GATARI, Galeazzo
Figlio di Andrea di Montino, nacque probabilmente nel 1344 a Padova da un ramo della cospicua famiglia bolognese che si era trasferito a Padova.
Il nonno del G., Montino (o Monte) di Bettasio, risiedeva, ancora agli inizi del '300 in Bologna, nella parrocchia di S. Fabiano, dove nel 1314 risulta ascritto alla societas militum della Branca e già emancipato nel 1315. Dovette trasferirsi a Padova qualche anno dopo: abbiamo infatti notizia che egli si trovava nella città euganea nel 1329. I motivi che lo spinsero a trasferirsi a Padova furono probabilmente di natura politica: nonostante le tradizioni ghibelline e lambertazze della sua famiglia, i suoi discendenti padovani appaiono, infatti, di salda fede guelfa. Andrea di Montino, padre del G., in un contratto di fitto del 1352 risulta abitante a Padova nella contrada di S. Andrea: è definito magister, ma non viene specificata la sua professione.
Il primo documento noto relativo al G. è un contratto di societas del 2 giugno 1374, nel quale egli è definito specialis e residente non più nella contrada di S. Andrea, ma in quella di S. Lucia, dove possedeva una statio specialie che, in forza del contratto, affidava per cinque anni a Francesco da Prato, pure speziale. Fu ascritto alla fraglia degli speziali, nella quale ricoprì numerose cariche fra il 1376 e il 1404, svolgendovi più volte le funzioni di gastaldo e di massaro. Le sue condizioni economiche dovevano essere molto buone perché risulta, in quel periodo, tra i maggiori estimati.
Già a partire dall'ottavo decennio del secolo ebbe un ruolo di un certo rilievo nella vita politica cittadina. Ben inserito fra i sostenitori della signoria carrarese, appare, infatti, impegnato in importanti missioni per conto del signore e della Comunità di Padova, e investito di uffici dell'amministrazione signorile connessi con il suo habitus mercantile e popolare. Durante la "guerra per i confini" contro Venezia (1372-73) fu inviato come ambasciatore, insieme con Marsilio Turchetto, a Genova, a Pisa, a Firenze e a Ferrara. A nome del vescovo di Siena, ambasciatore del papa, nel 1373 chiese al voivoda ungherese Stefano, che si trovava a Padova con 2000 ungari in soccorso di Francesco il Vecchio contro Venezia, di non porgere aiuto allo scomunicato Bernabò Visconti. Nel 1378 il G. risulta "texoriero" di Francesco da Carrara il Vecchio. In tale veste ricevette da quest'ultimo l'ordine di trasformare in moneta padovana l'oro e l'argento contenuti in tre carri che il re d'Ungheria, Luigi I, aveva inviato come contributo di guerra all'alleato.
Riferisce il G. (Cronaca, ed. Medin - Tolomei, p. 156) che insieme con il massaro del Tesoro, Checco da Lion, con il referendario Francesco Turchetto e con il maestro della zecca Brocardo, decise di battere tre diversi tipi di moneta: una d'oro, del valore di mezzo ducato, e due d'argento: il carrarese da quattro soldi e il carrarino da due soldi. La critica più recente ritiene che più probabilmente si trattasse di una moneta d'oro del valore di un ducato veneziano, un soldo d'argento e un quattrino.
