GATTI, Bernardino, detto Sojaro
Nacque forse a Pavia intorno al 1495 da Rolando, di professione bottaio, e da Maddalena de' Grandi. Plausibilmente dalla versione dialettale del mestiere paterno il G. derivò il soprannome di Sojaro.
Vasari indicò, tra varie ipotesi, una provenienza vercellese del G.; alcune fonti lo ricordano invece come cittadino di Cremona (Lamo) mentre altre ne rivendicano l'origine pavese (Voltini, 1976, p. 8). È certo che il G. si firmò "papiensis" alla data del 1543 negli affreschi piacentini in S. Maria di Campagna. Inoltre, un contratto, sottoscritto l'11 giugno 1519 ancora sotto la tutela del padre, attesta a Pavia la sua prima commissione nota: il polittico, perduto ma ben ricostruibile dal puntuale documento di allogazione, per la prestigiosa chiesa del Carmine (Tanzi, 1991). Quest'ultimo episodio ha permesso di riconsiderare il problema della formazione del G., tradizionalmente vincolata all'ambiente artistico di Cremona - dove fu presente con ogni probabilità fin dal 1520 - e alla figura del modesto pittore locale G.M. Zuppelli.
È invece ormai accettato che, forse con alle spalle alcune opere (Tanzi, 1991, p. 89), il G. arrivò a Cremona da Pavia, fornito di una propria cultura, assimilata in una delle botteghe della sua città, e vi esordì nel 1525 con l'affresco, ora nella Pinacoteca civica ma proveniente dalla chiesa soppressa di S. Giovanni Nuovo, raffigurante la Madonna, il Bambino e i ss. Rocco e Sebastiano.
Nei primi anni Venti del Cinquecento Cremona era un crocevia artistico di primaria importanza. Da un lato, si mostrava sensibile a verificare le esperienze maturate sia nella non lontana Mantova, che dal 1524 con Giulio Romano viveva una stagione di intenso, "sprezzato" classicismo, sia nella vicinissima Parma, dove l'attività del Correggio costituiva una novità assoluta, carica di implicazioni future. D'altro canto, luogo ufficiale di sperimentazione fu la cattedrale di Cremona dove, fra secondo e terzo decennio, si erano succedute le più aggiornate personalità artistiche, fino al Romanino e all'esuberante Pordenone. Qui si sarebbe formata la nuova generazione di artisti cremonesi.
Sulla controfacciata della cattedrale cremonese il G., come da contratto firmato il 22 ag. 1529, eseguì la Resurrezione. Quest'opera del G., così come la Pietà del Museo del Louvre del 1528, già documentata in S. Domenico a Cremona, rivela, a diretto, inevitabile, confronto con la Crocifissione del Pordenone, una decisa assimilazione dei modi del pittore friulano. Al contempo, però, tradisce un accentuato correggismo - comune ad altre opere del G. riferibili a questo periodo - che non venne mai meno e che ha fatto anche ipotizzare un alunnato del G. presso il maestro emiliano (Voltini, 1976).
A partire dal 1530 il G. fu a Pavia. Dalla Confraternita del Rosario, nella persona di Bernardino Lonati, nel 1531 ricevette un pagamento per la pala d'altare della cappella di S. Alessandro nel transetto destro del duomo. La correggesca Incoronazione della Vergine, con i ss. Domenico, Alessandro e devoti, è il soggetto dello spazio centrale, circondato da quattordici scene laterali raffiguranti altrettanti Misteri, nelle quali utilizzò schemi didascalici e arcaizzanti derivati dalla stessa tradizione lombarda, con qualche ascendenza nordica (Moro), e ferrarese (Voltini, 1976, p. 19).
Tra il 1534 e il 1535 "m° Bernardo, pittore dignissimo" risulta mensilmente retribuito dai fabbricieri del duomo di Vigevano (Bora, 1977). Due opere si legano a questa importante commissione, patrocinata dal duca di Milano Francesco II Sforza: l'Ultima Cena, oggi in una sala dell'episcopio, e il Cristo risorto tra la Verginee s. Giovanni Battista, che nel 1538 fu collocato nella cappella di S. Giovanni Battista, eretta per volere dello Sforza.
Al 1542 risalgono i primi contatti tra il G. e i fabbricieri di S. Sigismondo a Cremona che, in seguito al centenario del matrimonio celebrato nel 1441 tra Bianca Maria Visconti e Francesco I Sforza, avevano dato avvio a un'opera di ristrutturazione della chiesa: a decorare una cappella, probabilmente sulla scorta della precedente esperienza "sforzesca", fu chiamato il G., che però non portò a termine l'incarico (Miller).
Dal 1543 il G. è documentato a Piacenza, attivo a S. Maria di Campagna. Vi dipinse S. Giorgio e il drago a fresco, in seguito trasportato su tela, dove, nella dettagliata veduta di Piacenza sullo sfondo, "brano finissimo di tradizione pittorica lombarda" (Venturi, p. 814), è enunciato il carattere di tempio civico della chiesa piacentina (Adorni, 1995). Il G. rese qui palpabile l'abilità nel "contraffare" (Lanzi) i grandi maestri, dimostrando di poter padroneggiare le invenzioni di Raffaello e quelle della sua scuola.
Secondo Lanzi, il S. Giorgio era esemplato "sul disegno di Giulio Romano" (p. 83): in realtà l'affresco fu realizzato su un disegno, oggi conservato a Lipsia (Museum der bildenden Künste), riferibile allo stesso G. che ebbe però senz'altro sotto mano un disegno di Giulio. Il disegno di Lipsia fu impiegato anche per la versione successiva del S. Giorgio, eseguita per la chiesa dell'antico borgo mantovano di San Giorgio e oggi nella parrocchiale di Frassine (Massari).
