Gastronomia
Gli animali si cibano,
l'uomo mangia,
ma solo l'uomo spirituale
sa mangiare
(Anthelme Brillat-Savarin)
La cultura della buona cucina
di Giovanni Ballarini
29 aprile
Nella classifica dei migliori ristoranti del mondo, stilata dalla rivista specializzata Restaurant Magazine in base al giudizio di 300 fra chef e critici gastronomici, quattro locali italiani figurano nei primi 50 posti. Nel mondo la cucina italiana è una delle più diffuse e apprezzate. Ma in tempi di globalizzazione e di fast food è ancora possibile difendere la migliore tradizione gastronomica nazionale?
Esiste una cucina italiana?
La cucina è stata paragonata al linguaggio in quanto, come questo, possiede vocaboli (i prodotti e gli ingredienti), usati secondo le regole di una grammatica (ricette) e di una sintassi (menu), fino alla retorica dei riti conviviali, il tutto con trasmissione di valori simbolici, deposito di tradizioni e di identità individuale, familiare, di gruppo e sociale. Si formano così dei 'sistemi' culinari, ognuno dei quali ha una propria struttura, determinata sia dalle tecniche di cottura e di presentazione dei cibi, sia dai prodotti di base disponibili nelle forme in cui sono presentati. A quest'ultimo riguardo intervengono le capacità di chi cucina e la qualità degli alimenti, in modo particolare quelli che hanno caratteristiche derivanti, in senso lato, dal territorio. Tuttavia la cucina, come il linguaggio, è anche arte e, soprattutto, gusto. Il quadro odierno è indubbiamente di crisi e sempre più diffuso è un 'disagio', che porta a chiedersi come proteggere e salvaguardare le abitudini e le tradizioni culinarie italiane, con le loro caratteristiche nazionali e regionali, dai rischi connessi con la globalizzazione e i ritmi veloci che la vita ci impone. Ma, innanzitutto, esiste una cucina italiana? È una domanda forse provocatoria, ma non tanto, in modo particolare se si pensa all'attuale momento nel quale molti lamentano l'erosione di un'identità nazionale e si sente sempre più parlare da una parte di cucine regionali e dall'altra di dieta mediterranea. Sull'argomento è in corso un intenso dibattito, al quale partecipano antropologi, storici, sociologi, economisti e, soprattutto, gastronomi, uomini di cucina e, non ultimi, i più importanti protagonisti: i consumatori. Tutti parlano di cucina, spesso lamentandosi. Il dibattito sta mostrando come il cibo sia un deposito di tradizioni ma anche un importante mediatore tra culture diverse, che si apre a invenzioni, incroci e contaminazioni. L'interesse per la cucina, anzi per le cucine, è la migliore dimostrazione di quanto questo sia un elemento importante per approfondire la propria identità culturale. Esso è rivolto sia al passato (voglia di tradizione), sia al futuro (voglia di innovazione). Per diverso tempo, e a ragione, si è sostenuto che in Italia esistessero soltanto cucine territoriali, da quelle regionali fino alle cosiddette cucine del campanile. Per molte zone, inoltre, si tendeva a differenziare la cucina della città da quella della campagna e della montagna, con variazioni talvolta minime ma non trascurabili. D'altra parte, non si può negare che dall'unità del Regno d'Italia in poi vi è stata una certa unificazione delle cucine regionali, causata dagli spostamenti delle popolazioni. In modo analogo, e di pari passo con la progressiva scomparsa del dialetto dall'uso comune, si sarebbe perduta anche la tradizione della cucina regionale. La costruzione di una cucina nazionale - fenomeno innegabile - è stata favorita dalle migrazioni da una regione all'altra: dapprima di famiglie della classe dirigente e della borghesia (prima metà del 20° secolo), poi di grandi masse di contadini che dal Meridione si sono trasferite nelle città del Nord (a partire dagli anni Cinquanta). Complici di questo processo di unificazione culinaria sono stati inizialmente alcuni libri di ricette (da quello di Pellegrino Artusi a quello di Ada Boni, solo per citarne due), poi i giornali e le riviste e soprattutto - anche qui si ripete il parallelo tra linguaggio e cucina - la televisione. La cucina italiana, tuttora in evoluzione, parte solo da radici territoriali e quindi da un'identità interna al territorio? Può essere rappresentata, per fare un esempio fra tanti, solo da un menu nel quale l'antipasto di salumi padani preceda un primo di ribollita toscana, per poi passare a un abbacchio a scottadito con le puntarelle romane e, dopo un pecorino sardo e un pane pugliese, approdare a una cassata siciliana per finire con un caffè alla napoletana? Forse, ma non soltanto. Come è stato più volte sottolineato, identità e tradizione si associano sempre quando vi è un confronto con imitazioni e influenze esterne, sia con l'introduzione di alimenti, sia con tecniche di cucina, stili alimentari e di presentazione in tavola, per dare luogo a quella che è stata felicemente denominata 'cucina dello scambio'. Non dimentichiamo che ogni tradizione è il frutto - sempre provvisorio - di innovazioni e soprattutto di scambi e ibridazioni, che si sono poi assestati, divenendo tradizione. Scambi e ibridazioni che possono avvenire soltanto in presenza di precise e forti identità.
Che cosa sarebbe la cucina di tutte le regioni italiane, solo pensando agli ultimi secoli, se non avesse introdotto il riso, il pomodoro, la patata, la zucca, il mais e, nelle regioni settentrionali, l'olio di oliva e il grano duro, con tutto quanto vi è connesso? Innovazioni e scambi con altre culture culinarie non hanno distrutto la cucina regionale, anzi la hanno meglio tipizzata, in quanto il nuovo è stato incorporato in una solida e ben identificata base territoriale, di cui sono preziosi indicatori i prodotti tipici, dai formaggi ai salumi, dalle carni agli ortaggi e ai frutti di produzione locale, senza dimenticare la loro trasformazione in piatti e menu tipici e tradizionali. Nella costruzione della cucina italiana identità e scambio giocano un ruolo indispensabile, in un processo che avviene a diversi livelli: nelle cucine casalinghe e in quelle della grande ristorazione; mediante il passaparola, tramite la carta stampata e la televisione o con i dibattiti sul cibo. Questa costruzione in continuo divenire passa attraverso il lavoro tradizionale dei 'maestri di cucina' (perché usare il termine straniero chef?) che operano nei ristoranti, dove si conserva la tradizione, la si interpreta e si effettuano ibridazioni e innovazioni. Altrettanto importante è l'altra strada, sotto un certo aspetto innovativa, delle scuole di cucina, a tutti i livelli. Un tempo erano sufficienti la scuola familiare, nella quale la madre insegnava alla figlia, e la scuola del cuoco, nella quale, come nella bottega d'arte, il maestro insegnava agli allievi. Oggi sono richieste, anzi necessarie, scuole di cucina sia a diversi livelli professionali sia di tipo amatoriale.
Nel complesso quadro ora tratteggiato, la principale, se non l'unica, carta vincente che la cucina italiana sta dimostrando di possedere, ma che deve sempre più valorizzare facendone il suo principale elemento di identità, è il gusto italiano della tavola. Particolarmente per chi la vede dall'esterno, l'Italia è identificata da un elevato e tipico gusto, che da secoli si è manifestato nelle arti e più recentemente nella moda, ma anche nella buona tavola. Mangiare all'italiana era un segno di distinzione nell'alta gastronomia rinascimentale; ancora oggi, forse maggiormente, il gusto italiano della tavola è l'indispensabile elemento d'unificazione della nostra cucina e anche un importante strumento di diffusione dell'immagine e della cultura italiana nel mondo.
