Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le osservazioni astronomiche, la nuova teoria del moto, la fondazione della fisica su basi sperimentali e matematiche fanno di Galilei una delle figure più originali e influenti della storia della scienza. A Galilei si deve infatti la realizzazione dell’ambizioso progetto di costruire una nuova concezione del moto in alternativa all’aristotelismo. Il suo processo e la condanna ad opera della Chiesa rappresentano uno degli episodi più drammatici nella storia della cultura italiana.
Galileo Galilei nasce a Pisa da Giulia Ammannati e da Vincenzo, noto musicista. Nel 1580 si immatricola alla facoltà di arti dell’università di Pisa, con lo scopo di intraprendere studi di medicina. A Pisa studia la filosofia aristotelica sotto la guida di Francesco Buonamici, ma abbandona gli studi senza conseguire la laurea. Segue corsi privati di matematica nei quali studia Euclide e Archimede. L’influenza di quest’ultimo è rintracciabile in La Bilancetta, un breve scritto dedicato al peso specifico, che il giovane Galilei compone nel 1586. Privo di una qualifica accademica, Galilei impartisce lezioni di matematica e tiene conferenze pubbliche, tra cui una sull’ Inferno di Dante. Le sue competenze matematiche cominciano a essere note ai contemporanei, in particolare al marchese Guidobaldo del Monte, matematico e filosofo, con cui Galilei corrisponde su questioni di meccanica. Nel 1589 è nominato lettore di matematica all’università di Pisa e ai primi anni di insegnamento risalgono gli studi raccolti sotto il titolo De motu, in cui Galilei sostiene una teoria archimedea del peso e confuta la distinzione aristotelica tra corpi leggeri e pesanti. Egli riconduce tutti i moti al modello idrostatico, sostenendo una proporzionalità tra la velocità e il peso del corpo in un dato mezzo. La velocità dei gravi di identico peso specifico, qualunque ne sia la mole, dipenderà unicamente dalla differenza tra il loro peso specifico e quello del mezzo. Per il giovane Galilei, tutti i corpi sono pesanti e non vi è leggerezza naturale. Nel vuoto, conclude Galilei in opposizione a quanto aveva asserito Aristotele, i corpi si muoveranno con una velocità finita, proporzionale ai loro pesi specifici.
Insoddisfatto delle condizioni dell’isegnamento pisano, nel 1592 Galilei si trasferisce a Padova. Qui lo stipendio non è alto e l’insegnamento richiesto è ancora su temi tradizionali. Tuttavia, Venezia, con il suo Arsenale, gli fornisce condizioni ben più stimolanti di Pisa per ampliare le proprie competenze e metterle in pratica. Galileo impartisce lezioni private di matematica applicata a giovani nobili destinati alla carriera militare e fornisce consulenze tecniche alla Repubblica di Venezia, su temi quali la costruzione delle navi e l’idraulica. Nel 1597 inventa un compasso geometrico-militare, che consente di eseguire operazioni aritmetiche e geometriche, inclusa misura dei calibri e il rilevamento del territorio. Il compasso galileiano ha un gran successo e Galilei trae notevoli profitti dalla sua vendita. A questi anni risale la stesura del trattato dal titolo Le mecaniche, in cui l’autore riconduce il funzionamento delle macchine semplici alla bilancia, spiegandolo in termini di pesi e delle loro velocità intorno al centro. L’architettura militare, le fortificazioni e la geografia sono oggetto delle lezioni impartite da Galilei ai giovani nobili nonché di trattati che lo scienziato pisano compone negli anni di Padova. Nel 1597, scrivendo a Keplero per ringraziarlo del dono di una copia del Mysterium cosmographicum, lo scienziato pisano professa apertamente la propria adesione al sistema copernicano. Galileo si dedica allo studio del pendolo e della caduta dei gravi. Su quest’ultimo tema elabora una prima teoria matematica che nel 1604 trasmette all’amico Paolo Sarpi, secondo la quale stabilisce la proporzionalità tra gli spazi percorsi dal grave e il quadrato dei tempi.
