GALDINO della Sala, santo
Nacque probabilmente a Milano, nel primo decennio del sec. XII, da famiglia appartenente - sembra - al ceto dei valvassori e, dunque, alla piccola aristocrazia cittadina. Con ogni verosimiglianza "della Sala" era un cognomen toponomasticum: appare infatti credibile l'ipotesi che la famiglia di G. l'abbia derivato dalla contrada milanese detta appunto "la Sala", sita nel quartiere di Porta Orientale, a non molta distanza dalla cattedrale, contrada nella quale aveva le sue abitazioni.
Membri della famiglia risultano intorno alla metà del sec. XII proprietari di terre nel Seprio (territorio di Varese), e per di più inseriti nei gruppi di potere milanesi: un Ottone della Sala fu console di Milano nel 1150 e nel 1152; è attestata inoltre la sua presenza a sentenze emesse da altri consoli nel 1144 e nel 1153; un Gualco della Sala compare fra i rappresentanti del Comune di Milano che giurano il patto di alleanza con i Lodigiani, nel quadro della neonata Lega lombarda, nel maggio 1167, in un momento - cioè - particolare per la storia della città e poco più di un anno dopo la promozione di G. alla cattedra di Ambrogio. Tuttavia, data la scarsità delle informazioni forniteci dalle fonti, non sappiamo con certezza se la presenza dei della Sala nella vita pubblica milanese a partire dal 1144 in avanti debba considerarsi legata alla carriera che G. stava compiendo in quegli anni nella gerarchia della Chiesa locale, o se viceversa la fortuna individuale di G. si sia fondata almeno in parte su una già consolidata fortuna familiare. Si può notare comunque che un Amizon della Sala (che Giulini ipotizzò zio di G.) era già stato arcidiacono nella Chiesa milanese.
Non conosciamo i nomi dei suoi genitori, né abbiamo notizie sulla sua formazione. Quando a metà del quarto decennio del secolo viene ricordato per la prima volta dai documenti a noi pervenuti G. appare ricoprire una carica di rilievo nell'amministrazione ecclesiastica locale. In una lettera del 4 marzo 1134 egli è infatti definito "cancellarius" della Chiesa milanese, e a partire da quella data ci sono rimasti diversi atti arcivescovili da lui sottoscritti come titolare di quella dignità. A partire dal 1144 G. si sottoscrive come "subdiaconus et cancellarius" e dal 1147 come "diaconus et cancellarius". Se dunque la sua carriera all'interno del clero milanese si deve ritenere cominciata al tempo di Anselmo della Pusterla (1126-34), essa si deve considerare affermata con i successori di quest'ultimo, Robaldo (1135-45) e Oberto da Pirovano (1146-66), la cui politica fu più vicina a quella della S. Sede: fatto, questo, che - alla luce della successiva vicenda di G. - appare non privo di significato. Probabilmente nel 1149 G. divenne arcidiacono, acquisendo una posizione eminente in seno al capitolo della cattedrale. Egli si muoveva allora nell'orbita dell'arcivescovo Oberto da Pirovano. Quando, alla morte di Adriano IV (1° sett. 1159), sfociò in scontro aperto il dissidio tra la Sede apostolica e Federico Barbarossa e al nuovo papa Alessandro III fu contrapposto dalla fazione filoimperiale, minoritaria nel Collegio cardinalizio, l'antipapa Vittore IV, G. si schierò - come il suo presule - per il primo. Nell'agosto 1160, in un clima carico di tensioni, in un momento in cui gli interessi della S. Sede e quelli del Comune di Milano sembravano coincidere nello sforzo contro il Barbarossa, G. si trovava, sempre al seguito del suo arcivescovo e insieme con gli altri più importanti membri del capitolo della cattedrale, sul campo di Carcano accanto alle truppe milanesi nella giornata in cui queste ultime inflissero una seria sconfitta a Federico. E quando nel marzo 1162, alla vigilia della distruzione di Milano, l'arcivescovo abbandonò la città per non essere costretto a fare atto di omaggio all'imperatore, G. lo seguì nell'esilio. Fu quindi a Genova con Oberto e poi in Francia accanto ad Alessandro III.
Probabilmente apprezzato dal papa, nel periodo in cui fece parte del suo entourage, G. nel dicembre 1165 fu promosso cardinale prete di S. Sabina. Alcuni mesi più tardi, infine, morto a Benevento il 27 marzo 1166 l'arcivescovo Oberto, proprio G. fu scelto da Alessandro III come suo successore sulla cattedra milanese. Venne ordinato dallo stesso papa il 18 aprile.
