NARVESA, Gaspare
– Figlio di Paolo, sarto, nacque a Pordenone nel 1558, come si deduce dall’atto di morte nonché dall’iscrizione commemorativa apposta su un perduto autoritratto conservato presso i conti di Caporiacco, in Friuli (di Maniago, 1819, p. 173).
La famiglia, forse originaria della località di Nervesa nel Trevigiano, era insediata da almeno una generazione nel Pordenonese dove, nonostante la modesta estrazione sociale, sembra possedesse anche alcuni terreni (Furlan, 1958, p. 51). Oltre a Gaspare, il nucleo famigliare era composto da Mattio, ordinato sacerdote nel 1575, e dalle due sorelle Cecilia e Portia, sposatesi rispettivamente nel 1560 e nel 1567 (Goi, 1974, cui si rimanda per le indicazioni documentarie, ove non diversamente specificato).
I primi passi della sua formazione artistica dovettero compiersi a Pordenone a contatto con qualche esponente della scuola pittorica locale, che annoverava tra gli altri Giuseppe Moretto, Sebastiano Secante e Cristoforo Diana. Il primo documento disponibile risale al primo ottobre 1574, quando, a seguito di una supplica presentata dal padre, il Consiglio comunale della città friulana accordò al giovane un sussidio triennale di 8 ducati per «poterlo accomodare con maestro eccellente» (Furlan, 1958, p. 52). L’11 aprile 1579, il Consiglio rinnovò l’aiuto finanziario, anticipando ulteriori 8 ducati a patto che proseguisse la sua educazione fuori da Pordenone per almeno un anno e mezzo. L’apprendistato doveva comunque essere completato entro il novembre dell’anno successivo, quando il nome di Gasparo Narvesa accompagnato dall’appellativo di «pittore» compare in un atto di battesimo steso nella parrocchia di S. Marco.
La critica non ha mancato di notare la compresenza di molteplici componenti stilistiche nell’opera di Narvesa, in cui sono riconoscibili elementi di ascendenza veronesiana filtrati attraverso la mediazione di Francesco Montemezzano, nonché riferimenti a maestri locali (Pomponio Amalteo) o attivi nella fascia pedemontana veneta (Andrea Vicentino, Palma il Giovane). Gli estremi cronologici impediscono invece di confermare l’antica ipotesi (Ridolfi, 1648) di un alunnato presso la bottega veneziana di Tiziano Vecellio, morto nel 1576.
In un momento di poco successivo al 12 marzo 1585, data di stipula dell’accordo dotale, dovrebbe collocarsi il matrimonio con Augusta Calcaterra, nativa di Spilimbergo, città nella quale la coppia si trasferì entro il 1601. La loro fu un’unione particolarmente prolifica,dalla quale nacquero almeno quindici figli, uno dei quali, Giovanni Battista (nato nel 1599), fu capitano di Sequals, nel Pordenonese. A quegli anni risale anche l’amicizia col poeta Gian Domenico Cancianini, che fu padrino dei figli della coppia e dedicò al pittore due epigrammi, di cui uno redatto in occasione della realizzazione di un perduto Ritratto di famiglia databile tra il 1597 e il 1600.
I primi documenti relativi all’attività artistica datano all’ottobre 1586, quando Narvesa ricevette 6 lire per lavori eseguiti a Spilimbergo in occasione della visita pastorale dell’ausiliario Matteo Sanudo. Poco più tardi, tra il gennaio e il novembre 1587, al pittore era accreditata in più rate la somma di 32 ducati a saldo di un’ancona, oggi perduta, per la chiesa di S. Maria Maggiore di Spilimbergo. Di poco successiva è l’esecuzione della pala con la Visitazione, firmata e datata 1588 (Spilimbergo, S. Maria dei Battuti), opera di ancora modesta concezione formale che denuncia, nella tessitura compositiva e cromatica, un’assimilazione passiva di modelli aulici di provenienza veneziana. Per la stessa chiesa, qualche anno più tardi (giugno 1592), Narvesa fu incaricato di decorare anche un secondo altare, oggi disperso.
