LANDI, Gaspare
Nacque a Piacenza il 6 genn. 1756 da Ercole e da Maria Francesca Rizzi, secondo di cinque fratelli. Nonostante l'appartenenza del padre al nobile casato piacentino dei Landi, del ramo del Mezzano, e la nascita agiata della madre, originaria di Cremona, i problemi di sussistenza della famiglia condizionarono la giovinezza del L. (Fiori, 1992, p. 108). Quando il padre fu incarcerato per debiti e si spostò poi a Brescia alla ricerca di lavoro come sarto, e la madre e le sorelle trovarono ospitalità nel convento delle preservate, il L. fu affidato allo zio Emanuele, ufficiale a Parma al servizio ducale. Fino al 1768, data della soppressione dell'Ordine, compì i primi studi presso i gesuiti, proseguendoli sotto i precettori pubblici. Notando in seguito le sue doti nel disegno, lo zio lo mise a bottega dal pittore parmigiano G. Bandini, attivo a Piacenza. Tra pratica di bottega ed esperienze da autodidatta la prima fase del suo apprendistato artistico fu condotta in modo irregolare. A Brescia, dove aveva raggiunto il padre, frequentò una scuola privata di pittura; dopo il 1772, nuovamente a Piacenza, proseguì la sua formazione presso il pittore specializzato in dipinti su vetro, A. Porcelli, dedicandosi allo studio dell'opera del Guercino (G.F. Barbieri) attraverso le incisioni di O. Gatti. La biografia dettata nel 1829 al conte F. Scotti (in Fiori, 1977, p. 76) sottolineava la sua successiva emancipazione e l'autonomo confronto con i maggiori testi della pittura antica disponibili a Piacenza (G.A. de' Sacchis detto il Pordenone, C. Procaccini, L. Carracci, il Guercino), in sodalizio artistico con il pittore prospettico e ornatista M. Nicolini.
Il 20 ag. 1774 sposò Diana Giuseppa Albanesi, dalla quale ebbe il 10 giugno 1775 Alfonso e il 26 dicembre di due anni dopo Pietro Antonio. Tra i dipinti devozionali, le battaglie e i ritratti realizzati negli anni seguenti, sono noti solo gli ovati conservati a S. Maria di Campagna (S. Rosa da Viterbo, S. Chiara, S. Caterina da Bologna, Santo francescano: Arisi, 1980). Intorno al 1780 la riuscita del ritratto equestre del marchese A. Scotti di Fombio gli procurò la protezione del marchese G.B. Landi delle Caselle.
Il mecenate sovvenzionò il suo soggiorno di studio a Roma, secondo un costume diffuso prima che le riforme napoleoniche istituissero il pensionato artistico romano come irrinunciabile conclusione del tirocinio accademico. Fu un'opportunità decisiva per il L. che avrebbe eletto l'Urbe sua città di adozione. Vi giunse il 20 giugno del 1781 indirizzato alla sorella del suo protettore, la marchesa R. Landi della Somaglia, cognata del prelato Giulio Maria che più tardi il L. ritrasse (1786: Roma, Galleria nazionale d'arte moderna). Grazie a lei poté frequentare l'accademia privata del pittore lucchese, esercitandosi sulle sue prove grafiche e sulla pratica del disegno dal modello dal vivo. Dopo aver frequentato anche la scuola di D. Corvi, probabilmente durante l'inverno seguente, il L. intraprese da solo lo studio dei modelli canonici del classicismo conservati a Roma (Scarabelli, 1843, pp. 248 s.). Se da Batoni poté apprendere il naturalismo e la morbidezza della pennellata, dal viterbese mutuò i drammatici effetti luministici impiegati nella scena di notturno vincitrice del concorso indetto nel 1783 dall'Accademia di Parma (Ratto del Palladio: Parma, Galleria nazionale). Gli esiti formali della prima maturità furono però legati soprattutto alla riflessione sui testi pittorici e teorici di A.R. Mengs, da poco scomparso. L'impegno figurativo delle prime opere, teso alla formulazione dell'ideale classicista e di uno stile elevato, conveniente alla pittura di figura, corrispondeva alla consapevolezza dei temi del genere storico testimoniata dal carteggio con il letterato piacentino G.P. Maggi: il nudo, l'espressione, la composizione, il rapporto con le fonti letterarie e figurative, e, in primo luogo, l'antico.
