Galileo Galilei
Le osservazioni astronomiche e la teoria del moto di Galileo Galilei contribuirono in modo determinante ad affermare una nuova concezione del cosmo e della scienza, radicalmente differente da quella aristotelica. Galilei sostenne, con argomenti di carattere fisico, la verità del sistema copernicano e pose in modo nuovo l’idea di una filosofia che si facesse scienza, in grado di ridisegnare i rapporti dell’uomo con la natura e con Dio, e che facesse scaturire nuove verità dalla necessità dei dati raccolti.
Galileo Galilei nacque a Pisa, in una famiglia della piccola nobiltà fiorentina, ormai impoveritasi, il 15 febbraio 1564. Da giovane, disattesi i desideri del padre Vincenzo, modesto mercante e valente musicista, che lo avrebbe voluto medico, preferì dedicarsi ai meno remunerativi studi di geometria (Euclide) e di meccanica (Archimede). La bilancetta (scritta nel 1586) e le ricerche sul centro di gravità dei solidi sono i frutti di questi studi, e gli varranno la stima del gesuita Cristoforo Clavio e del marchese Guidobaldo Dal Monte. Attraverso il loro appoggio egli ottenne nel 1589, venticinquenne, la lettura di matematica in quello Studio pisano che lo aveva visto irrequieto studente, al punto di neppure laurearsi.
E ancora irrequieto appare come docente, vuoi per l’esiguità dello stipendio (60 scudi l’anno), vuoi per il soffocante clima culturale che circondava la vita dello Studio, da lui messo in berlina nel burlesco poemetto Capitolo contro il portar la toga (1589). Pochi ma duraturi i contatti da lui stabiliti a Pisa: con il filosofo Iacopo Mazzoni, con il medico Girolamo Mercuriale, con il giovane matematico Luca Valerio.
Il trasferimento nel 1592 sulla cattedra di Padova doveva rispondere alla duplice esigenza di un miglioramento economico (la morte del padre, nel 1591, lo aveva costretto a mettersi a capo di una famiglia numerosa e bisognosa) e di un ambiente culturale più stimolante. A Padova come a Venezia, dove «ogni sorte di strumento e di macchina vien continuamente posta in opera da numero grande d’artefici» (Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, 1638, in Id., Le opere, Ed. nazionale a cura di A. Favaro, 8° vol., 1898, p. 49), Galilei poteva mostrare tutto il valore della matematica nel campo delle applicazioni pratiche, e tradurre in concreto il mito rinascimentale di Archimede. Trattati di fortificazione, macchine idrauliche, compassi, bussole, calamite ne testimoniano l’operosità, il legame con il colto artigianato rinascimentale, mentre un testo come Le mecaniche, destinato a rimanere inedito durante la sua vita, conobbe una larga circolazione manoscritta e persino una traduzione francese (1634). Un’altra sua opera, Le operazioni del compasso geometrico e militare (1606), dedicata al granduca di Toscana Cosimo II de’ Medici, sarà al centro di una denuncia di plagio contro il milanese Baldassarre Capra, la cui condanna renderà giustizia a Galilei e gli confermerà la stima della Repubblica di Venezia.
Il progressivo miglioramento della situazione economica consentì a Galilei di metter su famiglia, unendosi, pur senza sposarsi, alla veneziana Marina Gamba, da cui ebbe tre figli, Virginia, Livia e Vincenzo. Allo stipendio si aggiungevano i proventi delle lezioni private, degli studenti presi a pensione e infine dei prodotti escogitati nell’officina annessa all’abitazione. Padova e Venezia significavano anche la possibilità di frequentare i circoli culturali che si riunivano intorno all’erudito Giovan Vincenzo Pinelli, al nobile Antonio Querengo o a personalità come Paolo Sarpi o Gianfrancesco Sagredo (immortalato poi come protagonista del Dialogo e dei Discorsi e dimostrazioni). Galilei ebbe così modo di sviluppare le sue ricerche, come quelle sulla caduta dei gravi, inserendole in un contesto capace di mettere in discussione non solo settori della fisica di Aristotele, ma l’intero suo impianto metafisico.