Nel 1608 circola la prima notizia di un cannocchiale e l’anno seguente, in Inghilterra, Thomas Harriot, osserva la superficie della Luna e ne disegna una mappa. Nell’agosto 1609 Galileo costruisce un telescopio e lo dona alla Repubblica di Venezia, ricevendo in cambio un congruo aumento di stipendio. Nei mesi successivi (nell’inverno 1609-1610) Galileo compie le prime osservazioni della Luna con un telescopio a circa venti ingrandimenti. La superficie della Luna gli appare simile a quella della Terra, con montagne e valli – un forte argomento contro il principio aristotelico dell’immutabilità dei cieli. Nello stesso periodo Galileo osserva i quattro maggiori satelliti di Giove e successivamente ne determina con precisione i periodi. Nel marzo 1610 pubblica il Sidereus Nuncius , dedicato a Cosimo II de’ Medici, in onore del quale chiama i satelliti di Giove “astri medicei”. La dedica risponde a un preciso intento: Galileo è alla ricerca di un migliore impiego, che spera di ottenere dal granduca. Le speranze di Galileo sono ben riposte e nell’estate del 1610 lascia Padova per Firenze, dove è nominato “Filosofo e Matematico” del granduca. Il Sidereus Nuncius contiene osservazioni della superficie della Luna, che Galileo descrive come “diseguale, scabra, ripiena di cavità e di sporgenze, non altrimenti che la faccia stessa della Terra”. Galilei osserva nuove stelle e scopre che la Via Lattea “non è una parte più densa del cielo atta a riflettere i raggi delle stelle e del sole”, come s’era creduto fino ad allora, ma “un ammasso di innumerabili stelle disseminate a mucchi”, come egli stesso spiegherà nel Sidereus Nuncius. Le osservazioni delle stelle indicano non solo che esse sono di grandezza variabile, ma che sono distribuite a distanze enormi. Galilei osserva inoltre le fasi di Venere, incompatibili con il sistema tolemaico. Nel 1611 Galileo si reca a Roma “per far toccar con mano ad ogn’uno tutte le novità delle mie osservazioni”. A Roma incontra il padre gesuita Clavio e il 14 aprile 1611 partecipa a un incontro a San Pancrazio con scienziati Gesuiti, Federico Cesi e altri membri dell’Accademia dei Lincei. L’incontro, dedicato alle recenti osservazioni astronomiche, è l’inizio di un’azione di promozione delle proprie scoperte nella Città Santa – azione che inizialmente ha successo, poiché i Gesuiti approvano, anche se con quache riserva, il lavoro dello scienziato pisano. Il 25 aprile del 1611, entra a far parte dell’Accademia dei Lincei – che eserciterà un ruolo importantissimo nella carriera scientifica galileiana. Nel 1611 osserva le macchie solari, tema su cui nel 1612 il gesuita tedesco Christopher Scheiner interviene pubblicando (con lo pseudonimo di Apelle) una breve opera dal titolo Tres Epistolas de Maculis Solaribus (1612), in cui asserisce che le macchie sono astri che ruotano intorno al Sole, oppure intorno alla Terra passando tra noi e il Sole stesso. Galileo risponde a Scheiner con un breve trattato in forma epistolare, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, pubblicato a Roma nel 1613. Nelle sue lettere Galileo prova con argomenti di carattere ottico che le macchie sono situate sulla superficie del Sole o in prossimità di essa e ipotizza che il Sole ruoti intorno a se stesso. Le macchie provano che neanche il Sole è esente da quei fenomeni di generazione e corruzione che gli aristotelici avevano attribuito alla sola Terra.
