MARIO, Gaio (C. Marius)
Celebre condottiero, nato ad Arpino, capo del partito democratico in Roma; vinse la guerra numidica contro Giugurta e debellò i Cimbri ed i Teutoni. Morì a settanta anni, nell'86 a. C., console per la settima volta, appena tornato dall'esilio a cui era stato costretto dopo la sconfitta toccatagli per opera di Silla nella guerra civile.
Era uomo rozzissimo (più nei modi che nell'aspetto), dal volto aspro, forse segnato di cicatrici, e dall'espressione fierissima degli occhi (imperatorius ardor oculorum: Cic., Pro Balbo, 21). Durante e dopo la fuga da Roma aveva capelli incolti e barba lunga; nell'esilio egli acquistò un aspetto amaro e poi abbattuto ed inselvatichito ed immediatamente prima del suo reingresso a Roma il suo volto esprimeva ira sanguinaria.
Le statue di G. M. erette in Roma furono eliminate nel periodo della reazione sillana, immediatamente posteriore alla sua morte. Si salvò solo il ritratto di famiglia, derivato forse dalla maschera mortuaria, se Giulio Cesare poté sfoggiarlo in occasione dei funerali della zia Giulia per ricordare la memoria del grande capopopolo e per qualificarsene l'erede. Si può supporre che nel periodo della dittatura cesariana siano stati innalzati nell'Urbe monumenti a G. M., ma il successivo trionfo della corrente moderata augustea ed i tempi dell'Impero, non certo favorevoli al ricordo dell'Arpinate, inducono a ritenere che scarso dovette sempre essere il numero dei suoi ritratti, specie a Roma. Non per nulla - come notò il Visconti - Plutarco aveva veduta a Ravenna la statua - unica menzionata - che gli parve indicativa dello stato d'animo di G. M. nel periodo dell'esilio.
Lo stesso Visconti credette di poter stabilire che l'effigie di G. M. fosse quella di una pasta di vetro con l'iscrizione c. marius vii cos ritrovata a Palestrina e oggi perduta. Il Bernoulli ha contestato questa attribuzione ponendo soprattutto l'accento sull'età giovanile del soggetto e sull'epoca relativamente tarda del lavoro (II-III sec. d. C.).
Secondo il Bernoulli sarebbero da prendere in considerazione un gruppo di ritratti aventi in comune l'aspetto plebeo-contadinesco, il cui esemplare migliore è il n. 512 del Museo Chiaramonti, che rappresenta un uomo di età forse inferiore ai settanta anni (che gli attribuisce il Bernoulli) con pochi capelli, dalla fronte grande sfuggente all'indietro, con sopracciglia corrugate, bocca larga e mento piccolo. Si tratta di un lavoro di intonazione realistica e viva e di notevole pregio artistico, ma che solo ipoteticamente può essere attribuito a Mario.
Corrisponde con le indicazioni delle fonti storiche un busto della Gliptoteca di Monaco, che per il Bernoulli costituisce l'esemplare migliore di un gruppo di cui fanno parte un busto degli Uffizî (270, non sicuramente antico) una testa del Museo Torlonia (n. 122) ed un busto della raccolta Despuig (Hübner, Antike Bildwerke in Madrid, p. 103, n. 9), nonché i profili di due gemme (Uffizî, n. 288 e Cades, v, 168).
Il cosiddetto Mario di Monaco è senza dubbio l'opera di maggiore rilievo tra quelle che sono state messe in rapporto con il problema dell'effigie del condottiero arpinate e, se anche in senso iconografico non ha un valore definitivo, ne ha uno grandissimo nella storia della ritrattistica romana, L'anziano personaggio - riprodotto in proporzioni più grandi di quelle naturali - ha un volto magro dall'espressione cupa ed energica, come indicano il disegno delle rughe sulla fronte alta, l'arco sopraccigliare e gli occbi grandi e profondi.
Per quanto non ci siano confronti precisi con uno qualunque dei ritratti appartenenti alla prima metà dell'ultimo secolo a. C., pure il Mario di Monaco potrebbe assegnarsi a quest'epoca. A tale proposito il Vessberg pone in rilievo il trattamento della capigliatura, a brevi ciocche, simile a quello del profilo di Celio Caldo (v.); le difformità dallo stile repubblicano dipenderebbero dal fatto che si tratta di una copia. Siamo di fronte ad un'opera di influsso ellenistico, con una ricerca di effetto fortemente coloristico generato dalle ombre (attraverso l'accentuazione delle concavità degli occhi e della bocca), quale era stato ottenuto nelle opere degli scultori di Rodi. Tuttavia l'elemento ellenistico non sconfina nel patetico e il busto pertanto rappresenta un singolare momento di equilibrio.
Bibl.: E. Q. Visconti, Iconografia Romana, Milano 1818, p. 840; J. J. Bernoulli, Röm. Ik., I, Stoccarda 1882, p. 76; L. Curtius, Ikonographische Beiträge, in Röm. Mitt., XLVII, 1932, p. 211; R. West, Röm. Porträt-Plastik, I, Monaco 1933, p. 63; O. Vessberg, Studien zur Kunstgeschichte der röm. Republik, Lund-Lipsia 1941, p. 217; E. Schmidt, Römerbildnisse von Ausgang der Republik, Berlino 1944, p. 3 ss.; B. Schweitzer, Die Bildniskunst der röm. Republik, Weimar 1948, p. 98 ss.; F. Willemsen, in Arch. Anz., LXX, 1955, c. 41 ss.