti limiti non avrà egli scritto diversamente da quello che insegnò.
Ancora un'opera che mira a mettere ordine nel disordine e rivela la solida mente pratica di Cesare è l'astronomica, citata da più parti col titolo De astris, della quale tuttavia oggi si dubita se fosse composta direttamente da lui o se piuttosto, come taciuta da Svetonio, egli ne promovesse soltanto la composizione. All'ingegno di C. non disdice di certo, né agl'interessi del dittatore e del pontefice che ridiede la sua giusta misura al calendario con la riforma del 46 a. C. (v. calendario, p. 399)
Nel bel mezzo delle lotte politiche ci riconduceva, dopo l'eloquenza, l'Anticato, pur troppo perduto, tranne qualche frammento: diciamo Anticato, non Anticatones, perché da Svetonio sembra risultar chiaro che d'una sola opera si trattò, in due libri. La quale era in forma di finta orazione giudiziaria, un'accusa come dinnanzi a giudici, in risposta al panegirico che Cicerone aveva fatto di Catone morto. C. dové sentirsi offeso di codesta esaltazione, se non proprio d'un eroe della perduta libertà, ché i tempi non lo consentivano, d'un eroe della virtù; dové sentire il pericolo in questo crearsi d'un'aureola leggendaria attorno alla figura del capo repubblicano; né era isolata la celebrazione di Cicerone in favore dell'uomo non rassegnato a sopravvivere alla rovina dei suoi ideali.
L'Anticato doveva essere un libro di sovrano interesse: l'urto di due corifei. C. scriveva anche questa volta fra l'incalzar degli eventi, attorno alla battaglia di Munda, e tuttavia trovava modo, ora che reagiva contro un dominatore delle lettere quale Cicerone, di misurarsi con lui anche nei segreti dello stile letterario, come ci mostrano certe movenze a lui insolite d'un frammento conservatoci da Plinio il G. (III, 12). La grazia leggiera, lo spirito di superiorità, con cui C. si muoveva contro Catone e il suo panegirista non escludeva il sarcasmo, che pur s'indovina di tra le poche notizie giunteci. Coll'affermarsi di lì a poco del culto di Catone, l'Anticato doveva cadere in disfavore e scomparve.
Non così totalmente sfortunati siamo riguardo all'epistolario perdute le raccolte che di esso furono fatte dopo la morte di C., ci restano almeno alcuni saggi nella collezione delle lettere ciceroniane. Dappertutto brevità, limpidezza, concisione; modello unico di lettera, a dire grandi cose con tre sole parole, è quella diretta ad Amanzio suo amico dopo la disfatta di Farnace: veni, vidi, vici. Le epistole ai confidenti su faccende di famiglia avevano in parte caratteri segreti, in questo modo che la quarta lettera dell'alfabeto stava per la prima, e così via per ordine. Se ogni cosa scomparsa di C. è estremamente da lamentare, dal lato politico però forse più che tutto fu grave la perdita proprio delle lettere, nelle quali si devono comprendere anche le relazioni al senato del generale delle Gallie, attestateci come esistenti tuttora al tempo suo da Svetonio: se edite o no, egli non dice, né possiamo dir noi con certezza.
Ed eccoci ai Commentarii. Le relazioni annue al Senato cui ora accennavamo son ricordate tre volte nel Bellum Gallicum (II, IV, VII) e si sa da Svetonio che furono scritte in forma diversa dai soliti rapporti militari, e precisamente a guisa di liber memorialis o di ὑπόμνημα: il che vuol dire ch'erano estese e circostanziate, e fornivano di conseguenza a C., quando compose i Commentarii della Gallia, il grosso del materiale per il fondo della sua esposizione. Insieme, C. aveva alla mano gli atti ufficiali che gli spettava di stendere come governatore di provincia. Di qui s'intende la rapidità con cui C. poté dettarli, anche questa volta in mezzo alle più gravi cure - perfecit celeriter, attesta Irzio al principio dell'VIII libro del Bellum Gallicum - probabilmente nell'inverno del 52-51, certo non prima che scoppiasse il conflitto con Pompeo, come risulta ivi stesso dal libro VII, 6, 1, e certo altresì tutti d'un fiato, checché si sia voluto sostenere in contrario. Il travasamento degli atti militari o diarî di guerra in libro di memorie permise a C. di compiere opera vasta in breve giro di tempo. Questa intima unione fra storia di guerra stesa in atti ufficiali da un capitano o da un sovrano e memorie militari è troppo naturale e vigeva da tempo, già prima di C., in Grecia e in Roma. Per C. stesso possiamo confrontare i ragguagli da lui schizzati sulle operazioni bellichc di Brindisi, direttamente riferitici nelle lettere ciceroniane ad Attico (IX, 13 e 14), con la sua narrazione nel I libro del Bellum Civile. Le Memorie in genere, come forma letteraria, hanno una tradizione assai più antica che l'età immediatamente susseguente ad Alessandro. Due caratteri le contraddistinguono: la tendenza apologetica e l'atteggiamento non letterario, per cui si dànno come raccolta di materiale per essere trattata da storici e da poeti.
