Gangster film
Genere cinematografico incentrato sulle imprese di criminali abituali, che svolgono attività illegali facendo ricorso a metodi violenti. Nel suo schema più tradizionale, impostosi nel cinema statunitense dei primi anni Trenta, racconta l'ascesa, la caduta e la morte di un boss criminale, ma attraverso i decenni ha sviluppato diverse formule, incentrate sul gangsterismo rurale, sulla mafia, sulle infiltrazioni nel mondo del pugilato o nei vari settori imprenditoriali, sulla denuncia dei metodi del racket (exposé films), sulla descrizione di rapine (caper films), sul conflitto tra singoli delinquenti e l'organizzazione.
I primi esempi rilevanti nel cinema statunitense apparvero già nel periodo del muto, da The musketeers of Pig Alley (1912) di David W. Griffith e Regeneration (1915) di Raoul Walsh, ambientati tra la malavita dei bassifondi degli anni Dieci, fino a uno dei capolavori del genere, Underworld (1927; Le notti di Chicago o Il castigo) di Josef von Sternberg, dove la violenza si risolve in una visione barocca e irreale. La svolta più significativa si verificò però sul finire degli anni Venti, quando il gangster divenne simbolo della trasformazione della società attratta e al contempo minacciata dallo sviluppo della metropoli: la grande città rappresenta infatti il regno della merce e del lusso a portata di tutti, l'illusione di un dinamismo sociale che permette a chiunque di ottenere ricchezza e potere, ma è anche luogo di immoralità e perdizione da cui si può essere sopraffatti, riflettendo l'ebbrezza di un mondo in cui sembrano essersi indebolite le barriere etiche e sociali. Il gangster è un individuo che esprime questo vitalismo moderno, l'altra faccia del 'sogno americano', e se sul piano sociale la sua figura si sovrappone a quella dell'imprenditore, in un continuo parallelismo tra organizzazione criminale e aziendale, dal punto di vista etico costituisce una sfida, perché capace di affascinare lo spettatore con azioni moralmente inaccettabili. All'inizio degli anni Trenta il fenomeno del g. f. si impose con una serie di titoli come Little Caesar (1931; Piccolo Cesare) di Mervyn LeRoy, The public enemy (1931; Nemico pubblico) di William A. Wellman, Scarface, noto in origine come Scarface, shame of a nation (1932; Scarface ‒ Lo sfregiato) di Howard Hawks, tutti centrati sul tema dell'ascesa e della rovina violenta del protagonista. Nel primo film, i modelli sono esplicitamente quelli della tragedia greca e del dramma elisabettiano, mentre The public enemy ricostruisce la carriera criminale di un ragazzo dei bassifondi, evidenziando la componente sociale del gangsterismo, e Scarface sottolinea gli elementi psicopatici e grotteschi del personaggio. Nel breve periodo che va dal 1930 al 1932 vennero prodotti numerosi g. f., che, a causa dell'esaltazione delle figure criminali, suscitarono la reazione indignata dei gruppi moralizzatori: tra i migliori, vanno citati anche City streets (1931; Le vie della città) di Rouben Mamoulian, che risolve l'argomento in chiave più tradizionalmente sentimentale, oppure Quick millions (1931) di Rowlan Brown, lucido e disincantato nel ritrarre le illusorie ambizioni di ascesa sociale di un boss e i legami fra criminalità e mondo imprenditoriale. La mitologia del g. f. sarà destinata a restare per lungo tempo legata a questo periodo, tra Proibizionismo e Depressione. La casa di produzione più attiva fu la Warner Bros., che inserì il g. f. all'interno dei suoi drammi sociali, con uno stile visivo caratterizzato da un montaggio energico e da una fotografia molto contrastata. I modelli letterari erano per lo più legati al linguaggio e alle testimonianze del mondo giornalistico, da cui proveniva uno scrittore fondamentale come W.R. Burnett, ma ben presto il gangster divenne anche un personaggio convenzionale ripreso da testi teatrali letterariamente ambiziosi, il cui maggior esempio è The petrified forest (1936; La foresta pietrificata) di Archie Mayo, dall'omonimo dramma di R.E. Sherwood. Proprio dalla metà del decennio, inoltre, fu rappresentato in termini quasi nostalgici, o comunque con uno sguardo rivolto al passato: in The petrified forest è una figura di vinto simbolicamente posto ai confini del deserto e in attesa della morte; in Dead end (1937; Strada sbarrata) di William Wyler o in Angels with dirty faces (1938; Gli angeli con la faccia sporca) di Michael Curtiz è un personaggio senza futuro che torna nel suo quartiere d'infanzia prima di morire; in The roaring Twenties (1939; I ruggenti anni Venti) di Walsh è al centro di un'epopea rievocata come esempio di un vitalismo ormai irrimediabilmente tramontato; in High Sierra (1941; Una pallottola per Roy) diretto da Walsh è una figura che riaffiora dal passato per ritrovarsi escluso dall'America contemporanea.