L’approccio al copernicanesimo, testimoniato da due lettere coeve (1597) a Mazzoni e a Johannes Kepler, ne fu il segnale più vistoso. Conscio delle complesse implicazioni ideologiche, Galilei si mosse con grande cautela nel dibattito cosmologico, come dimostrò con le tre lezioni sulla stella nova del 1604 (in realtà una supernova), che pur non pervenuteci, ci sono note nella loro sostanza attraverso il carteggio. Ma fu solo l’invenzione dell’‘occhiale’ che gli offrì il destro di entrare da protagonista, anzi da nuovo Cristoforo Colombo, nella scoperta dei cieli. L’aspetto corporeo della Luna, la moltitudine delle stelle fisse, i quattro corpi ruotanti intorno a Giove (i satelliti medicei), frutto delle osservazioni di tutto l’inverno 1609-10, subito rivelate «in forma d’avviso», il Sidereus Nuncius (1610), scritto in latino perché destinato a «tutti i filosofi e matematici», gli consentirono di trattare e ottenere il suo rientro a Firenze, e di chiudere «li diciotto anni migliori» della sua vita. Una vita che si identificò da allora con quella dell’affermazione del copernicanesimo e della nuova scienza, in Italia come in Europa.
Appena rimesso piede a Firenze in qualità di matematico e filosofo del granduca Cosimo, Galilei progettò e poi intraprese una lunga visita a Roma (primavera 1611), ripetendo le osservazioni celesti presso il Collegio dei gesuiti (poi Collegio romano), presente Clavio, ottenendone il consenso. Durante questo soggiorno incontrò il principe Federico Cesi, divenne socio della sua Accademia dei Lincei, fu accolto con favore dal pontefice Paolo V, strinse relazioni che lo avrebbero proiettato nel firmamento della cultura europea. L’ozio letterario cui aspirava partendo dal Veneto (dove aveva lasciato pure Marina Gamba), sottolineato dalla clausola di non esercitare l’insegnamento universitario, si rovesciò nell’impegno totale in difesa della teoria copernicana, portandolo allo scontro prima con gli aristotelici e in seguito con i teologi e con l’intera Chiesa. Agli aristotelici indirizzò nel 1612 il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono, al quale seguì nel 1615 la Risposta alle opposizioni del S. Lodovico delle Colombe e del S. Vincenzio di Grazia contro al Trattato del Sig. Galileo Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono, opera firmata dal fedele allievo Benedetto Castelli.
L’impegno di scardinare i principi della fisica aristotelica non lo distolse dalle osservazioni celesti. Nel 1613, con il patrocinio dell’Accademia dei Lincei, diede alle stampe l’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, sotto forma di tre lettere a un socio linceo, il tedesco Marco Velseri (Markus Welser). Tuttavia, i primi anni del ritorno in Toscana furono soprattutto impegnati in un complesso di quattro scritti, che andarono poi sotto il titolo generale di Lettere copernicane, attraverso cui tentò di dimostrare che il sistema eliocentrico non ostava al dettato delle Scritture.
Nel dicembre del 1615 si spostò di nuovo a Roma per cercare di fermare la condanna del copernicanesimo, promulgata tuttavia nel febbraio del 1616. Non domo, si fermò ancora nella città eterna, confidando di poter ottenere la mitigazione o la revoca del decreto, finché il granduca Cosimo, preoccupato per sé e per lui, non lo richiamò a Firenze. Uscito personalmente indenne dalla condanna dell’eliocentrismo, Galilei era stato tuttavia ammonito e diffidato dal difendere e propagare quella dottrina.
