Galileo Galilei
Galileo Galilei è una delle figure fondamentali della rivoluzione scientifica del 17° secolo. I suoi contributi in matematica, fisica e astronomia, la sua opera in filosofia della natura e sulla metodologia scientifica e il suo ruolo nell’ambito della storia filosofica e civile, con il suo contrasto con la Chiesa e la difesa dell’autonomia della scienza, segnano l’inizio dell’era moderna. Tipicamente galileiani sono due temi che interagiranno con l’evoluzione della vita civile soprattutto in Italia: l’autonomia della scienza da ogni autorità, in particolare dalla religione e dalle ideologie, e il valore conoscitivo delle scienze.
Galileo Galilei nasce il 15 febbraio 1564 a Pisa, da Vincenzio, liutista, compositore, ma soprattutto celebre teorico di musica, e dalla nobile Giulia Ammannati. Si immatricola all’università di Pisa nel 1581 per fare studi di medicina, mai portati a termine; il suo interesse si volge invece verso la matematica, sotto la guida di Ostilio Ricci (1540-1603), maestro alla corte medicea, già allievo di Niccolò Tartaglia. Studia i matematici antichi e contemporanei – entra in contatto con Cristoforo Clavio e Guidubaldo Dal Monte –, prediligendo la geometria e, soprattutto, la fisica. Grazie a Dal Monte è lettore di matematica a Pisa (1589-92). Nel 1586 compone La bilancetta, breve scritto sulla bilancia idrostatica e, durante l’insegnamento pisano, il De motu (entrambi pubblicati postumi). Nel 1592 ottiene la cattedra di matematica a Padova. I diciotto anni del soggiorno padovano saranno un periodo fecondo di ricerche e scoperte nella matematica, nella fisica e nell’astronomia: redige Le mecaniche, compie l’analisi del moto di caduta dei gravi, comincia a lavorare con il cannocchiale, da lui perfezionato. Le sue prime scoperte astronomiche, pubblicate nel Sidereus Nuncius (1610), ottengono grande riconoscimento da parte degli scienziati – fra i quali Johannes Kepler e i potenti astronomi gesuiti del Collegio Romano. Viene nominato «primario matematico» dello Studio di Pisa, senza obbligo di insegnamento, e «primario matematico e filosofo» del granduca di Toscana.
Grazie all’elevato stipendio e alla libertà da impegni didattici può dedicarsi esclusivamente alla ricerca: escono così Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua, o che in quella si muovono (1612) e Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari (1613), dove rende pubblica la sua accettazione della teoria copernicana; nel Discorso del flusso e reflusso del mare (1616) vede nel fenomeno delle maree una conferma del copernicanesimo. Frattanto, però, le critiche alla cosmologia tradizionale vengono sempre meno tollerate: denunciato al Sant’Uffizio, Galilei espone le proprie ragioni nella celebre lettera alla granduchessa Cristina di Lorena del 1615 (ampliamento della lettera del 1613 a Benedetto Castelli), dove rivendica l’autonomia della scienza e la sua superiore autorità nell’interpretare la natura rispetto alla Scrittura, cui i tradizionalisti si appellavano per confutare l’eliocentrismo. Nel 1616 la Congregazione dell’Indice condanna la dottrina copernicana: Galilei viene ammonito, in forma ufficiale ma amichevole, ad abbandonarla.
In occasione dell’eccezionale apparizione in cielo di tre comete nel novembre del 1618, il gesuita Orazio Grassi pubblica la Disputatio astronomica de tribus cometis anni MDCXVIII (1619), in cui il fenomeno delle comete viene spiegato utilizzando le teorie geocentriche di Tycho Brahe (1546-1601). Con il Discorso delle comete (1619) di Mario Guiducci i galileiani attaccano le teorie di Grassi che replica a sua volta facendo uscire, sotto lo pseudonimo di Lotario Sarsi Sigensano, la Libra astronomica ac philosophica. È questa l’origine del Saggiatore, nel quale con bilancia esquisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libra astronomica e filosofica di Lotario Sarsi Sigensano, vero e proprio capolavoro di polemica scientifica con cui Galilei esce allo scoperto dopo anni di silenzio pubblico. Il Saggiatore, già composto nel 1619, viene stampato a cura dell’Accademia dei Lincei nel 1623, anno dell’ascesa al soglio papale di Urbano VIII (Maffeo Barberini), destinatario della dedica, estimatore dello scienziato e uomo di vasta cultura.
Dopo una lunga gestazione e al termine di un faticoso iter per ottenere l’imprimatur Galilei pubblica, nel 1632, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano; proponendo indeterminatamente le ragioni filosofiche e naturali tanto per l’una, quanto per l’altra parte. Uscendo dai generi consueti per la trattazione scientifica, l’opera è scritta in volgare e in forma di dialogo fra tre interlocutori: il copernicano Salviati, l’aristotelico Simplicio, e Sagredo, arbitro e promotore della discussione. Nonostante la formale indicazione del copernicanesimo come ipotesi matematica, la forza degli argomenti avanzati in favore dell’eliocentrismo è tale da rendere evidente il superamento dei limiti imposti all’argomentazione scientifica che, secondo la raccomandazione del cardinale gesuita Roberto Bellarmino (1542-1621), «prudentemente» doveva «contentarsi di parlare ex suppositione e non assolutamente» (R. Bellarmino a Paolo Antonio Foscarini, 12 aprile 1615, in G. Galilei, Le opere, a cura di A. Favaro, 12° vol., 1902, p. 171). A Galilei viene ingiunto di recarsi a Roma per essere processato dal Sant’Uffizio. La sentenza di condanna viene emessa il 22 giugno 1633. Il vecchio scienziato, dopo avere confessato i propri errori, viene costretto ad abiurare.
Negli ultimi anni di vita Galilei lavorerà all’ultima sua grande opera: pubblicati ancora incompleti nel 1638, a Leida, i Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze racchiudono le sue ultime ricerche di fisica, matematica e, soprattutto, di dinamica. Muore l’8 gennaio 1642 ad Arcetri.