Entrambi i caratteri non sono certamente estranei del tutto a C. Che egli abbia inteso fra l'altro di dar materiale agli storici, ci è attestato autorevolmente da Cicerone e da Irzio, quantunque codesto intendimento sia più da tenere nell'ombra rispetto ad altri che predominano; lo scopo apologetico è troppo naturale in tempi di lotta e di rivoluzione, perché possa esserne negata l'esistenza. Bisogna non dimenticare quale tempesta di passioni politiche si scatenò attorno al console del 59, al conquistatore delle Gallie, all'emulo di Pompeo. Son noti gli epigrammi di Catullo subito al primo delinearsi del prepotere di C. L'aristocrazia presentiva dove s'andava: quindi, con gli oltraggi e le calunnie, l'aperta ostilità in senato, e le accuse d'ingiusta provocazione fatta ai popoli di Gallia e di Germania, fino alla proposta stessa di dare il conquistatore in mano alle popolazioni violentate. E più aspri dovevano riuscire gli attacchi dell'opposizione repubblicana, allorché scoppiò la lotta fra C. e Pompeo. Quindi il sorgere dei Commentarii gallici e civili: questi ultimi opera postuma del generale già vittorioso (III, 57, 5; 60, 4) in Africa (Fowler, Class. Philology, III, 1908, p. 129), e rimasta limitata ai primi due anni di lotta, il 49 e 48.
Riserve sulla verità storica s'impongono indubbiamente, e più per il De bello civili: a C. necessitava innanzi tutto di mettere in luce la legittimità del proprio agire. Questa è una preoccupazione che qua e là trapela nei Commentarii, e, per la guerra civile, è tanto più comprensibile, in quanto di fronte all'opera di C. c'erano tutti i panegirici scritti da Greci e Latini a gloria del suo avversario, e c'era un'intera letteratura intessuta di odî e di passioni; e dopo tanto sangue bisognava pur farsi intendere e farsi perdonare. Fu primo Asinio Pollione a rinfacciare a C. la poca sincerità storica: egli avrebbe creduto troppo leggermente ai racconti delle cose operate da altri, e quelle che da sé operò narrerebbe infedelmente, o a disegno o per error di memoria; onde, secondo lui, C. avrebbe volontieri ridettato e corretto la sua esposizione. Così attraverso i secoli è stato un continuo accusare o difendere; oggi si tende a reagire contro gli eccessi, che non furono pochi, dei detrattori. Che C. scriva da uomo politico, è chiaro: è nella sua natura e anche nel suo interesse. Controllare, almeno la fede storica del Bellum Gallicum, non si può; ci manca una fonte parallela indipendente. I Commentarii di C. han dominato qui la tradizione: Timagene, Nicola Damasceno, Orosio, Livio stesso e Cassio Dione (E. Schwartz, in Pauly-Wissova, Real-Encycl., III, col. 1706). Non c'è che attenersi alla critica obiettiva della narrazione cesariana. Ma sarebbe un fraintendere il voler abbassare con la critica l'opera e lo spirito di C. al livello della comune degli uomini. C. non aveva bisogno di deformare il fondo delle cose, per giustificarsi e farsi ammirare: esse avevano abbastanza eloquenza da sé nella forza schiacciante dei risultati. Un atteggiamento o un'ombra di posa, che riveli la menzogna, non c'è mai: c'è in ogni pagina il timbro dell'anima. E, sempre per il Bellum Gallicum, è difficile pensare a mutazioni sostanziali di fronte ai rapporti di anno in anno da C. mandati a Roma: nonostante le aggiunte e i tagli, l'autore delle Memorie non poteva essere in contraddizione con sé stesso relatore al senato. E dice poi bene il Gundolf per entrambi i Commentarii (Caesar, Berlino 1925, p. 9): "le piccole mariolerie non sono d'un grand'uomo...; come un C. o un Napoleone vuol apparire, così vede sé stesso". In entrambe le Memorie c'è la coscienza delle grandi imprese compiute. C. contempla, quando scrive, la realtà da lui creata per un avvenire che rimarrà; da questa altezza di visione rivive i fatti e li plasma. Pretendere da documenti autobiografici la verità esatta e precisa d'ogni singolo evento, così come si svolse, sarebbe forse ingenuo, anche per uno spirito di questa tempra; ci saranno lacune e inesattezze di memoria o d'informazione, ma voler mettere in dubbio, per esempio, la veridicità della spiegazione da C. data del suo primo passo verso la conquista, l'invasione cioè degli Elvezî in Gallia, è arbitrario atteggiamento da ipercritico. H. Delbrück nella sua Geschichte der Kriegskunst (I, 2ª ediz., 1908) ha fatto su C. buone osservazioni e plausíbili riserve in altro campo, ma qui ha torto (cfr. A. Klotz, in Neue Jahrbücher, 1915, p. 609). C., movendo contro un dilagare di popoli dall'Oriente addosso alla Gallia - più su degli Elvezî minacciava Ariovisto, e sul basso Reno gli Usipeti e i Tencteri -, raccoglieva l'eredità di Mario, il salvatore della Gallia romana e dell'Italia dalle invasioni nordiche. Di qui le successive tappe sempre più allargantisi della conquista: C. sentì che ai popoli di là del Reno bisognava mostrare sul fiume il vigile occhio di Roma, e mantenersi sul Reno, tra le genti sottomesse con la forza, voleva dire assoggettare ampiamente: l'offesa era l'unica arma sicura ed efficace per la difesa. Cause di carattere vario - necessità pratiche di vita, affinità etniche, pressioni di stirpi vicine - spiegano via via nel racconto gl'impulsi all'azione.
