GARZO
Rimatore religioso e didattico del sec. XIII, che firmò con il nome di "Garço doctore" o "Garço" ("Garçço", "Garçon", "Garçom", "Garçone") nove laude, una Raccolta di proverbi, in ordine alfabetico e in distici a rima baciata per lo più anisosillabici, e una Storia di santa Caterina in decima rima.
L'ipotesi biografica tradizionale della critica storico-letteraria, che inizia nell'ultimo decennio del sec. XIX con Mazzoni, identifica G. con ser Garzo dell'Incisa, padre di ser Parenzo, nonno paterno di Francesco Petrarca. Ser Garzo compare in diversi documenti: dal più antico di essi, del 1269, risulta che in quella data il bisavolo del poeta di Laura era già morto. Il Petrarca rievoca, forse mitizzandola, certamente idealizzandola, la figura dell'avo in Fam., VI, 3, ponendolo quale "senectutis adhuc unicum exemplum, humile quidem ac recens sed honestum" accanto agli exempla classici di longevità e attribuendogli una vita lunga 104 anni, trascorsa in sapienza e serenità. Il Petrarca, che in gioventù aveva udito narrare di lui mirabilia, decanta la santità e l'intelligenza del "Gartius", l'"equitas iudicii" e l'"acumen ingenii", la stima e l'ammirazione da lui suscitata anche nei dotti. "Ingenio clarissimo", dunque, sebbene "sine cultura literarum". Anche in Fam., XI, 5, il soave vegliardo è, se pur "predives ingenii", "literarum inops". Affermazioni di tal genere sembrerebbero in conflitto con l'attività poetica, sia pure in volgare, di G.; in ogni caso l'aristocrazia umanistica del Petrarca risulterebbe qui ben poco gentile nei confronti del bisnonno venerato. Tuttavia, soprassedendo a questa obiezione che rischia di essere troppo delicata e labile, restano, contro l'ipotesi tradizionale, difficoltà cronologiche. Se Garzo dell'Incisa scomparve a 104 anni, dal momento che almeno nel 1269 era già morto, dobbiamo crederlo nato all'incirca nel 1165. La sua identificazione con G. comporterebbe la necessità o di retrodatare l'opera di quest'ultimo tra la fine del sec. XII e l'inizio del sec. XIII, oppure di crederlo poeta la cui tardiva akmè abbia coinciso coi suoi ottanta-novanta anni. Singolare, a dir poco antieconomica, la seconda ipotesi, inverosimile la prima: non soltanto avremmo la nascita della lauda a un'altezza cronologica assurda, ma G. diventerebbe addirittura il padre della nostra letteratura. I ricchissimi echeggiamenti della poesia cortese duecentesca che infiorano le sue rime si tramuterebbero così in sensazionali archetipi. Non è pensabile. Le conclusioni di Varanini e di Banfi sono dunque accettabili: l'identificazione di G. con ser Garzo dell'Incisa, bisavolo del Petrarca, già ritenuta da Contini "sommamente probabile", sarà piuttosto "improbabilissima e forse da escludersi in via definitiva" (Introd. a Laude cortonesi, I*, p. 44).
Chi è dunque G., l'autore delle Laude, della Santa Caterina e dei proverbi? Egli si definisce "dottore". Viene da pensare alla firma che Ruggeri Apugliese appone alla sua cantilena conservata nel ms. I.II.4 della Bibl. com. di Siena (contenente tra l'altro anche la Santa Caterina, acefala, e Ave, Donna santissima): "Io fui Ruggeri Apugliese dottore". Per Contini (II, p. 10) si tratta di "termine non tecnico, ma generico, qualcosa come "poeta"". È probabile però che indichi una particolare perizia, rivendichi una precisa competenza retorico-formale, se non uno statuto professionale. Sappiamo troppo poco sui giullari, ma indubbiamente possiamo riconoscere che Ruggeri si distingue per abilità letteraria e, presumiamo, performativa. D'altronde, se G. è autore anche delle melodie che rivestono le sue laude conservate nel ms. 91 della Biblioteca comunale di Cortona, la sua competenza si rivela complessa, includendo una capacità poetica, compositiva e probabilmente esecutiva. Dunque un G. non tanto "giullare" tout court, se pure di grado elevato, quanto "doctor" nel senso di maestro e "docens", secondo l'ipotesi sviluppata da Banfi e accolta da Varanini. Nel 1267 nacque la prima fraternita di laudesi a Siena, il primo gruppo