GALILEI, Galileo
Da Vincenzo Galilei (v.) e da Giulia degli Ammannati, nacque Galileo in Pisa il 15 febbraio 1564. Dal padre ereditò il gusto per la musica e fu squisito suonatore di liuto. Fatti i suoi primi studî a Pisa, poi a Firenze, dove nel 1574 si era di nuovo trasferita la famiglia, s'immatricolò all'Università degli artisti in Pisa il 5 settembre 1581 per seguire gli studî di medicina e poi di filosofia e di matematica. I suoi primi scritti, Juvenilia, che risalgono al 1584, rivelano già le sue conoscenze della filosofia peripatetica e della fisica aristotelica. Interrotti gli studî universitarî, forse per le disagiate condizioni di famiglia, e avuto un primo avviamento agli studî di geometria da Ostilio Ricci da Fermo, istitutore dei paggi del granduca, da solo approfondì le opere di Archimede; e per risolvere il problema della corona di Erone, inventò la bilancia idrostatica, che descrisse in un breve scritto: La bilancetta (1586). Alcune sue ricerche geometriche sui centri di gravità di tronchi di piramidi, di coni, di conoidi parabolici, comunicati al padre Cristoforo Clavio in una sua prima venuta in Roma (seconda metà del 1587), al Moletti lettore di matematica a Padova, e al dotto matematico marchese Guidubaldo Dal Monte, gli valsero, con l'appoggio del Dal Monte, la lettura di matematica a Pisa (luglio 1589).
Malgrado le mancanze dei rotuli universitarî, si può ritenere che il suo insegnamento ufficiale fu conforme alle tradizioni; ma è pur certo che privatamente cominciasse a confutare Aristotele e ad occuparsi di meccanica. Nel suo trattatello De motu, circa del 1590, e che cominciò anche a porre sotto forma di dialogo, già si riscontrano accenni di ricerche sul moto di gravi su piani inclinati, e varie opposizioni, del resto non nuove, alle teorie di Aristotele sul moto dei proietti. Di questo periodo pisano sono le celebri esperienze dal campanile di Pisa per accertare che due sfere eguali e di diverso peso cadono con la stessa velocità e la scoperta dell'isocronismo delle oscillazioni del pendolo.
Le invidie, le inimicizie suscitate da queste scoperte e ricerche; la tema non infondata di non essere confermato nella lettura allo spirare del triennio, e la necessità di maggiori proventi per il carico della famiglia, dopo la morte del padre (1591), lo indussero a chiedere la cattedra di matematica a Padova, che ottenne (sett. 1592), succedendo al Moletti, e iniziando il periodo più fecondo della sua vita.
Dai rotuli universitarî risulta che egli lesse pubblicamente Euclide, la Sfera di Sacrobosco, l'Almagesto, le Questioni meccaniche di Aristotele, la Teorica dei Pianeti; e nell'insegnamento privato, in cui, secondo il costume dell'epoca il maestro teneva in casa a pensione gli scolari, insegnò, tra l'altro, cose riguardanti le sue ricerche: tali ad es. l'uso del compasso geometrico e militare, meccanica, prospettiva, arte militare. Il suo modo meraviglioso e profondo d'insegnare fece accorrere presso di lui scolari da ogni parte d'Europa. Appartengono a questo primo periodo padovano le sue lezioni di Architettura militare, il breve Trattato di fortificazioni, il Trattato della sfera, ovvero Cosmografia secondo il sistema tolemaico, e infine il prezioso trattatello Le Meccaniche, scritto forse per le sue lezioni private tra il 1593 ed il 1599, che furono pubblicate, tradotte in francese, dal p. M. Mersenne nel 1634. Esse sviluppano la teoria delle macchine semplici, l'equilibrio su di un piano inclinato (già ben noto dal famoso trattato di Giordano Nemorario) felicemente ricondotto a quelli della leva angolare e infine la verifica del principio dei lavori virtuali nell'equilibrio delle macchine semplici. Anche per la lucida esposizione occupano un posto eminente nella storia della statica. Un altro breve trattato De motu accelerato, forse della metà del 1604, fa parte di quei lavori sul moto locale (dinamica) su cui meditò ininterrottamente dal 1602 al 1609.
La comparsa di una Noia (ottobre 1604) e le tre pubbliche lezioni da lui tenute sulla Nuova Stella, e di cui sono rimasti alcuni appunti, furono cagione di una palese rottura coi peripatetici sostenitori dell'incorruttibilità, impassibilità e inalterabilità dei cieli. G. ragionevolmente sosteneva che il sito della Nova doveva essere stato sempre superiore all'orbe lunare, deduzione impugnata da un milanese medico empirico e studente di medicina a Padova, tal Baltesar Capra in una Consideratione astronomica, ecc.