Il L. tentò di affermarsi in questo nobile campo della pittura attraverso scelte programmatiche. La sua strategia si affidò innanzitutto ai soggetti che decise per le opere destinate al marchese Landi, come testimonianza periodica dei progressi compiuti, dal Prometeo alla rupe del 1782 (Monza, Musei civici) al Paride con la ninfa Enone del 1783, all'Alessandro che dona Campaspe ad Apelle, eseguito tra il 1785 e il 1787 su soggetto però dettato dal committente, che gli consentirono di sperimentare gli opposti registri formali del "sublime" e del "grazioso". Contemporaneamente cercò la legittimazione accademica partecipando a concorsi come, oltre a quello citato di Parma, il primo Curlandese di Bologna, celebrato nel 1788 sul tema di Egeo che riconosce Teseo, al quale è verosimilmente da accostare l'omonimo dipinto pubblicato nelle Memorie per le belle arti di quell'anno. La riuscita di questi lavori si tradusse ben presto in prestigiose commissioni internazionali. Nel 1785 inviò i dipinti di Arianna e Bacco, Tetide e Peleo, Amore e Psiche e Il ratto di Proserpina al principe piemontese A. Dal Pozzo della Cisterna, l'anno successivo eseguì per il marchese C.M. di Créquy la Francesca da Rimini. Attese in seguito alla Vergine Addolorata, richiestagli nel 1788 dal segretario di Stato F.S. de Zelada per la traduzione musiva da collocare nella basilica di Loreto (ubicazione sconosciuta, come per i precedenti), all'Ebe (1790: Brescia, Pinacoteca civica Tosio-Martinengo) e all'Agar per la cappella Colleoni di Bergamo (1790-91: in situ).
Se i quadri di storia comportavano dispendio di tempo e di risorse economiche per i modelli ed erano quindi considerati dal L. poco remunerativi, i dipinti devozionali e i ritratti gli permettevano di finanziare le opere più impegnative alle quali affidare la propria fama. Proprio la fortuna dei ritratti lo portò nel decennio seguente a rivaleggiare col primato di Angelica Kauffmann, artista cui il L. guardò anche per l'affine attitudine a un "grazioso" lontano dal repertorio eroico dei pensionnaires dell'Accademia di Francia.
Nell'ambiente erudito romano il L. poté trovare gli interlocutori necessari per alimentare una pittura colta nei rimandi alla letteratura e ai modelli figurativi. Nel 1783 conobbe V. Monti (Fermi, 1906, p. 197). Due anni più tardi poté ritrarre il principe arcade S. Chigi, effigiandolo a cavallo in compagnia dell'illustre bibliotecario, l'archeologo E.Q. Visconti, durante una visita agli scavi da lui promossi a Porcigliano (Roma, collezione privata).
Le antichità dissotterrate in quell'occasione furono pubblicate da G.A. Guattani, autore più tardi di significative pagine dedicate alle opere del pittore. Dei rapporti con Visconti è significativa testimonianza la consulenza richiestagli nel 1795 affinché il dipinto di Esculapio fosse "greco" sia nello stile sia nella restituzione dell'antico (Fiori, 1977, p. 43).
I legami più fecondi furono però quelli con i redattori, l'architetto O. Boni e il commediografo G.G. De Rossi, delle Memorie per le belle arti, periodico finanziato dallo stesso Chigi.