Gusto moderno e postmoderno
Nei secoli 17° e 18°, presso la corte francese, avere buon gusto significava possedere una particolare sensibilità per le più piccole sfumature nel linguaggio, nella gestualità, nell'abbigliamento, nei profumi e in tanti altri aspetti, che giocavano un ruolo importante all'interno dei rapporti tra nobili e dell'etichetta di corte. Nel passaggio tra il 18° e il 19° secolo, la borghesia si sforza di adottare il buon gusto, lo stile di vita distinto e la raffinata cultura gastronomica delle migliori élite, contrapponendovi però le nuove misure di una cucina e di un'alimentazione corrette dalla razionalità dell'epoca. Va ricordato che Anthelme Brillat-Savarin intitola il suo celebre trattato Fisiologia del gusto (1825), accostando un termine scientifico a uno di significato anche artistico. Nell'ambito di un'alimentazione e di un gusto moderni, i diversi aspetti della preparazione e del consumo alimentare si riuniscono nel 'sistema' del pasto, nel quale il cibo si differenzia dalla situazione; tale insieme è ben codificato nell'alimentazione moderna. Il cibo, intendendo sia la singola portata sia il complesso dei piatti, ha nomi determinati e regole prestabilite di combinazione. Tutto dipende dai prodotti alimentari usati, dalle tecniche colturali agricole e da quelle di conservazione e trasformazione, familiare o artigianale. Ogni fase è regolata in modo speciale dalla 'norma dello stomaco', o gastronomia. La situazione del pasto comprende l'ambito sociale, il tempo e lo spazio che determinano i luoghi del mangiare, il momento del pasto (colazione, pranzo e cena) e la sua durata (dalla colazione rapida alla ricca tavolata della cena), in relazione ai giorni feriali o festivi, ai periodi di lavoro o di vacanza, a particolari appuntamenti stagionali, laici o religiosi. Nell'alimentazione moderna, codificata nell'Ottocento, è molto importante lo spazio sociale che identifica
il luogo del cibo, all'interno o all'esterno della casa. È diverso consumare lo stesso cibo in casa, nella cucina o nella sala da pranzo, oppure fuori di casa, al ristorante, su un prato per un'elegante merenda o per la strada. Fondamentale, comunque, per il buon gusto moderno è la presenza della tavola.
Quando nasce il postmoderno in cucina? Pellegrino Artusi, con il suo libro La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene (1891) interpreta una cucina borghese di tipo moderno, com'è denunciato dallo stesso titolo che accoglie ed enfatizza la scienza, di chiaro stampo ottocentesco. Sono tipicamente moderne le cucine che, nel corso del 20° secolo, sono presentate da diversi libri italiani che hanno seguito il solco dell'Artusi, tra i quali citiamo l'Agnetti, il Cougnet, il Gianquinto e tanti altri, fino ad Ada Boni (Il talismano della felicità, 1925) e Franca Matricardi (coautrice del Cucchiaio d'argento, 1950) e così via.
Diverso è il giudizio nei confronti della nouvelle cuisine, che nasce in Francia, negli anni Settanta, nell'ambito della 'cucina creativa' e abbastanza rapidamente si diffonde in Europa e nel mondo, in quanto vi sono le condizioni necessarie ad accoglierla. Questa nuova cucina fonda la sua originalità attorno a tre punti fondamentali: lo status, che si esprime nel raffinamento delle pratiche conviviali, nell'attenzione al decoro della tavola e nel manierismo estetizzante della mise en place; la leggerezza, fautrice della miniaturizzazione delle porzioni, dell'alleggerimento delle ricette, della promessa di conciliare esigenze del palato e presentabilità del corpo; la sperimentazione, per cui il menu del ristorante va rinnovato periodicamente, come la moda. In questa concezione, inoltre, buono diviene sinonimo di eccentrico, anticonvenzionale, sorprendente. Il successo, sia pur transitorio, della nouvelle cuisine deriva dal fatto che le sue promesse corrispondevano a bisogni e valori emergenti anche nella popolazione italiana, e largamente condivisi in quella europea. Tali valori hanno concorso a tracciare l'evoluzione socioculturale del gusto negli anni Ottanta e, in massima parte, continuano ancora a caratterizzare gli orientamenti alimentari più avanzati. Gli italiani hanno in realtà risolto le proprie esigenze alimentari di innovazione e leggerezza in modo diverso da quello proposto dalla nouvelle cuisine, la quale ha avuto comunque altri pregi: ha dato l'idea che la cucina tradizionale e quella moderna potevano essere superate e al tempo stesso, enfatizzando i sapori originari e privilegiando le cotture delicate, ha rimarcato il valore della qualità delle materie prime, in particolare dei prodotti territoriali e di quelli tipici. La vera nascita del postmoderno alimentare coincide però con i profondi rivolgimenti economici e sociali degli ultimi decenni del 20° secolo, quando compare il 'nuovo consumatore', frutto di una società complessa, turbolenta e frammentata. La prima e più importante manifestazione postmoderna è la scomparsa della tavola, la cui mancanza, nelle feste, nei picnic, nei saloni, durante i pasti consumati in campagna, ma soprattutto nel mangiare rapido in piedi, implica una consistente perdita di ciò che tradizionalmente si associava alla cultura del cibo, non a caso spesso denominata cultura della tavola. Si tratta di una perdita grave, in quanto vengono a mancare l'ordine fisso della disposizione delle suppellettili e dei posti a sedere, i costumi conviviali, i commensali, le conversazioni a tavola e così via. Inoltre, questa situazione di consumo del cibo ha conseguenze anche sulla scelta e sulla preparazione dei prodotti alimentari. Se la cucina moderna era impostata su una sequenza di piatti, quella postmoderna tende al piatto unico che inevitabilmente porta alla fusione di gusti alimentari diversi, secondo quella che è stata denominata cucina fusion, da correlare al melting pot culturale postmoderno. Una tendenza che dev'essere connessa alla presenza e diffusione del kitsch alimentare.
La manipolazione dei cibi, fino a far perdere loro l'aspetto originario, è sempre stata presente nell'alta cucina, dal Rinascimento in poi, in modo particolare nella pasticceria, con lo scopo di stupire. Come reazione, la nouvelle cuisine aveva cercato di recuperare sapori e gusti originari. Non deve quindi meravigliare che la manipolazione dei cibi, basata anche su nuove tecnologie, si presenti come cucina 'destrutturata' che porta a sistema quello che prima era solo occasionale. Da non sottovalutare è il cosiddetto 'astrattismo culinario', specialmente nella pasticceria. Superando il momento di verismo visivo che aveva caratterizzato la nouvelle cuisine, l'astrattismo propone cibi in forme geometriche, che possono essere sfere, cilindri, coni, dischi, parallelepipedi e via dicendo. In modo analogo anche le decorazioni astratte sono sempre più frequenti.
Quasi come contrapposizione all'astrattismo culinario, nell'ambito di una voglia di tradizione e di passato, va considerata l'invadenza sempre più diffusa di cibi 'falsi antichi', una condizione ben diversa da un possibile gusto retro, che è invece un'interpretazione attualizzata di cibi e sapori antichi. Sempre più diffuso è inoltre il kitsch alimentare, inteso come una tendenza del gusto che predilige cibi di stile eterogeneo o caratterizzati da condimenti ed elaborazioni eccessivi, con forme e presentazioni stravaganti fino all'imitazione dozzinale di preparazioni classiche: un fenomeno di massa, espressione di un gusto e di motivazioni banali. Una dozzinale imitazione di un prosciutto tipico, per es., è un kitsch alimentare. Di kitsch alimentari sono pieni gli scaffali dei supermercati e soprattutto di quelli che praticano prezzi bassi.
Il gusto gastronomico italiano
Nel Rinascimento e fino all'inizio dell'età moderna, in cucina e soprattutto in gastronomia il gusto italiano è stato predominante e di modello ad altri gusti, come quello francese o spagnolo. Con la modernità si è assistito al prevalere del gusto francese. Nella postmodernità è divenuto difficile, se pure non impossibile, definire dei gusti nazionali o di specifiche culture sovranazionali (per es. europee). Per quanto riguarda l'Italia, vi è il rischio di costruire una 'falsa' cucina italiana, fenomeno che è stato posto in grande evidenza alla fine del secolo appena trascorso.