organizzato, tecnicamente competente nell'esecuzione delle laude volgari. È a Siena che nascono scuole di cantori con maestri preposti all'insegnamento. Banfi (1976, p. 147) avanza così l'idea che G. possa avere ricoperto il ruolo di "doctor puerorum di una di quelle scholae di piccoli cantori che i Laudesi facevano educare a proprie spese per il canto delle laude". D'altronde Varanini già nel 1972 propose l'ipotesi di estraneità di G. all'ambiente cortonese; sulla sua "senesità" non si può giurare, ma certo non parrebbe congettura così peregrina. Varanini e Banfi sollevano inquietanti dubbi circa il nome stesso di G., che, come abbiamo visto, in certi manoscritti è "Garzon", "Garzom" o "Garzone". Si tratta forse di un diverso nome rispetto al "Gartius" petrarchesco? L'avo del Petrarca e il poeta laudese non sarebbero neppure omonimi? Un sonetto di Nicolò de' Rossi elenca i nomi di celebri cantori del tempo, "ombre e vivi" (F. Brugnolo, Il canzoniere di N. de' Rossi, I, Padova 1974, p. 176, n. 307), fra cui Casella, Scochetto, Marchetto, con altri a noi più o meno noti e un Garçone. Che si tratti del poeta laudese? In tal caso egli avrebbe operato probabilmente fra la fine del sec. XIII e l'inizio del sec. XIV, periodo in cui venne assemblata la raccolta contenuta nel ms. cortonese 91. Coincidenze singolari, rispetto alle quali l'antieconomia delle vecchie ipotesi risulta patente. Mancini, tuttavia, in tempi recentissimi, è ritornato all'identificazione con l'avo del Petrarca, riducendone l'età ipoteticamente a circa ottant'anni, considerando i Proverbi una prima fase dell'attività poetica di G., che avrebbe scritto le laude dopo i sessant'anni d'età, cioè dopo la metà del sec. XIII.
Ipotizzare invece che G. sia stato addirittura il padre della lauda-ballata è affascinante, ma azzardato: la filologia ci rimanda ai fatti. Certo è che il lavoro di attribuzione a G. di laude adespote è work in progress.
Naturalmente le difficoltà non mancano. L'assenza della firma potrebbe esserne una. In realtà la tradizione manoscritta delle laude sicuramente garziane ci insegna che le strofe finali, quelle appunto in cui G. si dichiara l'autore, vengono spesso amputate addirittura con una media di due volte su tre, "e ciò non per mistificazione, ma forse solo per motivi di canto o per lunghezza dei testi" (Del Popolo, 1980, p. 63). L'operazione di attribuzione può dunque superare una siffatta obiezione, ma non per questo risulta meno delicata. Essa si deve fondare infatti sull'analisi delle affinità tematiche, sul rinvenimento di comunanze topiche o stilematiche, sulle analogie rimiche, sulle preferenze lessicali soprattutto nell'evidenza della fine di verso ed eventualmente sulle sovrapponibilità sintattiche.
Le proposte attributive sinora avanzate sembrano convincenti e ben argomentate e rivelano, pur nell'ambito di un genus così formalizzato, la personalità di un poeta dall'ispirazione compatta e individuabile, ricco di ritorni, di ossessioni lessicali e di topiche spesso originali. Ceruti Burgio (1982-83, pp. 8 ss.) ha evidenziato, ad esempio, motivi cristologici costanti: l'accentuazione sull'Incarnazione e la volontà di martirio, l'identità Cristo-pace, l'umiltà, la "cortesia" del Salvatore. Altri studiosi, come Nicola, hanno sottolineato nell'opera di G. la tematica della "tesaurizzazione" e "fruttificazione" spirituali, vere e proprie metafore ossessive. È il caso, ad esempio, del verbo "granare", nel senso di "fruttificare", di "giungere a concreto fine salvifico"; della sicura fecondità del divino dolce Amore, del successo della seminagione del Verbo. Il termine "granare" ritorna anche nella Santa Caterina (strofe XLV, v. 8 e XLVI, v. 10) e, con genericità paremiologica, nei Proverbi: "Pensiero fa granare, / parola fruttare" (168; cfr. anche 75). Segnali di un topos occitanico, "granare" e "granire" sono presenti nelle rime dei siciliani e quindi in Pucciandone Martelli, in Inghilfredi, in Guittone e in altri; laddove in Iacopone abbiamo unicamente i sostantivi "grana" e "granato".