L’intero cammino intellettuale di Galilei è percorso dalla ricerca di una nuova filosofia della natura, di cui fornirà nuovi elementi e, soprattutto, un nuovo metodo: ribaltando l’impianto tradizionale fondato sulle categorie aristoteliche, che chiudeva l’indagine della natura entro i confini di una descrizione meramente qualitativa dei fenomeni, egli introduce una serie di concetti ‘meccanici’ e, soprattutto, un nuovo modo di pensare nel quale la matematica diventa centrale e non più solo strumentale. Con ciò sono gettate le fondamenta della rivoluzione scientifica del Seicento, di cui Galilei è uno dei padri, anche se alcuni risultati effettivi dei suoi studi risentono delle ancora inadeguate conoscenze matematiche.
Nel Sidereus Nuncius magna, longeque admirabilia spectacula pandens, letto con successo anche oltralpe, erano documentate le scoperte astronomiche basate sulle osservazioni compiute dallo scienziato toscano a partire dalla fine del 1609, scoperte che andavano letteralmente a sovvertire le conoscenze del tempo scardinando alcuni presupposti fondamentali della fisica aristotelico-scolastica: l’irregolarità della superficie della Luna, il fenomeno delle macchie solari che scompaiono e riappaiono, la scoperta di quattro satelliti di Giove (i satelliti ‘medicei’) e delle fasi del pianeta Venere – per citare solo alcune delle più importanti scoperte – convergevano infatti, agli occhi dello scienziato, nel mostrare, contro la tradizionale dicotomia mondo terrestre/mondo celeste, il carattere ‘unitario’ dell’universo, sostanziato di un’unica materia soggetta a generazione e corruzione – anche nel Sole, come verificavano le sue macchie – e regolata da un unico tipo di ‘moto naturale’. La nuova fisica, con il moto di conversione del Sole intorno al proprio asse e l’alterabilità del cielo, accoglieva la concezione copernicana, di cui Galilei si dichiara pubblicamente sostenitore in Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari.
La divulgazione del copernicanesimo e il diffuso successo delle scoperte galileiane, che del copernicanesimo erano diventate un formidabile veicolo, suscitano una penetrante reazione degli ambienti teologici e scientifici aristotelico-scolastici volta a ridimensionare e contrastare l’affermazione e la validità del nuovo sistema. Alla teoria eliocentrica viene principalmente imputata la flagrante contraddizione con quanto è invece attestato dai passi della Scrittura, di cui il più noto è quello dove Giosuè chiede che il Sole si arresti (Giosuè 10, 12-13; altri brani impugnati contro la nuova ‘dottrina’ erano il Salmo 18 ed Ecclesiaste 1).
Nelle cosiddette lettere copernicane, composte fra il 1613 e il 1616 e indirizzate a Benedetto Castelli (21 dicembre 1613), a Piero Dini e alla granduchessa Cristina di Lorena, Galilei ingaggia una serrata difesa dell’autonomia della ricerca scientifica nei confronti della teologia e dell’autorità spirituale, cimentandosi anche sul piano esegetico-scritturale impugnato dai suoi avversari. Lo scienziato riconosce la comune origine divina della natura e della Scrittura, ma distingue nell’intento divino finalità e forme espressive diverse: la Bibbia è stata composta allo scopo di fornire agli uomini istruzioni di carattere etico-pratico e non teoretico-scientifico; essa si esprime perciò con il linguaggio degli uomini ai quali è destinato il suo messaggio. Diverso è invece il discorso per quanto riguarda la natura, come recita il celeberrimo passo della lettera a Cristina di Lorena:
Stante, dunque, ciò, mi par che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie: perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima essecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle scritture, per accommodarsi all’intendimento dell’universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al nudo significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all’incontro, essendo la natura inesorabile ed immutabile, e mai non trascendente i termini delle leggi impostegli, come quella che nulla cura che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità degli uomini; pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio, non che condennato, per luoghi della Scrittura che avessero nelle parole diverso sembiante; poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura, né men eccellentemente ci si scuopre Iddio negli effetti di natura che ne’ sacri detti delle Scritture: il che volse per avventura intender Tertulliano in quelle parole: «Nos definimus, Deum primo natura cognoscendum, deinde doctrina recognoscendum: natura, ex operibus; doctrina, ex praedicationibus» [«Noi sosteniamo che Dio deve in primo luogo esser conosciuto per mezzo della natura, in secondo luogo riconosciuto attraverso il suo insegnamento: nella natura secondo ciò che ha fatto, nell’insegnamento secondo ciò che ha detto»] (Lettere copernicane, in Id., Opere, a cura di F. Brunetti, 1° vol., 2005, pp. 559-60).
Il principale obiettivo polemico di Galilei non sarà però tanto l’autoritarismo teologico-scritturale – non va dimenticato che lo scienziato, nella lettera a Benedetto Castelli, proponeva a sua volta un’interpretazione del miracolo di Giosuè in senso eliocentrico – quanto il ricorso dogmatico all’autorità aristotelica e la concezione peripatetico-scolastica della natura, di cui mira a scardinare gli assunti fondamentali. Si legge infatti nella prima giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi:
Simpl. Aristotile fece il principal suo fondamento sul discorso a priori, mostrando la necessità dell’inalterabilità del cielo per i suoi principii naturali, manifesti e chiari; e la medesima stabilì doppo a posteriori, per il senso e per la tradizione de gli antichi.
Sal. Cotesto, che voi dite, è il metodo col quale egli ha scritto la sua dottrina, ma non credo già che e’ sia quello col quale egli la investigò, perché io tengo per fermo ch’e’ proccurasse prima, per via de’ sensi, dell’esperienze e delle osservazioni, di assicurarsi quanto fusse possibile della conclusione, e che doppo andasse ricercando i mezi da poterla dimostrare, perché così si fa per lo più nelle scienze dimostrative [...]. Or, tornando alla materia, dico che le cose scoperte ne i cieli a i tempi nostri sono e sono state tali, che possono dare intera soddisfazione a tutti i filosofi: imperocché e ne i corpi particolari e nell’universale espansione del cielo si son visti e si veggono tuttavia accidenti simili a quelli che tra di noi chiamiamo generazioni e corruzioni [...]. Ora, quando Aristotile vedesse queste cose, che credete voi, signor Simplicio, ch’e’ dicesse e facesse? (Dialogo sopra i due massimi sistemi, in Id., Opere, cit., 2° vol., pp. 73-74)
Sal. Il medesimo non afferm’egli che quello che l’esperienza e il senso ci dimostra, si deve anteporre ad ogni discorso, ancorché ne paresse assai ben fondato? e questo non lo dic’egli resolutamente senza titubare?
Simpl. Dicelo.
