BRUGORA, Galeazzo
Nacque da Francesco, patrizio milanese, nella prima metà del sec. XVI. Addottoratosi in leggi, fu nominato uditore da Ferrante Gonzaga, governatore di Milano, e da lui mandato "a riformare i suoi stati "nei turbolenti possessi feudali di Molfetta e Campobasso, acquisiti grazie al matrimonio con Isabella di Capua. In quel tempo divenne anche, per nomina di Carlo V, uno dei tre avvocati fiscali del ducato, e fu nominato senatore probabilmente nel 1546. Nel 1550 era quindi una delle personalità più ragguardevoli dello Stato di Milano, tanto da venir ritratto dal pittore Bernardino Campi, chiamato a corte da Isabella di Capua.
Nel marzo del 1554 il B., insieme con il coadiutore della cancelleria segreta Francesco Biffi, accompagnò il Gonzaga alla corte imperiale di Bruxelles, dove il governatore era stato convocato a seguito dell'inchiesta sugli abusi dell'amministrazione milanese ordinata da Carlo V due anni prima. Dall'aprile al giugno del 1554 la corrispondenza del B. dalla corte testimonia l'ottimismo con cui la delegazione milanese affrontava l'inchiesta dell'imperatore, sebbene le denunce amministrative contro il Gonzaga e i suoi collaboratori fossero tutt'altro che ingiustificate: lo stesso B., peraltro mai chiamato personalmente in causa, era incorso nell'abuso diffusissimo di accettare donativi a integrazione dello stipendio, come risulta per esempio dai libri della comunità di Alessandria, che nel 1533 aveva donato a lui, al Taverna e ad alcuni altri funzionari avena per un valore di 88 lire. L'inchiesta amministrativa in effetti doveva concludersi con un nulla di fatto. Ma già nel giugno 1554 il Gonzaga rinviava a Milano i suoi due collaboratori, ormai consapevole che il contrasto con la corte imperiale non verteva essenzialmente sugli aspetti amministrativi, ma su quelli politici della sua attività milanese.
Uomo del Gonzaga, il B. non aveva in realtà responsabilità dirette nelle vicende politiche, finanziarie e militari che indussero Carlo V a decidere la destituzione del suo prestigioso luogotenente, e questa non recò alcun danno alla carriera del B., il quale, infatti, ebbe negli anni successivi alla destituzione del Gonzaga i suoi impieghi più importanti.
Nel 1555 fu incaricato dall'ambasciatore milanese in Svizzera, Ascanio Marso, di occuparsi di una questione di confini sorta da tempo tra la comunità svizzera di Stabio e quella milanese di Arcisate. Si incontrò quindi con i delegati dei confederati svizzeri per trovare un accordo. Ma l'anno seguente il B. rinunciò all'incarico e si ritirò senza aver raggiunto una composizione della lite accusando gli Svizzeri di rifiutare un accomodamento.
Secondo i confederati, di fronte ai quali l'ambasciatore Ascanio Marso era andato a far le sue rimostranze, era, invece, il B. che proponeva un accordo inaccettabile su confini che avrebbero fatto perdere dai 4 ai 5.000 iugeri di terra che fino a quel momento era stata, del tutto pacificamente e senza questioni, di loro proprietà. Gli Svizzeri si richiamavano a un precedente accordo col duca d'Alba, nuovo governatore di Milano, che aveva consentito a confini del tutto diversi e assai più convenienti per loro. Questa netta divergenza tra rappresentanti del medesimo governo era rivelatrice, pur nella marginalità dell'episodio, della tradizionale contrapposizione di linee politiche nell'amministrazione milanese. Il B. perseguiva con gli Svizzeri la stessa politica di ambasciatori come il Rizzo e il Marso che tendevano a difendere contro i confederati soprattutto gli interessi tradizionali del ducato, seguendo una politica il più possibile autonoma. Il governo imperiale esigeva, invece, che fossero fatti valere soprattutto gli interessi generali dell'Impero, e quindi, come in questo caso, non venisse compromesso l'accordo con gli Svizzeri, tanto importante e così a lungo perseguito da Carlo V, per interessi particolari del ducato. L'ormai annosa questione di confini tra Stabio e Arcisate fu così lasciata dal B. senza soluzione, essendosi egli ormai compromesso, agli occhi degli ombrosi e diffidenti montanari. Fu ripresa nel 1557 dallo stesso Marso, il quale sotto le pressioni del governatore si accordò su una linea di confine che, pur danneggiando il ducato, era ben accetta ai confederati.