Dopo la breve pausa del periodo bellico, il dopoguerra vide risorgere il genere con nuove caratteristiche, dovute per lo più alle tortuose sospensioni del noir, che proiettarono i criminali in un percorso angoscioso all'interno di sé e sfociarono in capolavori quali The killers (1946; I gangsters) e Criss cross (1949; Doppio gioco) entrambi di Robert Siodmak, White heat (1949; La furia umana) di Walsh, Gun crazy (1949; La sanguinaria) di Joseph H. Lewis, ma anche nell'apologo politico Force of evil (1948; Le forze del male) di Abraham Polonsky o nell'intimista They live by night (1949; La donna del bandito) di Nicholas Ray. In quegli anni il g. f. analizzò la psicologia dei suoi protagonisti, il loro rapporto con il passato ‒ in particolare l'inadeguatezza davanti a un mondo trasformato ‒, con la follia e la sessualità. Mutarono anche le star del genere, da sempre fortemente incentrato sull'intensa fisicità dei suoi protagonisti: a Edward G. Robinson e James Cagney si affiancarono i personaggi tormentati di Humphrey Bogart, Alan Ladd, John Garfield, le nevrosi di Richard Widmark, l'atletismo tragico di Burt Lancaster. Sul finire del decennio, inoltre, si diffuse uno stile semidocumentaristico che portò le troupe a girare direttamente in esterni reali, conferendo una nuova asprezza e un nuovo realismo alle riprese: appartengono a questo periodo film come The naked city (1948; La città nuda) di Jules Dassin, tutto il lavoro svolto da Anthony Mann, autore di T-Men (1947; T-Men contro i fuorilegge) e di Raw deal (1948; Schiavo della furia), e il filone sugli agenti infiltrati nel mondo della malavita. Questa relazione tra tormenti interiori e timori sociali si nutriva anche delle tensioni prodotte dalla caccia alle streghe maccartista, che stroncò la carriera di registi e sceneggiatori progressisti, e risentì poi dell'impatto sull'opinione pubblica della commissione Kefauver (1950-51), istituita per indagare sulla diffusione del crimine e i cui lavori vennero ripresi dalla televisione. Da quella temperie si sviluppò un tipo di g. f. fondato sull'angoscia di una società perbene minacciata da una tentacolare organizzazione criminale, diffusa capillarmente su tutto il territorio statunitense. The enforcer (1951; La città è salva) di Bretaigne Windust è uno dei primi e più potenti esempi del filone che, nella prima metà degli anni Cinquanta, si sviluppò lungo tre direttive principali: i film imperniati sul sindacato del crimine e sulle sue imprese; la diffusione crescente della criminalità anche in provincia, al di fuori cioè delle metropoli cui era stata per lo più collegata; la minaccia portata alla normalità piccolo-borghese della famiglia statunitense, che culminò nel filone hostage holding (The desperate hours, 1955, Ore disperate, di Wyler). Alcuni argomenti continuarono tuttavia a restare emarginati o esclusi, come per es. le collusioni tra malavita e imprenditori in funzione antisindacale (cui accenna cautamente The garment jungle, 1957, La giungla della settima strada, di Vincent Sherman), i riferimenti espliciti alla mafia, le biografie di gangster reali. La situazione cominciò a sbloccarsi sul finire del decennio, quando una serie di film ripercorse le carriere criminali di gangster famosi del passato: in opere come Baby Face Nelson (1957; Faccia d'angelo) di Don Siegel, Machine Gun Kelly (1958; La legge del mitra) di Roger Corman o The rise and fall of Legs Diamond (1960; Jack Diamond gangster) di Budd Boetticher lo sguardo retrospettivo convive con nuove tensioni stilistiche e spinte verso il rinnovamento del linguaggio cinematografico. La sensibilità che si diffuse alle soglie degli anni Sessanta portò anche a un rovesciamento del tema della società borghese minacciata dal crimine, e molti film passarono ad affrontare il conflitto tra la libertà dell'individuo e le schiaccianti costrizioni sociali: in termini di cinema gangster, tutto questo venne spesso rappresentato come contrapposizione tra il singolo delinquente e l'organizzazione malavitosa di cui fa parte (The lineup, 1958, Crimine silenzioso, o The killers, 1964, Contratto per uccidere, entrambi di Siegel), ma a poco a poco condusse a una più esplicita visione del