Sal. Adunque di queste due proposizioni, che sono ambedue dottrina d’Aristotile, questa seconda, che dice che bisogna anteporre il senso al discorso, è dottrina molto più ferma e risoluta che l’altra, che stima il cielo inalterabile; e perciò più aristotelicamente filosoferete dicendo «Il cielo è alterabile, perché così mi mostra il senso», che se direte «Il cielo è inalterabile, perché così persuade il discorso ad Aristotile» (p. 79).
Nella seconda giornata del Dialogo Galilei continua in questo modo:
Simpl. Ma quando si lasci Aristotile, chi ne ha da esser scorta nella filosofia? nominate voi qualche autore.
Sal. Ci è bisogno di scorta ne i paesi incogniti e selvaggi ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di guida; e chi è tale, è ben che si resti in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta. Né perciò dico io che non si deva ascoltare Aristotile, anzi laudo il vederlo e diligentemente studiarlo, e solo biasimo il darsegli in preda in maniera che alla cieca si sottoscriva a ogni suo detto e, senza cercarne altra ragione, si deva avere per decreto inviolabile; il che è un abuso che si tira dietro un altro disordine estremo, ed è che altri non si applica più a cercar d’intender la forza delle sue dimostrazioni. E qual cosa è più vergognosa che ’l sentir nelle publiche dispute, mentre si tratta di conclusioni dimostrabili, uscir un di traverso con un testo, e bene spesso scritto in ogni altro proposito, e con esso serrar la bocca all’avversario? Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare, deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria; ché non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l’onorato titolo di filosofo (pp. 147-48).
E ancora nel Saggiatore, ribattendo al Sarsi, l’interlocutore peripatetico, che sottolineava lo scarso numero dei seguaci del copernicanesimo, scrive:
In tanto non posso mancare, per avvertimento suo e per difesa di quelli, di mostrar quanto improbabilmente ei conclude la lor poca scienza della filosofia dal piccol numero de’ suoi seguaci. Forse crede il Sarsi, che de’ buoni filosofi se ne trovino le squadre intere dentro ogni ricinto di mura? Io, signor Sarsi, credo che volino come l’aquile, e non come gli storni. È ben vero che quelle, perché son rare, poco si veggono e meno si sentono, e questi, che volano a stormi, dovunque si posano, empiendo il ciel di strida e di rumori, metton sozzopra il mondo. Ma pur fussero i veri filosofi come l’aquile, e non più tosto come la fenice. Signor Sarsi, infinita è la turba de gli sciocchi, cioè di quelli che non sanno nulla; assai son quelli che sanno pochissimo di filosofia; pochi son quelli che ne sanno qualche piccola cosetta; pochissimi quelli che ne sanno qualche particella; un solo Dio è quello che la sa tutta. Sì che, per dir quel ch’io voglio inferire, trattando della scienza che per via di dimostrazione e di discorso umano si può da gli uomini conseguire, io tengo per fermo che quanto più essa participerà di perfezzione, tanto minor numero di conclusioni prometterà d’insegnare, tanto minor numero ne dimostrerà, ed in conseguenza tanto meno alletterà, e tanto minore sarà il numero de’ suoi seguaci [...]. Ma ben ch’io stimi, piccolissimo poter esser il numero de i seguaci della miglior filosofia, non però concludo, pel converso, quelle opinioni e dottrine esser necessariamente perfette, le quali ànno pochi seguaci; imperocché io intendo molto bene, potersi da alcuno tenere opinioni tanto erronee, che da tutti gli altri restino abbandonate (Il Saggiatore, in Id., Opere, cit., 1° vol., pp. 638-39).
L’addur tanti testimoni, signor Sarsi, non serve a niente, perché noi non abbiamo mai negato che molti abbiano scritto e creduto tal cosa, ma sì bene abbiamo detto tal cosa esser falsa; e quanto all’autorità, tanto opera la vostra sola quanto di cento insieme, nel far che l’effetto sia vero o non vero. Voi contrastate coll’autorità di molti poeti all’esperienze che noi produciamo. Io vi rispondo e dico, che se quei poeti fussero presenti alle nostre esperienze, muterebbono opinione, e senza veruna repugnanza direbbono d’avere scritto iperbolicamente o confesserebbono d’essersi ingannati (pp. 764-65).
Ma c’è di più. E Galilei lo introduce attraverso il motivo del libro della natura, motivo che gli giungeva da una lunga tradizione risalente almeno al Medioevo e che aveva conosciuto una rinnovata fortuna nel Rinascimento. Il libro della natura, concepito in precedenza come fonte di verità, come rivelazione o come insieme di simboli che rimandano alla divinità occulta, viene ora completamente rimodulato dallo scienziato.
Parmi, oltre a ciò, di scorgere nel Sarsi ferma credenza, che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all’opinione di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d’un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, a conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto (pp. 631-32).
Per Galilei, oltre al piano dell’esperienza così come si presenta alla sensibilità individuale, soggettiva, c’è il piano dell’essenza oggettiva del reale, che è una struttura razionale costituita da rapporti matematici misurabili e calcolabili o a essi riconducibile. Questa struttura matematica, la lingua in cui è scritto il libro della natura, esprime una realtà assoluta e una verità necessaria. Questo punto fondamentale segna la profonda distanza della posizione di Galilei da quella espressa da Andreas Osiander (1498-1552), l’autore della premessa alla prima edizione del De revolutionibus orbium coelestium (1543) di Nicola Copernico, o dal cardinale Bellarmino: per Galilei infatti il sistema copernicano è ben altro che una mera supposizione matematica. Lo scienziato è lontano anche dalla posizione di Urbano VIII che, partendo dalla premessa che Dio avrebbe potuto fare le cose diversamente da come sono, conclude per l’intrinseca incapacità della ragione umana di arrivare alla verità; l’unica via per la verità rimane quella della Scrittura, mentre al ragionamento viene attribuita una valenza solo di ipotesi. D’altra parte, Galilei si distanzia anche da Keplero, del quale respinge la teoria delle orbite ellittiche dei pianeti causate dalla forza esercitata dal Sole: per Galilei infatti – come per Copernico – la forma delle orbite planetari rimane circolare, ‘perfetta’.