Tre sono le cucine che dominano la globalizzazione: il fast food di tipo americano (la cosiddetta 'macdonalizzazione' alimentare), la cucina cinese (è noto che però non esiste una sola cucina cinese, ma tante quante sono le regioni della Cina) e infine la sempre più diffusa falsa cucina italiana, che sta provocando la cosiddetta italianizzazione della cucina mondiale. Nel mondo la cucina italiana si presenta con almeno 100.000 ristoranti, senza contare le pizzerie. Ancora più importante è però il fatto che in tutto il mondo si acquistino piatti pronti o dolci di stile italiano e che, in un numero sempre maggiore di case, particolarmente il sabato e la domenica, si cucini 'all'italiana'. Questa in realtà è ben diversa da quella veramente italiana, o meglio dalle cucine delle regioni italiane, e consiste soltanto nell'uso di materie prime alimentari o di piatti di origine italiana o di nome italiano. A volte poi si tratta di veri e propri 'falsi alimentari'; fra i più tipici si possono citare: pasta, soprattutto spaghetti, di grano duro ma anche di grano tenero; sughi, di tipo vagamente italiano, per condire la pasta, con predominanza di pomodoro (alla napoletana), di carne (alla bolognese), di basilico (pesto ligure); pane croccante, come la ciabatta; pizze dei più diversi tipi; salumi, a iniziare dalla mortadella; formaggi che si rifanno spesso alla denominazione di parmesan o di pecorino, fino a un quanto mai improbabile parmesan-pecorino; olio d'oliva, delle più diverse origini e qualità; balsamico, spesso citato senza neppure ricordare che è un aceto o, meglio, un aroma, mentre spesso diviene un'aggiunta buona per ogni occasione; gelati e sorbetti, tiramisù e altri dolci; caffè espresso all'italiana, ristretto, oltre all'immancabile cappuccino; vini, dal lambrusco ai vini bianchi di diversa origine; liquori tradizionali e nuovi (soprattutto limoncello). La questione della mondializzazione di una falsa cucina italiana è ben presente a coloro che all'estero si occupano di grande ristorazione. Non è certamente un caso che, accanto alle sempre più diffuse pizzerie, stiano sorgendo spaghetterie, o spaghetti houses, paninerie (panini sono sempre più frequentemente offerti anche in Francia) e che negli Stati Uniti siano stati preparati spaghetti in cono, da mangiare per strada. Anche il concetto italiano di caffè, inteso come luogo ove consumare una prima colazione o una colazione rapida, è entrato nella mentalità mondiale, tanto che è già comparso il primo Mac Caffè.
Tutto ciò pone all'Italia una serie di problemi. Innanzi tutto gran parte della cucina cosiddetta italiana mondiale non si basa su alimenti italiani, ma su imitazioni e falsificazioni più o meno smaccate: pasta di grano tenero che fa colla, olio d'oliva di dubbia origine, formaggi parmesan argentini, 'bologna' messicana, vini che di italiano hanno soltanto il nome o al più la confezione (come nel passato il classico fiasco di un fantomatico Chianti). La preparazione dei piatti cosiddetti italiani, poi, è molto diversa da quella originale: di solito, all'estero, gli 'spaghetti bolognese' non sono altro che polpette in sugo rosso con un contorno di pasta molliccia e viscida. Nella falsa cucina italiana manca qualsiasi legame tra cibo e bevanda (non parliamo di piatto e vino!) e non esiste alcun rapporto tra i diversi piatti nell'ambito di un pasto: un primo può divenire un secondo e viceversa. Completamente assenti sono, infine, i rapporti tra cibo, ambiente e tempo, come invece avviene nella vera cucina italiana: vengono quindi a mancare gli indispensabili elementi culturali che sono alla base della cucina di tutte le nostre regioni. Questo insieme di cose provoca un grave danno al vero prodotto italiano, l'immagine vera della cucina italiana ne risulta snaturata e falsificata. Ma chi può distinguere il vero dal falso, in cucina e soprattutto in gastronomia? La critica gastronomica. Se infatti la cucina è tecnica, la gastronomia è arte e non vi è arte senza critica, fino all'affermazione, solo per certi aspetti paradossale, secondo la quale è la critica che condiziona l'arte (o la crea?). La cucina, in quanto tecnica e utilizzatrice di tecniche, può essere oggetto di apprezzamenti, oggettivi e soggettivi, e di valutazioni, sociali, economiche, sanitarie e d'altro tipo, ma non di una critica. È questa che esamina i risultati delle attività umane per scegliere, selezionare, distinguere il bello dal meno bello, il buono dal cattivo o dal meno buono, il vero dal falso, il certo dal probabile. La critica si esprime nel giudizio che chiunque formula, implicitamente o esplicitamente, assaggiando una preparazione ed esiste da sempre, soprattutto per dire se un piatto o un menu sono buoni o cattivi e anche più o meno buoni, ma sempre in un ambito di grande soggettività. Se invece si parte dal presupposto di un'autonomia della gastronomia come arte e come attività creativa e si vuole, per quanto possibile, oggettivarne i giudizi e riportarli a criteri sufficientemente chiari, indispensabili per un'educazione al gusto, allora si può dire che la critica gastronomica è ancora relativamente agli inizi.
Vi sono dunque alcuni alimenti che caratterizzano il gusto italiano, rappresentano la nostra cucina all'estero e contribuiscono alla costruzione di un gusto globalizzato. Una condizione discutibile, ma che è comunque una realtà. La pasta. Accanto alla pizza, rappresentano un tipico gusto italiano tanto la pasta secca di grano duro quanto quella di farina di grano tenero, all'uovo, anche nelle numerose varietà di pasta ripiena. Un gusto che l'industria postmoderna ha sviluppato attraverso tre diversi elementi, tra loro strettamente correlati: diversificazione delle paste a iniziare dai formati, recupero di condimenti tradizionali adeguati alle attuali necessità, risposta alla richiesta di diversificazione alimentare.
Il pane. Non è, ovviamente, un alimento soltanto italiano, ma ognuna delle nostre regioni ha sviluppato i propri pani, con gusti correlati con cibi locali. L'accostamento tra pane e cibo è altrettanto importante di quello tra vino e cibo.
I salumi. L'Italia è una delle principali produttrici della salumeria di qualità, come dimostra il numero di prodotti che hanno ottenuto riconoscimenti di qualità (DOP, Denominazione di origine protetta; IGP, Indicazione geografica protetta; ecc.). Le radici della tradizione dei salumi italiani sono greche (Magna Grecia), etrusche e romane. La moderna industria salumiera ha un ruolo determinante nella formazione del gusto italiano, sia attraverso il recupero delle antiche radici, sia adeguando i salumi alle attuali esigenze dei consumatori, non ultima quella della diversificazione dei prodotti.
I formaggi. L'Italia era nota per il parmigiano e, successivamente, per il pecorino; oggi la situazione è ben diversa. Per i formaggi, di cui l'Italia è ricchissima, non si può che ripetere quanto si è indicato relativamente ai salumi.
Il vino. Un tempo all'estero erano conosciuti il Marsala o il Chianti, ma nel secondo dopoguerra l'enologia italiana e il gusto del vino hanno avuto uno sviluppo formidabile, sia per la qualità, sia per la diversificazione di prodotti e varietà, come richiesto dai consumatori. Da segnalare, per es., i cambiamenti nel gusto per i vini meridionali, passati da vini da taglio a vini con peculiarità autonome di gran pregio.
L'olio d'oliva. Nella cultura mediterranea, l'olio d'oliva è uno dei principali 'marcatori' di gusto e di differenziazione da altre culture (del lardo e dello strutto, del burro ecc.). Il passaggio importante, compiuto nell'evoluzione del gusto nella seconda metà del 20° secolo, consiste proprio nell'apprezzamento delle diversità gustative dei vari tipi di olio, in relazione ai diversi usi culinari.
Il gelato. La pasticceria ha sempre avuto un posto importante nella nostra gastronomia; attualmente, accanto all'industrializzazione e alla postindustrializzazione di alcune industrie dolciarie che offrono una continua variazione della produzione, è da segnalare l'importanza della gelateria. Il gusto del gelato è tipicamente italiano: dal siciliano Francesco Procopio de' Coltelli, che si narra abbia portato il gelato a Parigi, fino ai gelatieri veneti che hanno fatto conoscere il gelato in tutta l'Europa. Nell'evoluzione postindustriale, il gelato artigianale italiano ha saputo offrire una varietà quasi infinita di gusti.