Il 21 aprile 1593, su delibera del Consiglio di Pordenone, ricevette l’incarico di affrescare la facciata del duomo di S. Marco, il cui decoro era ancora in parte visibile alla fine del XIX secolo (Candiani, 1881). A questo lavoro fecero seguito, a partire dal giugno dell’anno successivo e saltuariamente fino alla primavera del 1595, ulteriori compensi relativi a imprese decorative minori, tra cui il restauro della pala dell’altare maggiore di Antonio de’ Sacchis (il Pordenone), per la quale Narvesa realizzò anche un «friso» con il Sacrificio di Isacco (perduto). Analoghi lavori di decorazione minuta e di restauro svolse nell’arco di tutta la sua carriera anche per altre istituzioni ecclesiastiche del Pordenonese. Si segnalano in particolare le opere eseguite per il duomo di Spilimbergo (1601-37), dove tra le altre cose Narvesa restaurò la cassa dell’organo, alcuni messali e altri oggetti di uso liturgico, nonché quelle per la parrocchiale di Cordenons (1604) e di Cavasso Nuovo (1614-19). È tuttavia con la serie di grandi dipinti d’altare realizzati nella congiuntura compresa tra il 1595 e il 1611 per alcuni centri della destra del Tagliamento che Narvesa venne affinando i propri strumenti linguistici, acquisendo quei «modi espressivi di sorprendente facilità» (Menegazzi, 1974,p. 34), votati a una narrazione piana e coinvolgente dell’evento sacro, che ne fecero uno dei più sensibili interpreti della spiritualità della Controriforma nel territorio friulano. Nel novero delle opere realizzate in quel periodo va senz’altro segnalata la pala con S. Valentino benedicente e processione della Confraternita all’altare di S. Biagio, datata 1595 (Domanins, parrocchiale), da sempre considerata un caposaldo della produzione dell’artista.
A quest’opera si possono accostare, per ragioni stilistiche, anche la pala con la Guarigione di un’indemoniata per intercessione dei ss. Floriano e Valentino (Cordenons, parrocchiale), nonché quella con i Ss. Andrea, Mattia e Girolamo, eseguita su istanza di Antonio Colloredo (Mels, parrocchiale). Compresa tra il 1595 e il 1598 è anche la realizzazione dell’altare con la Ss. Trinità e la Vergine venerati dai ss. Severo e Valeriano (oggi a Valeriano, chiesa di S. Maria dei Battuti), probabile ex voto per la guarigione della figlia Vincenza, di cui è presente il ritratto. Sono invece da considerarsi perdute altre due opere per la chiesa di S. Cecilia di Spilimbergo (documentate nel 1596) e un ulteriore dipinto per S. Pietro di Azzano Decimo, pagato nel 1598. Partecipa di questo momento stilistico, contraddistinto da una maggiore sensibilità per gli effetti luministici e da una più sciolta gestione della campitura cromatica, anche la pala con i Ss. Antonio Abate,Pietro e Agata del 1601 (Basaldella di Vivaro, parrocchiale), alla quale è possibile avvicinare i due teleri, non datati, con i Ss. Floriano e Valentino (Sequals, S. Nicolò) e uno Sposalizio mistico di s. Caterina (Marsure di Aviano, Madonna del Monte). Gli stessi caratteri formali sono manifestati anche nelle due tele raffiguranti la Vergine in gloria con quattro santi e la Trinità con quattro santi (San Leonardo di Campagna, parrocchiale), per le quali Narvesa ottenne nel novembre del 1608 un pagamento totale di 100 ducati.
Nell’agosto 1611 consegnò la grande pala d’altare per la Confraternita rossa di Pordenone, eseguita anche grazie al sostegno economico del Consiglio cittadino, che contribuì all’opera con un’elemosina di 3 ducati. La tela, che per dimensioni e struttura iconografica costituisce una delle più ambiziose realizzazioni del pittore, raffigura la Ss. Trinità con la Vergine venerata dai membri della Confraternita. Gli anni successivi segnarono una progressiva diminuzione delle committenze pubbliche affidate a Narvesa, del quale peraltro non sono noti finora dipinti a destinazione privata.