Alla struttura matematica e necessaria della realtà corrisponde un tipo di conoscenza, quella matematica appunto, altrettanto assoluta e perfetta, e questo vale per Dio come per l’uomo, la cui conoscenza in questo ambito eguaglia, almeno in intensità, quella divina. L’esser l’universo scritto in lingua matematica garantisce pertanto la libertà della ricerca scientifica, che non solo non deve essere limitata o determinata da principi autoritativi esterni ma può assurgere autonomamente a un grado di certezza altrove inattingibile e questo proprio perché, per Galilei, l’intelletto umano, quando conosce matematicamente, è uguale a quello divino, come afferma alla fine della prima giornata nel Dialogo sopra i due massimi sistemi:
Simpl. O io non sono un di quegli uomini che intendano, o ’n questo vostro discorso è una manifesta contradizione. Voi tra i maggiori encomii, anzi pur per il massimo di tutti, attribuite all’uomo, fatto dalla natura, quello dell’intendere; e poco fa dicevi con Socrate che ’l suo intendere non era nulla; adunque bisognerà dire che né anco la natura abbia inteso il modo di fare un intelletto che intenda.
Sal. Molto acutamente opponete; e per rispondere all’obbiezione, convien ricorrere a una distinzione filosofica, dicendo che l’intendere si può pigliare in due modi, cioè intensive, o vero extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intellegibili, che sono infiniti, l’intender umano è quasi nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto all’infinità è come un zero; ma pigliando l’intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente, alcuna proposizione, dico che l’intelletto umano ne intende alcune così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza, quanto se n’abbia l’istessa natura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore (Dialogo sopra i due massimi sistemi, in Id., Opere, cit., 1° vol., p. 135).
Ne segue che la scienza per avere validità necessaria si deve occupare solo delle qualità oggettive, fondandosi esclusivamente sugli aspetti quantitativi: la realtà va vista non in termini di sostanze o essenze, ma in termini di quantità misurabili. Da qui la rilevanza anche dell’esperimento sia nella scoperta dei fenomeni causali, sia nella verifica. Galilei riferisce di molti esperimenti, anche se non sempre è facile distinguere esperimenti veri da esperimenti immaginati. In ogni caso, questo aspetto del pensiero galileiano è stato riassunto e formalizzato – in modo forse semplicistico – in quello che è noto come il ‘metodo sperimentale’, scandito in due passaggi principali: il primo momento consiste nella formulazione di un’ipotesi relativa a una connessione causa-effetto; il secondo momento è quello dell’esperimento vero e proprio, che riproducendo il fenomeno in migliori condizioni di osservabilità, permette di verificare o meno l’ipotesi, coscienti però delle difficoltà e dei limiti del processo.
Al di là dell’istanza di autonomia nella lettura delle Sacre Scritture al di fuori dell’esegesi cattolica ufficiale, in Galilei ci sono evidenti, sostanziali elementi di contrasto con la struttura politico-filosofica della Chiesa – che avranno specifiche ripercussioni nella vita civile e culturale particolarmente dell’Italia – a fronte dei quali appare troppo circoscritto e sostanzialmente insufficiente il richiamo all’equivalenza (geometrica) del sistema copernicano con quello tolemaico, in quanto quest’ultimo descrive il moto apparente sulla volta celeste, mentre quello copernicano fornisce una descrizione del moto nello spazio e permette di stabilire le proporzioni dei diametri dei vari pianeti e le loro relative distanze.
Il processo e la condanna del vecchio scienziato di larga fama determinarono la chiusura di un orizzonte per coloro che, anche in seno alla Chiesa cattolica, speravano o si illudevano di svolgere un ruolo attivo e riformatore nel mondo della scienza. Questa grave ipoteca peserà, soprattutto in Italia, per vari secoli. La sorte di Galilei e delle sue idee non poté non avere un vasto impatto fra gli intellettuali d’Europa dal momento che, per espressa volontà ecclesiastica, i testi della sentenza di condanna e dell’abiura circolarono quasi subito e diffusamente, sia nell’originale italiano sia tradotti in latino e in francese (da Marin Mersenne, nel 1634).
La sentenza ripercorreva tutti i passaggi della vicenda dello scienziato, a partire dal processo inquisitoriale avviato nel 1615, compiutosi con la condanna del copernicanesimo e con l’ingiunzione di «lasciare la detta falsa opinione» che Galilei non doveva, «nell’avvenire», né sostenere, né difendere, né insegnare; ricordava poi il relativo decreto dell’Indice contro i libri che trattavano la dottrina «dichiarata falsa et onninamente contraria alla Sacra, e divina Scrittura», per arrivare al presente di quella flagrante disobbedienza del precetto del 1616 che era costituita dalla pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi. Infine, così concludeva:
Diciamo, pronuntiamo, sententiamo, e dichiaramo, che tu Galileo sudetto per le cose dedotte in processo, e da te confessate come sopra ti sei reso a questo S. Officio vehementemente sospetto d’heresia, cioè d’haver tenuto, e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre, e divine Scritture, che il Sole sia Centro della terra, e che non si muova da Oriente ad Occidente, e che la terra si muova e non sia Centro del Mondo, e che si possa tenere, e defendere per probabile un’opinione dopo esser stata dichiarata, e diffinita per contraria alla Sacra Scrittura, e conseguentemente sei incorso in tutte le censure, e pene da Sacri Canoni, et altre Constitutioni generali, e particolari contro simili delinquenti, imposte, e promulgate. Dalle quali siamo contenti che sii assoluto, purché prima con cuor sincero, e fede non finta avanti di noi abiuri, maledichi, e detesti li sudetti errori, et heresie, et qualunque altro errore et heresia contraria alla Cattolica, et Apostolica Romana Chiesa, nel modo, e forma che da noi ti sarà data.
Et accioché questo tuo grave, e pernicioso errore, e transgressione non resti del tutto impunito, e sii più cauto nell’avvenire et essempio a gl’altri che s’astenghino da simili delitti ordiniamo che per publico Editto sia prohibito il libro de Dialogi di Galileo Galilei.
Ti condanniamo al Carcere formale in questo S. Officio per tempo ad arbitrio nostro […] (in F. Beretta, Redazione e diffusione della sentenza e abiura di Galileo, «Galilaeana. Journal of Galilean studies», 2004, 1, pp. 111-12).
Seguiva il testo dell’abiura:
Io Galileo […] inginocchiato avanti di voi […] Generali Inquisitori, […] con cuor sincero, e fede non finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori, et heresie [...]. E giuro che per l’avvenire non dirò mai più, né asserirò in voce o in iscritto cose tali per le quali si possi haver di me simil sospitione, ma se conoscerò alcun heretico, o che sia sospetto d’heresia lo denontiarò a questo S. Officio [...] (p. 114).
