CARACCIOLO, Galeazzo
Nacque a Napoli, unico figlio maschio di Colantonio, marchese di Vico dal 1531, e di Giulia della Lagonessa nel gennaio del 1517.
Il C. venne perciò educato con ogni cura per, il servizio dell'imperatore: all'età di quindici anni venne presentato a Bruxelles a Carlo V, tre anni più tardi divenne gentiluomo di bocca del sovrano e lo seguì nella sua campagna invernale in Provenza (1535-36). Nei quindici anni che seguirono divise il suo tempo tra Napoli e la corte imperiale, secondo lo stile di vita di un tipico cortigiano dell'età dei Castiglione. Nel 1537 sposò Vittoria Carafa, figlia del duca di Nocera; fu un'unione felice da cui nacquero sei figli, quattro maschi e due femmine, tutti sopravvissuti.
Contemporaneamente fece la conoscenza di alcuni discepoli di Juan de Valdès appartenenti all'élite intellettuale ispano-italiana di Napoli e, sebbene fosse un uomo d'azione più che di lettere, fu presto attrat o dalla loro dottrina: amici come Gianfrancesco Alois e Marcantonio Flaminio parlarono apertamente di una sua "vocazione" agli inizi degli anni 1540, quando il C. fece una deviazione durante un suo viaggio alla corte imperiale per poter incontrare l'eretico in esilio Pietro Martire Vermigli, di cui aveva ascoltato i sermoni a Napoli. E nella primavera del 1551, mentre viaggiava alla volta di Augusta, fuggì all'improvviso a Ginevra da Calvino; proprio allora infatti Carlo V era venuto a conoscenza delle sue discussioni con il cortigiano napoletano Cesare Carafa, il quale trattava i problemi religiosi "più liberamente che non si conviene a cristiani".
Fino a che punto questa fuga fosse stata preordinata è ancora argomento di discussione: il calvinista Niccolò Balbani asserì che essa rispondeva ad un piano ben preciso; al contrario, l'ambasciatore di Ferrara presso la corte imperiale riteneva che fosse frutto di un'impulso momentaneo; in entrambi i casi tuttavia va ricordato che questo esilio volontario a Ginevra si colloca nel periodo (1542-1560) indicato dal Cantimori col termine di "crisi dell'Evangelismo", durante il quale tutti gli appartenenti a questa fede religiosa furono costretti a scegliere tra la fuga e il nicodemismo.
I nove anni che seguirono (1551-1560) furono per il C. estremamente intensi: nella nuova patria svolse attività sempre più importanti e occupò cariche di responsabilità; contemporaneamente ebbe una serie di incontri con alcuni membri della sua famiglia, con esito però negativo. Nel novembre 1551 collaborò all'organizzazione di una chiesa per gli italiani esuli per motivi religiosi partecipando alla scelta del pastore temporaneo (che fu Lattanzio Ragnone) e nella primavera seguente, dopo lunghi sforzi, riuscì a far eleggere don Celso Martinengo di Brescia come pastore permanente. Alla morte di quest'ultimo nel 1557 ebbe una parte ancor più importante nella ricerca del successore che si concluse nel 1561 con l'assunzione di Niccolò Balbani. Venne inoltre ufficialmente accettato dalla Repubblica ginevrina, che in un primo tempo lo aveva considerato come una possibile spia: nel novembre 1555 infatti ottenne gratuitamente la bourgeoisie di Ginevra ("attendu qu'il est homme honorable et renommé, et prince et excellent en Italie, qui est venu ici pour l'Evangile"); egli fu il primo tra i profughi religiosi italiani ad ottenere la cittadinanza ginevrina e, come per gli esuli francesi, ciò fu possibile soltanto dopo la vittoria politica degli alleati di Calvino. Alle elezioni annuali del 1559 fu eletto al Consiglio dei duecento e negli anni seguenti per quello dei sessanta; la legge gli precludeva l'accesso alla più alta magistratura della Repubblica, il Petit Conseil; in compenso però gli vennero conferiti tutti gli onori: civici accordabili ad uno straniero, inclusi un posto riservato nella cattedrale ed un invito permanente ai banchetti ufficiali.
I contatti con la famiglia in Italia tuttavia non vennero meno; tra il 1551 e il 1560 il C. si incontrò ben quattro volte con i suoi parenti: dapprima con il cugino, il poeta Ferrante Caracciolo, inviato a Ginevra dal padre Colantonio non appena questi era venuto a conoscenza della sua fuga; successivamente, durante l'estate del 1553 si recò a Verona per incontrare il padre, in viaggio alla volta di Bruxelles per impetrare la grazia dell'imperatore in favore della sua famiglia, il cui onore era stato macchiato dall'adesione del figlio all'eresia e dal tradimento del cognato di questo. Nella città veneta il C. soggiornò attendendo l'esito della missione paterna; Carlo V non confiscò i beni dell'eretico, ma si limitò ad escluderlo dalla linea di successione nominando al suo posto il figlio Colantonio.