Le sistematiche recensioni delle sue opere di artista "riformato", cioè classicista, testimoniavano la sintonia di idee e l'assiduità dei rapporti personali, laddove le chiavi di lettura impiegate erano quelle suggerite dal pittore stesso nella comunicazione epistolare, ispirate cioè al "sistema" mengsiano fondato sulla ricerca dell'eccellenza, attraverso l'imitazione selettiva dei maestri del Cinquecento. Anche negli anni seguenti le prose ecfrastiche dedicate da De Rossi a nuove opere del L. avrebbero costituito insuperate letture del suo linguaggio pittorico, progressivamente messo a punto privilegiando, nell'evocazione dei modelli del passato, le "parti" della pittura più congeniali al suo talento, come l'espressione, che guardò in Leonardo e Raffaello, il chiaroscuro e il colore, approfonditi attraverso A. Allegri detto il Correggio e i veneti. Anche Boni, che il L. ritrasse in due occasioni (1792 circa: collezione privata; 1801: Roma, Accademia di S. Luca), proseguì il dialogo con l'amico fino ad anni avanzati, come testimonia una sua lettera del 1815 che ne individuava il precoce interesse per i primitivi, eguagliati per semplicità ma, in polemica con i nazareni, senza rinunciare alle conquiste tecniche e formali aggiunte dai secoli posteriori (Pinto, p. 38).
Tra i rapporti intrattenuti con gli eruditi fu significativo anche quello con il marchese pavese L. Malaspina di Sannazaro; e proprio su suo suggerimento Malaspina compilò il dizionario dei Soggetti per quadri: ad uso de' giovani pittori, edito nel 1798 a Vienna (lettera del L. del 23 sett. 1796: Treviso, Biblioteca civica, Mss., 1674, III.116.B).
Dopo il temporaneo rientro del L. a Piacenza nel 1790, quando su incarico di G.B. Landi dipinse per S. Maria in Torricella il Beato Paolo Burali veste Ottavio Sanseverino dell'abito dei cappuccini laici, fu Malaspina a introdurlo a Milano presso il principe A. Barbiano di Belgiojoso, che lo ospitò e gli chiese il ritratto al naturale. Durante quel soggiorno, protrattosi dal giugno del 1791 alla metà dell'anno seguente, il L. conobbe A. Appiani, ritrasse G. Parini, consigliere artistico del principe, e altri membri di casa Belgiojoso. Effigiò inoltre esponenti della corte e la duchessa Maria Beatrice d'Este, grazie alla mediazione del principe C. Albani al quale avrebbe ceduto nel 1795 La pittura che piange sull'urna di Raffaello (Milano, Pinacoteca Ambrosiana).
Di nuovo a Piacenza il L. realizzava per l'Accademia di Parma, in occasione della sua associazione all'istituto, la testa di Arianna, donando più tardi anche il Matrimonio di Sara (Parma, Pinacoteca nazionale). Probabilmente risalgono a questo nuovo soggiorno piacentino l'Autoritratto con G.B. Landi (collezione privata) e i ritratti eseguiti per il marchese R. Anguissola da Grazzano (Il palazzo Farnese a Piacenza, p. 215).
Rientrando a Roma nel dicembre del 1792 il L. recava gli incarichi ricevuti in patria dallo stesso Anguissola, che gli aveva chiesto due dipinti storici, e del conte A. Dal Verme, per il quale dipinse il Labano e Giacobbe ceduto nel 1797 al conte L. Marazzani (Milano, Civica Galleria d'arte moderna). Le altre due opere, di soggetto omerico (Ettore che rimprovera Paride, L'incontro di Ettore e Andromaca del 1794: Piacenza, Istituto Gazzola), esemplificavano i temi landiani del "bello ideale", indagato nei suoi differenti caratteri, e dell'espressione sentimentale, verificata nella sua varietà, in competizione con il testo poetico, come sancito da un sonetto di I. Pindemonte e dalla prosa di De Rossi.