La prima reazione, in ordine temporale e di importanza, è quella di René Descartes (1596-1650) che, alla fine di novembre dello stesso anno della condanna, il 1633, comunica a Mersenne la sua decisione di non dare più alle stampe il trattato sul Mondo e di essere anzi determinato a distruggere tutte le sue carte o, quantomeno, a non renderle mai pubbliche.
In effetti, mi ero proposto di inviarvi il mio Mondo [...]. Ma vi dirò che avendo fatto cercare in questi giorni a Leida e Amsterdam se ci fosse il Sistema del Mondo di Galilei, giacché mi sembrava di aver sentito che era stato stampato in Italia l’anno scorso, mi si è fatto sapere che era vero che era stato stampato, ma che tutti gli esemplari erano stati immediatamente bruciati a Roma, e lui condannato a qualche ammenda: ciò mi ha sconcertato a tal punto che mi sono qui deciso a bruciare tutte le mie carte o, almeno, a non lasciarle vedere a nessuno. Infatti, non sono riuscito a immaginare per quale motivo egli, che è italiano e, come sento, pure benvoluto dal Papa, abbia potuto essere incriminato se non perché avrà senz’altro voluto stabilire il movimento della Terra, che so bene esser stato censurato altre volte da qualche Cardinale. Pensavo però di aver sentito dire che da allora non si smetteva di insegnarlo pubblicamente, anche a Roma. Ora confesso che, se è falso, lo sono anche tutti i fondamenti della mia filosofia: esso viene, infatti, dimostrato in modo evidente per mezzo [di tali fondamenti] ed è talmente legato con tutte le parti del mio trattato, che non potrei scorporarlo senza rendere mancante tutto il resto. Ma siccome, per niente al mondo, vorrei che da me uscisse un discorso in cui si trovasse la minima parola che fosse disapprovata dalla Chiesa, preferisco allora sopprimere il mio trattato piuttosto che farlo uscire storpiato (R. Descartes, Tutte le lettere 1619-1650, a cura di G. Belgioioso, 2005, p. 249).
Gli stessi concetti e lo stesso atteggiamento verranno ribaditi in altre successive lettere a Mersenne. Descartes vuole essere informato sullo stato della vicenda, specificamente se il pontefice ha approvato la sentenza degli inquisitori, primo passaggio necessario per arrivare alla sottoscrizione del Parlamento francese; e ogni volta, in futuro, che il filosofo sarà in procinto di pubblicare una delle sue opere, si porrà il problema dell’accoglienza che essa potrà ricevere presso i suoi antichi maestri, i gesuiti, e si darà cura di spiegare come debba essere inteso il rapporto fra le sue teorie e la dottrina religiosa, precisando che le sue sono soltanto affermazioni per via ipotetica e che quindi potrebbero essere false.
Dieci anni dopo John Milton, nella sua Areopagitica. A speech for the liberty of unlicensed printing (1644), offre un ritratto del clima limaccioso che si respira fra gli intellettuali nei Paesi oppressi dall’Inquisizione:
Nei quali paesi, trovatomi io a sedere fra i loro dotti […] fui da loro reputato fortunato per aver avuto i natali in una terra di filosofica libertà – come stimavan che fosse l’Inghilterra; mentre essi invece non facevano altro che lamentarsi della servitù in cui eran caduti i loro studi, affermando che era questa servitù che aveva offuscato la gloria del genio italiano, in modo che niente si scriveva laggiù, da molti anni, se non adulazioni e tronfia rettorica. Fu lì ch’io trovai e visitai il famoso Galileo, ormai vecchio, divenuto prigioniero dell’Inquisizione, perché avea pensato, in astronomia, diversamente da come pensavano i suoi censori francescani e domenicani (trad. it. Areopagitica. Discorso per la libertà della stampa, a cura di G. Giorello, 1987, p. 52).
Evangelista Torricelli (1608-1647), dopo la morte di Galilei, gli succede nella carica di «matematico del Granduca». Come il suo illustre predecessore, egli rivendica alla matematica e alla meccanica il diritto di assegnare alle figure e al movimento nuove «dimensioni», cioè nuovi concetti e descrittori. Questo ovviamente pone la questione del rapporto tra i nuovi descrittori e la realtà fisica: c’è corrispondenza o gli asserti scientifici rimangono astratti rispetto alla realtà? Anche se tutto lascia intendere che la convinzione di Torricelli sia perfettamente aderente a quella di Galilei – come dichiara esplicitamente in una lettera a Giovan Battista Reneri (8 agosto 1647, in E. Torricelli, Opere, a cura di G. Loria, G. Vassura, 3° vol., 1919, p. 392) –, egli si ispira al riguardo alla massima prudenza, arrivando a esercitare una sorta di autocensura sulla sua attività di astronomo e sulle sue dichiarazioni pubbliche in materie pericolose. Esemplificativo del suo atteggiamento è quanto scrive in una lettera a Michelangelo Ricci a proposito delle critiche avanzate da Descartes e da Gilles Personne de Roberval alla teoria del moto di Galilei:
Che i principii della dottrina de motu siano veri o falsi a me importa pochissimo. Poiché se son veri, fingasi che sian veri conforme habbiamo supposto, e poi prendansi tutte le altre specolazioni derivate da essi principij, non come così miste, ma pure Geometriche. Io fingo o suppongo che qualche corpo o punto si muova all’ingiù et all’insù con la nota proporzione et horizzontalmente con moto equabile [qui si riferisce alla composizione del moto equabile orizzontale con il moto accelerato verticale dei proiettili]. Quando questo sia io dico che seguirà tutto quello che ha detto il Galileo, et io ancora. Se poi le palle di piombo, di ferro, di pietra non osservano quella supposta proporzione, suo danno, noi diremo che non parliamo di esse (lettera del 10 febbraio 1646, in E. Torricelli, Opere, cit., 3° vol., p. 357).
