TARLATI, Galeotto (Galeotto da Pietramala). – Figlio di Magio di Roberto Tarlati da Pietramala e di Rengarda di Galeotto Malatesta da Rimini, nacque nel 1356 nella Valtiberina aretina in uno dei castelli allora nelle mani della sua famiglia (forse ad Anghiari). Ebbe sei tra fratelli e sorelle (Bartolomeo, Pandolfo, Malatesta, Caterina, Taddea, Elisa, secondo G. Franceschini, Alcune lettere inedite..., 1964)
All’età di dieci anni perse la madre e, forse in seguito a questo evento, intraprese la carriera ecclesiastica fino a diventare protonotario apostolico. Non sappiamo nulla in merito alla sua formazione scolastica, che però dovette essere buona, dato il livello letterario delle epistole che scrisse negli anni seguenti.
Il 18 settembre 1378, ad appena ventidue anni, da Urbano VI fu creato cardinale diacono con il titolo di S. Agata, per ricompensare la fedeltà alla Chiesa dei Tarlati e soprattutto dei Malatesta.
Sin dai primi anni trascorsi in Curia, Galeotto si segnalò per il tenore di vita ricco e sfarzoso come quello di un principe secolare: secondo un canonico di Bordeaux che si recò a Roma agli inizi del 1381, egli si muoveva a cavallo con non meno di trenta scudieri e di dodici servitori in livrea (H. Finke, Über Schisma-Publikationen, 1932, p. 462); però il segretario pontificio Francesco Bruni, scrivendo intorno al 1381, deplorava che, pur essendo un «grande gentile uomo e grande signore», per le sue ristrettezze economiche faticasse a mantenere quello stile di vita (G. Brucker, An unpublished source..., 1963, p. 370). Peraltro, alternò la vita in Curia, al servizio del pontefice, alla residenza nei suoi castelli della Valtiberina aretina, dove si occupò di difendere gli interessi della sua famiglia: sappiamo infatti da una lettera della signoria di Firenze del 5 novembre 1378 che già allora, a meno di due mesi dalla promozione, stava cercando di far assegnare a suo nonno Galeotto Malatesta il vicariato su Città di Castello.
Tra il 1379 e il 1380 viaggiò tra Romagna e Toscana. Il 25 agosto 1379 arrivò a Rimini presso Galeotto Malatesta, ove rimase per dieci giorni; poi si portò ad Anghiari, per incontrare il padre Magio (poi catturato dal Comune di Arezzo, presto liberato per intervento del figlio, quindi morto nel gennaio del 1380). Nell’inverno si recò a Petriolo, nel Senese, per frequentare i bagni termali e da qui, l’8 gennaio 1380, passò a Siena, con il fratello Pandolfo. Insieme ripartirono per la Valtiberina e il 22 gennaio parteciparono ai funerali del padre nel castello di Vaglialle, presso Anghiari; quindi Tarlati accompagnò la sorella Caterina a Castel Durante, dove, il 9 febbraio, concesse cento giorni di indulgenza ai fedeli che avessero visitato il locale santuario della Madonna della Neve.
In questo periodo i rapporti tra il cardinale e Firenze furono buoni: nel 1380 il Comune di Firenze gli inviò una lettera di condoglianze per la morte di Magio e nel 1381 lo chiamò in aiuto per difendere il fiorentino Angelo Acciaioli, vescovo di Rapolla ingiustamente accusato, e per far liberare un prete, Giovanni Bonaiuti, arrestato in Curia. Nello stesso anno fu anche destinatario di una poesia di Alberto degli Albizzi, il quale, di ritorno dall’esilio cui lo aveva costretto il governo popolare dei Ciompi, gli promise la sua amicizia e gli offrì la sua disponibilità a seguirlo in Curia. Successivamente, i rapporti con Firenze si guastarono a causa della situazione politica del Comune di Arezzo, legata alle vicende del Regno di Napoli. La città, dilaniata dalle discordie di fazione, era stata infatti conquistata da Carlo III di Angiò Durazzo, candidato di Urbano VI al trono napoletano (avendo la regina Giovanna aderito al papa avignonese Clemente VII), e fu vessata dai vicari angioini e saccheggiata dai condottieri Alberico da Barbiano (novembre del 1381) e Villanuccio da Monforte (febbraio del 1382).