Crisi della tradizione ed educazione del gusto
La realtà dell'alimentazione del tempo presente sembra incapace di adattarsi al gusto delle persone e, soprattutto, alle loro aspettative inconsce. La sempre maggiore disponibilità di alimenti, in particolare di elevata qualità e con livelli sensoriali sempre più differenziati, ha paradossalmente aumentato la consapevolezza delle realtà soggettive, generando quell'affinamento del gusto che non può più trovare riscontro nell'ottusità di una cucina di massa la quale, negli ultimi cinquant'anni, si è mossa verso un'uniformità e una qualità globalizzata sempre più degradate e patologiche. Nella nostra società, non è più possibile distinguere tra nevrosi dell'individuo e nevrosi della cucina, tra psicopatologia dell'individuo e psicopatologia della cucina, tra le turbe del comportamento alimentare (bulimia, anoressia e, in generale, le altre forme di incapacità di regolare la propria nutrizione) e la cattiva cucina, perché da quando la cucina tradizionale è andata in pezzi è divenuta difficile la distinzione tra la percezione e le manifestazioni del gusto. Fino all'Ottocento, e forse alla prima metà del Novecento, il consumatore considerava la cucina nel suo complesso come il risultato di un processo derivato da una tradizione, prima contadina e agricola, poi borghese e cittadina. Nella seconda metà del 20° secolo, con l'avvento sempre più rapido della postmodernità, il nuovo consumatore è stato obbligato a considerare invece il cibo e la sua produzione. Mentre la cucina perdeva le tradizioni, la nuova produzione di cibo dava origine a un'alimentazione 'patologica', non per mancanza di sicurezza (che, anzi, è aumentata) ma per mancanza di gusto: un'alimentazione di volta in volta con caratteri anoressici, bulimici, paranoici, nevrotici, schizofrenici, maniacali, tossicomani. Se l'evoluzione della civiltà e delle culture è simile a quella dell'umanità, non è forse lecito chiedersi se talune culture, come la nostra che sta diffondendosi all'intero pianeta, siano divenute malate e in particolare nevrotiche? Non dovrebbe essere estesa a comprendere anche la cucina l'opinione secondo la quale "tutte le malattie provengono dall'agricoltura", madre delle tecniche, di cui la cucina è la prima e più importante?
Una nuova accezione della realtà della cucina richiede una particolare educazione del gusto. La malattia della cucina, infatti, comporta una deformazione del gusto. Se il problema della cucina malata riguarda solo una parte dell'attuale alimentazione dei paesi industrializzati, non si deve nascondere che esiste un malessere generalizzato. Molti dei caratteri patologici sopra indicati - anoressia, bulimia, paranoia, schizofrenia, mania, tossicomania - hanno una ricaduta più o meno intensa e rapida sull'alimentazione familiare, creando un disagio, spesso incosciente e inavvertito, ma non per questo meno importante. Questo nuovo disagio della cucina ha una forte componente psichica, sia in chi la prepara e la distribuisce, sia in chi la subisce. Da qui una perdita e una deformazione del gusto, non solo come funzione biologica, ma soprattutto come realtà psichica. Più che un gusto nuovo è necessario un gusto comune che si riallacci alla nostra complessa realtà umana, un gusto che sia educato a riconoscere sapori sia forti sia tenui, a identificarli nella complessa realtà di piatti sapientemente preparati, un gusto capace di apprezzare le differenze e le sfumature di una cucina non uniforme e non standardizzata, nel quadro di una visione estetica della cucina.
La dimensione estetica lega direttamente l'anima individuale con l'anima della cucina e permette di superare polarizzazioni, utili solo a scopo interpretativo. Invece di scindere le valutazioni e i giudizi in estremi polari (dolce-amaro, morbido-croccante, leggero-pesante e poi buono-cattivo, sano-malato, vero-falso, tradizionale-innovativo) è bene esprimere un giudizio di tipo umanistico, ricco e articolato, che comprenda tutto quanto ruota attorno al cibo e giunga a costituire la cultura della tavola: belle arti, linguaggio e storia, lavoro manuale artigianale e artistico, critica e antropologia culturale, buone maniere e usanze; una cucina sviluppata e vissuta in mezzo alle cose naturali del mondo. La cultura del cibo deve rispondere alle domande su che cosa e dove e chi sono i cibi, e in quale modo sono quelli che sono, ma anche agli interrogativi su perché, come mai e a che scopo i cibi sono usati.
L'affermazione "noi siamo quel che mangiamo" spesso è stata letta come se il cibo potesse modificare l'identità del singolo. Molto più vera è l'altra lettura: la nostra identificazione avviene attraverso il cibo che consumiamo e soprattutto che ostentiamo, in modo analogo all'abbigliamento e agli accessori. Questa ostentazione diviene sempre più importante nella cultura postmoderna, dove esplodono gli oggetti cult anche in alimentazione; non si può spiegare diversamente il successo degli alimenti cosiddetti di nicchia. Il gusto degli alimenti si confronta quindi con il messaggio di individuazione che essi svolgono, soprattutto in una società nella quale vengono a mancare precisi e stabili punti di riferimento. Si tratta di un'identificazione personale e individuale, familiare, territoriale, sociale, etnica. L'identificazione personale passa attraverso il sincretismo. Come si va sviluppando uno stile personale nell'abbigliamento, nei profumi e in tanti altri aspetti edonistici della vita postmoderna, anche nel gusto alimentare si ravvisano forti individualità, per le quali giova riproporre l'antico adagio de gustibus non est disputandum. Molto arduo è quindi discutere dell'evoluzione del gusto in una società multiculturale e in un sistema sempre più globalizzato che tende al sincretismo alimentare, nel quale l'unica certezza sta nell'incertezza! Infatti, riconfermando il detto latino sopra citato, bisogna ricordare che "il nostro amor proprio sopporta con più insofferenza la condanna dei nostri gusti che quella delle nostre opinioni", come ha dichiarato La Rochefoucauld.
Il gusto è anche coscienza; per porre solidi argini agli incombenti disastri gastronomici che possono derivare dall'omologazione dei sapori, dall'industrializzazione avanzata del sistema agroalimentare e dalla frammentazione del gusto si deve puntare al mantenimento o alla riproposizione e ristrutturazione di una buona cucina di tradizione. Senza una coscienza del gusto, senza parametri storici di riferimento, senza attitudine a intendere, giudicare e confrontare, senza consuetudine alla fruizione è difficile discernere la corrispondenza di una proposta gastronomica al suo modello. Altrimenti, un tortellino è un tortellino, e non si capisce in che cosa quello 'infedele' alla tradizione, o falsificato aggiungiamo noi, sia diverso o inferiore all'altro, e magari più costoso. Coscienza gastronomica significa sapienza, educazione, capacità di giudizio: qualità che solo l'esperienza diretta può configurare. Un'esperienza formativa che si acquista e si affina gustando e comparando: la cucina non si apprende solo da chi cucina, ma va vissuta in tutta la sua complessità sensoriale e intellettuale. Mai come in questi tempi è importante recuperare la saggezza dell'aforisma di Anthelme Brillat-Savarin secondo il quale "gli animali si cibano, l'uomo mangia, ma solo l'uomo spirituale sa mangiare".
Riportare gli italiani a tavola
Il dubbio che si va diffondendo tra i gastronomi e i cultori della cucina è se sia necessario sacrificare il buon gusto a favore dell'edificazione del villaggio globale e se la massificazione degli uomini, secondo la legge dei grandi numeri, non debba segnare anche la vittoria del minimo comune multiplo in tutte le arti, dalla pittura alla musica, dalla letteratura fino alla cucina. In quest'ultima, quale posto hanno i 'maestri' di fronte all'invasione di stuoli interminabili di cuochi, sfornati da una miriade di scuole di cucina e gastronomia di diverso livello? In ogni arte, quindi anche in quella gastronomica, la tecnica è indispensabile, ma non è sufficiente da sola a produrre un capolavoro. Con la sola tecnica si cucina ma non si fa gastronomia, un fenomeno artistico nel quale il maestro di cucina interpreta in modo personale le materie prime e le ricette classiche, in tutti i loro aspetti: dalla scelta della qualità, al tipo di trattamento con tecniche culinarie appropriate, fino alla costruzione di un menu adeguato al tempo, al luogo, ai destinatari del suo lavoro e via dicendo. Il maestro di cucina si pone di fronte a una ricetta classica o a un modello culinario generale come un musicista di fronte a uno spartito, che deve interpretare e innovare: come in musica, al solista sono concesse, anzi richieste, cadenze o varianti personali. Il gastronomo, in quanto critico dell'arte gastronomica, deve conoscere le tecniche in tutti i loro aspetti, a iniziare da pregi e limiti, ma innanzitutto deve essere in grado di comprendere e giudicare l'interpretazione data dal maestro di cucina. La questione della critica gastronomica è molto complessa ed esige una metodologia che tenga conto dell'evoluzione in atto, in rapporto al mutare degli stili di vita.