Al 1612 emergono a Firenze le prime esplicite manifestazioni di dissenso teologico nei confronti delle teorie copernicane. L’anno successivo, presso la corte del granduca sono sollevate obiezioni contro Copernico. Dell’episodio Galilei è informato da Benedetto Castelli, che insegna matematica nello studio pisano. Galilei decide di chiarire il proprio punto di vista su scienza e Scrittura con una lettera all’amico Castelli, lettera che circola in forma manoscritta. A questa fanno seguito altre due lettere sull’argomento, indirizzate a Piero Dini e alla granduchessa Cristina di Lorena. Galileo afferma la separazione tra teologia e scienza e la compatibilità del copernicanesimo con le Scritture. Secondo lo scienziato pisano, i testi sacri non errano, ma possono errare i loro interpreti, e l’errore più grave è quello di fermarsi al significato letterale della Bibbia, che comporterebbe l’attribuzione a Dio di passioni umane. Galileo insiste sulla necessità di un’interpretazione diversa da quella letterale, in particolare nel caso delle dispute su questioni naturali nelle quali la Scrittura non può avere un’autorità superiore alla Natura. Secondo Galileo, i testi sacri hanno lo scopo “di insegnarci come si vadia al cielo, non come vadia il cielo”. Sia la Scrittura (in quanto dettata dallo Spirito Santo), sia la Natura (come fedele esecutrice degli ordini divini) procedono direttamente dal Verbo divino. Ma vi è una differenza: la Scrittura – scrive Galileo nella lettera a Cristina – deve adattarsi alle limitate capacità di intendimento del popolo, mentre la Natura è “inesorabile ed immutabile” e non adatta le proprie ragioni e modi d’operare alla capacità degli uomini. Quindi, quel che le sensate esperienze e certe dimostrazioni ci mostrano della natura non può essere messo in dubbio da luoghi della Scrittura che, presi alla lettera, sembrerebbero sostenere il contrario. Nel caso del miracolo dell’arresto del Sole (Giosuè, X), considerato un argomento contro la mobilità della Terra, Galilei non si limita a sancire l’autonomia della scienza dalla teologia, egli si sforza di provare che la teoria copernicana è assai più concorde col testo sacro di quanto non sia quella tolemaica. La lettera a Castelli circola e acuisce le tensioni: un domenicano, Tommaso Caccini attacca Galilei in una predica a Firenze del 21 dicembre 1614; nel 1615 il domenicano Niccolò Lorini denuncia Galileo alla Congregazione dell’Indice. Nel 1615 interviene il cardinale Bellarmino, autorità in campo teologico della Chiesa romana, sostenendo che il sistema copernicano si debba intendere solo come ipotesi astronomica, non come esposizione della realtà fisica del mondo. Nel 1616 il Sant’Uffizio delibera che la proposizione “Il Sole è centro del mondo e per conseguenza immobile di moto locale” è “stolta ed assurda in filosofia e formalmente eretica”. La proposizione che “la Terra non è il centro del mondo, né immobile, ma si muove secondo sé tutta, etiam di moto diurno” è anch’essa stolta ed assurda in filosofia ed “erronea riguardo alla fede”. Bellarmino ammonisce Galileo a non sostenere il sistema copernicano e gli intima di non difenderlo né insegnarlo oralmente o per iscritto. Il De Revolutionibus di Copernico è messo all’Indice, “finché non sarà corretto”. Le misure anticopernicane deliberate dalla Congregazione dell’Indice costringono Galileo a un lungo silenzio sul sistema copernicano, ma egli non manca di partecipare al dibattito astronomico di quegli anni.
Nel 1623 pubblica Il Saggiatore, dedicato al neoeletto papa Urbano VIII (Maffeo Barberini). In quest’opera Galileo polemizza con l’astronomo gesuita Orazio Grassi sulle comete e propone una teoria atomistica della materia, secondo la quale sono reali solo le proprietà di tipo geometrico-meccanico, mentre le qualità sensibili (caldo, freddo, dolce, amaro) sono dovute all’emissione di piccolissime particelle da parte dei corpi in cui noi crediamo che dette qualità risiedono, particelle che interagiscono con i nostri organi sensoriali, dando quindi origine alle qualità sensibili. La conseguenza di questa interpretazione è che, se si toglie l’individuo dotato di sensi, le qualità spariscono. In effetti, spiega Galileo, queste ultime sono puri nomi. Nel Saggiatore Galileo presenta la celebre immagine del libro della natura scritto con caratteri matematici e quindi decifrabile solamente per mezzo di essa. In contrapposizione agli aristotelici, Galileo attribuisce alla matematica il ruolo di fondamento della fisica.