Possibilità migliori di controllo esistono per i Commentarii della guerra civile, particolarmente nelle lettere di Cicerone: s'intende che qui C. mirava ad apparir tal uomo che tutto avesse fatto per non rompere la pace, e costì Cicerone non poteva accordarsi con lui e dargli ragione. Neppure i fatti, certamente, Cicerone è là a confermarli sempre come C. li espone; ma alterazioni grossolane vi si cercano invano, né si discopre in C. la maschera del democratico. Nell'interpretare i fatti stessi e le intenzioni, va da sé che i due sono agli antipodi. Ma la tradizione storica, pure qui, dipende molto per via diretta o indiretta da C. Lo Schwartz, nel luogo già citato, afferma che le aggiunte fatte a C. da Livio e da Asinio Pollione son da relegare generalmente nel dominio del romanzo storico; egli nota espressamente che il confronto della narrazione liviana su Farsaglia, quale almeno si può ricostruire, con l'originale cesariano è fatto apposta per ridurre al minimo eventuali illusioni sopra una tradizione parallela ai Commentarii.
Strumento di azione politica, comunque, son le Memorie di C. del pari e più che ogni altro scritto suo: non opera di letteratura. Il titolo di commentarii, che se non dai codici ci è attestato dagli scrittori, è significativo; vale semplicemente promemoria.
Dunque, lavoro senza pretese letterarie, ma che diventa letteratura, e insuperabile modello del genere, come prodotto del genio e d'un uomo di cultura altissima: la più vigorosa e la più immediata espressione, nella forma oggettiva della terza persona, d'una individualità nel mondo antico. Cicerone, da quell'artista che era sentì e fece sentire come nessun altro l'eccellenza di questi promemoria (Brut., 262) e il suo giudizio è ribadito da Irzio al principio dell'VIII libro del Bellum Gallicum. Non tale bensì fu sempre il giudizio degli uomini. L'opera di C. andò in antico ben presto confusa con supplementi di altri, e, se pur non rimase ignorata agli storici per necessità di cose, poco interessò; e Orosio attribuì il Bellum Gallicum a Svetonio, e uno scoliasta di Lucano a Giulio Celso Costantino, che fu recensore di C. forse nel sec. IV, entrambi per errore. E la paternità di Svetonio, passata anche in codici di età rispettabile, ebbe nuovi sostenitori dopo il Medioevo; né mancarono giudizî severi sullo stile e il dire dei Commentarii da Giusto Lipsio e dal Bayle in poi, e ci fu perfino chi volle credere spurio il Bellum Civile, mentre altri nel secolo passato cominciò a lavorare largamente su teorie d'interpolazione: di che qualcuna sarà innegabile, in minor misura però di quanto pur buoni conoscitori di C. oggi stesso ritengano. Di fronte alle critiche sta l'ammirazione di uomini come Montaigne, Giovanni v. Müller, Napoleone, Mommsen, e stanno insomma, documento lapidario, le pagine di C. Egli non ha bellezze che diano negli occhi. Non è lo storico dei quadri pittoreschi o dell'impostazione drammatica: un moto di passione non si tradisce in lui. Tra l'incalzare travolgente di fatti, che segnano una nuova era nella storia degli uomini, egli, l'artiere e creatore, è sempre là olimpicamente impassibile, nella sua epica semplicità, nella superiore serenità dell'uomo a cui l'abito del grande sta come suo: ha un'aria, dice il Gundolf, che sembra sorridere della nostra meraviglia; ha una chiarità luminosa, dice il Mommsen, una grazia semplice che nella letteratura sono un fatto unico, come C. nella storia. Qualche critico, a spiegar questo stile, richiama l'esemplare dei rapporti di guerra ellenistici, quali per esempio riecheggiano in Arriano. Il confronto è utile certamente, ma perché meglio sia rivelata nella differenza l'essenza intima di questa maniera la quale non è nulla di già foggiato, se non nelle apparenze esteriori, né è frutto di elezione: è prodotto di natura. Qui son riflesse le qualità più schiette del romanesimo, la dignità, la forza, la gioia dell'azione, l'assenza d'ogni sentimentalismo: ma c'è anche in più la trasparenza luminosa del genio, una pacata bellezza senza fulgori, una purezza di linguaggio che supera ogni altra in Roma, l'anima stessa del guerriero e del conquistatore, la rapidità come di chi non abbia tempo da perdere, la semplicità aristocratica ch'è propria di chi è nato a dominare: e il tutto è soffiuso da un senso di venustà e di grazia che costituisce un fascino dei più singolari.