Nel marzo del 1562, il B. accompagnò a Trento, dove era da poco iniziata la seconda sessione del concilio, il marchese di Pescara, Ferdinando d'Avalos, inviato come oratore da Filippo II. Il B., che precedeva il Pescara, ebbe l'incarico di leggere un'orazione in nome suo, nella congregazione generale del 16 marzo. Sono note le difficoltà che la convocazione di questa seconda sessione aveva incontrato e l'atteggiamento diffidente del re spagnolo di fronte a una riapertura del concilio, in cui non si parlava esplicitamente di continuazione, ma si restava nell'ambiguità per non inimicarsi Germania e Francia, che trattavano con i protestanti e chiedevano una riapertura senza pregiudiziali. Non a caso quindi Porazione tenuta dal B. introduceva sin dall'inizio un esplicito accenno alla continuazione del concilio, che dava un significato politico preciso al consueto discorso di circostanza. Questa "chiara mention che fa della continuazione" (Concilium tridentinum, VIII, pp. 379-380) mise in allarme gli oratori cesarei e in imbarazzo i legati. Il B. restò al concilio come uditore del Pescara quasi ininterrottamente almeno fino al novembre del '62, durante uno dei periodi di maggior tensione, in cui si agitavano problemi importanti, come quello della continuazione e quello, altrettanto urgente, della residenza dei vescovi.
In una situazione tanto delicata non era certo immotivata l'indicazione del conte Federico Borromeo al Simonetta di guadagnare alla causa della Curia non solo il ma chese di Pescara, ma anche il suo fiscale Galeazzo Brugora. Al vescovo di Ventimiglia, Carlo Visconti, lo stesso Borromeo proponeva di assicurarsi la confidenza del B. e lasciargli intendere "con destro modo" (J. Šusta, II, p. 324) che si sarebbe tenuto conto dei suoi servigi, promettendogli donativi che lo legassero alla S. Sede. Il B. tuttavia mantenne un atteggiamento prudente e moderato, consigliando gli Spagnoli, che avevano ripreso con gran vigore il problema della continuazione, a seguire le nuove direttive del sovrano raccomandanti di procedere "pian piano" e di non fare per il momento nessun passo decisivo. Per quanto riguardava il problema della residenza, in cui lo aveva sondato il Simonetta per conoscere la posizione del Pescara, egli si accordava che il governatore "dicesse non esser cosa che toccasse a lei et che facessero quello che era giusto et honesto" (ibid., II, p. 127).
Nominato nel 1562 podestà di Pavia, nel 1567 il B. veniva scelto dal Senato milanese per un'altra delicata missione. Si era infatti aperta in quel periodo la contesa giurisdizionale tra l'arcivescovo Carlo Borromeo e il Senato di Milano. L'arcivescovo, portando avanti la sua opera di restaurazione ecclesiastica, rivendicava al potere episcopale il diritto di tener "famiglia armata" e di far arrestare quel laici che violassero le leggi della Chiesa. Il Senato aveva reagito violentemente facendo catturare e torturare il suo bargello e il Borromeo aveva scomunicato tutti i senatori. Non restava che rivolgersi al papa per giungere a un accordo e far ritornare l'arcivescovo sulle sue decisioni. Fu scelto come ambasciatore del Senato il B. perché "quando successe il caso" era fuori Milano e quindi non risultava implicato nella vicenda agli occhi del papa.
Il B. partì per Roma il 3 settembre, per incontrarsi con Pio V, che era già intervenuto con un breve a favore del Borromeo, citando a Roma alcuni senatori. L'accoglienza infatti fu assai poco favorevole, rifiutandosi il papa di discutere, se prima il Borromeo non fosse stato reintegrato nei suoi diritti, e pretendendo che i senatori da lui citati si presentassero immantinente a Roma. Nonostante questo, il fiscale scriveva a Milano di non aver perso la speranza di impedire la citazione, anche se il papa gli aveva fatto intendere di non volerlo più sentire. La controversia ebbe in seguito nuovi sviluppi con l'intervento di Filippo II, contrario a che la vertenza venisse risolta con una dichiarazione pontificia. Il papa ritirò la citazione con una sentenza che tuttavia dichiarava legittimo per l'arcivescovo tener famiglia armata, sentenza che per l'opposizione del re non fú mai pubblicata. Tutta la controversia quindi ebbe come risultato di incrinare ulteriormente i rapporti tra la S. Sede e la corte di Spagna.