Alla redazione del Saggiatore contribuiscono membri dell’Accademia dei Lincei, che ha stabilito buoni rapporti con il cardinale Maffeo Barberini, uomo di lettere e amico di Galileo. L’elezione al soglio pontificio di Maffeo Barberini, col nome di Urbano VIII, fa nascere in Galileo e nei Lincei la speranza di una maggior libertà di discussione sul sistema copernicano. Galileo riprende quindi il progetto di un trattato di cosmologia, che aveva già in mente nel 1610 e che successivamente aveva deciso di intitolare Dialogo sul flusso e reflusso dei mari . Galileo ritiene di aver scoperto una prova sperimentale decisiva a favore della mobilità della Terra: il fenomeno delle maree. La scelta finale del titolo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano è voluta da Urbano VIII, che chiede di non fare allusione nel titolo e nel contenuto dell’opera al “flusso e riflusso” del mare. Le argomentazioni a favore del sistema copernicano sono presentate apparentemente in maniera ipotetica, ma di fatto l’esito delle discussioni è chiaramente sempre a favore di Copernico. L’opera è completata nel 1630, ma è pubblicata solo due anni dopo, al termine di lunghi e complessi negoziati per ottenere l’autorizzazione della censura. Dedicato al granduca di Toscana Ferdinando II, il Dialogo è diviso in quattro giornate e ha tre interlocutori: il fiorentino Filippo Salviati (1583-1614), sostenitore di Copernico, il patrizio veneto Giovan Francesco Sagredo (1571-1620), scienziato dilettante dallo spirito acuto, e infine Simplicio, personaggio immaginario, il cui nome ricorda il noto commentatore di Aristotele. Nel Dialogo, Simplicio è sostenitore del geocentrismo e ha il ruolo del dogmatico aristotelico. Dopo aver confutato, nella Giornata Prima del Dialogo, la distinzione aristotelica tra corpi terrestri e corpi celesti, nelle giornate successive Galileo tratta dei moti della Terra e di questioni di meccanica. Nella Giornata Seconda è discussa la rotazione diurna della Terra, nella Terza la rivoluzione annuale della Terra intorno al Sole, mentre nella Quarta si afferma che solo ammettendo questi due movimenti è possibile spiegare il fenomeno delle maree. Galileo confuta le obiezioni degli aristotelici affermando una nuova concezione del movimento, che si fonda sulla relatività dei moti e sulla nozione di sistema meccanico. Nella Giornata Seconda Salviati spiega che solo con il moto diurno della Terra sarebbe risolta una difficoltà del sistema geocentrico: la sfera celeste sarebbe in moto vero ovest, mentre i pianeti si muovono verso oriente. Galileo quindi rimuove le obiezioni contro il moto assiale della Terra, secondo le quali una pietra lasciata cadere da una torre non toccherebbe il suolo ai piedi della perpendicolare, ma in un punto spostato verso ovest; le palle di cannone sparate verso occidente avrebbero una gittata maggiore di quelle sparate verso oriente, in quanto al percorso che farebbe la palla occorre aggiungere quello del cannone, che, portato dalla Terra, si nuove verso oriente. A queste obiezioni Galileo risponde per mezzo di considerazioni basate sull’inerzia e sull’indipendenza dei moti all’interno di un sistema di riferimento dato. Il volo degli uccelli, così come i moti dell’aria in prossimità della Terra ed altre prove addotte contro il moto della Terra sono confutate mostrando che ciò che accade sulla Terra è analogo a quel che si verifica sottocoperta in una nave in movimento che non subisce né accelerazione né decelerazione. Nella condizione ideale della nave in moto rettilineo uniforme, i moti dei passeggeri, quelli delle gocce che cadono, quello dei pesci in un vaso non sono influenzati dal movimento comune a tutto ciò che la nave trasporta. Nella Giornata Quarta, che incorpora gran parte di uno scritto del 1616 sul flusso e riflusso del mare, è presentato l’argomento principale a conferma dei moti della Terra: le maree. Galileo ritiene (erroneamente) che il flusso e riflusso delle maree sia causato da accelerazioni e decelerazioni che hanno origine dalla combinazione della rotazione diurna e del moto annuo della Terra. La teoria galileiana delle maree, che si basa su un modello meccanico, si differenzia radicalmente da quella sostenuta da Keplero, che spiega il fenomeno con l’attrazione della Luna e del Sole. Per Galileo una spiegazione basata sull’attrazione è inaccettabile, in quanto a suo avviso implicherebbe simpatie, antipatie e virtù occulte che a suo avviso sono da bandire dallo studio dei fenomeni naturali.
Il carattere inequivocabilmente copernicano del Dialogo non sfugge al papa. Galileo è convocato a Roma, dove ha luogo il processo, che si conclude Il 22 giugno 1633 con la condanna “al carcere formale” a discrezione del Sant’Uffizio e l’abiura. Il carcere è rapidamente commutato in domicilio coatto, prima a Siena poi nella villa di Arcetri, dove Galileo trascorre i suoi ultimi anni.