Il 1° giugno 1381 Tarlati fece parte della commissione di cinque cardinali, presieduta da Bartolomeo Mezzavacca, incaricata di trattare con Carlo per la cessione di una parte del Regno di Napoli al nipote del papa, Francesco Prignano; ma gli accordi non furono rispettati, provocando contro il re e i cardinali, ostili all’intenzione papale di spostarsi a Napoli (giugno del 1383), il pervicace risentimento del pontefice. In seguito a questi fatti Galeotto non risiedette in Curia, ma in Valtiberina, ove la sua famiglia – di fronte all’affermarsi dei poteri territoriali delle città – si trovò di fronte a una scelta politica delicata, come altre casate signorili appenniniche. Suo fratello Bartolomeo si mostrò favorevole a un assoggettamento a Firenze (nonostante quel comune avesse condannato i Tarlati per il sacco di Arezzo) e accomandò tutti i castelli dei Tarlati della Valtiberina ai fiorentini (28 aprile 1383), ma Galeotto non approvò la scelta e la ribaltò, dandoli tutti in accomandigia a Siena, città cui era legato da vincoli di amicizia (24 giugno 1384). Pertanto dal 15 maggio 1384 al 3 febbraio 1385 rimase ancora in Valtiberina, tra Vaglialle, Anghiari e Citerna, da dove dettò varie lettere ai governanti di Siena, contenenti professioni di amicizia e accorate richieste di aiuto. La sua scelta fu però vanificata e la sua linea politica filosenese finì definitivamente sconfitta.
Conquistata dal condottiero Enguerrand de Coucy (novembre del 1384), Arezzo fu venduta ai fiorentini, entrando definitivamente a far parte del loro dominio. Il 16 febbraio 1385 il capitano di giustizia fiorentino in città, Niccolò Gherardini, condannò i Tarlati a restituire al Comune di Arezzo le terre che ancora detenevano e a risarcire i proventi in denaro indebitamente trattenuti; in particolare Galeotto dovette cedere i castelli di Pianettole e Vaglialle. Il fratello Bartolomeo prudentemente si schierò di nuovo con Firenze, cui accomandò i castelli suoi e del fratello assente (17 aprile 1385); a Galeotto fu riconosciuto comunque il possesso di Vaglialle, sulla base di nuovi capitoli (maggio 1385).
Rientrato in Curia, nel settembre del 1385 – quando il papa si spostò a Genova – con il cardinale Pileo da Prata, Tarlati si adoperò per mediare nella controversia con i cardinali (sei dei quali erano stati arrestati nel gennaio del 1385, con l’accusa di complotto) e chiese a Urbano VI di rimettere in libertà i prigionieri e di riappacificarsi con la casa di Angiò Durazzo. Ma fu accusato anch’egli di complotto, con da Prata, e solo l’intervento del doge di Genova li salvò dal carcere. Costretti alla fuga, i due si rifugiarono presso Gian Galeazzo Visconti a Pavia, da dove scrissero una violenta lettera contro Urbano VI, giustificando la loro fuga e accusandolo di varie colpe (8 agosto 1386; H.V. Sauerland, Aktenstücke..., 1893, pp. 827-831). Per tutta risposta, il 13 settembre 1386 il papa aprì un processo contro di loro.
Tra la fine del 1386 e l’inizio del 1387 Tarlati si spostò in Savoia, sotto la protezione del conte Amedeo VII, per passare sotto l’obbedienza di Clemente VII. Il 4 maggio 1387 arrivò ad Avignone e il 7 maggio il papa lo accolse nel collegio cardinalizio con il titolo di S. Giorgio in Velabro; in questa occasione Pierre Gérard, vescovo di Le Puy, tenne un solenne discorso (F.P. Bliemetzrieder, Sermo..., 1909).