Fin dal 1597, perfezionando uno strumento ideato dal marchese Dal Monte, si era occupato della costruzione del Compasso geometrico e militare, una specie d'ingegnoso regolo calcolatore, e i cui perfezionamenti si possono seguire sulle varie redazioni scritte prima della stampa. La costruzione era fatta, sotto la guida di G., da un abile meccanico, Marco Antonio Mazzolini; e il suo uso insegnato ai suoi scolari privati. La pubblicazione: Le operazioni del compasso geometrico e militare avvenne nel 1606 ed è rimasto famoso il plagio fattone dal già nominato Capra in: Usus et fabrica circini cuiusdam proportionis (1607). Ne seguì una formale denunzia a Venezia, il processo, la condanna del Capra e la distruzione di tutte le copie del suo libro. G. scrisse la sua Difesa contro le calunnie di B. Capra (1607) ribattendo tutto ciò che dal Capra era stato erroneamente affermato nella Consideratione astronomica. Pure a questo periodo si deve la costruzione d'un termo-baroscopio, da cui probabilmente derivò il termometro, la cui invenzione non può però attribuirsi a G.
I due ultimi anni del soggiorno di G. a Padova (1609-1610) sono memorandi per la costruzione e il perfezionamento dell'occhiale, detto poi e forse secondo una proposta di F. Cesi, telescopio, e per le scoperte celesti.
I documenti scoperti da C. de Waard negli archivî olandesi (1906) hanno provato che, oltre l'investigazione di G. B. della Porta, nella 2ª metà del sec. XVI in Italia si usavano combinare lenti entro tubi; e in un giornale o diario del noto Isacco Beeckman si afferma (1634) che Janssen Zacharias di Middelburg fece il primo cannocchiale nell'anno 1604 dietro uno di un italiano. Oltre il Janssen, costruì cannocchiali pure in Middelburg anche Hans Lippershey; e la notizia giunse in Venezia nel novembre 1608 ed è accertato che ai primi del 1609 se ne vendevano di molto modesti a Parigi e in Italia.
G., o da sé, combinando una lente convessa (obiettivo) con una concava (oculare), oppure con un modello che poté procurarsi, e con somma perizia lavorando le lenti, riuscì a costruire un telescopio squisito e più potente degli altri. Presentato al Senato veneto il 25 agosto 1609, destò stupore ed enorme impressione. L'idea di valersene per l'esplorazione del cielo è uno dei suoi maggiori titoli di gloria. Negli ultimi mesi del 1609 osservò la costituzione della Via Lattea, la risoluzione di varie nebulose (Orione, Pleiadi), i monti e i mari della Luna; il 13 gennaio 1610 scoprì i primi quattro satelliti di Giove e determinò il periodo di rivoluzione del più lento. Tali scoperte furono fatte note col Sidereus Nuncius (marzo 1610), dedicato al granduca di Toscana Cosimo II, suo allievo, in onore del quale i satelliti furono chiamati Medicea Sidera. Non mancarono aperte negazioni e disapprovazioni da parte dei peripatetici, come Martino Horky, Lodovico delle Colombe, Francesco Sizi, G. Cesare La Galla e incredulità (C. Clavio a Roma, Giov. Ant. Magini a Bologna); ma altresì la poderosa adesione di Keplero, che curò subito una nuova edizione del Nuncius a Praga, cui fece seguire una propria dissertazione; né mancò un tentativo di plagio da parte di Simone Mayr che in un'opera Mundus Jovialis (Norimberga 1614), reclamò la priorità della scoperta. Dotti e amatori poterono contemplare i pianetini quando adoperarono cannocchiali perfetti come quelli che sapeva costruire G. e in parte forniti da lui stesso e poi dal napolitano F. Fontana. La Signoria veneta riconfermò a G. la condotta a vita nello studio di Padova con eccellenti condizioni economiche. Ma il vivo desiderio di ritornare in patria, di liberarsi dalle fatiche della lettura per dedicarsi totalmente alle osservazioni celesti e ai suoi lavori sulla scienza del moto, gli fecero accettare (1° luglio 1610) la nomina a matematico sopraordinario dello studio di Pisa e di filosofo del serenissimo granduca, senz'obbligo di leggere e di risiedere né nello studio, né nella città di Pisa. E così lasciò, dopo diciotto anni, il sicuro rifugio di Padova. Quivi da Marina Gamba aveva avuto tre figli, due femmine, la prima delle quali, Virginia (v.), fu carissima a G., e un maschio, Vincenzo (1606-1649) legittimato nel 1619, che fu un gentile poeta.
