GALEAZZO da Trezzo
Visse nella prima metà del Cinquecento, prevalentemente a Sant'Angelo Lodigiano, un popoloso centro rurale dello Stato di Milano, nella diocesi di Lodi, che fu soggetto a ripetuti assedi e saccheggi nel corso delle lotte tra Francesi e Imperiali per il dominio del Milanese a motivo della posizione strategica del suo castello, già dalla metà del '400 feudo dei Bolognini Attendolo. Negli anni Trenta G. ebbe rapporti con alcuni esponenti di rilievo della Riforma in Italia. Tra il 1535 e il 1538 era priore dei frati agostiniani in Pavia il piemontese Agostino Mainardi - poi esule religionis causa a Chiavenna - che nelle visite al convento dell'Ordine a Sant'Angelo Lodigiano tenne diverse prediche di fronte a religiosi e laici: tra loro erano G. e il cognato, i quali da allora si sarebbero allontanati dalla fede cattolica.
Negli stessi anni G. entrò in contatto con Celio Secondo Curione, stabilitosi nel 1536 a Pavia, dove si trattenne fino alla fine del 1538 insegnando grammatica e retorica presso l'Università; G., non avendo figli, avrebbe adottato il figlio del Curione, Lattanzio.
Dopo qualche tempo G. fu accusato di sostenere e di diffondere opinioni ereticali: un primo processo, svoltosi nel 1545, si concluse con l'abiura, la condanna al domicilio coatto "per aliquos annos", poi ridotta a sei mesi, e l'obbligo di alcune penitenze spirituali; ma la mancata osservanza di esse dette origine a ripetute ammonizioni ecclesiastiche. Le imputazioni formulate contro G. implicavano chiaramente l'accusa di luteranesimo sia negli aspetti dottrinali (in particolare fu accusato di ostilità verso la confessione, di negare la transustanziazione dell'eucaristia e l'esistenza del purgatorio, di essere favorevole al matrimonio dei chierici, di circoscrivere il ruolo del libero arbitrio) sia in quelli devozionali (G. riteneva superstiziose le messe e le preghiere per i morti, come pure il culto dei santi e delle immagini sacre, né rispettava i divieti alimentari imposti dal calendario liturgico).
Nel luglio 1551 G. fu nuovamente imprigionato e sottoposto a procedimento per essere "relapso" nell'eresia: gli errori contestati non si discostavano da quelli già attribuitigli nel 1545, salvo una maggiore radicalità sull'eucaristia. Il nuovo processo fu condotto da fra Vincenzo da Milano, commissario di Melchiorre Crivelli inquisitore per la Lombardia, e da Gaspare Vitali, vicario generale di G.A. Simonetta vescovo di Lodi, e si concluse il 14 nov. 1551 con la condanna di G. come eretico ricaduto nell'errore luterano e con la sua consegna al braccio secolare, il podestà di Lodi Lucio Decio. L'atto proseguiva con l'ordinanza di sequestro dei beni mobili e immobili del G., con minaccia di scomunica a chi li avesse in uso e non li cedesse sollecitamente, e ciò a beneficio esclusivo dell'Inquisizione, salva l'ipotesi di un ricorso di fronte all'autorità congiunta dell'inquisitore e del vescovo.
Nel corso degli interrogatori le sollecitazioni di amici e parenti, ma anche di alcuni fratelli di fede, portarono G. a un momentaneo pentimento e alla rinuncia delle proprie posizioni, spingendolo verso lo sconforto e la disperazione. Ma poi di fronte alle pressioni degli inquisitori perché confermasse quanto aveva già dichiarato, egli ribadì le sue antiche convinzioni, in particolare sul sacrificio di Cristo unico mediatore di salvezza per l'uomo. Queste informazioni - riferite negli anni successivi dal Curione a Heinrich Pantaleon, che le inserì nella sua opera pubblicata nel 1563 - sono rilevanti anche perché si inseriscono nella prospettiva dei riformatori delle città svizzere, ostili alle scelte di compromesso e alle dissimulazioni nicodemitiche, che potevano sì salvare la vita e i beni materiali, ma a scapito della verità della parola evangelica.
Una supplica di Caterina da Dossena, moglie di G., pervenuta alla Cancelleria milanese il 19 sett. 1551 (cfr. regesto in La Rosa), segnalava l'azione zelante messa in campo nel sequestrare, prima ancora della conclusione del processo, non solo i possessi del marito ma anche i propri beni dotali mentre sperava ancora di ottenere per G. la liberazione dal carcere. La donna invocava inoltre la possibilità di continuare a fruire di quelle risorse in quanto non solo "vecchia et inferma" ma altresì "gravata de sei pute nepote d'esso suo marito tutte da marito povere". Il Consiglio segreto prese atto della petizione, dando mandato di risolvere il contenzioso in senso favorevole a Caterina da Dossena.