La comparsa tra il 1618 e il 1619 di tre comete lo riportò tra i cieli, prima con un Discorso delle comete (1619), firmato dal suo amico Mario Guiducci, in aperta polemica con il gesuita Orazio Grassi, sostenitore del sistema astronomico di Tycho Brahe, verso cui si indirizzavano le simpatie dei gesuiti dopo l’abbandono del sistema tolemaico, sconfitto e reso impraticabile dalle scoperte galileiane. Alla replica di Grassi (Libra astronomica ac philosophica) Galilei rispose con Il Saggiatore, nel quale con bilancia esquisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libra astronomica e filosofica di Lotario Sarsi Sigensano (1623), ancora sotto gli auspici lincei, dedicato al nuovo papa Urbano VIII, cioè il suo vecchio ammiratore Maffeo Barberini. Polemico fin dal sottotitolo, la «bilancia esquisita e giusta» degli orafi contro la stadera degli ortolani, il libro contrapponeva alle «girandole» del gesuita la «severità delle geometriche dimostrazioni».
Nella primavera del 1624, Galilei era di nuovo a Roma per raccogliere il successo del Saggiatore; incontrò sei volte il papa, ne ricevette elogi e donazioni, ritrovò gli amici lincei, rinnovò e strinse vecchie e nuove alleanze. Era ormai maturato il tempo di dar vita a quell’opera sul sistema del mondo alla quale aveva pensato fin dal suo ritorno a Firenze. Naturalmente gli eventi ne avevano via via modificato contenuto e scopi. Il presente esigeva altre modifiche: a cominciare dal titolo (che da Dialogo sul flusso e reflusso del mare si dovette mutare nel più prolisso Dialogo dove nei congressi di quattro giornate si discorre sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, proponendo indeterminatamente le ragioni filosofiche, e naturali tanto per l’una, quanto per l’altra parte), per seguire con la premessa, in cui si rinviava al «salutifero editto» che aveva condotto alla condanna dell’eliocentrismo, onde rispondere all’esigenza, espressa dal pontefice, che si evidenziassero «le ragioni della divina onnipotenza» a scapito di quelle dell’umano intelletto.
Galilei fu costretto (1630) a un ennesimo viaggio a Roma, con l’impressione di navigare «in un oceano che non ha né rive, né porti» (Lettera a Andrea Cioli, 3 maggio 1631, in Id., Le opere, cit., 14° vol., 1904, p. 259). In uno scenario che andava rapidamente irrigidendosi, tra la morte del suo protettore Cesi (1630), l’espansione nella penisola della guerra dei Trent’anni, la peste, il peso crescente sul papato del partito filospagnolo appoggiato dai gesuiti, il Dialogo alla fine (nel febbraio del 1632) uscì a Firenze e non a Roma, dov’era inizialmente previsto. Le reazioni furono immediate. Monsignor Giovanni Ciampoli, segretario del papa per i brevi ai principi e amico di Galilei, fu bruscamente allontanato dalla corte pontificia, mentre, come Tommaso Campanella avvertiva, si stava per riunire una «congregatione di theologi irati» (Lettera […] a Galileo, 21 agosto 1632, in Id., Le opere, cit., 14° vol., 1904, p. 373).
Galilei fu costretto di nuovo a Roma, dopo penose resistenze e minacce; vi giunse il 13 febbraio 1633, prima ospitato nella residenza dell’ambasciatore toscano a Villa Medici, e poi direttamente nelle stanze del Sant’Uffizio. Il 22 giugno abiurò, vestito della bianca tonaca del penitente, in ginocchio di fronte ai cardinali inquisitori nel convento di Santa Maria sopra Minerva. Il 6 luglio poté lasciare Roma per Siena, ospite dell’arcivescovo Ascanio Piccolomini. Solo in dicembre gli fu concesso di ritornare nella propria dimora ad Arcetri, sottoposto a una rigorosa sorveglianza.