Il G. era tesoriere del Comune di Padova nel settembre del 1388. Dai registri della fraglia degli speziali risulta che nel 1384 e nel 1387 egli concorse, con 20 ducati prima e con 33 ducati poi, alle contribuzioni allora richieste per sovvenzionare le spese di guerra. Nel corso del 1388 ebbe una parte di primo piano quale rappresentante della Comunità cittadina nelle vicende che caratterizzarono quell'anno. Il 29 giugno, in qualità di anziano di Comune per il quartiere del Duomo, nel quadro delle cerimonie che accompagnarono la rinuncia alla signoria compiuta da Francesco il Vecchio, consegnò al figlio ed erede di quest'ultimo, Francesco Novello da Carrara, riconosciuto nuovo signore, le chiavi della città. Nel dicembre fece parte della ambasceria di dodici cittadini inviata dal Comune di Padova a Gian Galeazzo Visconti per trattare i termini della dedizione della città. L'ambasceria era composta da due cavalieri, quattro dottori, il "sindaco" del Comune e cinque mercanti, tra cui il G. stesso. Nel 1390, rientrato in Padova Francesco Novello (21 giugno), il G. fu inviato insieme con Orlando Capodilista come ambasciatore a Venezia, per annunciare a quel governo il ritorno al potere del Carrarese. Nel giugno del 1404, quando, a causa della arrischiata politica portata avanti dal Carrarese, si profilò inevitabile lo scontro diretto con la Serenissima, il G. fu tra le personalità chiamate a far parte del Consiglio generale convocato nel palazzo degli Anziani da Francesco Novello per prendere decisioni definitive. In quella occasione il G. prese la parola fra i primi, esortando alla pace e all'alleanza con Venezia "perché ella è quella che vi pote fare il bene e 'l male" (Cronaca, p. 529). La sua proposta non venne accolta e il contrasto sfociò in guerra aperta. Nell'agosto di quell'anno, il G. con i suoi cinque figli maschi, "armati tuti de brunite arme d'azaio perfino i piedi", ricevette per primo dalle mani del Novello uno dei suoi stendardi con i mondi d'oro, accompagnato dalle parole "perch'io mi fido di te e di tua chaxa" (ibid., p. 536), rivolte a uno dei figli del G., Gian Galeazzo.
Il G. non sopravvisse alla rovina della dinastia carrarese: morì infatti nel corso dell'estate del 1405, il 9 agosto, durante la pestilenza che infuriò nella città assediata dalle truppe della Serenissima, poco prima della resa. Aveva allora sessantuno anni, come attesta il figlio Bartolomeo.
Il G. ebbe cinque figli maschi: Andrea, Dioneo, Bartolomeo, Gian Galeazzo, e un quinto di cui ignoriamo il nome.
Il G. è autore di un' "opera, cioè chronica di quelle cose più notabelle e magne che seguirono in questa città [Padova] e in questa parte d'Italia" - come afferma nel proemio - dal 1318 al 1389, che non ci è giunta in originale, ma che ci è stata conservata da numerosi apografi. Nella continuazione sino al 1407, compiuta dal figlio Bartolomeo, e nella revisione dell'intera opera da parte del primogenito Andrea furono aggiunte, amplificate o omesse alcune parti, senza peraltro alterare sostanzialmente la struttura dell'opera, né trasformarne gli intenti. In particolare, gli interventi di Bartolomeo consistettero, soprattutto a partire dal 1358, in alcune aggiunte volte ad allargare al contesto italiano il panorama della narrazione (che nella stesura originale manteneva un respiro sostanzialmente municipale) e nell'inserimento di numerosi documenti in latino.
La narrazione del G., basata sulle "croniche antiche" precedenti, ripercorre in dettaglio le sei guerre che Padova combatté fra il 1372 e il 1388, e si conclude, per opera di Bartolomeo, con il racconto della morte di Francesco Novello a Venezia insieme con i figli Francesco e Giacomo, e quella avvenuta a Firenze del terzo figlio, Ubertino.
Nonostante il tema della cronaca sia la storia dei da Carrara, essa si risolve nella narrazione delle vicende di Padova, di cui nel corso del secolo XIV appunto i da Carrara furono gli interpreti più forti e più prestigiosi, costituendo una tradizione che sopravvisse loro anche dopo l'assoggettamento della città a Venezia. Vi trovano posto dunque le biografie di Francesco il Vecchio e di Francesco Novello, viste sempre a parte civitatis: la politica dei Carraresi è guardata con distacco solo a partire dal momento in cui, annessa Treviso, la logica politica della dinastia e le sue strategie finanziarie oltrepassarono l'orizzonte municipale, alterando gli equilibri costitutivi dell'originario binomio signori-Comunità cittadina. Questa circostanza, infatti, induce gli autori a valutare con maggior obiettività sia la linea adottata da Francesco il Vecchio e da suo figlio, sia le pesanti conseguenze del confronto con Venezia che essa comportava. Il carattere marcatamente cittadino della cronaca si coniuga con la matrice mercantile del G. e dei suoi figli, esponenti a pieno titolo di quel gruppo di mercanti, imprenditori e finanzieri che fiorirono a Padova negli ultimi decenni del Trecento, appoggiandosi alla signoria, ma anche intersecandone in modi autonomi i percorsi e le scelte. A tale matrice mercantile si può ricondurre anche il tipo di cultura che permea la cronaca: una cultura "volgare", non legata a una formazione di tipo umanistico, che riecheggia piuttosto la sapiente immediatezza del Boccaccio e si dispiega in gustose, talora appassionanti narrazioni in cui le motivazioni psicologiche e personali, più che eventuali ragioni di necessità politica, stanno alla base delle azioni dei protagonisti e dello svolgersi degli avvenimenti.