Nel 1795 morì il figlio Alfonso, da poco laureatosi alla Sapienza. Si andavano intanto approfondendo i legami con A. Canova che fin dal decennio precedente lo aveva fortemente influenzato sui piani iconografico e tematico. Il dipinto di Amore e Psiche (1794-96 circa) conservato al Museo Correr a Venezia (Mellini, 1987, p. 53), derivante dall'omonimo gruppo canoviano ambientato in un paesaggio, è emblematico del tentativo del L. di emulare lo scultore in pittura, soprattutto in chiave formale. In una lettera del 1817 egli stesso avrebbe paragonato la poetica canoviana dell'"ultima mano" e l'eccellenza tecnica dei suoi marmi al "tatto" del sofisticato "meccanismo" esecutivo dei propri dipinti (Scarabelli, 1843, pp. 275 s.), in grado, attraverso la velatura, di evocare per "finitezza" i primitivi oppure di esprimersi sul piano di una più spedita risolutezza (Memorie per le belle arti, 1788, pp. 197 s.).
In seguito ai rivolgimenti politici avvenuti a Roma con l'arrivo dei Francesi nel 1798, il L. riparò precipitosamente a Piacenza, dove si dedicò ai ritratti come quello di gruppo della famiglia Landi in scena di conversazione (Torino, collezione D'Albertas) o quello del conte G. Rota (1798: Piacenza, Museo civico), esemplari per naturalismo e caratterizzazione psicologica.
Ottenne allora rilevanti incarichi di opere sacre, terminate dopo il ritorno a Roma in seguito all'elezione di Pio VII, come il S. Giorgio e il S. Giuseppe per l'abate G. Mandelli (Piacenza, Le Mose, parrocchiale), l'Assunta per la collegiata di Castell'Arquato, ultimata nel 1806, e le impegnative tele con Il trasporto della Vergine e Il sepolcro trovato vuoto esposte con grande successo al Pantheon nel 1804 prima di essere inviate a destinazione, dove avrebbero sostituito in duomo le tele di L. Carracci asportate dai Francesi.
Nei primi anni del nuovo secolo la carenza di commissioni, causata dai mutamenti politici, lo spinse a dipingere, di propria iniziativa e per esporli nello studio, il notevole Edipo a Colono, con figure grandi al naturale (già Monaco, collezione Messinger), messo in mostra nel 1805 a palazzo di Spagna, e l'Alcibiade (1806: Budapest, Museo nazionale), solo nel 1817 ceduto al principe N. Esterházy.
Nel 1804 firmò il contratto per l'esecuzione della vastissima Salita al Calvario per S. Giovanni in Canale a Piacenza. Il L. stesso propose che l'esecuzione del suo pendant, La presentazione al tempio, fosse affidata all'amico V. Camuccini. L'esposizione simultanea al Pantheon dei due dipinti nel 1809 sollecitò presso i contemporanei il paragone accademico tra i due artisti, letti come gli eredi delle due maggiori scuole pittoriche italiane: il L., cioè, come il campione del colore veneto e del chiaroscuro lombardo (Betti, p. 7); Camuccini come l'interprete del primato tosco-romano del disegno. Anche P. Giordani, nell'orazione accademica del 1811 pronunciata a Bologna, confrontò la dignità e la solennità camucciniane ai valori cromatici e all'intensità sentimentale landiani (Giordani).
Numerosi committenti vollero sperimentare a confronto questa rivalità (Susinno; Scarpati, p. 146). Il principe P. Gabrielli, nel palazzo romano di Monte Giordano, poté paragonare la lezione eroica camucciniana al tono elegiaco della Morte di Camilla del L. (1809: Roma, collezione L. Taverna); il conte G. Baglioni di Perugia saggiò la loro capacità di ricostruzione storica su inediti temi troubadour (il L. dipinse Giovanni Pietro Baglioni che si congeda per l'esilio e Astorre II Baglioni che riprende ai Turchi uno stendardo francese); mentre il principe G.R. Torlonia scelse un più collaudato repertorio mitologico (Apoteosi di Ercole, 1813: collezione privata).