Ignoriamo a quanto ammontasse la rendita del C., ma a giudicare dal suo tenore di vita a Ginevra doveva essere piuttosto modesta; suo figlio Colantonio però si vantò durante il decennio 1560 che "non avrebbe mancato di complire e fare quello che si deve fare tra figliuoli e padre, e di mandarli danari".
Nell'estate del 1555 a Mantova ebbe un nuovo incontro con il padre latore di un'offerta del pontefice in base alla quale gli sarebbe stato concesso di vivere in territorio veneziano. Il C. però rifiutò facendo notare a Colantonio che la parola del papa non poteva essere considerata vincolante quando riguardava gli eretici, e la sua decisione si rivelò ben presto saggia: Paolo IV infatti (che era anche prozio paterno del C.) in un famoso discorso all'ambasciatore veneziano Navagero nell'ottobre del 1557 affermò con chiaro riferimento al C. ("nostro parente figliuolo di una figliuola di nostra sorella... ed ha anco una nostra nepote per moglie") che "non se ne parli in questa materia; perché, se nostro padre fusse eretico, noi li portassimo le fascine per abruciarlo".
Nella primavera-estate del 1558 il C. acquistò per maggiore sicurezza la cittadinanza dei Grigioni e si recò nell'isola veneziana di Lesina, che si trovava dalla parte opposta dell'Adriatico rispetto al castello di Vico in Capitanata, per un ultimo incontro con la famiglia in un primo tempo due dei suoi figli lo raggiunsero nell'isola per rendergli visita, in seguito, dopo molte esitazioni e nonostante il parere contrario di Calvino ("de faict, si j'eusse esté près de vous, je n'eusse pas espargné de rompre vostre robbe pour m'efforcer à vous retenir si j'eusse peu") non esitò ad attraversare il mare per riunirsi all'intera famiglia.
Vi furono lunghe e penose discussioni, che approdarono però ad un nulla di fatto poiché il C. non riuscì a persuadere la moglie ed i figli a seguirlo a Ginevra e i suoi familiari non poterono convincerlo a rimanere in Italia: le loro strade si separarono definitivamente.
Immediatamente dopo la rottura il C. inoltrò una domanda di divorzio per abbandono da parte della moglie; pur non essendo la prima di tal genere che veniva presentata a Ginevra (il C. era stato testimone per Giovanni Battista Trenta quando nel febbraio del 1558 l'esule vicentino aveva presentato una richiesta simile), essa ebbe una risonanza particolare sia per la notorietà di chi la presentava che per la peculiarità del caso: nessuno infatti, neppure il Trenta, aveva ancora ottenuto il divorzio per un motivo del genere. Durante la primavera e l'estate seguenti il C. raccolse opinioni teologiche in appoggio alla sua istanza a Zurigo e nei Grigioni; nove testimoni, tra cui sette italiani, confermarono l'inutilità dei suoi sforzi per farsi seguire dalla moglie a Ginevra. Calvino ed altre autorità ginevrine inviarono una lettera a Vittoria Caracciolo e poiché dopo due mesi non ricevettero alcuna risposta il C. ottenne il divorzio (agosto 1559) e il permesso di contrarre nuove nozze dopo tre mesi.
Nel gennaio 1560 sposò la vedova Anna Framery: originaria della Normandia e al pari di lui sulla quarantina, ella aveva una piccola dote di 3.470 lire tornesi; nel 1561 il C. acquistò una piccola casa vicino alla cattedrale e lì visse tranquillamente con soli due o tre servitori della moglie in estrema semplicità, al punto che si racconta che a volte andava personalmente a fare le compere nei mercati. Aveva ormai ricevuto tutte le possibili attestazioni di stima, comprese le dediche del commento di Calvino alla prima Epistola ai Corinzi nel 1556, e della traduzione italiana delle Istituzioni di Calvino nel 1558; sempre nel 1556 un non ben identificato Cremonese coniò una medaglia con la sua effigie su cui era iscritto: "Elegi sedere ad limen in domo Dei mei potius quam habitare in tabernaculis impietatis"; ottenne perfino il titolo di "M. le Marquis" che gli era stato categoricamente rifiutato da Carlo V nel 1553 (è infatti con questo titolo che viene spesso menzionato nei documenti ginevrini).