La nomina pontificia scavalcava di fatto le prerogative del capitolo della cattedrale ambrosiana, unico elettore del proprio arcivescovo. Tuttavia l'eccezionalità del momento storico, l'esilio del clero ambrosiano, la necessità di portare avanti la lotta contro il Barbarossa, la coincidenza degli interessi di Milano con quelli della Curia romana, giustificavano l'intervento di Alessandro III, il quale comunque si era preoccupato di rispettare le forme procedendo alla nomina, come dice un antico biografo di G., solo dopo aver raccolto intorno a sé quanti ecclesiastici milanesi erano alla sua corte e in accordo con la loro volontà.
Alla scelta di G. come arcivescovo di Milano non dovevano essere rimaste estranee motivazioni di ordine personale e politico, se il papa, quasi a sottolineare questi dati di fatto, nominò il nuovo arcivescovo legato pontificio in Lombardia.
G. non partì immediatamente per la sua sede: solo quando i Milanesi ebbero ripreso possesso della loro città (27 apr. 1167) infatti egli lasciò Roma iniziando un viaggio che la tradizione vuole romanzesco e che lo condusse via mare sino a Venezia, e poi di lì, per terra, sino alla sua città dove giunse il 9 settembre, "in peregrini habitu" per timore delle "inimicorum insidiae". Fatto il solenne ingresso nella cattedrale, dette immediatamente inizio a un'incisiva azione antiscismatica, nella quale la sua duplice veste di arcivescovo e di legato pontificio gli conferì un'eccezionale autorità sia nel campo spirituale sia in quello temporale.
Già dal primo arrivo in Milano (5 sett. 1167) le intenzioni di G. dovettero apparire evidenti a tutti: sarebbe altrimenti difficile spiegere perché la cronachistica (e poi la storiografia) milanese insista sul fatto che il primo atto di G. fu quello di venerare le reliquie di s. Ambrogio nella basilica dedicata al santo, episodio marginale e certo non degno di particolare rilievo se non fosse che negli anni precedenti il monastero di S. Ambrogio aveva assunto atteggiamenti nettamente filofedericiani. Per G. si trattava quindi non solo di venerare le reliquie del santo patrono, o di tacitare nel contempo le mai sopite discordie tra la canonica e il monastero ambrosiani, ma anche e soprattutto di far comprendere ai filoimperiali che l'arcivescovo era rientrato nella propria sede stringendo contemporaneamente il pastorale e la spada.
I risultati dell'azione di G. non tardarono a farsi sentire: fra 1167 e 1170 si staccarono dall'antipapa Vittore e tornarono all'obbedienza di Alessandro III, con l'avvento di nuovi vescovi, non solo le Chiese di Novara, di Bergamo e di Lodi, suffraganee di Milano, ma anche quelle di Como, di Pavia, di Mantova e di Cremona, di antica e consolidata tradizione filoimperiale. Anche a Torino G. riuscì a imporre una persona a lui strettamente legata, Milone da Cardano, anch'egli antico collaboratore di Oberto da Pirovano e partecipe dell'esilio in Francia. Nel clero di Varese e di Monza, già aderenti a Vittore IV, sostituì membri locali filoimperiali con fidati ordinari della Chiesa milanese (rispettivamente Pietro da Bussero e Oberto da Terzago).
L'attività di G. come legato di Alessandro III dette i suoi frutti, anche al di là del campo religioso-disciplinare: i patti fra il Comune di Milano e il vescovo di Novara (28 dic. 1167), che erano di natura politica, vennero stipulati "in domo archiepiscopi", e con essi il presule novarese si impegnò a uniformarsi ai precetti "dell'arcivescovo di Milano […] o dei consoli milanesi", identificando quasi l'autorità ecclesiastica con il potere civile e cogliendo in G. la primazia in entrambi. Così fecero pure gli abitanti del Seprio quando entrarono nella Lega (20 marzo 1168) giurando di obbedire in futuro agli ordini "dell'arcivescovo Galdino e del Consiglio di Milano" (Annales Mediolanenses). Cominciarono a vedersi i risultati dell'intervento svolto da G. come legato pontificio con una "paziente ed efficace opera […] per ottenere l'accordo tra le città della Lega e Alessandro III" (Alberzoni). G. è ricordato insieme con altri legati come esecutore della politica pontificia e dei decreti di scomunica nella lettera inviata da Alessandro III il 27 marzo 1170 ai rettori della Lega lombarda; in essa la critica storica è propensa a vedere una sorta di riconoscimento ufficiale della sua attività.