In un mondo postmoderno è impossibile dare risposte univoche, per es. all'interrogativo se il fast food, come elemento gastronomico e aspetto di vita sociale, solleciti la conoscenza di una cucina più completa oppure appiattisca per sempre la voglia di migliorare. Diversi sono i motivi alla base del fenomeno fast food, che oggi ha un'indubbia presenza e deve il suo successo non soltanto alla rapidità del servizio ma anche al basso costo, con un discreto rapporto tra prezzo e qualità, e all'identificazione con uno stile di vita che da americano è divenuto mondiale o, se si vuole, globale, e che ben si inquadra con altri marcatori culturali (jeans, musica pop ecc.). Bisogna tenere conto inoltre che il moderno fast food sta differenziando l'offerta e tende a offrire, o sembra promettere, preparazioni particolari: vegetariane, biologiche, etniche e localistiche, secondo il messaggio recentemente lanciato "pensa globale e mangia locale". Un messaggio che, quando è stato attuato, ha dimostrato un altissimo grado di falsificazione delle tipicità locali. Da una parte si può pensare che la rigidità dell'offerta, che comunque esiste, e lo stile di presentazione (senza piatti e posate ecc.) riportino per reazione alla richiesta di una ristorazione tradizionale; dall'altra parte si può ritenere che, analogamente a quanto avviene in altri settori, il fast food in tutte le sue variazioni sia destinato a divenire un elemento stabile, sia pure parziale, di una ristorazione collettiva che va sempre più frazionandosi. Il dilemma se il fast food spinga verso una cucina più completa oppure se costituisca la spinta a un appiattimento del gusto induce a dover accettare entrambe le possibilità, pur dando maggior peso e importanza alla prima. Non bisogna tuttavia dimenticare che, nell'attuale varietà di consumatori, sono sempre più frequenti quelli casual che, così come nel loro guardaroba non disdegnano di avere cravatte firmate e magari lo smoking ma anche jeans e scarpe da footing, in modo analogo, conoscono e praticano in alcune occasioni la buona cucina e la gastronomia di alto livello ma non disdegnano, per ragioni di rapidità e convenienza, di mescolarsi a giovani e meno giovani in un fast food.
Un altro dubbio è quello che riguarda le nuove generazioni: sono pronte a comprendere la corrispondenza che esiste tra identità gastronomica e identità culturale, come elemento distintivo e nello stesso tempo aggregante del villaggio globale in cui vivono? L'alimentazione, come il modo di vestire, è un potentissimo elemento di identificazione culturale e sociale; tuttavia non bisogna dimenticare che l'identità culturale va rapidamente cambiando e si collega e si interseca con la sempre più dilagante frammentazione culturale del postmoderno e con la tendenza ad avere più identificazioni, in uno stile di vita casual. Si è parlato e si parla di cucina fusion; ben più diffuso è uno stile alimentare sincretista, che prevede una prima colazione all'italiana (cappuccino e cornetto), a mezzogiorno il fast food in tutte le sue varianti (paninoteca, tavola calda ecc.) e alla sera una cena con ricerca della tradizione (sia locale, sia esotica o etnica). Il postmoderno sembra dunque orientarsi verso un'alimentazione di tipo sincretista, nella quale la cucina diversificata diviene un elemento di identificazione di una nuova cultura dominata più dalla diversità che dall'uniformità.
La storia infine insegna - e l'Accademia Italiana della Cucina ne è una testimonianza - che a volte, in risposta a un 'grido di dolore' nascono progetti importanti, destinati ad avere sviluppi concreti e duraturi. Ricordando il grido di dolore lanciato nel 1953 da Orio Vergani, "la cucina italiana muore", nel panorama della cultura gastronomica italiana bisognerebbe oggi lanciare un altro grido d'allarme: "la tavola italiana muore". Sempre meno italiani si siedono a tavola, con tutte le nefaste conseguenze, sociali, alimentari e, non ultime, gastronomiche. Riportare gli italiani a tavola è il principale obiettivo per salvare il gusto della buona cucina e implica un recupero non solo di tradizioni ma anche di quella che è stata definita l'anima del pasto, che comprende sia il godimento individuale, sia la ricerca di un modo di stare insieme ricco di senso.
repertorio
La 'buona cucina' attraverso il tempo
I tempi antichi
Lo studio dei cibi usati dagli antichi fornisce risultati che sorprendono: per es. il pane lievitato, come si mangia oggi, per molto tempo ha avuto una diffusione limitata e invece l'uso del formaggio grattugiato era già noto in epoca omerica; inoltre il gusto era tanto diverso dal nostro che i più ghiotti manicaretti di allora risulterebbero attualmente immangiabili. La conoscenza delle risorse che la natura, specialmente il mondo vegetale, può offrire all'alimentazione era relativamente ristretta. Tutti sanno che nell'antichità non c'erano le patate; è dubbio se si conoscessero i tartufi; lo zucchero era noto solo come medicinale e come dolcificante si usava il miele; non si consumavano né tè, né caffè, né cioccolata; non si sapevano distillare i liquori. L'unico eccitante di cui si facesse uso era il vino, di cui nell'età ellenistica vi era grande smercio in locali pubblici detti thermopolia. Ogni età ha avuto i suoi sistemi di alimentazione. In Egitto, regione ricca di grano e con acque pescosissime, ci si nutriva in massima parte di pane e di pesce (fresco, secco o in salamoia). La conservazione del pesce sotto sale alimentava un'industria fiorente in varie parti del paese e anche le famiglie ne preparavano per usi domestici. L'uso della carne era invece limitato, nonostante nei grandi centri ve ne fosse un certo commercio, particolarmente nell'età romana e bizantina, per il rifornimento degli eserciti. Oltre agli animali che sono ancora oggi di consumo usuale, si macellavano asini, cammelli e gazzelle. Abbastanza largo era anche l'utilizzo di pollame, nonostante il prezzo relativamente alto.
I greci dell'età classica si nutrivano soprattutto di cereali. Le qualità del pane venivano distinte secondo il tipo di farina con cui era preparato - la più usata era quella di frumento o d'orzo, ma si faceva anche il pane di miglio, di panico, di riso - e secondo il modo di fabbricazione. Il pane di grano era il tipo più fine, ma soprattutto si adoperava una pasta di farina d'orzo, lavorata molto semplicemente e fatta asciugare in forno. Prima di mangiarla veniva inumidita in modo da ricavarne una specie di pappa. Il pane veniva cotto arrostendolo al fuoco, infilato in uno spiedo, oppure in forno e in questo secondo caso all'impasto erano talora uniti miele, formaggio e altri ingredienti in modo da ottenere delle specie di focacce molto saporite. Il pane di tipo più rozzo, i vegetali più comuni, come insalata, ceci, lupini e cavoli, e piccoli pesci conservati sotto sale erano il cibo comune del popolo, mentre le classi più abbienti si cibavano anche di carni ovine, bovine e suine, di pollame (ignoto al mondo omerico), di selvaggina e pesci. La carne più pregiata era quella di maiale, ma ad Atene è attestato anche uno spaccio di carne d'asino.
I romani adottarono l'uso del pane di frumento soltanto al principio del 2° sec. a.C.; prima si cibavano soprattutto di farro che, ridotto in farina, serviva a formare la puls, considerata il cibo nazionale. Tra i legumi i più comuni erano le fave, le lenticchie e i ceci; tra gli ortaggi la lattuga, il cavolo e il porro, quest'ultimo usatissimo per gli antipasti, nei quali si faceva anche un grosso consumo di erbe, come la malva e la bietola, che si credeva disponessero lo stomaco alla buona digestione. I romani, come già gli etruschi, mangiavano molta più carne dei greci. Oltre a quella degli animali di cui ci si ciba ancora adesso, si usava carne di cervo, di asino selvatico, di ghiro e di uccelli, come il fenicottero, il pappagallo, la tortora e il pavone. Grande diffusione aveva il pesce, dai pesciolini (gerres, maenae) sotto sale, alimento del popolo, alle qualità più raffinate.