La precoce scomparsa dell’amata figlia Virginia, la cecità incombente e poi proclamata, il «continuato carcere ed esilio» (Lettera a Cassiano Dal Pozzo, 20 gennaio 1641, in Id., Le opere, cit., 18° vol., 1906, p. 291) amareggiarono i suoi ultimi anni, ma non spezzarono la vena polemica contro gli aristotelici (Lettera al principe Leopoldo di Toscana […], 31 marzo 1640, nota come Lettera sopra il candore lunare), né le mai dismesse indagini sul moto e la composizione dei corpi. Così i Discorsi trovarono modo di uscire fuori d’Italia, a Leida nel 1638, in un’edizione travagliata, che Galilei ebbe tra le mani solo un anno dopo la sua comparsa, con la sorpresa di un titolo diverso da quello a cui aveva pensato. Ancora tre interlocutori, Sagredo, Salviati, Simplicio, ancora quattro giornate, come nel Dialogo condannato, quasi a sottolineare il filo che univa le due opere.
Circondato dall’affetto di giovani destinati a un ruolo significativo nella scienza, come Evangelista Torricelli e Vincenzo Viviani, Galilei morì a Firenze il 9 gennaio 1642.
La scoperta dell’occhiale, o del cannone, o del telescopio infine, secondo la definizione datane dall’Accademia dei Lincei, non cambiò solo la vita di Galilei, ma le sorti dell’astronomia e della scienza. Galilei ne fu consapevole fin dalle prime volte che puntò lo strumento verso il cielo: come scrisse, di quelle osservazioni «niuna se ne vede o può veder senza strumento esquisito» (Lettera a Antonio de’ Medici, 7 gennaio 1610, in Id., Le opere, cit., 10° vol., 1900, p. 277).
Con il telescopio, nel campo della conoscenza faceva il suo esordio un mezzo capace di modificare il valore dell’esperienza sensibile, trasformandola in esperienza sensata. Per la prima volta, cioè, si riusciva a riscattare la soggettività dell’esperienza, affidandone la verifica e la veridicità a uno strumento neutrale, che si frappone tra i nostri sensi – gli occhi – e le cose viste. Le irregolarità della superficie lunare, la presenza di una moltitudine di stelle formanti le nebulose e la Via Lattea, i quattro satelliti di Giove: tutte cose che non sono altrimenti visibili se non nel e con il telescopio. Nessuna esperienza e neppure nessun ragionamento ce ne possono certificare l’esistenza, come invece può quel tubo di legno con due lenti. Spetterà poi alla «necessaria dimostrazione» determinare, sul piano della filosofia naturale, il ruolo da riservare alle «sensate esperienze», e inserirle in un quadro di necessità che solo la geometria può dare.
In realtà, Galilei venne costruendosi un metodo e una filosofia nel corso stesso delle sue indagini, convinto che fosse meglio «trovar un vero, benché di cosa leggiera, che’l disputar lungamente delle massime questioni senza conseguir verità nissuna» (Considerazioni appartenenti al libro del Sig.r Vincenzio Di Grazia, in Id., Le opere, cit., 4° vol., 1894, p. 738). Sono invece i fatti, sottoposti a verifica e trasformati in sensata esperienza, che irrompono nel campo del sapere e che, congiunti alle necessarie dimostrazioni, consentono alla filosofia di adattarsi «al mondo e alla natura» (Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, in Id., Le opere, cit., 5° vol., 1895, p. 96): cose, fatti, occhi, mani, «occhi nella fronte e nel cervello, [perché] prima furon le cose e poi i nomi» (p. 97). Persino le Sacre Scritture avrebbero dovuto adattarsi a ciò che veniva «per le mani» (Lettera a madama Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana, in Id., Le opere, cit., 5° vol., 1895, p. 326) a chi indagava la natura.
Proprio nel registrare le accoglienze del Sidereus, Galilei si rese conto della necessità di indossare le vesti del filosofo per leggere quel «libro della natura, dove le cose sono scritte in un modo solo» (Errori di Giorgio Coresio nella sua Operetta del galleggiare della figura, in Id., Le opere, cit., 4° vol., 1894, p. 248). Un passo capace di spezzare una volta per tutte la credenza che «allora comincino ad essere le cose della natura, quando noi cominciamo a scoprirle e intenderle» (Lettera a Piero Dini, 21 maggio 1611, in Id., Le opere, cit., 11° vol., 1901, p. 108). In caso contrario, le scoperte di Galilei, come le ragioni di Copernico, sarebbero state rese vane, riattirate nel circolo perverso dell’interpretazione soggettiva, poste alla mercé dell’autorità o della convenienza.
