GANO da Siena
(o di Fazio)
Scultore senese di cui si hanno notizie documentarie dal 1302 al 1317. La biografia di G. è stata ricostruita da Bacci (1944), che ne identificò il patronimico in G. di Fazio (Siena, Arch. di Stato, Gabella Contratti nr. 35, 1301-1302, c. 163). I documenti degli anni seguenti (Siena, Arch. di Stato, Lira 7 C, 1311-1312, c. 34; Lira nr. 10, 1312, c. 111; Lira nr. 385, 1313, c. 38; Lira nr. 386, 1313, c. CLXXIII; Estimo nr. 145, 1316, c. 4) testimoniano i suoi rapporti civili con il Comune senese; nessuno fa cenno alla sua attività artistica se non per indicarlo genericamente come scultore ("Gano de la pietra" o "magister de arte lapidum"). Tra il settembre del 1316 o durante il 1317 G. morì; la notizia viene da un altro documento (Siena, Arch. di Stato, Estimo nr. 98, 1318, c. 3), che registra i beni immobili una volta di proprietà dello scultore, passati poi in eredità alle sue figlie. L'accertata cronologia della vita di G. esclude una serie di erronee supposizioni elaborate intorno alla sua figura (Thieme-Becker, 1920; Marri Martini, 1932).G. è lo scultore firmatario della tomba del vescovo Tommaso d'Andrea nella collegiata di Casole d'Elsa ("Celavit Ganus opus hoc insigne senensis: laudibus immensis est sua digna manus"). Un'epigrafe dedicatoria posta sotto le mensole che reggono il basamento rende nota la data di morte del vescovo (1303) e la volontà dei suoi fratelli, Iacopo e Sozzo, di onorarne la memoria facendo erigere il sepolcro, che è databile tra il 1303 e il 1305. Si tratta di uno dei primi esempi di monumento parietale pensile comprendente la raffigurazione del defunto a grandezza naturale; con questa nuova tipologia architettonica si affermava un tipo di tomba che ebbe molta fortuna fino alla metà del Trecento e che venne diffuso e arricchito da Tino di Camaino (v.). Altri elementi, come la scelta stilistica, testimoniano invece una continuità con la tradizione scultorea precedente, in particolare con quella arnolfiana (Bardotti Biasion, 1984). Le figure sono ottenute con poche linee essenziali, nette e incisive, che creano solidità volumetrica e una forte continuità di contorni. È una scultura che sembra ignorare ancora, ai primi anni del Trecento, la novità del linguaggio formale di Giovanni Pisano, attivo nella fabbrica del duomo senese nell'ultimo decennio del sec. 13°, preferendo ricollegarsi, in una declinazione più gentile e familiare, alla scultura di Arnolfo di Cambio e Nicola Pisano (Bardotti Biasion, 1984).Contemporanea al monumento casolano è una piccola scultura proveniente dall'antico oratorio di S. Tommaso a Querceto, presso Casole d'Elsa (Colle di Val d'Elsa, Mus. d'Arte Sacra); si tratta di una testa in marmo, raffigurante il vescovo Tommaso d'Andrea, la cui esistenza era già nota per essere stata descritta da Romagnoli (Descrizione, c.78; Biografia, c.19) insieme all'iscrizione che l'accompagna. Pubblicata e attribuita con fondatezza a G. (Semff, 1991), costituisce un significativo esempio di ritratto dal vivo, confermando la notevole capacità di adesione al vero che l'artista manifesta nella ritrattistica.L'arte di G. rappresenta una precisa tendenza della scultura senese del primo Trecento; recenti studi hanno proposto una ricostruzione della sua attività riunendo intorno all'unica opera firmata una produzione che testimonia una coerente evoluzione dello stile dell'artista e una sua specializzazione nell'ambito della scultura funeraria (Bardotti Biasion, 1984). La critica è ormai concorde nell'escludere la paternità di G. per il cenotafio di Beltramo del Porrina nella collegiata di Casole d'Elsa, opera restituita a Marco Romano (Previtali, 1983). Si ritiene invece che G. sia l'autore di una piccola opera (Siena, Pinacoteca Naz.; Venturi, 1906; Bardotti Biasion, 1984; Carli, 1990) costituita da tre bassorilievi, facenti parte di un'unica lastra marmorea, che rappresentano Miracoli della vita del beato Gioacchino Piccolomini, frate servita sepolto in S. Maria dei Servi a Siena. Il sepolcro del beato, intorno al quale si era sviluppato un culto vivissimo, era originariamente un complesso monumentale formato da due strutture distinte: una tomba parietale pensile decorata con bassorilievi posti sul fronte del sarcofago e un vero e proprio altare, al di sotto di essa, che veniva officiato in onore del beato (Bardotti Biasion, 1984). I rilievi ne costituiscono l'unica parte superstite: tre storiette definite da Carli (1990, p. 31) un incantevole esempio di 'stile di predella' in scultura. La felice intuizione di Venturi (1906), che le aveva attribuite a G., trova senz'altro una conferma nel confronto tra i rilievi senesi e le sculture di Casole d'Elsa: si osservano gli stessi intagli netti e precisi che creano una stilizzazione della figura e un'impressione di grande pulizia formale (Bardotti Biasion, 1984). La concezione della narrazione si ricollega ad alcune formelle, databili intorno al 1300, nelle quali è stata riconosciuta un'importante testimonianza del