L'attenzione di G. nei confronti della poesia cortese e la sua sensibile ricettività non hanno bisogno di dimostrazioni, tanto sono evidenti. Si legga soltanto quel capolavoro che è la lauda di s. Chiara, dove incontriamo "sbaudire" o "sbaldire" (vv. 16, 56), o un'intera quartina come la seguente: "Quello viddi dir nol sappo / infra me me ne disfaccio; / quei m'à presa al su' laccio / e sensa fune m'à legata" (151-154). C'è il "disfarsi" di tanta lirica d'amore dugentesca che il Cavalcanti saprà approfondire e c'è il laccio senza fune, che riecheggia movenze paradossali diffusissime, dal devinalh provenzale in poi (la configurazione dell'intero ms. cortonese 91 come una sorta di "laudario cortese" è stata ampiamente illustrata da F. Mancini).
G. si presenta come il campione della "dulcedo" nella poesia religiosa duecentesca e come il rappresentante, per certi versi, dell'altra riva rispetto a Iacopone: la riva del "laudore" e del "dolzore", della lode e della luce, del gaudio e dell'"amore fino", del profumo delle vivande spirituali, lontana dalla dismisura dell'"excessus mentis", dalla brama di delirio, dalla corporeità, dall'espressionismo e dal plurilinguismo oltranzista. Tutto ciò arricchisce l'ipotesi di una scuola garziana, d'importanza storico-letteraria forse pari a quella iacoponica nel nostro Duecento.
La Storia di santa Caterina vergine e martire è tradita da tre manoscritti, due della Biblioteca Riccardiana di Firenze (i Riccardiani 1294, base dell'edizione di P. Papa, e 1738, più antico e più autorevole, su cui si fonda l'edizione del Mancini) e il già citato senese I.II.4. Il Mancini ipotizza che G. abbia composto la Storia dopo i Proverbi e prima della lauda a s. Chiara d'Assisi. Individua inoltre memorie garziane in Dante piuttosto suggestive.
Il G. laudese fu anche autore dei Proverbi? Renier, nel 1890, ne dubitava, ma la critica recente ha ravvisato più d'un riscontro in favore dell'attribuzione garziana. La firma in terza persona "Però Garzo dice […]" (v. 7) è un marchio inconfondibile. D'altro canto, nella raccolta dei Proverbi compaiono spie della cultura "cortese" propria di G.: "Albore fiaccare / per troppo incaricare" (prov. 12) rappresenta, ad esempio, più che un proverbio, un topos, un "ricordo letterario", come ci illustra Contini (II, p. 297 n.), evocando l'archetipo di Aimeric de Pegulhan e le mediazioni di Canino Ghiberti e del Mare amoroso. Aggiungiamo che dietro al primo proverbio della serie, "Amore già non cura / ragione né misura", c'è una tradizione di amore "smisurato" irrazionale che va da Maria di Francia a Guittone fino alla diagnosi filosofica del Cavalcanti. Anche come paremiografo, quindi, G. si dimostra poeta colto e avvertito.
Opere. Le nove laude garziane sono: "Altissima luce col grande splendore"; "Ave, vergene gaudente"; "Spirito sancto glorioso"; "Amor dolçe sença pare", che appaiono firmate nel già ricordato ms. cortonese 91 e in altri codici; "Del dolcissimo signore", firmata nel ms. 180 della Bibl. Città di Arezzo; "San Giovanni amoroso", firmata nel ms. 535 della Bibl. Trivulziana di Milano; "Gesù Cristo redentore"; "Ave, Donna santissima", firmate in B.R. 19 della Bibl. naz. di Firenze, la seconda anche nel citato codice senese I.II.4; "Sancta Chiara sia laudata", nel ms. Riccardiano 1802.