In una serie impressionante di testi, disseminati tra il 1611 e il 1616 e poi ripresi all’interno delle opere maggiori e più tarde, Galilei mira a interrompere per sempre il circuito totalizzante, gerarchico, della filosofia naturale contemporanea, aristotelica e non, rigettando ogni veduta antropomorfa del mondo e dei fenomeni naturali. Una natura che non «si muta punto nelle sue operazioni mediante le consulte degli uomini» (Lettera a madama Cristina di Lorena, cit., p. 316), una natura da restituire o meglio da riconoscere nella sua autonomia, che fa «prima le cose a suo modo», e le cui «deliberazioni» sono «ottime e forse necessarie, onde circa di esse non hanno luogo i nostri o gli altrui pareri e consigli» (Diversi fragmenti attenenti al Trattato delle cose che stanno su l’acqua, in Id., Le opere, cit., 4° vol., 1894, p. 24).
L’uso non casuale di determinati e ricorrenti aggettivi, quali «ottimo», «uno», «perfettissimo», a indicare le operazioni della natura, vuole precludere ogni possibilità all’uomo di pensarle come prolungamenti del suo essere o come messaggi e segni a lui destinati; ma vuole indicare insieme il carattere necessario, stringente, di quelle medesime operazioni, da conoscere, non da interpretare; un carattere contiguo se non proprio modellato su quello della geometria e delle sue operazioni. Copernico, «vestendosi l’abito del filosofo», ha indagato la vera e reale «costitutione delle parti dell’universo» e ha stimato «vera» la «mobilità della terra» (Lettera a mons. Piero Dini, 23 marzo 1615, in Id., Le opere, cit., 5° vol., 1895, p. 297). Galilei sapeva ormai bene che una trama indissolubile legava il suo copernicanesimo alla sua fisica e che la vittoria andava colta in cielo e in terra. La sconfitta del sistema di Copernico, o anche la sua trasformazione, sia pur provvisoria, sia pur strumentale, in ipotesi (nel senso dell’astronomia classica), avrebbe decretato il suo fallimento come matematico e come filosofo.
L’idea di una natura «sorda e inesorabile ai nostri vani desideri» (Il Saggiatore, in Id., Le opere, cit., 6° vol., 1897, p. 337), «inesorabile e immutabile, e mai non trascendente i termini delle leggi impostegli, come quella che nulla cura che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità degli uomini» (Lettera a madama Cristina di Lorena, cit., p. 316), diviene non la prova, ma la premessa del copernicanesimo, sì da far pensare che l’accettare questo possa, pericolosamente, confermare quella. Le leggi naturali sono così stringenti che neppure
ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura. [Così, se la] Terra si muove de facto, noi non possiamo mutar la natura e far che ella non si muova; ma ben possiamo facilmente levar la repugnanza della Scrittura con la solo confessione di non aver penetrato il suo vero senso (Considerazioni circa l’opinione copernicana, in Id., Le opere, cit., 5° vol., 1895, p. 365).
Quindi, conclude pericolosamente Galilei, la «via della sicurezza di non errare è di cominciare dall’inquisizioni astronomiche e naturali, e non dalle scritturali» (p. 365).
Con un procedimento analogo a quello tenuto nei confronti dell’aristotelismo, anche per la Scrittura valgono prima le cose e poi i nomi, ovvero l’interpretazione, delle cose. Al punto che neppure i suoi interpreti possono testimoniare il contrario di ciò che osservano e comprendono.