Il B. rimase in missione a Roma per due anni, fino all'aprile del 1569, come risulta dalle insistenti richieste al governatore di Milano di rimborso per le spese sostenute, che gli vennero pagate soltanto due anni dopo. Dal 1582 al 1584 fu podestà di Cremona.
Durante il suo periodo di governo a Pavia, il B. si legò in amicizia con Luca Contile, che gli scrisse varie lettere di ossequiosa amicizia tra il '62 e il '63, e offrì ospitalità al figlio Pier Francesco, che andava allo Studio di Pavia; nel 1574 il B. fece pubblicare il libro del Contile sull'Accademia pavese degli Affidati, della quale egli stesso faceva parte con il nome di Avvisato. Assai legato all'ambiente culturale milanese, divenne protettore e amico di numerosi letterati e umanisti, tra cui il medico-astrologo Bernardino Boldino che gli dedicò nel 1579 un suo libro De stellis et hominibus in stella conversis, l'umanista Francesco Ciceri che sottomise al suo giudizioi suoi Antiquorum monumentorum ab Alciato praetermissorum libri duo, Annibale Guasco che gli dedicò una Epistola italica, lo Zava e il Vezzola che gli dedicarono dei carmi, giuristi illustri come Orazio Carpano che nel 1583gli offerse le sue Lucubrationes in ius municipale, commento agli statuti milanesi. Egli stesso, secondo una notizia del Mazzuchelli, avrebbe scritto un'operetta di carattere giuridico, il Consilium inmateria dotis.
Nel 1591 una lettera della città di Milano supplicava il re di Spagna di reintegrare nel Senato "il più antico senatore et officiale togato di questo stato, et persona di molto valore ponendo fine ai lunghi travagli d'esso Brugora" (Arch. Stor. Civ., Dicasteri, cart. 3, fasc. 3), caduto in disgrazia, per motivi non chiariti.
Morì presumibilmente nel 1591. Ebbe tre figli: Pier Francesco e Ferrando, ambedue giureconsulti, e Geronimo, cavaliere di S. Lazaro e S. Maurilio.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Potenze estere, cart. 104, 9 ag. 1569; Milano, Arch. Stor. Civ., Dicasteri, cart. 3, fasc. 3, 31 dic. 1589; L. Contile, Lettere, Pavia 1564, cc. 404, 415, 419, 437; Id., Ragionamento sopra la proprietà delle imprese con le particolari degli Accademici Affidati et con le interpretazioni e croniche, Pavia 1574, c. 161; A. Campo, Cremona fedelissima città et nobilissima colonia de Romani, Cremona 1585, p. LXVII; Die Eidegenössischen Abschiede aus dem Zeitraume von 1556 bis 1586, a cura di J. K. Krütli, Bern 1861, pp. 1229-1230; Die Eidegenössichen Abschiede aus dem Zeitraume von 1549 bis 1555, a cura di K. Deschmanden, Luzern 1886, pp. 1267-1268; G. Sitoni di Scozia, Theatrum equestris nobilitatis secundae Romae seu chronicon insignis collegi, Milano 1706, p. 114; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 4, Brescia 1763, pp. 2154-2158; J. Šusta, Die römische Kurie und das Konzil von Trient unter Pius IV., II, Wien 1909, pp. 69, 107, 127, 172, 244, 324, 543; III, ibid. 1911, p. 415; Concilium tridentinum, ed. Soc. Goerresiana, II, 2, Friburgi Br. 1911, pp. 558-559; VIII, 5, ibid. 1919, pp. 379 ss.; M. Bendiscioli, L'inizio della controversia giurisdizionale a Milano tra l'arcivescovo Carlo Borromeo e il senato milanese (1566-1568), in Arch. stor. lomb., s.6, III (1926), pp. 430 ss.; F. Chabod, Usi ed abusi nell'amministrazione dello stato di Milano a mezzo il '500, in Studi storici in onore di Gioacchino Volpe, Firenze 1958, I, pp. 96, 1209 163 ss.; M. Bendiscioli, Politica,amministrazione e religione nell'età dei Borromei, in Storia di Milano, X, Milano 1961, pp. 216, 219; G. A. Dell'Acqua, La pittura a Milano...,ibid., p. 709.