I manoscritti della Cronaca si possono dividere, secondo il Medin (p. XXXII), in "due famiglie: la prima, assai più numerosa, di quelli che riproducono con esattezza ora maggiore ora minore, ma sempre con fedeltà, l'originale ora perduto o ignorato; la seconda, di quelli nei quali la forma venne modificata, col sostituire in generale alle espressioni e desinenze dialettali, talvolta fraintese, quelle letterarie italiane, così da togliere al testo tutta la sua schiettezza e il suo colore originale".
La redazione del figlio Bartolomeo ci è conservata da un solo codice, il ms. Ital. 262 della Bibliothèque nationale di Parigi, autografo, cartaceo, della prima metà del sec. XV. La cronaca del G., è stata pubblicata per la prima volta da L.A. Muratori, nei Rer. Ital. Script., XVII, Mediolani 1730, con il titolo di Chronicon Patavinum Italica lingua conscriptum ab anno 1311 usque ad annum 1406 auctore Andrea de Gataris… Adnectitur eadem historia qualis scripta fuit a Galeatio Andreae patre. In questa edizione (coll. 7-753) è riprodotta la redazione fornita dal codice Est. Ital. 1144 (Modena, Bibl. Estense, ora F.3.18), della prima metà del sec. XVI, messa a confronto con il testo della Cronaca rivista da Andrea quale appare nel codice Est. Ital. 1134 (Ibid., ora S.1.7) del principio del sec. XVIII. Della cronaca del G. fornirono nel 1931 una nuova edizione A. Medin e G. Tolomei, per la 2ª ed. dei Rer. Ital. Script., con il titolo di Cronaca Carrarese di Galeazzo e Bartolomeo Gatari, confrontata con la redazione di Andrea Gatari. Gli editori riprodussero la redazione contenuta nel già ricordato codice della Bibliothèque nationale di Parigi, autografo di Bartolomeo, confrontata sia con le varianti fornite dalla tradizione manoscritta attraverso cui ci è pervenuto il testo originale del G., sia con la redazione dovuta ad Andrea nella forma conservata nel codice B.P. 1490 della Biblioteca civica di Padova.
Bartolomeo, nato intorno al 1380, fu, come il padre, speziale. Risulta infatti iscritto alla fraglia degli speziali, di cui fu più volte gastaldo e massaro fra il 1411 e il 1427. Dalle portate d'estimo del 1421 e del 1438, risulta che, oltre alla casa nel "centenario" di S. Lucia, possedeva una "speziaria" affidata a terzi e terre nella "villa" di Montinovi, già acquistate dal padre. Nel 1429 egli fu inviato a Venezia insieme con Benedetto Dotti e con Jacopino Mussati "pro factis Communis Padue": è questo il primo incarico pubblico da lui ricoperto di cui si abbia notizia. Secondo il Medin nel 1433 avrebbe fatto parte del Consiglio maggiore di Padova per il quartiere del Duomo, ma il registro degli atti del Consiglio per questi anni non ne fa menzione. Siamo informati che nel 1438 fu convocato a Venezia per presentarsi al Consiglio dei dieci, probabilmente perché simpatizzante carrarese o in qualche modo implicato nelle ultime rivendicazioni autonomistiche condotte da Marsilio di Francesco Novello da Carrara tra il 1409 e il 1435. Risulta già morto nel 1439.
Bartolomeo fu copista: ci rimane, di sua mano, un codice datato al 1405, contenente la Pietosa fonte di Zenone da Pistoia in commemorazione della morte di F. Petrarca. Questo codice, ora conservato presso la Bibl. capitular y Colombina di Siviglia (AA.144 n° 29), ci consente, oltre che di accertare gli interessi petrarcheschi di Bartolomeo, anche di confermare l'autografia del codice parigino della sua redazione della Cronaca composta dal padre. Fu l'unico dei figli del G. ad avere discendenti diretti i quali, tuttavia, a partire dal 1455 mutarono il loro cognome in quello di Galeazzi, come risulta dalle portate dell'estimo di quell'anno.
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