Tra le opere compiute nel secondo decennio rientra la complessa Pala del Rosario (Aviano, parrocchiale), finita nel giugno del 1617; strettamente legata a questa è pure la tela con la Discesa dello Spirito Santo (Spilimbergo, S. Pantaleone), non datata, che replica fedelmente in scala maggiore l’ovato centrale del dipinto di Aviano. Nello stesso periodo si colloca anche l’intensa Pietà con quattro santi (Basaldella di Vivaro, parrocchiale), ordinata nel settembre 1613 ma portata a compimento tre anni più tardi. Al gennaio 1621 risalgono i primi pagamenti da parte della Confraternita di S. Eligio di San Daniele del Friuli per l’esecuzione di una pala, perduta, raffigurante tra l’altro «s.to Allò [Eligio] fabro con doi altre figure et un cavallo con altri ornamenti … per l’arte del fabro» (Goi, 1974, p. 49). Il dipinto, terminato all’inizio del 1623, innescò una controversia giudiziaria di fronte al tribunale patriarcale di Udine tra il pittore e i confratelli, insoddisfatti delle richieste economiche avanzate dall’artista nonché di alcuni dettagli iconografici dell’opera.
Nel 1626 Narvesa inviò una supplica all’autorità civile di Udine per sollecitare il restauro di un dipinto, non meglio identificabile, attribuito a Giulio del Moro e raffigurante un’Immacolata Concezione; nel luglio dello stesso anno una scrittura redatta dal luogotenente di Udine attestava che il restauro era stato effettuato. Nello stesso frangente (1626) il pittore portò a termine anche i tondi con i Misteri del Rosario realizzati attorno all’altare con la cinquecentesca Presentazione al tempio di Giovanni Martini (Spilimbergo, duomo) e inseriti all’interno di un’elaborata cornice policroma intagliata da Giacomo Onesti, che prestò la propria collaborazione al pittore anche in altre circostanze (Manzato, 2001). Ulteriori pagamenti relativi all’esecuzione di due pale, intitolate a S. Pietro e al Ss. Nome di Dio, realizzate per la chiesa di S. Pietro a Cavasso Nuovo sono registrati nel 1629 e nel 1638; la prima, trafugata negli anni Settanta, è da ritenersi al momento dispersa e anche la seconda è da tempo irreperibile. Nel 1630 ricevette il saldo per l’altare della parrocchiale di Prata, raffigurante S. Carlo Borromeo tra i ss. Antonio abate e Floriano, che si può a ora considerare l’ultima opera del pittore, che a quanto risulta non ebbe discepoli o creati.
Gli ultimi anni di vita di Narvesa furono segnati da alcuni imprevisti di natura legale. Nel 1634 il pittore e il figlio Giovanni Battista vennero infatti estromessi da una vertenza sorta tra la comunità di Spilimbergo e l’autorità civile «per essersi sempre dimostrati contradicenti alle raggion del popolo» (Goi, 1974,p. 51). Nello stesso anno al pittore era contestato anche il mancato pagamento di una tassa notarile da parte della cancelleria di Udine.
Morì a Spilimbergo il 29 ottobre 1639; fu sepolto nel duomo di Spilimbergo, probabilmente nell’arca acquistata dal cognato Giovan Matteo Calcaterra nel 1615 (Furlan, 1958).
Fonti e Bibl.: C. Ridolfi, Le maraviglie dell’arte … (1648), a cura di D. von Hadeln,I,Berlin 1914, p. 136; F. di Maniago, Storia delle belle arti friulane, Venezia 1819, pp. 92, 173, 203, 260; V. Candiani, Catalogo degli oggetti d’arte… in Pordenone, Pordenone 1881, p. 32; I. Furlan, Profilo del pittore G. N. a quattrocent’anni dalla nascita, in Il Noncello, XI (1958), pp. 51-84; P. Goi, Appunti per il N., in La panarie, VI (1973), 4, pp. 26-32; G. N. (1558-1639) (catal.), a cura di L. Menegazzi, regesti (pp. 43-52) a cura di P. Goi, Pordenone 1974 (con ampia bibl. precedente); S. Mason Rinaldi, G. N. a Pordenone, in Arte veneta, XXIX (1975), pp. 295-297; D. Manzato, L’altare ligneo dei ss. Gottardo e Valentino della chiesa di S. Giovanni Battista di Malnisio, in Sot la Nape, LII (2001), 3-4, pp. 39-48; U. Thieme - F. Becker, Künsterlexicon, XXV, p. 346.