Pur proseguendo con decisione in questa ben delineata direttrice G. seppe anche dar prova di grande moderazione e di buon senso, consentendo a mantenere nel proprio entourage, sia pure in posizione secondaria, personaggi notoriamente filoimperiali, come alcuni membri della famiglia Scaccabarozzi e il giurista Anselmo Dall'Orto, allontanati per forza di eventi dalle cariche comunali. Se in ciò alcuni studiosi scorgono una tendenza propria di G. "volta a differenziare la propria condotta politica" (Fasola), questo atteggiamento evidenzia anche la sua volontà di guardare al di là della situazione contingente, in vista di un futuro auspicato superamento dei rancori di parte.
Pure i provvedimenti presi dal G. per riformare e riorganizzare la Chiesa milanese, assai provata dagli avvenimenti di quegli anni, hanno una loro coloritura politica anche se "interna". L'esilio dell'arcivescovo e del clero della cattedrale - il cosiddetto "clero maggiore" - aveva di necessità accresciuto il ruolo e l'importanza del clero minore, il così detto "clero decumano" - tradizionalmente legato ai ceti medio-alti e a quelli bassi della comunità cittadina - costretto dalle circostanze ad assumersi responsabilità e a svolgere funzioni ben superiori rispetto a quelle che tradizionalmente gli erano proprie. Con una lettera che divenne famosa, G. ristabilì le prerogative del clero maggiore e cercò inoltre di affermare la competenza dell'arcivescovo nell'elezione del primicerio, il responsabile del clero decumano (1170). Il clero decumano rifiutò di adeguarsi alle disposizioni del presule: ne nacque uno scontro con l'autorità episcopale, che non esitò a coinvolgere la S. Sede per averne l'appoggio (1170-72). La questione si chiuse nel 1173, con un compromesso: l'elezione del primicerio veniva affidata a un comitato composto da otto decumani e dall'arcivescovo, con identico diritto di voto. Secondo alcuni studiosi, come il Cattaneo, tale soluzione rappresentò una sconfitta per G.; secondo altri, invece, essa dava di fatto all'arcivescovo il controllo dell'elezione, come sostiene l'Alberzoni (non per nulla nel 1173 risultò eletto primicerio proprio il candidato proposto da G., Niccolò da Verderio).
Di tutto rilievo, anche se non sempre documentabile, fu l'attività di G. in campo edilizio. Senza dubbio dovette procedere alla ricostruzione dell'arcivescovado, distrutto dopo l'abbandono di Milano da parte del clero maggiore. Certo ebbe una parte - anche se non ben definibile - nella riedificazione della città. Grande risonanza ebbero i provvedimenti da lui presi nel campo caritativo, in particolare quelli in favore dei carcerati e soprattutto dell'ospedale milanese detto del Brolo (1169). A quest'ultimo diede inoltre nel 1168 nuovi ordinamenti per fronteggiare le esigenze di assistenza accresciutesi nei lunghi anni di guerra e di distruzioni.
Pure di grande portata fu la sua attività pastorale: G. ottenne - a quanto sembra - buoni risultati nell'opera di conversione degli eretici e fu sollecito nel dirimere i contrasti fra chierici ed enti ecclesiastici, mentre intervenne ripetutamente in atti giuridici riguardanti la proprietà e i diritti dell'episcopio in varie località.
Morì, secondo la tradizione riportata dagli antichi cataloghi dei vescovi di Milano, il 18 apr. 1176, subito dopo aver tenuto dal pulpito di S. Tecla una predica contro l'eresia.
La sua beatificazione non ebbe l'immediatezza che l'eccezionalità della persona avrebbe potuto far supporre. Il clero decumano milanese per lungo tempo gli negò quella venerazione che invece gli ordinari del duomo gli tributarono da subito (pare almeno dal 1180). Pure, incontestato fu il riconoscimento del suo operato soprattutto in campo caritativo, la cui memoria si trasmise per lungo tempo: ancora nel Settecento il pane distribuito ai carcerati di Milano veniva detto "pane di s. Galdino".
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