Nello stesso luglio G. fece le sue prime osservazioni sulle macchie solari; scoprì (25 luglio) Saturno tricorporeo, dandone l'annuncio, tra gli altri, a Keplero sotto forma di anagramma del verso: "Altissimum Planetam tergeminum observavi". La posizione dell'anello e l'ancora debole potenza del suo occhiale, non permisero a G., malgrado le continue osservazioni, la scoperta del vero sistema di Saturno, riserbata a C. Huygens. La scoperta infine delle fasi di Venere (ottobre 1610) è del pari annunciata con altro anagramma di "Cynthiae figuras aemulatur mater amorum".
È del successivo anno 1611 la visita memoranda di G. a Roma (29 marzo-4 giugno), ospite dell'ambasciatore toscano G. Niccolini e poi nella villa del granduca alla Trinità dei Monti. Fu ricevuto dal papa Paolo V e nel giardino del Quirinale mostrò le sue scoperte ai dotti gesuiti del Collegio romano, i quali osservarono i pianeti medicei dal novembre 1610 all'aprile 1611, e grandemente onorarono G. in un solenne ricevimento in cui dal padre Odo Malcot fu pronunciata un'orazione (che si è conservata) e si lesse il Sidereus Nuncius. In precedenza i detti padri, su richiesta del Bellarmino, avevano confermato le scoperte di G., salvo soltanto una restrizione del Clavio per le montagne della Luna. In Roma (12 aprile) G. fu iscritto all'Accademia dei Lincei; e determinò completamente (e con sufficiente esattezza) i periodi dei pianeti medicei.
Una discussione sulla causa del galleggiare del ghiaccio secondo Aristotele e i peripatetici, fu l'origine di un Discorso al serenissimo Don Cosimo II ecc., che ebbe nello stesso anno ben due edizioni (1612) e in cui si espongono con chiare dimostrazioni i principî dell'idrostatica secondo Archimede. E sollevò a rumore il campo peripatetico, con le risposte polemiche di G. Corresio, di V. Di Grazia e il discorso apologetico di Lodovico delle Colombe, ai quali, in modo tagliente rispose il benedettino padre B. Castelli, già allievo di G. a Padova e professore a Pisa.
Le macchie solari furono scoperte nel luglio 1610 da G., che le mostrò in Venezia e poi in Roma tra il marzo e aprile 1611, secondo la testimonianza del padre Guldin; e contemporaneamente da G. Fabricio, la cui Narratio de maculis in Sole observatis comparve nel 1611, e successivamente dal padre Cristoforo Scheiner in Ingolstadt. Le lettere dello Scheiner a Marco Velser in Augusta, e poi l'opera De maculis solaribus, vennero in luce nel gennaio e settembre 1612 sotto lo pseudonimo di Apelle. G. difese la sua priorità e fece note tutte le sue osservazioni più accurate e numerose in tre lettere allo stesso Velser, scritte tra il maggio e il dicembre 1612 e che, a cura dei Lincei, furono stampate in Roma nel febbraio 1613 col titolo: Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, ecc., da annoverarsi tra le più belle e originali scritture di G. Sono una meravigliosa confutazione di molte inesatte affermazioni del "finto Apelle" e trattano della realtà delle macchie, della loro luminosità e profondità, delle loro zone, dei tempi dei loro passaggi, e contengono la dimostrazione della rotazione del Sole su sé stesso, le risposte alle numerose obiezioni degli avversarî. Qui forse per la prima volta pubblicamente appariva la sua adesione al sistema copernicano, nella critica al complicato sistema dei cicli ed epicicli. G. torna ancora sulla teoria dei pianeti medicei, sulle loro eclissi e periodi, sulle montagne della luna, sulle stelle bilaterali di Saturno, ecc. Ed è anzi da rilevare il fatto che nella terza di queste celebri lettere annuncia una nuova meraviglia, cioè Saturno non più tricorporeo ma solitario; predicendo però che si tornerà nuovamente a vederlo accompagnato dalle stelle fra qualche mese.
Nel marzo 1614 (in una famosa lettera a G. Baliani) G. espose il metodo per la determinazione del peso dell'aria.