Ad Arcetri, Galilei, benché debilitato dalle malattie, continua dedicarsi agli studi di meccanica e scrive una delle opere principali della scienza del Seicento, i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638), che vede la luce a Leida, in Olanda, al riparo dalle censure della Chiesa romana. In quest’opera Galileo tratta di meccanica e di resistenza dei materiali e stabilisce che nel moto di caduta libera uguali incrementi di velocità sono acquisiti in tempi uguali, ovvero la velocità aumenta proporzionalmente ai tempi. Nei Discorsi la legge del moto uniformemente accelerato è espressa in modo rigoroso ed è corredata dal noto esperimento del piano inclinato. Partendo dalla stretta connessione che sussiste tra tempo e moto e dalla constatazione che il moto uniforme è quello in cui in tempi uguali sono percorsi spazi uguali, Galilei conclude che il moto uniformemente accelerato è quello in cui il mobile in tempi uguali acquista uguali aumenti di velocità. Riconduce il caso di un moto uniformemente accelerato a quello di un moto uniforme con velocità corrispondente al grado medio della velocità del moto accelerato. La definizione del moto naturalmente accelerato che troviamo nei Discorsi postula un aumento continuo della velocità a partire dalla quiete, afferma cioè che all’inizio della caduta il grave si muove con infinita lentezza e attraversa infiniti gradi di velocità in un tempo finito. Afferma che mutamenti di velocità avvengono in frazioni comunque piccole di tempo e definisce la velocità istantanea come velocità uniforme dalla durata infinitesimale.
Galileo Galilei
Lo spazio e gli astri
Introduzione
Grandi invero sono le cose che in questo breve trattato io propongo alla visione e alla contemplazione degli studiosi della natura. Grandi, dico, sia per l’eccellenza della materia per se stessa, sia per la novità loro non mai udita in tutti i tempi trascorsi, sia anche per lo strumento, in virtù del quale quelle cose medesime si sono rese manifeste al senso nostro.
Gran cosa è certo l’aggiungere, sopra la numerosa moltitudine delle Stelle fisse che fino ai nostri giorni si son potute scorgere con la naturale facoltà visiva, altre innumerevoli Stelle non mai scorte prima d’ora, ed esporle apertamente alla vista in numero più che dieci volte maggiore di quelle antiche e già note.
Bellissima cosa e oltremodo a vedersi attraente è il poter rimirare il corpo lunare, da noi remoto per quasi sessanta semidiametri terrestri, così da vicino, come se distasse di due soltanto di dette misure; sicché il suo diametro apparisca quasi trenta volte maggiore, la superficie quasi novecento, il volume poi approssimativamente ventisettemila volte più grande di quando sia veduto ad occhio nudo; e quindi, con la certezza che è data dall’esperienza sensibile, si possa apprendere non essere affatto la Luna rivestita di superficie liscia e levigata, ma scabra e ineguale, e allo stesso modo della faccia della Terra, presentarsi ricoperta in ogni parte di grandi prominenze, di profonde valli e di anfratti.
Di più, l’aver rimosso le controversie riguardo alla Galassia o Via Lattea, con l’aver manifestato al senso, oltre che all’intelletto, l’essenza sua, non è da ritenersi, mi pare, cosa di poco conto; come anche il mostrare direttamente, essere la sostanza di quelle Stelle, che fin qui gli Astronomi hanno chiamato Nebulose, di gran lunga diversa da quel che fu creduto finora, sarà cosa molto bella e interessante.
Ma quello che supera di gran lunga ogni immaginazione, e che principalmente ci ha spinto a farne avvertiti tutti gli Astronomi e Filosofi, è l’aver noi appunto scoperto quattro Stelle erranti, da nessun altro prima di noi conosciute né osservate, le quali, a somiglianza di Venere e di Mercurio intorno la sole, hanno lor propri periodi intorno a una certa Stella principale del numero di quelle conosciute, e ora la precedono, or la seguono, senza mai allontanarsi da essa fuor dei loro limiti determinati. Le quali cose furono tutte da me ritrovate e osservate or non è molto, mediante un occhiale che io escogitai, illuminato prima dalla divina grazia.
Galileo Galilei, Sidereus Nuncius, trad. it. a cura di M. Timpanaro Cardini, Venezia, Marsilio, 1993
Galileo Galilei
Galileo rinnega le sue scoperte
Atto d’abiura
Io Galileo, figliuolo del quondam Vincenzo Galileo di Fiorenza, dell’età mia d’anni 70, costituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Eminentissimi e Reverentissimi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l’eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl’occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la Santa Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Offizio, per aver io, dopo d’essermi stato con precetto dall’istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia modo, né in voce né in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d’essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l’istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova;volendo io levar dalla mente delle Eminenze Vostre e d’ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.anco e prometto d’adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Offizio imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Così Dio m’aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani.Galileo sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633.
Io Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria.
Galileo Galilei, Lettere, a cura di F. Flora, Torino, Einaudi, 1978