Contemporaneamente riceveva rilevanti incarichi governativi. Nel 1809 si distinse alla mostra del Campidoglio, organizzata dall'amministrazione francese per valutare gli artisti da impiegare negli ambiziosi progetti decorativi della nuova residenza imperiale del Quirinale. Alla fine dell'anno ricevette la commissione imperiale sul tema di Napoleone che conclude a Znai'm l'armistizio con il principe Liechtenstein. Fu quindi chiamato, con Camuccini, Canova, R. Stern, V. Denon, M. Daru, a far parte della commissione deputata alla scelta degli artisti e alla definizione del programma iconografico. Lui stesso eseguì per la sala dello Zodiaco Pericle circondato da artisti e da filosofi visita i lavori del Partenone e Harun al Raschid nella sua tenda con i sapienti dell'Oriente, allusivi alla promozione artistica e culturale di Napoleone (1811-13: Benevento, Museo del Sannio). L'anno successivo il L. e G. Bossi si ritraevano a vicenda a Roma (l'opera del secondo è a Milano, Civica Galleria d'arte moderna). Più tardi il L. avrebbe affidato all'amico la vendita di alcuni dipinti a Milano, da proporre al viceré Eugenio di Beauharnais, tra cui una Danae, poi acquistata dal conte C. Verri (collezione privata: Bossi, pp. 678 s., 923).
Nel 1812 fu eletto cattedratico di pittura all'Accademia di S. Luca, ruolo conservato fino al 1827, ricoprendo anche la presidenza tra il 1817 e il 1820. In precedenza aveva rifiutato simili incarichi per Lisbona, nel 1786, e per gli istituti di Bologna, Milano e Venezia (offertigli da Bossi e L. Cicognara: Ambiveri, 1879, pp. 186 s.). Canova, avendo il pittore rinunciato allo stipendio, ritenendolo inadeguato al suo prestigio, gli cedette la sua prerogativa di principe dell'Accademia di usufruire di uno studio abitazione presso il convento di S. Apollinare, dov'erano ubicati i locali della scuola. Tra i numerosi allievi ebbe T. Minardi (ritratto intorno al 1821: Roma, Accademia di S. Luca), G. Silvagni e C.M. Viganoni.
Nel 1812 il marchese G.B. Sommariva espose al Salon parigino il dipinto del L. Venere e Marte (ubicazione sconosciuta). Il pittore si recò poi a Milano, ospite di Bossi, e a Pavia, impegnato nell'esecuzione di numerosi ritratti, tra cui quello della viceregina Augusta Amalia di Baviera (ubicazione sconosciuta). Un anno dopo era a Roma, dove si dedicava alle Tre Marie al sepolcro per il conte B. Mandelli poi promesso al re d'Olanda Luigi Bonaparte e infine donato, dopo la Restaurazione, alle Gallerie fiorentine (Firenze, Galleria d'arte moderna). In cambio Mandelli accettò la Disputa di Gesù tra i dottori (1812-16: Piacenza, Museo civico).
Nel 1816 gli scultori A. Tadolini e P. Tenerani erano impegnati nella realizzazione di bozzetti e modelli in creta che il L. utilizzava per studiare la composizione e la distribuzione delle luci dei suoi dipinti (Raggi, 1880; Tadolini), secondo una prassi che spiega lo scarso numero di disegni preparatori dell'artista sino a oggi rintracciati (Orloff, pp. 426 s.).
I dipinti di maggiore impegno eseguiti negli anni successivi furono Vetturiaai piedi di Coriolano, per commissione della duchessa di Lucca Maria Luigia di Borbone (1817-19: Firenze, Galleria d'arte moderna) e La partenza di Maria Stuarda da Parigi (ubicazione sconosciuta), vasta tela con figure al naturale terminata nel 1827 e rimasta in eredità presso il figlio Pietro, patriota e avvocato alla Consulta dei poveri.
Tra il 1820 circa e il 1824 il L. si ritirò a Piacenza, dove aveva acquisito proprietà fondiarie. Rientrò poi a Roma per soddisfare la commissione di Ferdinando I di Borbone della Concezione per S. Francesco di Paola a Napoli. Condizionata anche nell'esito formale dalle alterne condizioni di salute l'opera fu terminata solo nel 1828.
Il L. morì a Piacenza il 27 febbr. 1830.
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