criminale come ribelle nei confronti dell'intera società. In questa direzione si impose anche commercialmente Bonnie and Clyde (1967; Gangster story) di Arthur Penn, capofila di una tendenza in cui il ritorno agli anni Trenta della Depressione e all'archetipo della coppia criminale si configura come adesione sentimentale e politica ai temi della ribellione giovanile, alla rivolta dell'individuo contro un potere oppressivo. Il g. f., a quel punto, non rappresentava più la contraddizione interna del capitalismo statunitense, la tragedia dell'individualismo che si risolve in una corsa tragica verso la solitudine e la morte, ma recuperava la tradizione del banditismo rurale, quella di Jesse James e dei giovani 'belli e ribelli' incapaci di sottostare alle regole di un mondo che intende reprimere con violenza il loro desiderio di libertà, di giustizia sociale, di affermazione del corpo e della sessualità. Tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà del decennio successivo, il g. f. divenne così uno snodo cruciale del cinema statunitense, capace di attrarre registi come Corman (da Bloody Mama, 1970, Il clan dei Barker, ai film che produsse per la New World), Robert Aldrich (The Grissom gang, 1971, Grissom gang ‒ Niente orchidee per miss Blandish), Sam Peckinpah (The Getaway, 1972, Getaway!), Martin Scorsese (Boxcar Bertha, 1972, America 1929: sterminateli senza pietà), Robert Altman (Thieves like us, 1974, Gang), John Milius (Dillinger, 1973). Nel frattempo Francis Ford Coppola celebrava con la grandiosità spettacolare e melodrammatica di The godfather (1972; Il padrino) quella mafia italoamericana che per decenni era stata trascurata da Hollywood, e che da quel momento iniziò ad alimentare una mitologia dal duplice aspetto: da una parte come forma di feroce sopraffazione, dall'altra come sicurezza conservatrice, con i suoi valori della 'famiglia' legati a un rispetto gerarchico che la società sembrava non condividere più.
Tra gli anni Cinquanta e Settanta si sviluppò anche una formula particolare del cinema gangster, quel caper film che era nato con The asphalt jungle (1950; Giungla d'asfalto) di John Huston e Armored car robbery (1950; Sterminate la gang!) di Richard Fleischer, passando attraverso The killing (1956; Rapina a mano armata) di Stanley Kubrick o il francese Du rififi chez les hommes (1955; Rififi) di J. Dassin e che si impose con racconti in cui la preparazione di una rapina diventa una riflessione sui temi del destino e della sfida sociale, ma anche un meccanismo metacinematografico sull'allestimento di uno spettacolo. Tutto il cinema gangster, del resto, si prestò dagli anni Settanta in poi a diventare un nucleo mitologico che ogni regista esibiva nella sua convenzionalità e interpretava poi in chiave personale, spesso all'interno di una riflessione sul cinema stesso. È il caso di Brian De Palma, che nel remake di Scarface (1983) o in The untouchables (1987; The untouchables ‒ Gli intoccabili) analizza attraverso esemplari storie di gangsterismo il proprio rapporto con il cinema classico, così come fa Sergio Leone in Once upon a time in America (1984; C'era una volta in America), mentre Scorsese parte dalla mafia italoamericana per sviluppare un'analisi complessa anche sul piano autobiografico e antropologico (Goodfellas, 1990, Quei bravi ragazzi; Casino, 1995, Casinò). Molti tra i registi più importanti dell'ultimo ventennio hanno d'altronde offerto una loro rilettura del g. f., in quanto riflessione su una tradizione cinematografica e su una rappresentazione tragica della società statunitense: da Walter Hill (The Driver, 1978, Driver l'imprendibile; Last man standing, 1996, Ancora vivo) a Michael Mann (Thief, 1981, Strade violente), da Joel Coen (Miller's crossing, 1990, Crocevia della morte) ad Abel Ferrara (King of New York, 1990; The funeral, 1996, Fratelli; 'R Xmas, 2001, Il nostro Natale) fino a Quentin Tarantino, che ha incentrato su figure di criminali la sua trilogia d'esordio, destinata a esercitare un rapido influsso per la combinazione di ipertrofia verbale, citazionismo esasperato e violenza paradossale (Reservoir dogs, 1992, Le iene o Cani da rapina; Pulp fiction, 1994; Jackie Brown, 1997).