Il ruolo del C. nella storia italiana è notevole: egli fu l'unico consanguineo del papa e cortigiano dell'imperatore a divenire calvinista ed a restare membro attivo di questa corrente religiosa; addirittura, con l'eccezione per Andrea da Ponte fratello del doge di Venezia e per i conti di Thiene di Vicenza, si può dire che egli fu praticamente l'unico nobile italiano ad aver abbandonato definitivamente la Chiesa di Roma. Altrettanto importante è il posto occupato nella storia della Repubblica ginevrina, visto che fu il più eminente personaggio straniero ivi stabilitosi nel sec. XVI; la sua presenza rappresentava un'evidente smentita alle accuse costanti dei propagandisti cattolici secondo cui nessun nobile autentico avrebbe potuto vivere in questa città. Il C. fu per decenni l'animatore ed il promotore delle attività della comunità italiana degli esuli e costituì il tramite tra essa e Calvino, oltre che, più in generale, con il governo ginevrino; spesso svolse il ruolo di parrain per i figli dei profughi, ricchi o poveri che fossero, e per quasi tutti i figli dei funzionari della Chiesa di Ginevra. Fu l'esecutore testamentario di Giovanni Luigi Pascal, un missionario calvinista morto in Calabria) che aveva lasciato dei nipoti ancor giovani nella città svizzera. Nel 1558 fu eletto membro del concistoro di Ginevra e fece parte ininterrottamente del massimo organo della Chiesa calvinista, fino al suo temporaneo allontanamento dalla città nel 1572, con vari incarichi: permise ad esempio al poeta e gentiluomo siciliano Giulio Cesare Pascal di ritornare a Ginevra nel 1560 dopo che questi se n'era allontanato senza alcuna autorizzazione; documentò che una coppia italiana, appena arrivata, era stata legalmente sposata da protestanti in Italia; garantì l'autenticità della conversione di un anabattista pentito; rimproverò un lavoratore della seta di Lucca, anch'egli arrivato da poco a Ginevra, per non aver restituito il prestito che aveva reso possibile la sua fuga. Il ruolo del C. consisté comunque essenzialmente nel servire da legame tra la Chiesa italiana, di cui era un "anziano", e la comunità di lingua francese: ogni volta che un problema non poteva esser risolto nell'ambito della prima egli lo sottoponeva all'attenzione della seconda, cioè del concistoro. Grandissima era infatti la sua autorità: non è un caso se la più seria disputa dottrinale e disciplinare tra gli esuli, il processo di Valentino Gentili e dei suoi sostenitori, scoppiasse proprio nel 1558, durante l'ultimo viaggio che il C. fece in Italia.
Nel 1572, per ragioni ignote, si allontanò da Ginevra e visse nel Vaud, a Nyon e Losanna, per circa tre anni. Ritornò poi nell'antica dimora dove morì il 7 maggio 1586. Così come Calvino fu sepolto "au cymetière commun de ceste cité, selon la police d'icelle, en esperance de la resurrection éternel", e fu onorato dopo la sua morte, a testimonianza dell'eccezionalità della sua esperienza, con una biografia composta da Niccolò Balbani e pubblicata a Ginevra nel 1587, la Historia della vita di G. C. chiamato il signor Marchese,nella quale si contiene un raro e singolare esempio di constanza e perseveranza nella pietà e nella vera religione.
Fonti e Bibl.: Ginevra, Bibl. publ. et univ., Mss. fr. 810, 820, e Arch. d'Etat, Reg. du Concistoire. La biografia del Balbani (tradotta in inglese nel 1635 e in francese nel 1681) rimane la fonte più importante di notizie. Altri documenti in T. Heyer, Note sur G. C., in Mém. et doc. de la Soc. d'hist. et arch. de Genève, IX (1864), pp. 68-80; E. Demole, Médaille inédite de G. C., in Revue suisse denumismatique, XXII (1920), pp. 85-89; A. Casadei, G. C. e la sua fuga a Ginevra, in Nuova riv. stor., XIX (1935), pp. 212-23. Il più importante tra gli studi moderni è quello di B. Croce, Uncalvinista ital., il marchese di Vico G. C., in La Critica, XXXI (1933), pp. 84-104, 161-78, 251-65, 321-39 (rielaborato e riprodotto in Vite di avventure,di fede e di passione, Bari 1953, pp. 187-291). Vedi anche H. van Kaltenborn-Stachau, G. C., Markgraf von Vico,1517-1586, Neumünster 1936; A. Pascal, La fede che vince:G. C., ...Torre Pellice 1958.