Altre laude gli vengono attribuite dall'esegesi più recente: "San Francesco sia laudato"; "Piangiam colgli occhi e collo core". Edizioni moderne delle laude incontrovertibilmente garziane: Le rime di ser Garzo dell'Incisa, a cura di A. Ronzini, Verona 1972; Laude dugentesche, a cura di G. Varanini, Padova 1972, pp. 59-64, 68-77, 80-85; M.S. Elsheikh, Una nuova lauda di G., in Testi e interpretazioni. Studi del Seminario di filologia romanzadell'Università di Firenze, Milano-Napoli 1978, pp. 337-355; Laudecortonesi dal secolo XIII al XV, I*, a cura di G. Varanini - L. Banfi - A. Ceruti Burgio, Firenze 1981-85, pp. 118-121, 139-145, 202-207, 304-309; II, pp. 79-82; III, pp. 180-189; Laude fiorentine, I*, Il laudariodella compagnia di S. Gilio, a cura di C. Del Popolo, Firenze 1990, pp. 185-194, 237-256. Vedi anche le cortonesi garziane in Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, II, Milano-Napoli 1960, pp. 15-19, 23 s., 29-32, 35-38, 56-59. La Leggenda di s. Caterina d'Alessandria fu edita da P. Papa in Miscellanea nuziale Rossi-Teiss, Trento 1897, pp. 455-509; oggi si veda Storia di santa Caterina, a cura di F. Mancini, Roma 1993. I Proverbi furono pubblicati da C. Appel in Il Propugnatore, n.s., III (1890), 1, pp. 49-74; da G. Contini, in Poeti delDuecento, cit., II, pp. 295-313; e da F. Brambilla Ageno, I "Proverbi" di serGarzo, in Studi petrarcheschi, n.s., I (1984), pp. 1-37. Sono ora disponibili le Opere firmate. Rimario, testi, note, a cura di F. Mancini, Roma 1999.
Fonti e Bibl.: Oltre alle notizie contenute nelle introduzioni alle citate edizioni critiche delle opere di G., G. Mazzoni, Ancora su G., in IlPropugnatore, n.s., III (1890), pp. 238 s.; R. Renier, L'edizione del Mazzoni delle laude cortonesi ("Propugnatore", 1889-90), in Giorn. stor. della letteraturaitaliana, XVI (1890), pp. 464 s. (recensione); A. Zenatti, Il bisnonno delPetrarca, in IlPropugnatore, IV (1891), pp. 415-421; G. Guatteri, Il bisnonnodel Petrarca (ser Garzo dall'Ancisa), Firenze 1904; C.M. Patrono, Ancora del bisnonnodi F. Petrarca, in Nuova Rassegna bibliografico-letteraria, III (1905), Suppl., pp. 1-6; G. Brunacci, G., Parenzo e Margherita daCortona, in Polimnia, X (1933), pp. 1198-1203 (dove è riportato per la prima volta il documento del 1269 da cui risulta già morto ser Garzo dell'Incisa); V. Di Benedetto, Le laudi di ser Garzo dall'Incisa, in Drammaturgia, 1956, pp. 422-441; G. Varanini, Di una malnota testimonianza manoscrittadi tre laudari cortonesi, in Università di Padova, Annali della Facoltàdi economia e commercio in Verona, s. 2, I (1966-67), pp. 29, 33; Id. Il manoscrittoTrivulziano 535. Laude antiche di Cortona, in Studi e problemi di critica testuale, VIII (1974), pp. 19 s., 22; L. Banfi, A proposito di una antologiadi laude dugentesche, in Giornale storico della letteratura italiana, CLI (1974), pp. 262, 267 ss.; M.S. Elsheikh, G. a Santa Chiara, in Studi di filologia italiana, XXXII (1974), pp. 18-29; A. Ceruti Burgio, Una nuova lauda di G. dalms. Aret. 180, in Boll. stor. pisano, XLIV-XLV (1975-76), pp. 135-140; L. Banfi, G. laudese, in Giorn. ital. di filologia, n.s., VII (1976), pp. 137-153; C. Del Popolo, Un'altra lauda di Garzo: la Passione del nostro SignoreIesu Christo, in Filologia e critica, I (1976), pp. 239-245; Id., Proposte perG., in Lettere italiane, XXVIII (1976), pp. 462-464; Id., Echi o presenza? Perl'attribuzione di una laudadell'edizione Tresatti, ibid., V (1980), pp. 61-99; S. Nicola, Ipotesi d'attribuzione: Amor dolçe sença pare, in Studi mediolatini e volgari, XXVIII (1981), pp. 39-57; A. Ceruti Burgio, Per l'attribuzionea G. di una lauda senese, ibid., XXIX (1982-83), pp. 5-16; G.E. Sansone, G. e Guidotto nell'alfabeto paremiografico dell'Alessiano, in Miscellanea distudi in onore di Vittore Branca, I, Dal Medioevo al Petrarca, Firenze 1983, pp. 47-56; C. Del Popolo, La rima nei testi di G., in Studi e problemidi critica testuale, XXXVII (1988), pp. 5-16; F. Mancini, Ser G. dall'Incisabisavolo del Petrarca ovvero il mito della vecchiaia felice, in Saggi e sondaggi. Letteratura italiana e cultura religiosa, Roma 1993, pp. 79-88.