rilievo narrativo senese (Kosegarten, 1966a), caratterizzato da un'estrema leggibilità ed efficacia del racconto, ottenuta con una giustapposizione di figure e oggetti disposti parallelamente al piano di fondo, che è ampio e liscio (Bardotti Biasion, 1984; Bartalini, 1985; 1986). Il monumento funebre Piccolomini fu scolpito da G. intorno al 1311, come confermano alcuni riferimenti alle tavolette del retro della Maestà di Duccio (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana; Bardotti Biasion, 1984).A Siena esisteva probabilmente almeno un altro monumento scolpito da G.; lo testimonia la presenza di un frammento marmoreo, conservato nella chiesa di S. Domenico, raffigurante un Cristo benedicente che è strettamente confrontabile con quello scolpito nel sepolcro di Casole d'Elsa (Bartalini, 1992).Una testimonianza ben più significativa è costituita dalla tomba-altare di s. Margherita da Cortona, situata a Cortona nel santuario dedicato alla santa. Il monumento è di grande qualità, ma una vicenda critica poco favorevole ha fatto sì che l'opera rimanesse tagliata fuori dalla storia della scultura senese del Trecento. Era infatti tradizionalmente attribuito ai due sconosciuti maestri Angelo e Francesco di Assisi (Venturi, 1906; Toesca, 1951; Salmi, 1971; Mezzetti, 1979), della cui attività non resta traccia. L'esecuzione sarebbe avvenuta nel 1362, data in cui fu rogato il documento notarile pubblicato e interpretato come atto di garanzia per l'allogazione del monumento di s. Margherita ai due maestri (Bologna, 1896), data molto tarda per un'opera che mostra evidenti legami stilistici e tipologici con la produzione artistica di primo Trecento. Da più parti peraltro nella letteratura critica emergevano rapporti stilistici con l'arte di G. (Venturi, 1906; Salmi, 1951; Mezzetti, 1979), nonostante l'evidente difficoltà di conciliare tale relazione con la datazione al 1362. Una rilettura del documento ha rivelato la debolezza dell'interpretazione che ne era stata data e ha permesso di ricondurre l'esecuzione dell'opera al secondo decennio del Trecento, più precisamente entro il 1317, l'anno in cui morì G., a cui dunque l'opera può essere attribuita (Bardotti Biasion, 1984). Nelle sculture cortonesi, in particolare nell'Annunciazione, che costituisce il brano di più alta qualità artistica, si coglie una profonda evoluzione dello stile di G., una maturazione avvenuta attraverso una parziale apertura al Gotico di Giovanni Pisano. La complessità dell'invenzione architettonica, le gotiche movenze, i ricchi panneggi ornati di frange, l'uso del trapano che crea effetti di chiaroscuro, sono i caratteri della più alta prova dello scultore. Rimane comunque un linguaggio chiaro, pulito, dove la volumetria del corpo è sottolineata dai panneggi e non è mai annullata da essi. I bassorilievi con le Storie di s. Margherita scolpiti sul monumento ricordano ancora la grande inclinazione al racconto che è propria di G. e della corrente artistica che a lui fa riferimento.Nel santuario di S. Margherita G. ha lasciato anche altre opere: sono di sua mano una lastra marmorea con sette piccoli busti di santi scolpiti entro clipei (Bardotti Biasion, 1984), la parte apicale di un frontone con il Redentore benedicente, murata nella sacrestia della stessa chiesa (Bartalini, 1987), e la bella Madonna con il Bambino (Cortona, Mus. Diocesano; Bardotti Biasion, 1984), che Carli (1990) ha giudicato invece di produzione umbra.Carli (1990) inoltre ha reso nota una statua raffigurante S. Caterina d'Alessandria (coll. privata), proponendone un'attribuzione dubitativa a Gano. Il suo autore sembra però muovere da intenti espressivi diversi: nelle figure di G. il volume dei corpi emerge sempre con vigore ed è valorizzato dai panneggi delle vesti, mentre nella S. Caterina prevale un trattamento finemente decorativo che annulla la corporeità della figura.Alla fase tarda dell'attività di G., caratterizzata da un intenso goticismo, appartengono anche le undici statuette di santi e profeti del duomo di Massa Marittima (Bellosi, 1984) e una Maddalena (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Skulpturengal.; Bartalini, 1987). Mentre allo stato attuale delle ricerche la produzione della maturità artistica di G. risulta dunque ben rappresentata, mancano testimonianze precise di una fase giovanile. In questa direzione possono costituire un importante riferimento due opere realizzate ad Arezzo da una maestranza senese della seconda metà del Duecento: il monumento funebre di Gregorio X (m. nel 1276) nel duomo e la tomba pensile del vescovo Ranieri Ubertini (m. tra il 1290 e il 1296) in S. Domenico (Bardotti Biasion, 1990). Quest'ultima in particolare mostra forti analogie stilistiche con i bassorilievi del beato Gioacchino Piccolomini (Carli, 1980) e architettonicamente con il monumento del vescovo Tommaso d'Andrea a Casole d'Elsa, tanto che ne è stata suggerita un'unica paternità (Bartalini, 1985).
Bibl.:
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