Da questo momento in poi la vita di Galeotto si svolse in Provenza, al servizio del papato avignonese. Furono anni meno movimentati dei precedenti e il suo ruolo politico non fu più di primo piano; agì soprattutto come consigliere del papa e come mecenate del circolo di umanisti creatosi ad Avignone in seno alla Curia pontificia. Uno dei suoi primi atti fu il divieto di accedere al duomo di Torino, che emanò nel 1388 (Rondolino, 1898, p. 14). Ad Avignone Galeotto scrisse anche due lettere a Gian Galeazzo Visconti, suo antico protettore, invitandolo ad attaccare l’odiata Firenze e congratulandosi con lui per la sconfitta del conte Jean d’Armagnac (13 novembre 1390 e 17 agosto 1391; F. Novati, Due lettere..., 1916).
Il 16 settembre 1394 Clemente VII morì e Tarlati partecipò al conclave da cui il cardinale Pedro de Luna uscì papa con il nome di Benedetto XIII. L’anno successivo fece parte di una commissione di nove cardinali incaricata di esprimere le proprie opinioni sulla risoluzione dello scisma, e propose un’improbabile via conventionis: i due pontefici, l’avignonese e il romano Bonifacio IX (succeduto nel 1389 a Urbano VI) avrebbero dovuto incontrarsi in territorio neutrale, sotto l’egida del re di Francia, e decidere insieme la soluzione migliore per l’unità della Chiesa. Alla fine del 1394, per accompagnare una missione diplomatica inviata da Benedetto XIII, Tarlati scrisse anche una lettera al popolo romano, in cui ne elogiava le virtù e lo pregava di ascoltare il papa avignonese per ripristinare l’unità (E. Martène - U. Durand, Veterum scriptorum..., 1724, I, coll. 1543-1546).
Ad Avignone il cardinale animò un gruppo di intellettuali umanisti tra cui Nicolas de Clamanges, Jean Muret, Giovanni Moccia e Laurent de Premierfait, e fu in contatto con altri umanisti parigini, Gontier Col e Jean de Montreuil. Fu anche all’origine di una querelle che vide coinvolti alcuni di loro con risposte più o meno polemiche.
La polemica nacque da una lettera che Tarlati indirizzò il 2 dicembre 1394 a Clamanges, allora cancelliere dell’Università di Parigi, per complimentarsi del suo stile (Sepe alias). Nell’epistola il cardinale citò un passo di Francesco Petrarca del 1368, «extra Italiam poete et oratores non querantur» (Seniles IX, 1), che suonò offensivo per i francesi. Clamanges rispose con due lettere (Perpulchras pater e Quod in superiori) per dimostrare la falsità dell’affermazione di Petrarca. Montreuil, anch’egli ammiratore dei classici (nonché corrispondente di Coluccio Salutati), replicò con una lettera, Non dici, per manifestare il suo stupore e il suo dissenso. È perduta una seconda epistola del cardinale in risposta alle precedenti, che Montreuil giudicò «gravis et alta» e a cui rispose con un’altra lettera, Venit ad me (giugno-luglio del 1395). La polemica non intaccò tuttavia l’amicizia e la stima tra il cardinale e Clamanges: quando papa Benedetto XIII dovette scegliere un nuovo cancelliere per la segreteria apostolica in sostituzione di Jean Muret (novembre del 1397), Galeotto gli raccomandò proprio Clamanges.
Il cardinale di Pietramala morì di calcolosi renale a Vienne, nel Delfinato, dove si trovava in missione per conto del pontefice, nella tarda primavera del 1398.
Il corpo fu trasportato in nave fino ad Avignone, dove si svolsero le esequie solenni. Premierfait, che vi partecipò, descrisse l’enorme concorso di folla (erano presenti il papa e i cardinali, tutto il clero e il popolo della città) e chiamò Tarlati «honor, flos et decus unicus urbis». La sua morte fu l’occasione per rinsaldare i legami di amicizia e di condivisione di valori umani e letterari all’interno del circolo umanistico avignonese: Clamanges, Muret e Moccia composero epitaffi in suo onore, dei quali ci è giunto solo quello di Clamanges nella lettera Mallem tibi («Cui Mala Petra dedit nomen, petra morbida lethum / Nunc petra dat tumulum; da, petra Christe, polum»). Premierfait scrisse un prosimetro in suo onore, che è andato perduto.