Ma oltre querele e scaramucce peripatetiche, ecco scatenarsi su G. ben più grave tempesta. Che fosse da tempo fautore del sistema copernicano, si rileva da una lettera (maggio 1597) a Iacopo Mazzoni, già suo collega in Pisa, e da altra (4 aprile) a Keplero, in cui afferma: "Id autem eo libentius faciam, quod in Copernici sententiam multis abhinc annis venerim". Le scoperte celesti, confermanti la verità del sistema copernicano, lo avevano rafforzato nella sua fede e fatto ardito a manifestare il suo pensiero. In una lettera (21 dicembre 1613) a B. Castelli, e in quella alla granduchessa Cristina di Lorena (1615) con maggior diffusione ed erudizione, validamente sostiene essere pericoloso portar le scritture sacre in dispute di conclusioni naturali, perché esse non possono errare, bensì lo possono i loro interpreti, tanto più che tali scritture hanno adoperato frasi adatte all'intelligenza del volgo; che il famoso passo di Giosuè, che volle fermato il Sole, si accorda perfettamente col sistema copernicano, mostrando la falsità e l'impossibilità del mondano sistema aristotelico e tolemaico. Intanto già il domenicano T. Caccini, dal pergamo di S. Maria Novella, apostrofò pubblicamente Galileo, ai primi del 1615 e l'altro domenicano N. Lorini denunciò G. alla congregazione del S. Uffizio di Roma per le eresie contenute nella lettera al Castelli. La congregazione ordinava l'esame di tale lettera e di quelle sulle macchie solari (25 novembre 1615). Malgrado colloquî e persuasioni adoperate da G. in un suo terzo viaggio in Roma, per prevenire gl'intrighi dei suoi nemici, il S. Uffizio presieduto da R. Bellarmino (25 febbraio 1616) pronunziò la censura contro il sistema copernicano, ingiungendo a G. di astenersi dall'insegnare e difendere o comunque trattare la dottrina copernicana, pena il carcere. Il 27 ne fu fatta comunicazione a G., che accettò e promise di obbedire.
La congregazione dell'Indice (5 marzo 1616) proibì la lettura del libro di Copernico e di tutti gli altri che insegnavano la stessa dottrina. Nel giugno G. tornò a Firenze consigliato dal granduca, da amici, da ammiratori a obbedire e a starsene tranquillo. E nella vita di G. seguono infatti, prima della tragedia finale, sedici anni di relativa tranquillità, dedicati agli studî, alle osservazioni celesti per la costruzione delle tavole dei pianeti medicei, e alla preparazione di altre opere, tra cui quella del Dialogo famoso, e passati tuttavia in mezzo a continue infermità, in Firenze, nella villa di Bellosguardo e poi, dal settembre 1631, in quella del Gioiello in Arcetri. Ma non mancarono nuove occasioni di dispute coi peripatetici e coi padri gesuiti Grassi e Scheiner.
La comparsa di tre comete nell'anno 1618 fece scrivere a padre Orazio Grassi una Disputatio astronomica, in cui attaccava il sistema copernicano, cui rispose, forse ispirato dallo stesso G., un suo allievo, Mario Guiducci, col Discorso delle Comete. E questo a sua volta provocò la pubblicazione della Libra astronomica ac philosophica del padre Grassi. Questa volta G. rispose direttamente con un'altra delle sue meravigliose scritture, stampata in Roma nel 1623 a cura dei Lincei, che la dedicarono a Urbano VIII da poco assurto al pontificato; cioè col Saggiatore nel quale con bilancia esquisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libra astronomica e filosofica, ecc. Dopo aver melanconicamente osservato la grande avversione che suscitano le sue scritture, tutte rivolte alla disinteressata ricerca del vero, risponde vittoriosamente alle calunnie e alle assurde questioni di priorità di S. Mayr per la scoperta dei pianeti medicei; riespone tutte le sue scoperte celesti, rifacendo la storia dell'invenzione del cannocchiale e in un modo un po' diverso da quella esposta nel Sidereus Nuncius; e poi, punto per punto, con abilità garbata di consumato polemista, risponde a tutte le fallaci proposizioni del Grassi, non senza finissima ironia.
Nel 1624 G. fece una quarta gita in Roma, dopo essere stato ospite di F. Cesi in Acquasparta, e fu ricevuto dal papa che si era sempre mostrato benevolo verso G., a cui da cardinale aveva dedicata un'ode per le sue scoperte celesti e ora aveva concesso due benefici. G. sperò e tentò di avere il permesso di scrivere a favore del sistema copernicano, malgrado l'editto del 1616, più che non avesse già fatto nelle lettere sulle macchie solari. Tornato a Firenze inventò e perfezionò il microscopio composto e ne inviò uno al Cesi (settembre 1624): "un occhialino per veder da vicino le cose minime".
Ed eccoci finalmente a uno dei punti culminanti della vita di G. e alla storia del famoso Dialogo. A un dialogo sul flusso e riflusso del mare, che doveva essere una esposizione del sistema del mondo, G. aveva lungamente pensato, nonostante l'editto del 1616; e dal 1624 in poi vi aveva lavorato a varî intervalli di tempo e per le sue grandi occupazioni e anche per le sue frequenti infermità. Scritto completamente nel dicembre 1629, era pronto per la stampa nel maggio 1630. Ottenuta, dopo varie vicende e una nuova gita a Roma, la licenza per la stampa, il libro uscì nel febbraio 1632; e porta il titolo: Dialogo di G. Galilei, . . . Dove ne i congressi di quattro giornate si discorre sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, proponendo indeterminatamente le ragioni filosofiche e naturali tanto per l'una quanto per l'altra parte. Il titolo stesso spiega con quale apparente artificio G. credeva di poter sfuggire al "salutifero editto" del 1616, come dice nella prefazione.