Torricelli mantiene il suo prudente riserbo anche in occasione del ‘caso Aristarco’. Nel 1644 usciva a Parigi un libro intitolato Aristarchi Samii de mundi systemate, presentato come rifacimento di un testo di Aristarco di Samo (vissuto tra il 310 e il 250 a.C.) a opera di Roberval. In realtà l’autore era proprio Roberval. Dietro l’operazione stava il padre Mersenne, che intendeva verificare le reazioni della comunità scientifica di fronte alla teoria eliocentrica, di cui l’astronomo greco era stato il primo sostenitore. Descartes e Torricelli sono tra i pochi a riconoscere che si tratta di un falso. Richiesto di un parere da Mersenne, che gli aveva inviato appositamente il volume, lo scienziato faentino gli scrive:
Ho letto il libretto che mi è stato mandato, e a mala pena sarei disposto a darne un giudizio. Vi sono molte cose che mi piacciono, ma non tutte. Crederei a coloro che dicono che si tratta della rielaborazione di un codice antico, ma non direi che sia dell’epoca di Aristarco. Comunque, mi sembra l’opera di un gran filosofo e astronomo (lettera del febbraio 1645, p. 205).
A Mersenne che torna subito a domandargli un giudizio più dettagliato, Torricelli infine replica, tagliando corto: «io non sono in grado, né per mia condizione né per il mio ingegno, di suscitare e condurre polemiche» (lettera del febbraio 1645, p. 214).
In questi commenti si delineano alcune delle reazioni tipiche al processo e alla condanna di Galilei.
La prima è il senso di paura, generato da una serie di fattori tragici e protratti nel tempo: da ormai alcuni decenni durava la guerra dei Trent’anni, si sentiva l’eco dei roghi per stregoneria, e, per gli intellettuali, era ancora vivo il ricordo del rogo di Giordano Bruno nel 1600; in sottofondo, agiva probabilmente anche il senso di insicurezza provocato dalla nuova visione eliocentrica che portava con sé un universo infinito con infiniti mondi: la Terra scena del peccato e della redenzione non è più un unicum, e sul teatro universale si affacciano altri possibili esseri viventi a complicare e interferire nel rapporto dell’uomo con Dio.
La seconda reazione riguarda l’aspetto della comprensione dei limiti della condanna, e di conseguenza investe il carattere e la portata della condanna stessa e, se si vuole, la conformità legale del processo.
In Francia Descartes non era l’unico a chiedersi se la condanna fosse stata emanata direttamente dal papa o da una commissione cardinalizia e se si trattasse di una decisione dottrinale definitiva o no. Di fatto l’editto papale che, come d’uso, doveva venire discusso dai teologi della Sorbonne prima di essere dato per acquisito dalla Chiesa francese, non arriverà mai alla discussione dei teologi. La riflessione sulla filosofia naturale, ad esempio con i cattolici Pierre Gassendi (1592-1655) e Nicolas de Malebranche (1638-1715), continua liberamente. Lo scontro con la Chiesa si realizzerà non sul terreno della libertas philosophandi, ma piuttosto come scontro fra poteri politici di Stati. In seguito gli intellettuali francesi spesso rimpiazzeranno il Dio cattolico con un Dio filosofico senza Chiesa che lo rappresenti. Con la Rivoluzione e il successivo periodo napoleonico la fiducia nel progresso generato dalla scienza sembra essere la nuova religione. Galilei appare come lo scienziato che ha posto le basi della moderna meccanica, piuttosto che come eroe e vittima del libero pensiero: nell’Encyclopédie si parla appena del processo a Galilei, che è invece visto come padre della scienza moderna. La scienza dunque non solo conserva la sua autonomia rispetto alla teologia, ma vede riaffermato il suo carattere cognitivo; il nuovo calcolo infinitesimale è lo strumento con cui si scrivono le leggi di natura.
In Inghilterra, permeata di spirito antipapale, viene invece stigmatizzata l’arroganza della Chiesa cattolica nel voler sottomettere la ragione alla tradizione e all’autorità. Di questo atteggiamento critico il racconto di Milton, a pochi anni di distanza dalla condanna di Galilei, è specchio e modello.
Diversa è invece la situazione in Italia, dove il potere papale e i rischi a esso collegati sono sentiti molto vicini e attuali. Nel Paese si instaura una sorta di abitudine alla censura e, ancor più, all’autocensura (non solo rispetto al potere forte della Chiesa) e alla difesa del particolare; se da una parte si continua a operare (ormai senza punte di eccellenza) nelle università e nelle accademie – lavoro che è sempre da considerare positivamente in quanto permette la conservazione delle conoscenze acquisite in attesa di periodi migliori –, dall’altra si tende ad accettare come prevalenti dal punto di vista delle conoscenze le argomentazioni filosofico-teologico-morali e quelle retoriche, e a limitare il valore conoscitivo della scienza nell’ambito ristretto di sua competenza: l’accademia italiana è umanista e non scientifica, tranne poche eccezioni. In fin dei conti, sembra che l’opinione di Urbano VIII diventi – e per molti aspetti sia ancor oggi – prevalente: la scienza può formulare ipotesi, ma non può arrivare a verità che solo la filosofia può raggiungere. Ora, sia detto chiaramente, di solito gli scienziati non ritengono di essere arrivati a verità assolute e, in presenza di nuovi fatti, ogni scienziato, tenuto conto di una naturale inerzia, è sempre pronto ad adattare o cambiare paradigma, anche perché ha di solito sufficientemente chiari il contesto e i limiti di validità delle proprie affermazioni.
La questione galileiana, intesa come sensazione dell’errore della condanna, rimane comunque viva nei secoli, anche se sotto la cenere, soprattutto all’interno della Chiesa cattolica, contrapponendo cattolici illuminati a conservatori, e restando sempre un monito per tutti i pensatori, come del resto voleva la sentenza del processo. Vale la pena ricordare che per secoli di fatto non fu possibile leggere neanche la Bibbia, che era accessibile solo agli uomini che conoscevano il latino (le traduzioni erano segnalate nell’Indice dei libri proibiti). In effetti, quasi tutto quello che è stato pubblicato nei secoli è stato messo all’Indice e lo stesso Indice non è stato eliminato, ma trasformato in elenco di libri sconsigliati solo nel 1966, dopo il Concilio Vaticano II.
È con il Risorgimento e specialmente nel periodo seguente alla costituzione dello Stato nazionale che in Italia si afferma il mito di Bruno e Galilei difensori del libero pensiero; in realtà, più di Bruno, che va incontro alla morte, che di Galilei, che abiura – anche se vari sono i tentativi di sostenere che anche Galilei subì la tortura durante il processo. In ogni caso, forse anche il nuovo clima europeo favorevole alla scienza predispose l’accomunarsi dei due personaggi.