Accanto al g. f. statunitense, altre cinematografie svilupparono nel dopoguerra un cinema di argomento criminale capace di imporsi a livello internazionale. Il più noto è quello francese, che combina la tradizione autoctona (Pépé le Moko, 1936, Il bandito della casbah) di Julien Duvivier con l'esempio di film e romanzi statunitensi, soprattutto dopo la creazione della collana letteraria Série noire (1945) e l'affermarsi di scrittori come A. Le Breton, A. Simonin o J. Giovanni. A caratterizzarlo è solitamente un'attenzione insistita nei confronti della psicologia dei personaggi e del milieu malavitoso, rappresentato come universo a sé in cui la violenza spietata dei comportamenti mette alla prova sentimenti quali l'amicizia e l'amore, la fedeltà e il tradimento. In Casque d'or (1952; Casco d'oro) e Touchez pas au grisbi (1954; Grisbi) Jacques Becker affonda nelle matrici fin de siècle di questa cultura popolare o in una sofferta riflessione sull'amicizia e sulla vecchiaia, mentre nei suoi capolavori Jean-Pierre Melville si sofferma su temi esistenziali con una particolare rarefazione stilistica (Le deuxième souffle, 1966, Tutte le ore feriscono… l'ultima uccide; Le samouraï, 1967, Frank Costello faccia d'angelo). È questo il periodo d'oro del noir francese, che tra gli anni Cinquanta e Settanta vide imporsi solidi registi come Henri Decoin, Gilles Grangier, Jacques Deray, Claude Sautet, Alain Corneau, mentre il più grande interprete del genere, Jean Gabin, veniva affiancato da Jean-Paul Belmondo, Alain Delon, Lino Ventura.In Italia, esistono importanti variazioni sul tema criminale già nell'immediato dopoguerra, dalle suggestioni neorealiste di Il bandito (1946) di Alberto Lattuada alla militanza politica di Caccia tragica (1947) di Giuseppe De Santis alla mafia raccontata in chiave western da Pietro Germi (In nome della legge, 1949). Tuttavia il genere ha conosciuto per lungo tempo un limitato sviluppo e si è imposto davvero solo intorno agli anni Settanta, sia con un'abbondante produzione su mafia e camorra (Lucky Luciano, 1973, di Francesco Rosi, già autore di La sfida, 1958; i film di Damiano Damiani, da Il giorno della civetta, 1968, alla serie televisiva La piovra, 1984; Il camorrista, 1986, di Giuseppe Tornatore), sia con instant movies (Banditi a Milano, 1968, di Carlo Lizzani) sia nell'ambito del 'poliziottesco', dove Fernando Di Leo (Milano calibro 9, 1972) unisce la spettacolarità del cinema d'azione a una personale propensione per tematiche noir, anche sulla scia del principale scrittore italiano del settore, G. Scerbanenco.In Inghilterra, il cinema criminale si sviluppò in modo incisivo al termine della guerra (They made me a fugitive, 1947, Sono un criminale, di Alberto Cavalcanti; The blue lamp, 1949, I giovani uccidono, di Basil Dearden) e rivestì spesso i caratteri dello studio sociale, ma è Get Carter (1971; Carter) di Mike Hodges il film considerato esempio di una rinascita del cinema gangster: un genere che alla fine degli anni Novanta ha avuto un ulteriore sviluppo, anche se con risultati spesso superficiali nella loro mescolanza ludica di violenza parossistica, deformazione grottesca e tecniche da videoclip (Snatch, 2000, Snatch ‒ Lo strappo, di Guy Ritchie). Un più profondo contributo all'evoluzione del g. f. è arrivato invece dalle cinematografie dell'Estremo Oriente, soprattutto dal Giappone, che ha alle spalle una florida tradizione di cinema criminale (i film yakuza), e Hong Kong, che ha sviluppato tra gli anni Ottanta e Novanta un linguaggio fortemente dinamico, sia nella composizione interna dell'inquadratura sia nel montaggio e nella narrazione ellittica: due, in particolare, i registi che hanno ottenuto grande attenzione internazionale, John Woo (Yingxiong bense xuji, 1987, noto con il titolo A better tomorrow II; Diexue shuang xiong, 1989, noto con il titolo The killer; Qiang shen, 1992, noto con il titolo Hard boiled) e Kitano Takeshi (Sonatine, 1993; Brother, 2000), entrambi capaci di riportare l'attenzione sul personaggio del gangster in un contesto di vistosa originalità stilistica. La ricchezza e la varietà di queste tendenze dimostrano come, pur continuando periodicamente a riflettere sulle sue radici storiche, il cinema gangster si confermi un genere vivo, capace di cogliere nuove dinamiche sociali, ma anche di porsi come persistente metafora della solitudine dell'uomo moderno davanti alla morte: e l'aspra violenza che lo caratterizza può essere di volta in volta testimonianza di comportamenti reali, strumento per sottolineare l'assurdità tragica dell'esistenza oppure spunto per sempre più complesse astrazioni formali.
R. Warshow, The gangster as tragic hero, in R. Warshow, The immediate experience, Garden City (NY) 1962.
J. Shadoian, Dreams and dead ends: the American gangster/crime film, Cambridge (Mass.) 1977 (trad. it. Bari 1980).
C. Clarens, Crime movies: from Griffith to The godfather and beyond, New York 1980 (trad. it. Giungle americane: il cinema del crimine, Venezia 1981).
Gangsters, ed. P. Hardy, London 1998.
R. Venturelli, Storia del cinema gangster in cento film, Recco-Genova 2000.