Gare di burlesque
Libertà di espressione del corpo femminile o spogliarello camuffato da spettacolo raffinato e ironico? Una battuta dell’ex premier riporta alla ribalta un genere che divide le femministe.
Nell’aprile del 2012, all’uscita dal processo per corruzione minorile e concussione, Silvio Berlusconi si presentò alle telecamere liquidando le notti brave di Arcore così: «Erano gare di... come si chiama... burlesque. Le donne sono naturalmente esibizioniste, le donne di spettacolo poi: facevano delle gare, del teatro».
In piena era austerity, dopo che il governo Monti aveva disintossicato gli italiani dall’esposizione quotidiana a corna, gestacci e battutacce da bar, l’effetto di quel colpo di coda fu tale che in molti si chiesero se a sceneggiare le apparizioni dell’ex premier non fosse lo spirito del maestro Dino Risi. Prima di quell’aprile 2012, burlesque era termine noto per lo più ai giovani, frequentatori di locali inizialmente underground, poi sempre più di moda: spogliarello, sì, ma uno spogliarello elegante, ironico, citazionista, ‘un modo per riappropriarsi della femminilità’; bastò questo slogan a farne spopolare i corsi nelle grandi città, soppiantando le più tradizionali danze latinoamericane, argentine o del ventre. In origine, tra la fine del 19o e l’inizio del 20° secolo, il burlesque era una sorta di teatro di varietà scollacciato, diffuso in Gran Bretagna e negli Stati Uniti: palchi di quart’ordine, pubblico popolare, satira sociale, cantanti, comici e donnine poco vestite – lo spogliarello vero e proprio cominciò più tardi, con l’aiuto di tanga e copricapezzoli che permettessero di aggirare le leggi sul decoro. Infatti, il burlesque nacque come commedia divertente o come spettacolo di satira che prevedeva anche uno spazio per il corpo femminile: poi, il pubblico dimostrò le proprie preferenze e il genere si adeguò. Dopo estenuanti lotte contro le politiche di repressione, il burlesque declinò da solo, per l’esaurimento della moda, o, forse, per l’alleggerimento dei costumi, che trasformò le performance delle dive dello spogliarello in comuni balletti da night-club: soltanto i nomi più accreditati riuscirono a sopravvivere e a continuare a girare l’America con i loro show. All’arrivo della liberazione sessuale, il burlesque era già, e da tempo, fenomeno da museo.
Finché, negli anni Novanta, un’ex ballerina celebre per la sua somiglianza con Marilyn Monroe, Dixie Evans, lanciò il concorso di Miss Exotic World e, in parallelo all’affermarsi del vintage, cominciò il recupero: una forma nostalgica di performance che, alla reificazione seriale del corpo femminile, tentava di contrapporre un erotismo più sofisticato, in cui la protagonista potesse gestire, e non subire nel ruolo di oggetto del desiderio, il gioco della seduzione. Regina del fenomeno è Dita Von Teese, salita all’onore delle cronache non tanto per il suo stile retrò o la somiglianza con la pin-up e precorritrice del fetish Bettie Page, ma soprattutto per il breve matrimonio con Marilyn Manson. Non tutte le show girl sono perfette come lei, anzi: alcune, come le Fat Bottom Revue, sono decisamente, e provocatoriamente, over-size.
Pelli di porcellana contrapposte a volti lampadati, morbidezza contro anoressia, accettazione dei difetti e della propria età contro ninfette, smanie chirurgiche e onnipresenza delle protesi: il burlesque viene oggi recuperato come estetica ‘contro’, come un modo di vivere la sensualità senza sottostare ai diktat commerciali e maschili, e, forse, proprio per questo riscuote successo prevalentemente presso le donne (secondo la Von Teese, il 70% del suo pubblico è formato da queste e il restante 30% da gay o fidanzati trascinati dalle compagne). Negli Stati Uniti, intanto, il dibattito femminista è in corso: il burlesque è un esempio di empowerment femminile o rappresenta l’ennesimo colpo di coda di chi tenta di confinare la femminilità solo e soltanto all’interno di un corpo?
Anche se, dopo tutte queste premesse, sarà facile restare delusi da un genere che rimane pur sempre uno spogliarello, e sarà legittimo chiedersi, come fece la Littizzetto all’indomani dell’esibizione della Von Teese a Sanremo, «ma che differenza c’è con Colpo grosso?».
Da Gypsy a Tournée
Negli Stati Uniti, dove il burlesque divenne fenomeno popolare negli anni Ottanta del 19° secolo, sia pure per merito di artiste britanniche (un po’ come accadrà poco meno di un secolo dopo con la musica rock, arrivata con la British invasion), non sono mancati gli omaggi cinematografici a questa forma scollacciata di varietà.
Va anzitutto ricordato il film Gypsy (uscito nel 1959, sul finire del maccartismo e arrivato in Italia tre anni più tardi, con il titolo: La donna che inventò lo strip-tease) sulla vita di una celebrata maestra dello spogliarello, Gypsy Rose Lee, e interpretato, non a caso, da un’attrice ‘maledetta’, Natalie Wood. Qualche anno più tardi, in pieno 1968, fu William Friedkin (che diventerà celebre con L’esorcista) a raccontare il mondo dei teatri di serie B, in una pellicola (The night they raided Minsky’s, uscita in Italia con il titolo Quella notte inventarono lo spogliarello) che rievoca la New York del 1925, quella dei fratelli Minsky, i quattro impresari teatrali che portarono il burlesque a Broadway con lo slogan ‘not a family show!’, prima che il sindaco italo-americano Fiorello La Guardia intervenisse a vietare sia lo spettacolo sia il nome.
Dagli anni Novanta, si ebbe un rinnovamento del burlesque, detto New burlesque. Nel 2010, al culmine del revival, un altro ‘grande’ del cinema americano, Robert Zemeckis, ha prodotto Behind the burly Q; diretto da Leslie Zemeckis, il documentario racconta, attraverso interviste a stripper e a impresari, musicisti e artisti, l’ultima stagione del burlesque, a cui pose fine l’avvento del cinema porno. Sempre nel 2010 il regista francese Mathieu Amalric ha realizzato Tournée. In concorso al Festival di Cannes, dove ha vinto il premio per la migliore regia, è interpretato dallo stesso regista e da un gruppo di ragazze di una compagnia di New burlesque.