Sull'arte culinaria degli antichi abbiamo una quantità di notizie, conservateci in massima parte per i greci da Ateneo, per i romani da Marziale e Petronio e da un ricettario attribuito a Marco Gavio Apicio. I primi accenni si trovano nella Batracomiomachia, attribuita a Omero ma specchio di una civiltà più tarda. Vi sono citate specialità di complicata fabbricazione (schiacciate condite con salsa di sesamo e formaggio, fegatelli avvolti nella rete, dolci con il miele) e si fa riferimento all'uso di "ingredienti di ogni specie". Nell'età attica (5° e 4° secolo) la culinaria era già arrivata a un alto grado di perfezione, ma non sembra che Atene contribuisse molto ai suoi progressi: invece erano rinomate le capacità dei cuochi della Sicilia e anche in età romana le Siculae dapes sarebbero rimaste proverbiali. Non vi era - o era raro - l'uso di tenere fra gli schiavi un cuoco incaricato solo di preparare il cibo. I cuochi di regola erano uomini liberi, che prestavano i loro servizi a pagamento: stavano nell'agorà e attendevano di essere ingaggiati da chi ne aveva bisogno. L'arte culinaria ebbe uno sviluppo anche maggiore nell'età alessandrina, ma raggiunse il massimo della sua raffinatezza fra i romani dell'età imperiale. Nel periodo anteriore alla Seconda guerra punica, quando i costumi erano improntati a una grande austerità, le familiae non disponevano di cuochi e della cucina si occupavano gli stessi servi incaricati della fabbricazione del pane. Durante l'Impero, invece, in tutte le famiglie signorili vi era un certo numero di addetti alla cucina: gli uomini di fatica che attendevano al forno e alla pulitura delle stoviglie e degli utensili, gli incaricati delle spese, i cuochi che, se abili, erano comprati a prezzi altissimi, e i pasticcieri; tutti lavoravano sotto l'alta direzione del capo-cuoco. Per rifornire la loro cucina i Romani non badavano a spese: nelle villae si curava l'allevamento razionale dei pesci e della selvaggina (si ingrassavano le lepri, i ghiri e persino le ostriche) e da tutte le parti del mondo venivano importate a Roma merci prelibate. I romani, come già i greci, consideravano espressione della culinaria più raffinata riunire in una stessa pietanza i sapori più disparati e amavano perciò mescolare odori acuti (menta, ruta), spezie di ogni genere (pepe, senape, silfio), sostanze acide e sostanze dolciastre, come il miele, il mosto cotto, i datteri e la frutta schiacciata. A ogni tipo di pietanza era spesso aggiunta una salsa chiamata garum. Si preparava facendo fermentare al sole il liquamen, una poltiglia ottenuta mescolando pezzi e interiora di pesce; quando si era molto ridotto di volume, il liquamen veniva filtrato attraverso un cestino e il liquido che se ne ricavava era il garum, poi conservato in anfore nelle cantine.
Dal Medioevo al Rinascimento
Nell'Alto Medioevo alle raffinatezze e alle elaborate preparazioni dell'età romana si preferivano cibi più grossolani, assunti in gran quantità. La tendenza a mangiare molto anziché bene durò fino a dopo il 1000. In controtendenza appaiono i conventi dove, dopo una prima fase quasi di ascetismo, l'arte culinaria riprese gradatamente a fiorire secondo un indirizzo più sano, che prediligeva alimenti più appetitosi e digeribili e utilizzava in maggiore quantità verdura e frutta. Non si può dire, peraltro, che nell'Alto Medioevo nulla s'innovasse in materia gastronomica. Sotto i merovingi, per es., s'introdussero nuove salse, si serviva il formaggio aromatizzato con il finocchio, si preparavano conserve di rose e di violette. Sotto i carolingi comparvero i primi pasticci all'uovo o di pesce e le torte di carne.
Dopo il 1000 si ebbe un breve periodo di regresso, dovuto alla scarsità di risorse economiche, ma poi i piaceri della mensa ripresero i loro diritti. Caratteristico della cucina europea nei secoli dall'11° al 14° fu l'uso smodato delle spezie, che erano importate dall'Oriente: ginepro, cannella, cardamomo, zafferano, garofano, pepe e noce moscata venivano profusi largamente nelle carni e nel vino. Verso la fine del 14° secolo i mercanti di aceto, mostarda e droghe, data l'importanza di queste merci, si riunirono in corporazioni di mestiere.
Della cucina italiana del Trecento e del Quattrocento si ha notizia attraverso alcuni ricettari, come il Libro di cocina, e i dettagliati resoconti di banchetti celebri. Il pranzo di nozze di Galeazzo II, che si tenne nel giugno 1368 a Milano nel Palazzo dell'Arengario e al quale prese parte anche Francesco Petrarca, si componeva di diciotto 'imbandigioni'. L'elenco colpisce soprattutto dal punto di vista della quantità. Vi figurano infatti una serie di arrosti ('porcellette', lepri, lucci, vitello, quaglie, pernici, anitre, aironi ecc.), tutti quanti 'dorati' e con il fuoco in bocca; carne di bue e capponi con agliata (salsa fatta di agli o porri pestati con aromi, dolciumi e mandorle); e ancora carne e pesce in geladia, e lepri, caprioli, capponi, conigli e pavoni, conditi con savori (salse) rossi e verdi, il tutto con grande abbondanza di erbe profumate e spezie, e per concludere gioncade, formaggio e frutta. Nella seconda metà del Quattrocento si iniziano a notare mutamenti radicali del gusto: soprattutto si imparò a ordinare con maggiore intelligenza la serie delle portate, in modo da evitare o ridurre la monotonia dei pranzi, che per i parametri attuali rimasero però sempre assolutamente sovrabbondanti. Nel banchetto nuziale di Costanzo Sforza, signore di Pesaro, con Camilla d'Aragona, furono servite due serie di sei portate ciascuna: la prima portata della prima serie consisteva di canditi, confezioni, paste e pinocchiate; la seconda di uova, latte e un daino arrosto; la terza di un vitello e fagiani; la quarta di pavoni; la quinta di formaggio; la sesta di giuncate e confezioni. Nella seconda serie vennero serviti vini diversi, pesce, cinghiale con pasticci di uccelli, vitello arrosto, frutta, confezioni, vini e liquore hypocras. La gastronomia del Quattrocento preluse a quella che divenne, per merito di cuochi italiani prima e francesi poi, l'arte culinaria del secolo seguente. Si nota un grande uso di dolciumi, che diverrà ben presto un abuso. Nell'elenco delle vivande imbandite nel pranzo offerto dal cardinale Riario il lunedì di Pentecoste del 1473 troviamo una miglior disposizione dei cibi (quattro 'imbandigioni', passando da cibi leggeri a piatti più sostanziosi, per finire con i soliti dolciumi e confezioni); quanto a novità culinarie si rilevano piatti assai interessanti: "mangiar bianco con grani di melaranza dolci e capponi in savor verde con vino còrso; salcizze; galantina in conche d'argento, torte dorate di carne, limoni siroppati argentati in tazze; cerese in tazze con vino di Tiro". Le vivande più apprezzate alla corte di Ferrara nel Quattrocento erano capponi, pernici, trote, fagiani, quaglie, beccafichi, piccioni, lepri, salmoni, carpioni, ostriche, meloni, insalata, pesche, tartufi. Vi erano poi le zeladie, di carne o di pesce, le limonie, le varie confectioni e spezie e droghe varie come muschio, pevere, zeferano, nuxe muschia, dragante, zinepro. E ancora zaldoni, mostalda e savor biancho, vari zochi e adornamenti da mensa. I cuochi e i 'mastri di confezioni' avevano vari compiti: gli uni indoravano e argentavano, gli altri erano specialisti nel preparare le carni.
Nel quarto libro del Pantagruel, François Rabelais descrive una serie di piatti specialmente apprezzati nel Cinquecento. Ricordiamo il pavone, il tacchino (introdotto dalla Turchia), la cacciagione, le ostriche, il riso, gli asparagi, il midollo di bue, moltissime specie di conserve, il porcospino, le ranocchie. L'età d'oro della gastronomia francese comincia appunto con il Cinquecento. La prima edizione ufficiale di Le Viandier di Taillevent, che fu cuoco di Carlo V, è del 1490; Taillevent creò parecchie minestre e salse ed escogitò vari modi nuovi di preparare la cacciagione. Agnès Sorel, favorita del re Carlo VII, introdusse il salmì di beccacce. Nuovi alimenti e condimenti comparvero sotto Enrico II (per es. gli spinaci) e sotto Carlo IX (per es. il mais); molti ortaggi e frutti venivano importati in questo secolo dall'Oriente e dalle Indie Occidentali; la carne e il lardo di balena erano di uso comune, al punto da rappresentare la grosse pièce nel pranzo che l'arcivescovo di Parigi offrì nel 1571 a Elisabetta d'Austria. Il pavone e il cigno erano sempre assai considerati. La cucina francese cominciò in quest'epoca a imporre la sua supremazia, dapprima sotto l'influenza di quella italiana, portata in Francia da Caterina de' Medici e qui sviluppata e trasformata. Anche in Italia, così presso le corti estensi e medicee come nelle residenze papali e cardinalizie, l'arte culinaria, pur se meno raffinata di quella d'oltralpe, non era tenuta in minor pregio. È noto che l'arte dello stare a tavola si perfezionò con grande ritardo rispetto a quella della cucina. Nella sua Contenance de la table (1480) Jean Sulpice avverte che la carne si deve prendere con tre sole dita; un secolo dopo Montaigne manifesta la sua meraviglia per avere assistito a un pranzo dove tutti i convitati avevano il cucchiaio. Nel suo Galateo, monsignor Giovanni Della Casa raccomanda di non ungersi troppo le mani mangiando. La forchetta divenne d'uso comune, per i ricchi, solo nel Cinquecento e si diffuse tra la borghesia nel 18° secolo. Sino a quasi tutto il 16° secolo non si usò che un solo piatto per ogni convitato; gli avanzi si buttavano sotto la tavola. Ogni tanto si lavavano le mani con acque odorifere, per detergerle dall'unto.