La scena del dialogo è a Venezia e ne sono interlocutori Filippo Salviati (1582-1614), gentiluomo fiorentino e linceo, nella cui Villa delle Selve G. scrisse due delle tre lettere sulle macchie solari e che rappresenta lo stesso G. e la parte copernicana; Giovan Francesco Sagredo veneziano (1571-1620), che rappresenta "messer buon senso" e infine un peripatetico, Simplicio, dal nome del famoso commentatore aristotelico, e che rappresenta uno dei tanti peripatetici oppositori di G. e non certamente il papa, come vollero far credere nemici di G., fondandosi sul fatto che molto imprudentemente alla fine del dialogo G. mette proprio in bocca a Simplicio (che in tutta l'opera fa una ben magra e ridicola figura) le parole con cui il papa difendeva il sistema tolemaico e che aveva voluto fossero inserite nel Dialogo. Tre anni dopo B. Castelli e l'ambasciatore francese Francesco Noailles recisamente smentivano al papa tale conclusione. Tale opera se non è la più bella e la più originale di G., è certamente da ascriversi tra le più celebri uscite dalla sua penna, sia per gli accenni alle scoperte sulla scienza del moto, sia per lo splendore della forma e per il metodo d'indagine, per la battaglia coi peripatetici condotta con fine ironia e inarrivabile umorismo, sia soprattutto per le vicende che essa ebbe e per la tempesta che scatenò su G.
Nella prima giornata si fa una critica, certamente non nuova, alle teorie del moto di Aristotele, e si difendono le vedute di G. sulle montagne e i mari della Luna. La seconda è specialmente dedicata al moto diurno della Terra intorno al proprio asse, a ribattere gli argomenti proposti in contrario, e all'esposizione delle ragioni che rendono, nell'armonia dei cieli, più semplice e più logica l'ipotesi copernicana. Ed è appunto in questa giornata che si sviluppano le chiare idee di G. sulla dinamica, sul principio d'inerzia, quello detto ora di relatività classica, sulla forza centrifuga; che si fa un primo annuncio pubblico delle leggi della caduta dei gravi, delle leggi delle oscillazioni del pendolo; sull'indipendenza della velocità di caduta dal peso, in opposizione alla dinamica aristotelica, ecc. Nella caduta di un grave dall'alto di una torre o dall'albero di una nave in moto, G. non ha conosciuto o osservato la deviazione verso est, che pur aveva notato Leonardo, ed erra nell'assegnare la traiettoria di un grave cadente, tenuto conto della rotazione terrestre, pur avendo poscia dichiarato che quello fu uno scherzo o bizzarria. La terza giornata dopo una polemica sulle Novae e sul loro posto nel cielo, espone le ragioni del moto della Terra intorno al Sole, la spiegazione delle stazioni e dei regressi dei pianeti secondo Copernico, ritornando ancora sulle fasi di Venere e sulle macchie solari e sulle previsioni fatte sul loro moto in base alla teoria copernicana. Ed è qui che forse più che in ogni altro luogo appare senza ambagi, per bocca del Salviati, il trionfo copernicano: "sono in Tolomeo le infermità e nel Copernico i medicamenti". Nella quarta giornata, dedicata al flusso e riflusso del mare, spiegato unicamente col moto della Terra, rifiutando l'idea dell'influenza lunare, G. si è completamente ingannato. Qui tuttavia sono enunciate le leggi della caduta dei gravi per una quarta parte di circonferenza.