Fu sepolto, per sua volontà, nella cappella di famiglia nel santuario francescano della Verna, cui era legato da profonda amicizia.
Non ci è rimasto il testamento, con il quale cedette la sua prestigiosa raccolta libraria ammirata da Clamanges. Tra i suoi manoscritti c’era un codice correctissimus delle opere di Cicerone appartenuto al cardinale Pierre Ameil, che dopo la morte di Galeotto passò al cardinale Niccolò Brancaccio; tra il 1403 il 1404 Montreuil cercò invano di rintracciarlo. Ci è noto invece un altro manoscritto appartenuto al cardinale (Parigi, Bibliothèque nationale de France, ms. lat., 3351: Ps.-Leonardus de Giffone, Liber soliloquiorum anime penitentis), con il suo ritratto in preghiera e lo stemma dei Tarlati. Le qualità letterarie di Tarlati, lodate dagli umanisti francesi di Avignone e di Parigi, emergono dalle sue lettere e da un sonetto di tema amoroso in stile petrarchesco (Udine, Biblioteca civica, Fondo princ., 10, c. 294v).
Fu un uomo di lettere e di potere, un signore colto e raffinato attivamente coinvolto nella politica della Chiesa e della sua famiglia. La sua vita appare come quella di un principe secolare più che di un uomo di Chiesa e si fatica a cogliervi un’attività specifica in campo religioso o il riflesso di una spiccata sensibilità spirituale.
Fonti e Bibl.: Udine, Biblioteca civica, Fondo princ., 10, c. 294v; Nicolai de Clemangiis... Opera omnia, a cura di I.M. Lydius, Lugduni Batavorum 1613, epp. IV, V, XII; E. Martène - U. Durand, Veterum scriptorum et monumentorum historicorum..., I, Parisiis 1724, coll. 1543-1546, VII, Parisiis 1733, coll. 543-545; Epistola o sia Ragionamento di messer Lapo da Castiglionchio, a cura di L. Mehus, Bologna 1753, pp. 149 s.; H.V. Sauerland, Aktenstücke zur Geschichte des Papstes Urban VI, in Historisches Jahrbuch, XIV (1893), pp. 820-832 (in partic. pp. 827-831); F.P. Bliemetzrieder, Sermo des Bischofs Petrus Girardi..., in Studien und Mitteilungen aus dem Benediktiner - und dem Cistercienser - Orden, XXX (1909), pp. 52-60; F. Novati, Due lettere del cardinale di Pietramala a Gian Galeazzo Visconti, in Archivio storico lombardo, s. 5., XLIII (1916), 9-10, pp. 185-191; Cronache malatestiane dei secoli XIV e XV, a cura di A.F. Massera, in RIS, XV, 2, Bologna 1922-1924, pp. 28, 50; Cronache senesi, a cura di A. Lisini - F. Iacometti, ibid., XV, 6, Bologna 1931-1939, pp. 673, 677, 702; H. Finke, Über Schisma-Publikationen, in Historisches Jahrbuch, LII (1932), pp. 457-464 (in partic. p. 462); R. Brun, Annales avignonnaises de 1382 à 1410 extraits des archives Datini, in Mémoires de l’Institut historique de Provence, XIV (1937), pp. 5-57 (in partic. p. 40); U. Pasqui, Documenti per la storia della città di Arezzo nel medioevo, III, Firenze 1937, nn. 842-844, 854 s.; Genealogia della famiglia Tarlati da Pietramala, ibid., fuori testo, n. 31; G. Brucker, An unpublished source on the Avignonese papacy: the letters of Francesco Bruni, in Traditio, XIX (1963), pp. 351-370; Jean de Montreuil, Opera, I, 1, Epistolario, a cura di E. Ornato, Torino 1963, pp. 78, 92, 135-137, 215-218; G. Franceschini, Alcune lettere inedite del cardinale Galeotto da Pietramala, in Italia medioevale e umanistica, VII (1964), pp. 375-404; P. Licciardello, Una poesia latina di Alberto degli Albizzi, in Italia medioevale e umanistica, LIII (2012), pp. 347-357.
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