I secoli 17° e 18°
In Francia, che dal Seicento in poi divenne patria indiscussa della gastronomia, i sovrani recarono contributi personali all'arte del ben cucinare. Già Luigi XIII se ne dilettava e si era specializzato nel cuocere in vari modi le uova, ma un enorme sviluppo alla gastronomia fu dato soprattutto da Luigi XIV, il cui appetito formidabile è testimoniato da numerosi autori: il suo pasto tipo si componeva di tre piatti di zuppa, un fagiano, una tortora, due costolette d'agnello, un piatto di prosciutto, dolci e frutta, e ancora più abbondanti erano i suoi pranzi di corte che arrivarono a comprendere da venti a trenta portate diverse. Si diffusero in questo periodo molti piatti nuovi, tra cui la salsa spagnola e i piselli, e i prodotti provenienti dall'Oriente e dall'America, fra cui caffè, cioccolato, tè. Luigi XIV diede anche notevole impulso al consumo della verdura e della frutta.
Con il reggente duca d'Orléans i progressi furono ancora maggiori e vennero a poco a poco eliminate le mescolanze eterogenee della culinaria precedente; per es., diminuì e poi scomparve l'uso di introdurre, in una quantità di piatti, profumi come il muschio, l'ambra o il giaggiolo. Il reggente era egli stesso un buon cuoco, ma aveva soprattutto un gusto più raffinato di quello del Re Sole: sotto di lui progredì particolarmente la ricerca dei condimenti delicati e saporiti e l'uso dei petit soupers. Luigi XV, personalmente espertissimo nella preparazione dei pasticci e del caffè, non fu da meno: inventò un tipo di pane che portava il suo nome e sotto il suo regno comparvero moltissime nuove e prelibate pietanze, tra cui i pasticci tartufati di cacciagione; varie specie di frittate; i filetti di pollo e le costolette d'agnello à la Bellevue, 'ispirati' da Madame de Pompadour; le quaglie alla Mirepoix; il consommé, i bocconcini e i polli à la Reine, creazione di Maria Leszâzynska; la salsa nota sotto il nome di béchamel, dovuta al finanziere (poi marchese) omonimo; la salsa maionese (da Mahon, città assediata da Richelieu, cui si vuole risalga l'invenzione); le crêpes del cardinale di Bernis. Si giunse in quest'epoca a non poche esagerazioni gastronomiche, come quella di non voler più masticare, invalsa presso parecchi nobili, e far quindi ridurre tutto il cibo a gelatine, conserve, purées e sughi, o quella di dare ai cibi un aspetto diverso da ciò che essi erano in realtà. In contrasto con tali esagerazioni, in questo secolo nacque l'uso dei pranzi offerti da gentildonne o da uomini di pensiero allo scopo di riunire, intorno a una mensa anche frugale, varie persone tra le più note nel campo della letteratura, dell'arte o della scienza. Nel 1763, a opera di un certo Boulanger, venne aperto a Parigi il primo ristorante; la cucina delicata non fu più, d'allora in poi, esclusiva dei nobili e dei ricchi. Luigi XVI ereditò i gusti dell'avo: molto appetito, scarsa scelta dei cibi. Sotto il suo regno, per la costanza di Antoine-Augustin Parmentier, fu introdotta nell'alimentazione la patata, portata in Europa da John Hawkins fin dal 1565. Dei molti gastronomi famosi nel periodo che va dalla metà del Settecento ai primi decenni del 19° secolo, menzioneremo soltanto Anthelme Brillat-Savarin (1755-1826), Grimod de la Reynière (1758-1838) e il famoso cuoco Marie-Antoine Carême (1784-1833). Nel periodo della Rivoluzione francese l'arte gastronomica non venne tenuta in grande conto; vari emigrati, peraltro, diffusero in Europa i principali piatti francesi e ne crearono di nuovi. Le 'creazioni' di quest'epoca sono, principalmente, la bistecca à la Chateaubriand, le torte al rognone, i budini tartufati o con i pistacchi e l'aragosta.
L'Ottocento
Nella prima metà dell'Ottocento prevalsero ancora i modelli gastronomici settecenteschi. Soprattutto nell'alta società dominava la cucina francese, dove non aveva rivali Carême, al servizio di Talleyrand, dello zar Alessandro I, dell'Imperatore d'Austria e apprezzato anche da Gioacchino Rossini. Nel 1803 Balthasar Grimod de la Reynière fondò l'Almanach des gourmands, dove segnalava i migliori ristoranti parigini. Dopo la metà del secolo la cucina si uniformò alquanto, acquistando sempre più un carattere internazionale; la ristorazione ricevette un considerevole impulso e sulla Costa Azzurra, César Ritz avviò la riforma degli alberghi. I ristoranti stabilirono le nuove regole del gusto e nacque la cucina internazionale, dove si alternavano il servizio alla russa (con porzioni servite singolarmente) e quello alla francese (con pietanze presentate su piatti da portata). Maestro indiscusso della cucina sofisticata e raffinata era Auguste Escoffier, mentre in Italia Pellegrino Artusi conferiva unità e sistemazione definitiva alle tradizioni nazionale e regionali. Sempre nell'Ottocento si codificarono il modello della cantina e le classificazioni dei vini.
In questo secolo i pranzi, specialmente nei grandi festini, assunsero un'importanza straordinaria. Erano divisi in tre sezioni: nella prima prendevano posto le minestre e le entrate, nella seconda le grosses pièces e gli arrosti, mentre la terza parte era riservata al dessert. Fra la prima e la seconda parte era servito un punch gelato, necessario refrigerante all'eccesso di calore interno. Era usanza servire le portate importanti cucinate in varie maniere, nell'intento di soddisfare i vari gusti dei commensali, che potevano scegliere, per es., fra una purée e una zuppa chiara, fra un arrosto di caccia o uno di carne. Tutti i piatti con le portate erano disposti sul tavolo, talvolta a bagnomaria per tenerli caldi. Le minestre erano servite già scodellate. I servitori cambiavano i piatti, servivano una portata e poi si ritiravano. In Inghilterra la zuppa era scodellata su un tavolo a parte e poi servita; le carni erano tagliate dal padrone di casa a tavola e distribuite. Lo stesso si faceva in Germania. In Italia si preferiva far scalcare la carne al mastro di casa o al primo cameriere. Era etichetta rigorosa che i grandi pranzi non dovessero durare più di un'ora.
Il Novecento
Nei primi decenni del Novecento, Escoffier in ambito internazionale e Artusi in Italia restarono ancora un costante punto di riferimento. Una svolta sostanziale nelle abitudini alimentari e anche nel gusto cominciò a riscontrarsi dopo la Seconda guerra mondiale, in conseguenza sia dei cambiamenti nei ritmi di vita sia per il diffondersi anche in questo campo del modello americano: divengono indispensabili pasti rapidi e leggeri, mentre si assiste a una progressiva omogeneizzazione del gusto. Nel 1954, negli Stati Uniti, nacque il primo fast food, quando un produttore di piccoli elettrodomestici, Ray Kroc, volendosi spiegare la ragione dell'alta richiesta di un modello di frullatore per milkshake, si recò a visitare un ristorante di San Bernardino, in California, di proprietà dei fratelli Maurice e Richard McDonald. Kroc rimase talmente entusiasta della semplice formula di gestione imprenditoriale dei McDonald, che si incentrava sulla possibilità di fornire pasti rapidi e a costo contenuto, da voler diventare loro agente. L'anno successivo inaugurò il primo ristorante McDonald's a Des Plaines, nell'Illinois, presto seguito da molti altri negli Stati Uniti. Negli anni Settanta, dopo l'apertura del primo McDonald's europeo ad Amsterdam nel 1971, la formula del fast food si diffuse rapidamente anche nel Vecchio Continente. Nello stesso periodo, l'industrializzazione investiva definitivamente l'universo degli alimenti, conservati in scatola, sotto vuoto o surgelati, e iniziava l'uso di cibi precotti e preconfezionati. A queste tendenze funzionali ma punitive del gusto, l'alta cucina ha reagito sia riproponendo le migliori tradizioni nazionali e regionali, sia con nuove proposte, fra le quali ha avuto gran successo per qualche tempo la nouvelle cuisine, raffinata ed elegante nella sua sobrietà, improntata al concetto base di saziare senza appesantire e di rendere il cibo gradevole anche alla vista. Negli anni Novanta è tornata agli onori della gastronomia la cosiddetta dieta mediterranea, nella quale prevalgono le paste a base di cereali, i legumi e l'olio d'oliva. La diffusione dei fast food ha subito una contrazione, nonostante il tentativo di adeguare i menu al gusto dei clienti o alle tradizioni locali, proponendo per es. hamburger di carne di agnello in India o di maiale in Thailandia.