I numerosi oppositori di G., e tra questi i padri gesuiti del Collegio romano Grassi e Scheiner, compresero subito l'importanza del Dialogo, vedendo assai meglio dei revisori che avevano concesso la licenza, e, secondo scrisse G., dichiararono che "quel libro era più esecrando e più pernicioso per S. Chiesa che le scritture di Lutero e di Calvino". Da Roma (agosto 1632) si proibisce la diffusione del libro; e poi (1° ottobre) viene intimato a G. di presentarsi dinnanzi al commissario generale del S. Uffizio. Respinta la richiesta di fare il processo a Firenze, ottenuta una breve proroga per le sue precarie condizioni di salute, è costretto a partire nel gennaio 1633, dopo aver fatto testamento. Scontata la quarantena, giunse a Roma il 13 febbraio e fu alloggiato presso l'ambasciatore di Toscana a Palazzo Firenze. Il 12 aprile fu sottoposto a un primo esame e trattenuto nei locali del S. Uffizio, con molti riguardi e libertà di passeggiare nel cortile. Tre teologi: Melchiorre Inchofer, Agostino Oregio, Zaccaria Pasqualigo, esaminato il Dialogo, dichiararono aver G. contravvenuto all'ammonizione e al decreto del 1616, e uno di essi ritenne inoltre esservi veramente sospetto che tuttavia aderisse all'opinione copernicana. Il 30 aprile, dopo aver fatto una dichiarazione concertata col padre Maculano, G. poté tornare presso l'ambasciatore e preparare le sue difese. Il 16 giugno, nel palazzo apostolico del Quirinale, il Consiglio del S. Uffizio, le cui varie adunanze furono in gran parte presiedute dal papa, condannava G. all'abiura e al carcere ad arbitrio della Sacra congregazione, proibendo il Dialogo e qualunque sua ulteriore opera. La sentenza fu comunicata a G. il 21; e il 22 nella sede del S. Uffizio in S. Maria sopra Minerva avvenne l'abiura. La condanna al carcere fu però subito commutata dal papa, prima in una relegazione o confino nel giardino della Trinità dei Monti e poscia a Siena e finalmente (dicembre) ad Arcetri. La leggenda del motto "eppur si muove" che G. avrebbe pronunciato appena fatta l'abiura, non ha alcun fondamento storico.
G. non fu mai totalmente liberato e perdonato, malgrado potenti e autorevoli intercessioni. Le sue richieste di tornare a Firenze furono prima respinte e, poi, nel marzo 1638, quando era completamente cieco, esaudite condizionatamente: gli si concesse di abitar la casa sulla costa di S. Giorgio, con l'obbligo di non uscire di città, tanto che era costretto a chiedere speciale permesso per fare le devozioni pasquali. L'ultima sua richiesta al papa per la completa liberazione (28 aprile 1638), fu respinta dal S. Uffizio.
G. trascorse gli ultimi suoi anni parte a Firenze e poi quasi sempre in Arcetri. Prima la perdita della diletta figlia Virginia, poi la cecità che gli vietò di più rivedere "quel cielo, quel mondo e quello universo che io con mie meravigliose osservazioni e chiare dimostrazioni avevo molteplicato per cento e mille volte più del comunemente veduto da' sapienti di tutti i secoli passati" e la prigionia nella "sua carcere di Arcetri" resero ben triste e dolorosa la fine del glorioso vegliardo. In quegli anni si dedicò alla pubblicazione di tutte le sue ricerche sul moto che aveva intraprese da quarantatré anni; cioè ai famosi e immortali Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica. Erano pronti sin dal 1634 e, dopo varî tentativi di stampa, profittando di una visita in Arcetri di L. Elzeviro, si decise a farli stampare a Leida (1638) dedicandoli al conte Fr. de Noailles. E il capolavoro di G. e, insieme con le scoperte celesti, colloca G. nei primi posti tra i rinnovatori della scienza e del metodo scientifico. Ha forma di dialogo, con gli stessi personaggi del Dialogo sui sistemi, e in origine si componeva di quattro giornate.
Nella prima dopo alcune generalità sulla resistenza dei solidi, G. espone le sue idee sugl'indivisibili e ne fa una bella e originale applicazione alla ricerca del volume della sfera. È qui che espone il suo metodo per la determinazione della velocità della luce che ritiene "se non istantanea, velocissima", quello del peso dell'aria; la critica serrata delle teorie del moto di Aristotele; le esperienze sulla caduta dei gravi per piani inclinati, e coi pendoli, e infine le prime ricerche sui suoni prodotti da corde. Al confronto delle resistenze dei cilindri cavi e piani; al problema della trave incastrata in un estremo e che sostiene un peso nell'altro; alla ricerca del solido di egual resistenza, è dedicata la seconda giornata che insieme con la prima costituisce la prima delle nuove scienze in cui G. ha avuto in Leonardo un grande precursore. Le altre due sono dedicate alla scienza dei moti locali e recano il testo latino delle ricerche sul moto uniformemente accelerato dell'amico accademico Linceo, cui poi commentano gl'interlocutori. Le leggi di G. degli spazî proporzionali ai quadrati dei tempi sono così note che basta solo accennarvi. La teoria del moto su di un piano inclinato, fondata sul postulato della egual velocità di caduta su piani limitati da una stessa orizzontale (che poi G. riuscì a dimostrare) per corde di cerchio; la netta formulazione della legge d'inerzia nella forma sia pur limitata (moto su di un piano), chiude la terza memoranda giornata che è col fatto "una nuova scienza intorno a un soggetto antichissimo". La quarta giornata tratta De motu proiectorum, G. dimostra una chiara intuizione di ben note leggi dinamiche, determina la traiettoria parabolica dei proietti nel vuoto, e la studia particolareggiatamente, formando altresì la prima tavola balistica. B. Cavalieri nel suo Specchio ustorio del 1632 aveva pure determinato la traiettoria dei proietti; ma la priorità di Galileo è fuori di ogni contestazione. È pure infine in questa giornata che G. fa cenno alla catenaria, cioè alla curva di equilibrio di una corda tesa o poco o molto tirata "che si piega in linee le quali assai si avvicinano alle paraboliche". E si noti che la scienza deve pure a G. la considerazione e generazione della curva che ora si chiama cicloide. In una lettera al Cavalieri (1640) dice essergli venuta in mente più di cinquant'anni prima e che voleva adattarla agli archi di un ponte. Ma non riuscì a trovarne l'area, che gli parve essere tripla del cerchio che la descrive.