I due volumi di C. lasciavano spazî vuoti nella trama degli eventi, che dal principio della guerra gallica conducevano alla dittatura dell'uomo su Roma e sul mondo. Il Bellum Gallicum dava in sette libri altrettanti anni di guerra, dal 58 al 52, e cioè: 1. spedizione contro gli Elvezî e lo stesso Ariovisto; 2. assoggettamento dei Belgi; 3. conquista del litorale atlantico e dell'Aquitania; 4. annientamento dei Germani irrompenti oltre il basso Reno; puntata oltre i confini orientali e nordici della Gallia in Germania, nel territorio dei Sigambri, e in Britannia; 5. ritorno in Britannia, spirito di ribellione in Gallia, rivolta degli Eburoni; 6. nuova puntata in Germania e devastazione degli Eburoni; 7. rivolta generale dei Galli, lotta epica e vittoria definitiva di C. Il Bellum Civile narrava in tre libri il volo dell'aquila cesarea dal 49 al 48, dal Rubicone a Brindisi, e poi in Spagna e in Africa, da Durazzo a Farsaglia, e infine ad Alessandria. Ufficiali di C. completarono l'opera del loro capo, senza che si possa dire dopo il lungo lavorio dei critici chi essi siano, tranne l'autore del supplemento del Bellum Gallicum dell'VIII libro, il narratore cioè dell'ultimo periodo gallico di C., degli anni 51-50; esso è Aulo Irzio, colui che, console nel 43, morirà nella battaglia di Modena col collega Pansa. Ed egli si sforza di seguire nello scrivere la maniera del maestro; né lontano da lui è l'autore del Bellum Alexandrinum che da qualcuno con lui si vuole identificare. Invece il Bellum Africum e l'Hispaniense sembrano provenire da uomini di cultura inferiore: lingua e stile si discostano di troppo da quelli degli altri supplementi. Il problema come sorgesse il corpus Caesarianum, quanto esso comprenda dell'opera di Irzio, che nel proemio al libro VIII del Bellum Gallicum dichiara l'intenzione di colmare la lacuna da C. lasciata coi due Commentarii, è senza soluzione coi mezzi che abbiamo: nemmeno si può dire se il Bellum Alexandrinum sia un resto dell'attività letteraria di Irzio, o se egli si fermasse al Bellum Gallicum per la sopravvenuta sua morte. E c'è chi riconnette con la composizione del corpus qualche rifacimento o ampliamento dell'opera stessa di C., come le digressioni etnografiche, a eccezione di quella sul carattere dei Galli e dei Germani al libro VI, 11-28.
Su quest'ultimo punto, malgrado certe particolarità linguistiche, giova essere prudenti (v. Chr. Ebert, in Göttinger Anzeiger, 1912, p. 283): quanto al resto, il Bellum Alexandrinum stilisticamente non disdice punto a Irzio, né tratta solo la guerra di Alessandria, ma è una continuazione del Bellum Civile di C., così come testimonia d'averla scritta Irzio nel proemio or detto; e cioè, riallacciandosi con la fine del Bellum Civile, espone gli avvenimenti del 47 fino all'autunno e al ritorno di C. in Roma. Motivi d'arte escludono che a Irzio invece si possano attribuire il Bellum Africum e l'Hispaniense, né Irzio fu testimone oculare della guerra d'Africa, mentre lo furono i narratori di entrambe le spedizioni. La critica si è affaticata invano fin dall'antichità a rintracciare gli autori di questi supplementi. C. Oppio, il biografo di C., al quale e ad Irzio insieme già pensarono gli antichi, non potrebbe essere, se mai, preso in considerazione che per il Bellum Alexandrinum: gli altri due libri sono indegni della sua cultura, né egli prese parte alle guerre d'Africa e di Spagna. Per il Bellum Africum, oggi merita appena ricordarlo, fu fatto in Germania il nome di Asinio Pollione.