È questo che consente, e anzi impone, una lettura metaforica delle Scritture, che sono un prodotto ‘storico’, adeguato a quanto potevano penetrare allora «gli occhi dei bruti e del vulgo», e destinato a modificarsi via via che «cento e cento acutissimi ingegni» penetrano «misteri tanto profondi e concetti tanto sublimi» (Lettera a madama Cristina di Lorena, cit., p. 326). Tra il mondo della natura e il mondo dell’uomo s’intravede così una diversità persino temporale: il primo, dato subito perfetto e immutabile, il secondo costretto a inseguire la verità attraverso gli «antichi e più rozzi secoli», con «fatiche», con «investigazioni continuate per migliaia d’anni» (p. 329). Una inadeguatezza che rende problematico immaginare come il mondo sia destinato da Dio all’uomo.
Galilei non fu un astronomo, almeno non nel senso tecnico del termine. Pur avendo dato con il telescopio un contributo decisivo all’astronomia, considerò tiepidamente gli aspetti volti a perfezionare e a modificare la teoria copernicana. Il suo avversario non fu Tolomeo, ma Aristotele. Fu sui problemi connessi al movimento che Galilei aggredì la filosofia aristotelica fin dagli anni pisani, rivolgendosi, come Copernico, a un antico, il «sovrumano Archimede» (De motu, in Id., Le opere, cit., 1° vol., 1890, p. 300). Dalla sua idrostatica imparò che pesantezza e leggerezza non sono che proprietà relative, determinate dall’ambiente nel quale i corpi sono immersi, e pertanto non sono qualità, ma un risultato. Propriamente parlando, la leggerezza non esiste, esistono solo il peso maggiore e quello minore, il peso assoluto e quello relativo. Dal punto di vista del movimento, ne conseguiva che solo il moto verso il basso era un movimento naturale (determinato dal peso), mentre quello verso l’alto era sempre violento.
L’incontro con Copernico lo guida nel passaggio dalla relatività ottica del movimento, già ben nota, a quella fisica: in un sistema in movimento uniforme i corpi interni al sistema sono indifferenti al movimento stesso; non solo, ma essi sono anche inerti, tendono cioè a permanere nello stato in cui si trovano. Nello spazio indifferente, geometrico, che sostituisce quello qualitativo di Aristotele, i corpi vengono a perdere ogni dimensione empirica per diventare gli oggetti perfettamente configurati dalla geometria. Il che permise a Galilei di stabilire le leggi del moto: la velocità di un corpo che cade aumenta proporzionalmente al tempo e l’accelerazione della caduta è la stessa per tutti i corpi.
Spogliati di ogni qualità e di ogni finalismo, i corpi si esprimono «numero, pondere et mensura» (Diversi fragmenti attenenti al Trattato delle cose che stanno su l’acqua, cit., p. 52): tutta la realtà naturale è passibile di misurazione; è un libro i cui caratteri sono figure matematiche, leggibile da chiunque ne conosca l’alfabeto. Ciò che non può essere misurato non è traducibile in scienza: è la famosa distinzione de Il Saggiatore tra qualità primarie e qualità secondarie. Alle prime appartengono la figura del corpo, lo spazio che occupa, il rapporto con gli altri corpi, l’esser fermo o in moto; alle seconde gli odori, i colori, i sapori, tutto ciò che si riferisce al nostro modo di percepire i corpi, ma che nulla aggiunge o toglie alle proprietà dei corpi stessi.
Galilei fu testimone e protagonista del primo tentativo di unificare, in nome di una rivoluzione del sapere e dei suoi contenuti, gruppi eterogenei per formazione, per provenienza geografica, per status, per età. Si trattò di una sorta di gigantesca nuova accademia (il concretizzarsi su altri piani del sogno linceo), di una repubblica formata dai cittadini di una nuova scienza, nella quale questioni scientifiche si intrecciavano con consigli di strategie culturali, dove le sollecitazioni provenienti dallo scontro con aristotelici, gesuiti, vecchi e nuovi naturalisti, affiancavano l’elaborazione di teoremi e ritrovati geometrici; dove si sommavano quesiti, nuovi esperimenti, dubbi e conquistate certezze. «V.S. [Vostra Signoria] è constituita in posto, che per necessità deve servire alla sua gloria […] et all’avanzamento della filosofia», aveva sottolineato Fulgenzio Micanzio (Lettera […] a Galileo, 25 febbraio 1634, in Id., Le opere, cit., 16° vol., 1905, p. 53), alludendo non tanto al ruolo ufficiale che Galilei ricopriva ancora in Toscana, quanto a quello simbolico che aveva svolto e continuava a svolgere in Italia e in Europa.