G. cieco, per aderire alle richieste del suo giovane allievo Vincenzo Viviani che era presso di lui dal novembre 1638, dettò la dimostrazione del postulato relativo al moto su piani inclinati; come del pari dettò a Evangelista Torricelli, inviatogli da B. Castelli nell'ottobre 1641, il dialogo della quinta giornata sopra le definizioni e le proposizioni di Euclide (5° libro). La sesta giornata, stampata in seguito, riguarda la forza della percossa; ma qui G. non ha colto nel vero. E dopo aver scritto un trattato sulle operazioni astronomiche (1637), dettò (e fu il suo ultimo lavoro) la lunga lettera al principe Leopoldo di Toscana a proposito del cap. 2° del Litheophosphorus (pietra lucifera di Bologna) di Fortunio Liceti. G. aveva del pari lungamente e ripetutamente pensato di valersi delle tavole delle eclissi dei pianeti medicei per la risoluzione del problema delle longitudini in mare, imposto dalle grandi navigazioni oceaniche e aveva fatto proposte agli Stati Generali d'Olanda; le trattative andarono per le lunghe e non approdarono a nulla; e per quanto poi gli Stati decretassero e inviassero a G. una collana d'oro in premio, G. la rifiutò cortesemente e ne ebbe lode dal papa. G. infine pensò all'applicazione del pendolo agli orologi, ideando il primo scappamento, di cui lasciò i disegni e la cui esecuzione non poté essere eseguita né da lui, né dal figlio Vincenzo, che morì pochi anni dopo del padre. È quindi fuori dubbio la priorità di G. su Huygens. Il sistema a scappamento di G., in base ai disegni ritrovati tra le carte di Viviani, è stato ricostruito nel principio del secolo scorso da un orologiaio fiorentino, E. Porcellotti, e si conserva a Firenze nel Museo degli strumenti antichi.
G. morì in Arcetri l'8 gennaio 1642. Il monumento gli fu eretto in S. Croce da V. Viviani; con la decisione del S. Uffizio, che in ciò non trovava nulla in contrario, salvo a veder bene ciò che si doveva scrivere sull'epitaffio, si chiude (1734) il processo di G.
Galilei filosofo. - Il G. trova il suo posto in filosofia nel contrasto mediante il quale viene ricostituito il concetto della natura di fronte allo spirito. Egli quindi si collega da una parte a Telesio, Bruno e Campanella e dall'altra a Kant, che diede forma definitiva ai presupposti del Galilei. Il sistema copernicano, da questo difeso, importava l'eliminazione dalle concezioni cosmologiche d'ogni simbolica; le osservazioni dei fenomeni del cielo, matematicamente interpretate, davano il sistema del mondo quale è di fatto, indipendentemente da ogni valore morale attribuito a questa o quella posizione: la natura viene quindi veramente limitata nel suo ruolo di natura. Inoltre, nella necessità di difendere i dati della nascente scienza, viene capovolto il processo di distinzione della scienza dalla religione: non è più la religione che, per liberarsi dall'intrusione del razionalismo che mostra l'insufficienza di alcune dimostrazioni dei dogmi, vuol differenziare la verità di fede da quella di ragione, ma è la scienza che invoca la differenza e la parità d'origine del libro della natura e delle Sacre Scritture per proteggere l'indipendenza dei suoi giudizî. E per farlo divide nettamente il campo morale, proprio della religione (spirito), dal campo dei fatti, proprio della scienza (natura). E definisce la natura necessaria, immutabile, eterna; gli effetti naturali è necessario che seguano facilmente e non solo che seguano con facilità, ma con necessità, sì che impossibile sia il succedere in altra maniera (Ediz. nazionale, VII, p. 450); quello che non può essere eterno non potrà esser naturale (VII, p. 160); la natura è inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi di operare siano o non siano esposte alla capacità degli uomini (V, p. 283); l'ordine del mondo è uno solo, né è mai stato altrimenti (VII, p. 699). Questa natura libera da valori mistici non è però libera da valori estetici: fra questi bisogna includere la sua perfezione ("... di parti con sommo