Fonti ed edizioni: Fonti principali per le opere perdute sono Svetonio e Plutarco nelle biografie di Cesare; cfr. H. Peter, Die Quellen des Plutarch, Halle 1865, p. 119 segg. La tradizione manoscritta dei Commentarii è abbastanza ricca, o che essa li porti sotto il vero nome o sotto quello di Giulio Celso, l'editore di Cesare, o di Svetonio. Si divide in due classi, di cui una comprende gli otto libri del Bellum Gallicum, l'altra porta tutto il corpus cesariano. Sul valore delle due classi, la cui formazione è già avvenuta prima di Orosio, si è discusso molto dal Nipperdey e dal Mommsen in poi, giacché il testo del Bellum Gallicum differisce variamente nelle due classi, e le idee di codesti due dotti sulla superiorità di quella disegnata con a) si son venute cambiando: oggi sono considerevoli, pur non essendo definitivi, gli studî di A. Klotz.
Edizione principe, Roma 1469; quindi le edizioni di I. Lipsius (Anversa 1585), I. Scaligero (Leida 1606), I. Davisius (Cambridge 1706 e 1727), I. G. Graevius (Leida 1713), F. Oudendorp (Leida 1737 e Stoccarda 1822), C. Nipperdey (Lipsia 1847, con le Quaestiones Caesarianae), B. Dinter (Lipsia 1884-88), B. Kübler (Lipsia 1893-97 coi frammenti). Tutto il corpus ora è recensito da A. Klotz (Lipsia 1921-27). Edizione del Bellum C. e del Bellum G., H. Meusel (Berlino 1906 e 1913-20); d'interpretazioni scolastiche sono buone da noi, fra le altre, quelle del Ramorino e del Giri (Bell. Gall.). Edizione con commento del Bellum Alexandrinum, R. Schneider (Berlino 1888); del Bellum Africum, E. Wölfflin e A. Miodoński (Lipsia 1889), R. Schneider (Berlino 1905); per il Bellum Hispaniense, cfr. A. Klotz, Commentar zum B. H., Lipsia 1927, con una trattazione storica e topografica del generale Lammerer.
Frammenti delle opere perdute in Kübler, III, p. 133 segg.; delle orazioni anche in H. Meyer, Oratorum romanorum fragmenta, Zurigo 1842, p. 404 segg.; delle poesie in W. Morel, Fragmenta poetarum latinorum, Lipsia 1927, p. 91; del De analogia in H. Funaioli, Grammaticae romanae fragmenta, Lipsia 1907, 143 segg.
Bibl.: Ricordiamo, o aggiungiamo qui in generale, opere che si segnalano per icasticità di giudizî o novità di ricerche: Th. Mommsen, Römische Geschichte, III, Berlino 1922, pp. 566, 579 seg., 615 seg.; A. Klotz, Caesarstudien, Lipsia 1910; E.G. Sihler, Caesar, Lipsia 1912, p. 228 segg.; M. I. Martha, in Revue des cours et conférécences, s. 1ª, XXII (1913-14), 1-2, passim; C. Marchesi, Storia della letteratura latina, I, Messina 1925, p. 279 segg. In particolare: sull'Anticato, A. Dyroff, in Rheinisches Museum, L (1895), p. 586 segg.; R. von Pöhlmann, Aus Altertum und Gegenwart, n. s., Monaco 1911, p. 184 segg.; O. E. Schmid, in Neue Jahrbücher für das klassische Altertum, VII (1901), p. 620 segg. Sui Commentarii, Napoléon I, Précis des guerres de César, Parigi 1835; Napoléon III, Histoire de J. C., Parigi 1865 seg.; T. Rice Holmes, Caesar's Conquest of Gaul, Oxford 1911, p. 201 segg.; H. Delbrück, op. cit., passim; Sihler, op. cit., p. 226 segg.; E. Norden, Germanische Urgeschichte in Tacitus' Germania, Lipsia 1920, passim; A. Rosenberg, Einleitung und Quellenkunde zur römischen Geschichte, Berlino 1921, p. 89 segg.; J. Ziehen, in Berichte des freien deutschen Hochstifts, n. s., XVII (1901), p. 96 segg. (sulla veridicità); A. Kappelmacher, in Wiener Blätter f. d. altsprachlichen Unterricht, I (1922), p. 2 segg.; E. Stoffel, Histoire de Jules César, Guerre civile, Parigi 1887 (con 24 carte).
Sulla lingua e lo stile: H. Meusel, Beiträge zur Kritik von Caesars Bell. Gall., Berlino 1894; R. Frese, Beiträge zur Beurteilung der Sprache Cäsars, Monaco 1900; J. Lebreton, Caesariana syntaxis, Parigi 1901; E. Norden, Kunstprosa, I, Lipsia 1909, pp. 209 segg.; O. Weise, Charakt. der lat. Sprache, Lipsia 1909, p. 143 segg. Lessici cesariani: H. Merguet, Jena 1884 segg.; M. Meusel, Berlino 1887-1893; S. Preuss, Erlangen 1884 (supplementi cesariani).