Alla base del mito di Galilei in Italia dopo il 1861 è, però, in primo luogo il problema della costituzione dell’ethos civile del nuovo Stato nazionale, come appare in modo luminoso soprattutto dalle posizioni di un esponente di primo piano della nuova classe dirigente nazionale, Quintino Sella (1827-1884), al quale si deve, fra le molte altre cose, anche la ricostituzione dell’Accademia dei Lincei. Essa si inseriva in un progetto etico-politico e culturale assai preciso, imperniato nella costruzione della ‘terza Roma’, la Roma della ‘scienza’, in frontale opposizione alla Chiesa romana, mirante, anche sotto l’influsso dell’idea positivista del progresso delle scienze, a una riorganizzazione del sistema scolastico (istruzione elementare obbligatoria, potenziamento degli istituti tecnici) e universitario italiano (fondazione dei politecnici, impegno affinché l’Università di Roma diventasse competitiva a livello europeo).
In questo scontro, Galilei svolse un ruolo notevole, configurandosi come artefice di una concezione moderna della ragione, espressa in primo luogo dalla sua lotta per l’affermazione del metodo sperimentale (secondo un motivo tipico della sua fortuna).
Il progetto di Sella, e di tutti coloro che si rifacevano a posizioni affini alle sue, fallì, sostanzialmente, e lo Stato italiano, come è stato osservato da un grande storico della letteratura, Carlo Dionisotti, fu ridotto alla condizione di caudatario della Chiesa cattolica (C. Dionisotti, Rinascimento e Risorgimento: la questione morale, in Il Rinascimento nell’Ottocento in Italia e in Germania. Die Renaissance im 19. Jahrhundert in Italien und Deutschland, a cura di A. Buck, C. Vasoli, 1989, pp. 168-69).
Del resto, alla riduzione del ruolo della scienza nel nostro Paese contribuì anche, specialmente dopo il 17° sec., una lunga ‘tradizione’ nazionale connotata dal prevalere delle discipline di carattere umanistico sul sapere scientifico. Non si è peraltro mai trattato di un quadro lineare o privo di conflitti. È vero infatti che Benedetto Croce e Giovanni Gentile svalutarono nella loro filosofia la scienza, riducendola addirittura, nel caso del primo, a pseudoconcetti, privi di valore conoscitivo e, al più, utili nella pratica, ma è altrettanto certo che alcuni dei maggiori esponenti della scienza italiana, come Federigo Enriques, polemizzarono direttamente con gli esponenti e le posizioni del neoidealismo italiano, proponendo un altro modello di cultura, incentrato sulla scienza, con significative incidenze anche sul piano civile. La loro sconfitta ha senza dubbio avuto molti, complessi, effetti sui caratteri della cultura italiana nel Novecento: da una parte, ha contribuito a generare una strutturale debolezza della scienza italiana, che pur avendo ancor oggi, come si dice, punte di eccellenza, è rimasta costitutivamente minoritaria dal punto di vista del suo impatto generale, anche quando è riuscita a svolgere un ruolo positivo nella formazione scientifica universitaria; dall’altra parte, ha condizionato, gravemente, la filosofia italiana che soprattutto nella prima metà del Novecento è rimasta, a lungo, estranea a una rigorosa riflessione sulla scienza e sui rapporti tra filosofia e scienza, a differenza di altre fondamentali correnti filosofiche sia europee sia americane.
Galilei, e la sua lezione, hanno però continuato a bruciare sotto la cenere.
Tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta (nel 1964 è stato celebrato il quarto centenario della nascita) il caso Galilei esplode nuovamente per merito di storici e di intellettuali – solo per citare alcuni nomi: Delio Cantimori, Arturo Carlo Jemolo, Giorgio de Santillana, Giorgio Spini, Luigi Firpo, Eugenio Garin, Ludovico Geymonat – i quali riflettono sul mancato rinnovamento della cultura, della politica e della società, in una situazione nazionale e anche internazionale in cui la battaglia politico-culturale condotta da Galilei in difesa della libertà dai dogmi e dalle abiure risulta particolarmente attuale (basti pensare alla fortuna di Vita di Galileo di Bertolt Brecht che – messo in scena al Piccolo teatro di Milano nel 1963 da Giorgio Strehler – fu un vero evento).
Il che non toglie ovviamente che da parte cattolica si sia continuato a esprimere giudizi critici nei confronti di Galilei, oppure – come accade nel caso del cardinale Pietro Maffi (1858-1931) e del francescano Agostino Gemelli (1878-1959) – si sia tentato di distaccarlo dalle interpretazioni in chiave laica, presentandolo come un buon cristiano.
Volendo esprimere un giudizio complessivo, e senza cadere nella retorica delle occasioni mancate, va però osservato che anche in quegli anni l’‘eredità’ di Galilei non riuscì a fruttificare in modo positivo e fecondo nella società italiana, e questo sia per il persistere di un’antica tradizione culturale che rispetto alla scienza aveva privilegiato altre discipline; sia per la presenza di un clima generale, di varia matrice, che non favoriva lo sviluppo in Italia di una rigorosa cultura scientifica e il potenziarsi e l’imporsi di istituzioni e centri di ricerca che furono pur fondati ma che, progressivamente, si estenuarono, anche per la mancanza di quel sostegno e di quel consenso di cui necessitavano per potersi imporre sia in Italia sia sul piano internazionale.
Nel 1979, in occasione del centenario della nascita di Albert Einstein (1879-1955), Giovanni Paolo II riapriva in modo esplicito e autorevole la discussione sul caso Galilei in seno alla Chiesa cattolica:
La grandezza di Galileo è a tutti nota, come quella di Einstein; ma a differenza di questi [...] il primo ebbe molto a soffrire – non possiamo nasconderlo – da parte di uomini e organismi della Chiesa. Il Concilio Vaticano [II] ha riconosciuto e deplorato certi indebiti interventi [...]. A ulteriore sviluppo di quella presa di posizione del Concilio, io auspico che teologi, scienziati e storici, animati da uno spirito di sincera collaborazione, approfondiscano l’esame del caso Galileo e, nel leale riconoscimento dei torti, da qualunque parte provengano, rimuovano le diffidenze che quel caso tuttora frappone, nella mente di molti, alla fruttuosa concordia tra scienza e fede, tra Chiesa e mondo (Discorsi dei Papi alla Pontificia Accademia delle Scienze (1936-1993), 1994, pp. 167-68).