e perfettissimo ordine fra di loro disposte", VII, p. 431, la sua semplicità ("la natura... non opera con l'intervento di molte cose quel che può fare col mezzo di poche" VII, p. 143), la piccolezza e tenuità dei mezzi di cui si serve (XI, p. 532). La concezione della materia in G. è una sintesi di platonismo e atomismo nella quale non è estraneo l'influsso bruniano. Infatti, mentre la materia è sempre divisibile, essa deve essere costituita di elementi indivisibili (atomi), ma questi sono punti e forme geometriche (VII, pp. 682-83), quindi la famosa immagine del libro della filosofia "scritto a caratteri di triangoli, quadrati, cerchi, sfere, coni, piramidi ed altre figure matematiche attissime... per esser lette da tutti". Dell'atomismo G. conserva il concetto del "vacuo" (VII, p. 60; VIII, p. 68) e quello che ogni generazione e corruzione possa seguire "da una semplice trasmutazione di parti" (VII, p. 64-65). Ma tutti questi concetti assumono un nuovo valore in quanto non sono posti come concezioni per sé stanti (spiegazione ultima dell'universo), ma ipotesi per poter rappresentare o spiegare i fenomeni. Con ciò si mostra che l'atomismo è passato attraverso l'epicureismo che poneva per fine alla scienza solo "il salvare i fenomeni". Dell'epicureismo si rifiutano le deviazioni dalla rigida necessità democritea.
Questa dottrina della natura poggia sul concetto gnoseologico della relatività delle sensazioni o, come si dice, soggettività delle qualità secondarie (odori, sapori, colori, ecc.), dal G. con maggior copia di argomentazioni ripristinata. Più che le qualità studia la quantità e le forme intuibili. Così si accresce la conoscibilità della natura. Poiché G. ha fede nella conoscenza sensibile, ma solo in quanto è percezione di un mutamento e questo mutamento per la sua necessità e perpetuità è suscettibile di misurazione, quindi di rappresentazione matematica. La limitazione della mente umana ha luogo riguardo all'estensione del sapere, ma non riguardo all'intensità di quelle nozioni che ci è dato conoscere, come le verità matematiche. In questo campo la nostra conoscenza è assoluta: "di quelle poche intese dall'intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa essere sicurezza maggiore" (VII, pp. 128-29). Si conferma quindi con G. quell'esame della conoscenza nel quale la matematica domina sopra ogni altro sapere per certezza. La matematica è il principio di sistemazione di quel sapere il cui fondamento è l'esperienza, non nuda osservazione, ma esperimento. "Tra la causa e l'effetto ha una ferma e costante connessione; necessaria cosa è che qualunque volta si vegga alterazione ferma e costante nell'effetto, ferma e costante alterazione sia nella causa" (VII, p. 471). Ma tale scienza deve rinunziare alla conoscenza delle essenze per rivolgersi ai fenomeni puri e semplici (accidenti) (V, p. 187; V, p. 188). Da questi criterî ebbe inizio la nuova scienza della natura e quindi la nuova libertà dello spirito di fronte alla natura.
Ediz.: Dell'Edizione nazionale a cura di A. Favaro e di I. Del Lungo, 20 voll., Firenze 1890-1909, si è iniziata nel 1929 una ristampa a cura di A. Garbasso.
Bibl.: La Bibliografia Galileiana di A. Carli e di A. Favaro (Roma 1896), va dal 1586 al 1895 e contiene 2108 indicazioni. Vedi inoltre: A. Favaro, G. G. e lo studio di Padova, voll. 2, Firenze 1883; id., G. G. (profilo), Modena 1910; C. Prantl, G. und Kepler als Logiker, Monaco 1875; G. Natorp, G. als Philosph, Heidelberg 1882; C. Lasswitz, G.s Theorie der Materie, Lipsia 1889; V. Fazio-Allmayer, G. G., Palermo 1912; L. Olschki, G. und seine Zeit, Halle 1927; A. Banfi, G. G., Firenze 1931. - Si possono poi consultare i numerosi articoli di A. Favaro su amici, corrispondenti e oppositori di G. il cui elenco è stato fatto da G. Favaro, in Atti R. Istituto veneto, LXXXII, ii (1922-23); L. Pastor, Storia dei papi, XIII, Roma 1931, pp. 625-40. - Sull'importanza letteraria di G., cfr. U. Bosco, in La Cultura, XI (1932), pp. 110-118.