Cesare nella tradizione e nella leggenda.
Troppo complessi e varî i sentimenti e i pensieri che al nome di Cesare si ricollegavano, perché la tradizione non fosse indotta a fermarsi ora sugli uni, ora sugli altri. C'era, da una parte, la personalità stessa di C., l'uomo, storicamente determinato; dall'altra, il fondatore dell'impero, che perdeva quasi le sue caratteristiche personali, per divenire simbolo dell'impero stesso, anzi, più ancora, di un'idea, dell'idea romana. Trasformazione in simbolo di una persona storica alla quale contribuì anche il fatto che i primi imperatori, Augusto e Tiberio particolarmente, assunsero come nome personale quello di Cesare, allargandone così ancora la risonanza; ma soprattutto forse la celeberrima frase del Vangelo, connessa d'altronde proprio col fatto dell'assunzione del nome di Cesare da parte di Tiberio: "Date a Cesare quel ch'è di Cesare e a Dio quel ch'è di Dio": dove Cesare raffiggurava lo stato terrestre, senza più riferimento alla persona che quel nome aveva glorificato.
E fu precisamente come nome-simbolo che C. cominciò a vivere ia sua lunga vita nelle tradizioni dei popoli romano-germanici. Non è che, dopo la restaurazione dell'impero in Occidente, il nome Cesare significasse senz'altro ufficialmente la carica imperiale, la quale invece veniva designata in massima con imperator, o imperator augustus. Solo più tardi troveremo il nome Cesare come titolo designante l'ufficio: "Cesare fui e son Giustiniano..." (Dante, Paradiso, VI, 10), con una curiosa inversione di rango, anteponendo cioè il titolo di Cesare a quello di Augusto, ch'era stato il vero titolo, proprio del supremo reggitore (v. sopra). Della quale inversione di titoli fu forse determinante quel contrasto fra Chiesa e Stato, fra città di Dio e città terrena, per cui ritornava nelle coscienze la frase del Vangelo, con nuova forza: come la Chiesa trovava la sua personificazione nel papa, così lo Stato la trovò nel nome del fondatore dell'Impero; e Cesare divenne sinonimo di supremo reggitore politico (si veda, per es., già in un carme di Leone da Vercelli, del 998, in onore di Gregorio V e con riferimento a Ottone III: "gaude papa, gaude caesar... Sub caesaris potentia purgat papa saecula...").
Ma anche quando una simile equiparazione non viene fatta, nell'alto Medioevo, già il nome di Cesare appare come simbolo della forza creatrice, della capacità di conquista di Roma. La tradizione viene, in questo, alimentata da molteplici correnti: locali, di città e luoghi che nel loro stesso nome ricordavano il grande romano; letterarie, che trovavano a lor volta sicura base nella letteratura dei Commentarii da una parte, e dell'Eneide dall'altra Ma poiché la personalità stessa di Cesare sfugge, poiché dietro al nome-simholo non c'è che un'ombra, priva di carne, ecco la fantasia lavorare a capriccio e trasformare il suo mito in questa o in quella guisa: sì che Cesare apparirà nei romanzi cavallereschi, alla stessa guisa di Alessandro, anch'esso nome-simbolo, travestito nei panni di un cavaliere-eroe medievale. Ed egli entra allora nelle varie leggende e viene cantato in poemi francesi e franco-italiani, nelle saghe germaniche.
Sennonché dal sec. XIII cominciò ad avverarsi una lenta trasformazione nel modo di giudicare Cesare. Egli rimaneva ancora nome-simbolo, anche se talora un fuggevole tocco d'artista cercasse di ridargli certa fattezza concreta (il dantesco "Cesare armato, con gli occhi grifagni..."); ma non era più solo: a lui non più considerato solo come fondatore dell'Impero, ma anche come distruttore della Repubblica romana, veniva contrapposto un altro, secondo simbolo (simbolo, questo, della Repubblica): Catone. E ne derivava un confronto tra la gloria di Cesare e la virtù di Catone, alimentantesi da una parte di Lucano in special modo, ma nutrito dall'altra di spirito agostiniano, e tutto pieno della distinzione fra cielo e terra, fra virtù e peccato. Il victrix causa Diis placuit, sed victa Catoni, entra a far parte della tradizione di Cesare, già con Giovanni di Salisbury. Anche in Dante il contrasto c'è; e non solo Catone viene esaltato (Purgat., I), ma, quel che non è meno notevole, l'imperatore giusto non è più Cesare, ma Traiano, l'unico dei Cesari assunto nella gloria del Signore.