Subito dopo il Sidereus, Galilei divenne per l’Europa colta l’incarnazione del nuovo sapere, l’interprete di un rinnovamento tanto spesso annunziato e sperato, e che finalmente sembrava attuarsi. Era la nuova scienza, la nuova filosofia della natura che esigeva, garantiva e sviluppava Copernico. Non dunque la discesa del cielo copernicano sulla Terra aristotelica, ma la parallela e contemporanea costruzione di un nuovo cielo e di una nuova Terra: le osservazioni celesti sullo stesso piano e nel medesimo tempo degli studi meccanici e idrostatici.
Sarà la rivoluzione scientifica che consentirà di guardare a Galilei come al capo di un nuovo ordinamento, fondato sulla libertas philosophandi. La condanna del 1633, la prigione, l’esilio, il carcere domiciliare, la paventata tortura, mentre non ne offuscano le immagini precedenti, vi aggiungono quella concreta del martire della libertas philosophandi, del perseguitato dall’ottusità di aristotelici e gesuiti.
L’edizione di riferimento per le opere di Galilei rimane quella nazionale a cura di A. Favaro:
Le opere, 20 voll., Milano 1890-1909 (nuova rist. Firenze 1968).
Si vedano inoltre:
Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla mecanica ed i movimenti locali, a cura di E. Giusti, Torino 1990.
Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, a cura di O. Besomi, M. Helbing, 2 voll., Padova 1998.
Discorso delle comete, a cura di O. Besomi, M. Helbing, Roma 2002.
Le mecaniche, a cura di R. Gatto, Firenze 2002.
Il Saggiatore, a cura di O. Besomi, M. Helbing, Roma 2005.
A. Koyré, Études galiléennes, 3 voll., Paris 1939-1940 (trad. it. Torino 1976).
E. Garin, Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, Bari 1965 (in partic. Galileo e la cultura del suo tempo, pp. 109-46, e Galileo filosofo, pp. 147-70).
M. Clavelin, La philosophie naturelle de Galilée: essai sur les origines et la formation de la mécanique classique, Paris 1968, 19962.
Novità celesti e crisi del sapere, Atti del Convegno internazionale di studi galileiani, Pisa-Venezia-Padova-Firenze (18-26 marzo 1983), a cura di P. Galluzzi, Firenze 1984.
F. Beretta, Galilée devant le tribunal de l’Inquisition: une relecture des sources, Fribourg 1990.
Largo campo di filosofare. Eurosymposium Galileo 2001, a cura di J. Montesinos, C. Solís, La Orotava 2001.
M. Bucciantini, Galileo e Keplero: filosofia, cosmologia e teologia nell’età della Controriforma, Torino 2003.
M. Camerota, Galileo Galilei e la cultura scientifica nell’età della Controriforma, Roma 2004.
A. Beltrán Marí, Talento y poder. Historia de las relaciones entre Galileo y la Iglesia católica, Pamplona 2006 (trad. it. Milano 2011).
I documenti vaticani del processo di Galileo Galilei, 1611-1741, nuova ed. accresciuta, rivista e annotata da S. Pagano, Città del Vaticano 2009.
V. Frajese, Il processo a Galileo Galilei: il falso e la sua prova, Brescia 2010.
J.L. Heilbron, Galileo, Oxford-New York 2010.
P. Galluzzi, Tra atomi e indivisibili. La materia ambigua di Galileo, Firenze 2011.
S. Bonechi, Mi fan patir costoro il grande stento… Galileo Galilei, Torino 2012.
M. Bucciantini, M. Camerota, F. Giudice, Il telescopio di Galileo. Una storia europea, Torino 2012.