Nel 1981 venne costituita una Commissione vaticana e il 31 ottobre del 1992 – a conclusione dei lavori per lo studio del caso Galilei – Giovanni Paolo II davanti alla Pontificia accademia delle scienze fornì una ricostruzione delle vicende che si basarono, come lui disse, su una «tragica reciproca incomprensione». Non è possible, in questa sede, entrare in dettagli né sui lavori della commissione, né sulla discussione degli atti dei processi del 1616 e del 1633 e sulle vicende a loro relative, né tantomeno sugli aspetti canonico-giurisdizionali del processo stesso, per cui rimandiamo alla letteratura esistente; ci limiteremo quindi ad alcune considerazioni.
Per quanto riguarda la ricostruzione, sulla base della sintesi di padre George Coyne, essa si fonda su quattro tesi fondamentali: Galilei non capì che in quella fase storica il copernicanesimo era semplicemente un’ipotesi e, affermandone la verità fisica, egli venne meno al metodo scientifico che egli stesso aveva contributo a fondare; alcuni teologi dell’epoca non compresero in che modo dovevano essere interpretate le Sacre Scritture e per questo ne estesero erroneamente il carattere prescrittivo alle questioni naturali; da questi errori rimase immune il cardinale Bellarmino, al quale apparvero chiari i termini in cui doveva essere affrontato il copernicanesimo; appena furono fornite prove inappellabili della verità fisica, la Chiesa si affrettò ad accettare questa visione e ad ammettere implicitamente l’errore della condanna di Galilei.
In altre parole, i teologi furono dei buoni scienziati ma non dei buoni teologi e Galilei fu un buon teologo ma un cattivo scienziato, ovviamente secondo le categorie di oggi. Ecco le parole del papa:
come la maggior parte dei suoi avversari, Galileo non fa distinzione tra quello che è l’approccio scientifico ai fenomeni naturali e la riflessione sulla natura, di ordine filosofico, che esso generalmente richiama. È per questo che egli rifiutò il suggerimento che gli era stato dato di presentare come un’ipotesi il sistema di Copernico, fin tanto che esso non fosse confermato da prove irrefutabili. Era quella, peraltro, un’esigenza del metodo sperimentale, di cui egli fu il geniale iniziatore [...]. La scienza nuova, con i suoi metodi e la libertà di ricerca che essi suppongono, obbligava i teologi a interrogarsi sui loro criteri di interpretazione della Scrittura. La maggior parte non seppe farlo. Paradossalmente, Galileo, sincero credente, si mostrò su questo punto più perspicace dei suoi avversari teologi (Discorsi dei Papi alla Pontificia Accademia delle Scienze (1936-1993), cit., p. 274).
Infine, Giovanni Paolo II sostenne che la sentenza del 1633 non era irreformabile e che non vi fu un coinvolgimento diretto del papa. Come molti studiosi, compreso padre Coyne, hanno mostrato, queste affermazioni sono tendenziose o addirittura false.
Nel processo del 1616 Galilei, forse grazie alle amicizie romane e al supporto del granduca di Toscana, uscì indenne dalle accuse di eresia formulate dai domenicani; ricevette una raccomandazione da parte del cardinale Bellarmino e del papa a considerare il modello copernicano ex suppositione. Un punto chiave del processo del 1633 è la disobbedienza alla raccomandazione papale, ma l’accusa parlò subito di eresia e questo implicava una decisione dottrinale da parte di Urbano VIII: la sentenza fu quindi definitiva e assoluta sotto pena della condanna al rogo, in assenza di abiura.
In ogni caso, nonostante le nuove prese di posizioni della Chiesa romana, il caso Galilei sembra essere tutt’altro che chiuso per quanto riguarda i rapporti tra scienza e religione; ancor meno sembra chiuso per quel che riguarda il riconoscimento del valore culturale della scienza in Italia: dopo quattrocento anni Galilei è stato riabilitato, ma restano ancora da riabilitare i suoi insegnamenti.
L’edizione di riferimento per le opere di Galilei rimane quella nazionale a cura di Antonio Favaro:
Le opere, 20 voll., Milano 1890-1909 (nuova rist. Firenze 1968).
Si veda inoltre la scelta presente in Opere, a cura di F. Brunetti, 2 voll., Torino 2005.
Nel 2009 sul caso Galilei si sono tenuti due importanti convegni, a Torino il 26-27 marzo e a Firenze dal 26 al 30 maggio; si vedano gli atti relativi, dove si trovano aggiornati riferimenti bibliografici:
Il processo a Galileo Galilei e la questione galileiana, a cura di G.M. Bravo, V. Ferrone, Roma 2010.
Il caso Galileo. Una rilettura storica, filosofica, teologica, Convegno internazionale di studi, Firenze 2009, a cura di M. Bucciantini, M. Camerota, F. Giudice, Firenze 2011.
Di seguito diamo una piccola selezione di studi dedicati a Galilei; per maggiori informazioni il lettore può consultare la bibliografia di queste opere:
A. Koyré, Études galiléennes, 3 voll., Paris 1939-1940 (trad. it. Studi galileiani, Torino 1976).
G. de Santillana, The crime of Galileo, Chicago 1955, 19762 (trad. it., con nuova prefazione dell’autore, Processo a Galileo. Studio storico-critico, Milano 1960).
L. Geymonat, Galileo Galilei, Torino 1957.
W.R. Shea, Galileo’s intellectual revolution. Middle period, 1610-1632, London 1972 (trad. it. La rivoluzione intellettuale di Galileo. 1610-1632, Firenze 1974).
S. Drake, Galileo at work. His scientific biography, Chicago 1978 (trad. it. Galileo. Una biografia scientifica, Bologna 1988).
U. Baldini, Galilei Galileo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 51° vol., Roma 1998, ad vocem.
Per gli aspetti fisico-matematici dell’opera di Galilei il lettore può consultare:
R.S. Westfall, Force in Newton’s physics. The science of dynamics in the seventeenth century, London-New York 1971 (trad. it. Newton e la dinamica del XVII secolo, Bologna 1982).
E. Giusti, Galilei e le leggi del moto, introduzione a G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla mecanica ed i movimenti locali, a cura di E. Giusti, Torino 1990, pp. IX-LXIII.
M. Giaquinta, La forma delle cose. Idee e metodi in matematica tra storia e filosofia, 1° vol., Da Talete a Galileo e un po’ oltre, Roma 2010.