Col Rinascimento, nel decadere dell'idea imperiale, nel crescente entusiasmo letterario non per Roma-impero, ma per Roma-repubblica, la nuova sorte di C. è decisa. Cesare non riassume più, in sé, la romanità tutta quanta; ma solo quella romanità impostasi con la violenza all'altra, alla vecchia romanità repubblicana di Livio e di Cicerone, di Scipione e di Pompeo. Di fronte a lui, l'idea della libera Roma, rappresentata ormai, più che da Catone, da Bruto. Il contrasto Bruto-Cesare domina la mente degli umanisti; trapassa nella pubblicistica, quasi nella vita di ogni giorno - dal momento che i cospiratori contro i signori, Olgiati e Boscoli, vogliono riallacciarsi a Bruto. Svanita ormai l'aureola mistica del Medioevo, spezzata l'identità fra lui e Roma, Cesare rimaneva dunque soprattutto come conquistatore e creatore di impero. Il Cesare che il duca Valentino sognava di essere.
E quale grand conquérant egli doveva apparire ancora nell'età dell'illuminismo: era anzi, con Alessandro, il tipo del conquistatore, tipo naturalmente astratto, razionalizzato, e, date le idee del tempo, tipo di gente non benefica all'umanità. Perché dal nome-simbolo e dal tipo astratto si passasse alla persona concreta, occorse attendere l'Ottocento: quando, portato fuori della leggenda, Cesare poté finalmente riacquistare una sua propria vita, rimpolparsi di carne e di ossa.
Bibl.: Appositamente dedicata alla fortuna di C. è l'opera, suggestiva e di ampia prospettiva, di F. Gundolf, Caesar. Geschichte seines Ruhms, voll. 2, Berlino 1925-26. Notizie si trovano naturalmente sparse in moltissime opere. Ci limitiamo qui a ricordare: A. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medioevo, Torino 1914; P. E. Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio, voll. 2, Lipsia 1929. Per i derivati (kaiser, zar), v. B. Migliorini, Dal nome proprio al nome comune, Ginevra 1927.
Il titolo di Cesare e di Augusto nella nomenclatura imperiale.
Il cognome Caesar passò ad Ottavio, quando questi, adottato da Cesare per testamento, assunse il nome di C. Iulius Caesar Octavianus. Una volta fondato il principato, questo cognome fu assunto prima da tutti i discendenti agnatizî di Augusto e poi, quando con Caligola si estinse la famiglia Giulia, da Claudio, divenendo da questo momento titolo distintivo della casa regnante, sì da passare da una dinastia all'altra, cosi in persona dei fondatori come, fino ad Adriano, in persona di ogni loro discendente agnatizio, con l'unica eccezione di Vitellio che rifiutò tale titolo. Dei discendenti anzi fu titolo così proprio che non manca mai nella loro titolatura abbreviata. Ma quando Adriano adottò L. Elio, e poi, morto questo, il futuro imperatore Antonino Pio, egli volle limitare il nome di Cesare prima all'uno e poi all'altro senza estenderlo ai loro figli, sicché da questo momento Cesare fu usato esclusivamente come titolo di colui o di coloro che erano designati alla successione al trono, e non più come cognome di tutti i discendenti agnatizî dell'imperatore. Il conferimento del titolo spettava all'imperatore, sebbene questi riconoscesse al Senato la facoltà di proporlo e ne chiedesse il concorso in caso di abrogazione (Hist. Aug., Vita Pert., 6; Vita Helag., 13), ma con esso titolo, che poteva anche esser dato a minorenni, non si accompagnava il diritto ad alcun potere politico. Se alcuni Cesari furono coreggenti, furono tali non già in forza del titolo, ma in forza di un imperium proconsulare e di una tribunicia potestas secondaria. Con la qualità di Cesari era invece congiunto soltanto il diritto a certi onori, come quello di esser preceduto per la via da fiaccole, e di vestire, forse, la porpora, diversa però da quella dell'imperatore; e nel caso in cui il Cesare avesse avuto l'età necessaria, soleva ottenere il consolato col primo gennaio successivo alla sua nomina; indipendentemente invece dall'età veniva cooptato nei grandi collegi sacerdotali, e, prerogativa più importante di ogni altra, aveva il diritto di porre la propria immagine sulle monete; ma è da rilevarsi, col Mommsen, che è difficile in fatto di prerogative onorarie distinguere nettamente tra quelle derivanti dalla qualità di Cesari e quelle derivanti dalla qualità di coreggenti. Quanto al posto del nome Caesar nella nomenclatura imperiale, la regola è questa: fino ad Adriano esso (non senza però qualche eccezione) appare in testa ai cognomi, e cioè, quando si tratti d'imperatori, per quelli che non usarono il gentilizio, e furono i più, subito dopo il prenome, e per quelli che l'usarono, dopo il gentilizio; dopo Adriano invece il nome Caesar in persona degl'imperatori passa al secondo posto della nomenclatura, cioè dopo il titolo Imp. e prima del gentilizio, da allora in poi generalmente usato. In persona invece dei principi designati alla successione esso appare dopo tutti gli altri elementi del nome proprio. Esempio: Marco Aurelio, come destinato alla successione è M. Aelius Aurelius Verus Caesar, come imperatore è Imp. Caesar M. Aurelius Antoninus Augustus. A partire da Geta il nome di Caesar si accompagna spesso per i designati alla successione con l'attributo di nobilissimus. Dal fin qui detto risulta che, se in persona degl'imperatori il nome di Cesare è costantemente usato, non è però distintivo né esclusivo né preponderante della loro carica.