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La storia della ristorazione
La nascita e lo sviluppo dei ristoranti, con i loro maestri di cucina, nel 19° secolo, rappresenta una fase di un lungo e complesso processo evolutivo, con storia ancora non completamente dipanata e scritta. Nelle tavolette mesopotamiche della civiltà sumerica decine di ricette gastronomiche molto elaborate testimoniano come nel palazzo e nei templi i potenti d'allora utilizzassero già dei cuochi. La gastronomia dei palazzi, laici o religiosi, è un fenomeno generale che si riscontra, per es., anche in Cina. In Europa trova la sua massima espressione nel Rinascimento, con i banchetti e i convivi dei grandi signori. Le figure professionali che attendevano allo svolgimento del convivio e del servizio a tavola ruotavano attorno a quella dello scalco principale. Nel Seicento, in Italia, le mense erano imbandite secondo un ordine ben organizzato, stabilito dal servizio all'italiana, modello per i servizi alla veneziana, alla spagnola, alla polacca, all'alemanna e alla francese, che differivano tra loro per le vivande presentate sulle mense. L'alta cucina e la gastronomia delle corti avevano lo scopo di stupire, meravigliare, ma principalmente di dimostrare la potenza del signore. Le preparazioni culinarie, particolarmente quelle dolciarie, erano opera di scalchi, grandi cuochi e pasticcieri che lavoravano solo nelle regge, nelle corti e nei palazzi nobiliari.
L'inizio della distruzione del vecchio sistema gastronomico coincise con la Rivoluzione francese. Gli scalchi, i grandi cuochi e i pasticcieri furono costretti ad abbandonare le residenze del Re e dei nobili. Fuori trovarono ben poco, ma ebbero il coraggio di rilevare locande, trattorie e bettole che trasformarono in ristoranti, rispondendo alle nuove domande di una società borghese che aveva buone possibilità finanziarie, viaggiava e voleva imitare i fasti dei precedenti signori. Se le regge e i palazzi erano stati un punto di riferimento gastronomico per una società ristretta, i ristoranti assunsero un ruolo di guida e di sviluppo della cucina borghese. Fu al ristorante che finanzieri, intellettuali e professionisti delle classi emergenti impararono a gustare e apprezzare i piaceri della tavola, che tuttavia si stava trasformando radicalmente. Nella nuova cucina borghese scomparve lo scopo principale della vecchia cucina del palazzo, che era quello di dimostrare il potere del signore, mentre si sviluppò il gusto del cibo. Inoltre cambiarono gli orari e il numero dei convitati, e il servizio all'italiana o quelli similari divennero inattuabili. In Francia il servizio alla francese nei ristoranti fu sostituito da quello che è stato definito come servizio alla russa, nel quale le portate sono presentate e servite via via da valletti, in studiata e voluta successione. Si narra che questo servizio sia stato introdotto dal principe Alessandro Borisovic, ambasciatore a Parigi dello zar Alessandro I tra il 1810 e il 1815. Le conseguenze di questo mutamento furono numerose e importanti. La prima fu quella di ridurre notevolmente il numero delle portate, ognuna delle quali acquisì una sua individualità, secondo l'impronta del cuoco che ne dava un'interpretazione personale. Iniziò da qui la storia delle ricette della grande cucina, poi divenute classiche. La seconda conseguenza fu di permettere al convitato di scegliere tra i singoli piatti, o all'anfitrione invitante di preparare con il cuoco un programma. Una terza conseguenza fu che il pranzo e la cena vennero assumendo un'articolazione paragonabile a quella di un'opera teatrale: fu quindi necessario che il convitato venisse informato di ciò che lo attendeva. Il compito fu affidato a un cartoncino, il menu, che per svolgere la sua funzione doveva essere stampato in molti esemplari a disposizione di tutti i commensali, in modo che fosse anche possibile portarlo via per ricordo, a volte con la firma di qualche commensale illustre o di riguardo. La quarta conseguenza fu l'abbinamento tra cibo e bevande, prima quasi inesistente, che diede impulso alla qualità dei vini. La quinta, e forse più importante, conseguenza fu che il numero di persone che potevano frequentare i ristoranti divenne enormemente più elevato rispetto a quello degli invitati a corte o nei palazzi. L'impatto della gastronomia del ristorante sulla cucina casalinga borghese fu molto forte e in pochi decenni si ottennero risultati maggiori di quelli che si erano ottenuti nei secoli precedenti. Accanto ai ristoranti frequentati dalla borghesia, durante tutto il 19° secolo e la prima metà del 20°, vi fu un nugolo di bettole, osterie e poi trattorie, spesso collegate a locande, nelle quali al più si offriva una cucina casalinga o familiare. Questo sistema, nella seconda metà del 20° secolo, ha subito profonde e importanti trasformazioni in quanto, nell'evoluzione di quella che si può considerare una ristorazione minore e popolare, si è mantenuta e spesso si è recuperata un'alimentazione con caratteri di regionalità e di territorialità, che i francesi chiamano cuisine identitaire.
Contemporaneamente, nella seconda metà del 20° secolo, mangiare fuori casa è divenuto una consuetudine, e spesso una necessità, per un sempre più ampio numero di persone (attualmente si stima che in media, in Italia, oltre il 20% dei pasti sia consumato fuori casa; ma nelle grandi città e per talune categorie di lavoratori o di studenti la percentuale sale al 50% e oltre). Il sempre più vasto ricorso all'alimentazione fuori di casa ha portato a due principali conseguenze, di particolare significato per l'evoluzione del gusto: da una parte vi è stata l'erosione della cucina casalinga, con i suoi stili e ritmi e le sue ricette; dall'altra parte il consumatore, specialmente giovane, ha acquisito nuovi gusti molto più diversificati.
Infatti, accanto al ristorante e alla trattoria, dove ancora si mangia secondo uno stile tradizionale, oggi vi è una grande varietà di 'luoghi del mangiare'. La caratteristica comune di queste diverse tipologie di ristorazione è rappresentato dalla scomparsa della tavola, o in ogni modo dalla sua riduzione, e dalla scarsa attenzione per quanto a essa è connesso. La tavola manca nel 'mangiare per strada', che si collega anche ai cosiddetti cibi da strada, o street food degli americani. Senza tavola è, inoltre, il 'mangiare in piedi' nei bar (termine che sembra derivi dalla barra che era posta davanti al bancone di servizio), nelle paninerie, paninoteche e in gran parte delle tavole calde.
Il 'mangiare rapido' si trova in una diversificata serie di luoghi: dalle pizzerie e recentemente anche spaghetterie o pasterie, ai fast food stranieri, oltre alle tavole calde. Il pasto 'prendi e fuggi' è caratteristico di una serie di locali che consegnano cibi già pronti: sia le pizzerie, sia i locali che un tempo erano denominati rosticcerie e che oggi, almeno in talune aree geografiche, tendono a qualificarsi come 'gastronomie'. Il successo del 'prendi e fuggi' è dovuto anche alla comodità della consegna a domicilio tramite i pony express. Non manca infine il 'mangiare facendo altro': dal cibo che all'inizio degli anni Cinquanta era servito nei cinema americani all'aperto (drive-in) e si consumava in automobile, seguendo il film, ai recenti snack proposti come 'cibo da televisione' (TV food).
Un'altra tendenza da registrare nella seconda metà del 20° secolo, conseguenza sia dell'aumento del turismo sia della presenza di popolazioni appartenenti a etnie con precise esigenze alimentari (per es., gli islamici), è la larga diffusione dei ristoranti cosiddetti etnici. I più noti sono certamente quelli cinesi (meglio definibili come asiatici, in tutte le loro grandi varietà), ma non sono da dimenticare quelli americani (messicani, brasiliani e sudamericani) e recentemente anche africani.