La lettura della sentenza fu preceduta da una predica e da un'allocuzione dell'inquisitore contro la perfidia degli eretici e in particolare contro l'ostinazione di G., che venne consegnato nelle mani del podestà; nel contempo G. chiese di essere ascoltato, sostenendo in pubblico che non gli era mai stato concesso di manifestare il suo pensiero. L'inquisitore, pur negando validità alle proteste del condannato, concentrò l'accusa sulla questione dell'eucaristia, chiedendo a G. la sua opinione, e questi contrappose la convinzione che l'adorazione dell'Ostia fosse idolatrica, affermazione ribadita poi davanti al podestà.
Nella relazione inviata a Carlo V il Decio mise in luce la pubblica indignazione per la pertinacia dell'eretico - certo uomo di "mirabile tempra" (Chabod, 1938, p. 311) - e l'auspicio di un rogo che avrebbe giustamente colpito la bestemmia e l'oltraggio.
Ma la necessità di una punizione esemplare andava al di là del caso singolo. In quegli stessi anni si cercava di mettere in campo un'offensiva delle autorità civili e di quelle ecclesiastiche contro la circolazione dell'eterodossia, che da alcune aree forti, come il Cremonese, tendeva a diffondersi verso il centro dello Stato: nella stessa Lodi, nel 1548, il medico Calisto Villani era stato arrestato per sospetti d'eresia; e ancora in un elenco di "capi lutherani" attivi a Casalmaggiore veniva indicato un Alessandro da Lodi come efficace propagandista delle nuove idee. Tuttavia l'esigenza di evitare ogni "scandali fomentum" andava riportata a una non facile situazione complessiva, che gravava anche su Lodi e sul suo territorio: si temevano infatti tumulti popolari, come si poteva arguire dalle suppliche e petizioni dei "poveri artefici e plebei" lodigiani contro i capi della Comunità che si ingegnavano di modificare l'estimo a proprio vantaggio: una questione che nel corso degli anni Quaranta del Cinquecento aveva suscitato più volte proteste, oltre che indagini da parte di commissari inviati da Milano. Inoltre la sede vescovile di Lodi non era tenuta sotto la debita sorveglianza, poiché il vescovo, G.A. Simonetta, non solo non vi faceva residenza ma era schierato con il partito francese, "invischiato in tutte le macchinazioni antispagnole dell'Alta Italia" (Chabod, 1961, p. 155), e forse era anche animatore di quelle "congregationi di franciosanti" che pure nel Lodigiano minacciavano la sicurezza dello Stato.
In questo clima, l'ostinazione di G. doveva essere colpita con durezza. Il podestà riferì inoltre che durante la notte G. aveva cercato di persuadere alle sue opinioni anche il personale carcerario. Ma la decisione definitiva venne demandata alla volontà di Carlo V, anche se l'orientamento del podestà emergeva con chiarezza: per la difesa della fede religiosa e per la tranquillità della popolazione ogni ostacolo teso a ritardare l'esecuzione capitale dell'eretico nella piazza di Lodi sarebbe andato a scapito del prestigio dello Stato.
Secondo la testimonianza orale resa dal Curione al Pantaleon (che poté così inserire la vicenda di G. nel martiriologio che costituiva la continuazione di quello redatto per l'Inghilterra e la Scozia da John Fox), il rogo ebbe luogo il 24 nov. 1551 sulla piazza di Lodi. Pantaleon racconta che ci fu una disputa tra gli ufficiali del vescovo e quelli del podestà su chi dovesse accollarsi la spesa dell'esecuzione. Ma G. intervenne, suggerendo di non disputare per così poco: avrebbe disposto che fossero i suoi familiari a pagare la legna. L'eretico rimase a lungo legato a un palo accanto alla pira, esposto sia al pubblico ludibrio sia ai tentativi di conversione di quanti lo esortavano a considerare gli effetti della sua pertinacia quanto all'affetto della moglie e al destino dei suoi beni, che sarebbero stati sequestrati; vista la vanità di ogni sforzo fu appiccato il fuoco alla legna e G. morì tra le fiamme.
Degli atti processuali contro G. si conserva solo la sentenza del procedimento concluso nel 1551, redatta da Michele Paleari, notaio e cancelliere della curia vescovile, e allegata in copia alla relazione inviata a Carlo V dal podestà di Lodi, conservata in Arch. di Stato di Milano, Senato, Memorabili, ed edita dal Fumi, 1910, pp. 210-214.
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