Designazione invece più propria ed espressiva della dignità imperiale che non sia il titolo di Cesare è quello di Augusto, sebbene nemmeno esso abbia vero e proprio carattere di denotazione giuridica di un particolare potere dello stato. Questo titolo fu conferito a Ottaviano dal senato, con approvazione del popolo, il 16 gennaio del 27 a. C. (v. augusto) con accezione di venerazione religiosa, col significato cioè approssimativo di sacrosanto (in greco Σεβαστός). Ottaviano non volle condividerlo in vita con nessuno dei suoi figliuoli adottivi, né, sebbene lo avesse concepito come trasmissibile ai successori (Suet., Tib.: 17), lo conferì espressamente nel suo testamento a Tiberio. E questi, quando salì al trono, non volle che il senato glielo decretasse, sebbene consentisse che i sudditi glielo attribuissero, come appare da iscrizioni e da monete, ed egli stesso ne facesse uso negli scambî epistolari con re e con dinasti. Dopo di lui il titolo di Augusto fu assunto da tutti gl'imperatori, sia per conferimento del senato, sia per acclamazione militare legittimata poi dal senato; e nelle iscrizioni, ordinariamente, questo nome piglia l'ultimo posto fra i cognomi, a prescindere da quelli relativi a vittorie, come Germanicus ecc., ai quali invece generalmente precede. Quando, dopo la morte di Antonino Pio, Marco Aurelio fece conferire a Lucio Vero potere uguale al suo, gli fece attribuire anche il titolo di Augusto e, alla morte di lui, fece altrettanto con Commodo. Tale attribuzione da allora in poi si ripeté tutte le volte che si effettuò una vera e propria signoria collegiale di due o più imperatori, la quale, si badi bene, è cosa diversa dalla coreggenza, che s'iniziò sin dal tempo di Augusto con Agrippa. Da Commodo in poi il titolo di Augusto fu preceduto spesso dagli attributi Pius Felix, ai quali, al tempo di Caracalla, si aggiunse Invictus.
Nel sistema della tetrarchia dioclezianea l'unità dell'impero fu abbandonata, e l'imperio collegiale e la coreggenza presero forma di reggenza divisa, ma, sostanzialmente, i titoli di Augusto e di Cesare conservarono il valore e il rapporto reciproco dei tempi del principato e questo stesso valore e questo rapporto mantennero non soltanto con la dinastia di Costantino, quando tutto quanto l'impero fu più volte riunito nelle mani di un solo ma anche nell'ultimo periodo, quando l'impero si divise definitivamente nelle due metà: occidentale e orientale. È da notare però che, in persona degl'imperatori, a partire da Diocleziano, il titolo di Caesar divenne d'uso sempre meno frequente di fronte all'incalzare della denominazione Dominus noster in luogo di quella di imp. Caes., e in persona dei designati al trono pressoché scomparve da Teodosio in poi. Il titolo di Augusto restò invece sempre denominazione propria e generica degl'imperatori e con esso si accompagnano dal sec. IV in poi epiteti sempre più solenni: perpetuus, aeternus, victor ac triumphator semper Augustus, ecc.
Accanto al titolo di Augustus abbiamo quello di Augusta, usato da principesse della famiglia imperiale. La prima che lo portò fu Livia, moglie di Augusto, dopo la morte del marito e per volontà da lui espressa nel testamento. Lo ebbero poi Agrippina, ultima moglie di Claudio, e Poppea, moglie di Nerone, dopo la nascita della figlia. A partire da Domiziano divenne d'uso costante per le imperatrici, e il conferimento di regola ne fu fatto per iniziativa del senato, con l'approvazione dell'imperatore; ma talora lo ebbero anche la madre, le ave e le figlie dell'imperatore.
Bibl.: Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II, ii, 3ª ed., Lipsia 1887, pp. 770 segg., 832, 1139 segg., cfr. 1153 segg.; E. De Ruggiero, Dizionario epigrafico, I, p. 924 segg.; II, p. 12 segg.; Pauly-Wissowa, Real-Encycl., III, col. 1286 seg. e II, col. 2370 segg.; R. Cagnat, Cours d'Épigr. latine, 4ª ed., Parigi 1914, p. 159 seg., 165 seg.; O. Seeck, Gesch. des Untergangs der antiken Welt, I, 4ª ed., Stoccarda 1921, p. 25 segg., 88 segg.