Un altro disegno catalogato al Louvre sotto il nome di Giulio Romano è stato a ragione ricondotto al G., il quale lo realizzò in preparazione della Presentazione della Vergine al tempio per la stessa S. Maria di Campagna (Bora, 1988). Inoltre, si è potuto constatare l'utilizzo da parte del G. di disegni di Giulio Romano per l'esecuzione delle candelabre nella cupola piacentina (Biscontin).
Tutto questo presuppone una attenta conoscenza dell'opera e dei disegni del maestro romano e non è escluso, come si è talvolta sostenuto (Bora, 1988, p. 22), un soggiorno mantovano del G., collocabile negli otto anni precedenti l'attività piacentina, caratterizzati da un lungo silenzio documentario. A questo periodo potrebbe risalire la Sacra Famiglia, s. Anna e s. Giovannino del Museo civico di Cremona, di incerta datazione, nella quale, accanto all'immancabile piglio correggesco, sono evidenti influenze raffaellesche, mediate dall'opera di Giulio Romano (Voltini, 1985).
In seguito al successo riscosso con il S. Giorgio, i fabbricieri di S. Maria di Campagna gli affidarono il proseguimento della decorazione della cupola lasciata interrotta dal Pordenone. Oltre a eseguire gli apostoli nelle lesene tra le finestre, negli otto comparti del tamburo il G. realizzò, nel 1543, altrettante storie della Vita di Maria e i quattro Evangelisti nei pennacchi. Nell'intento di uniformarsi stilisticamente al già compiuto, e per seguire forse un progetto lasciato dal Pordenone (Cohen), compì un'opera che al Vasari parve "tutta… d'una stessa mano" (VI, p. 494). Nel 1546 si impegnò a dipingere nella stessa chiesa un ciclo della Passione (Ceschi Lavagetto) che non fu realizzato.
Il periodo piacentino del pittore - durante il quale eseguì, secondo stilemi "romanisti", la grande Crocifissione per la chiesa di S. Anna, oggi nella Pinacoteca di Parma - è documentato almeno fino al 21 ott. 1546. Questa data compare, infatti, nel contratto che il priore del monastero e i prefetti della fabbrica di S. Sigismondo a Cremona stipularono con il G., ancora residente a Piacenza, allogandogli il completamento della decorazione della cappella della Madonna, avviata da Camillo Boccaccino e lasciata incompiuta alla sua morte. Il G. vi avrebbe lavorato solo molto tempo dopo, senza però portare a compimento l'impresa, realizzata invece dal nipote Gervasio successivamente al 1587. Comunque, nel 1549 il G. firmava e datava nella medesima chiesa l'Ascensione di Cristo dipinta a fresco nella seconda campata della volta della navata, insieme con il fregio di putti nella trabeazione. All'interno di un ambiente saturo di sperimentazione artistica, il linguaggio del G. si misurò con quello di Giulio Campi e di Camillo Boccaccino, tra i primi audaci sperimentatori dell'estremo dinamismo del Pordenone.
Il 14 sett. 1549 il G. sottoscrisse una convenzione con l'abate del monastero dei canonici regolari lateranensi di S. Pietro al Po di Cremona, Colombino Ripari, per realizzare nel refettorio una Moltiplicazione dei pani e dei pesci. Eseguita a fresco, con larghi interventi a secco che già il Vasari considerava causa di un avanzato stato di degrado, l'opera fu completata nel 1552, come risulta dall'iscrizione apposta dallo stesso pittore.
Celebrata nella letteratura artistica cremonese (Voltini, 1976, pp. 31 s.) soprattutto per la grandiosità dell'impianto, per la ricercatezza delle pose dei personaggi "quasi innumerabili" (Panni, p. 113), oltre che per l'abilità ritrattistica lodata da Annibal Caro e che ha portato Venturi (p. 818) a definire il G. un "lombardo… con gusto quasi fiammingo", l'opera fu realizzata nello stesso periodo in cui le fonti collocano l'alunnato presso la sua bottega delle figlie di Amilcare Anguissola, Sofonisba e Elena, già cresciute all'ombra delle esperienze maturate presso Bernardino Campi. La capacità di ritrarre "dal naturale", dimostrata in seguito specialmente da Sofonisba, ha indotto alcuni studiosi a ipotizzare una partecipazione della pittrice all'impresa di S. Pietro al Po (Gregori, 1994, p. 18), tramite "schizzi di figure e soprattutto di disegni di volti ritratti dal vero", ravvisabile in quella "sorprendente caratterizzazione dei volti, del tutto nuovi ed estranei… al linguaggio figurativo del Gatti" (Bora, 1994, p. 85).
Il risultato dovette pienamente soddisfare le aspettative che l'illustre committente aveva espresso nel contratto di allogazione (Sacchi, 1872, p. 276). Infatti, il 14 febbr. 1555 lo stesso abate gli commissionava la pala della Natività per l'altar maggiore, oggi non più nella collocazione originaria, dove si fece ritrarre in adorazione del Bambino, accompagnato da s. Pietro in abiti pontificali.
A Cremona il G. risulta documentato in maniera continuata per più di un decennio, dal 1548 al 1559. Già dal 1556, però, venne chiamato a lavorare alla grande impresa di S. Maria della Steccata di Parma per portare a termine la decorazione del braccio ovest dell'edificio che, commissionata nell'ottobre del 1548 a Michelangelo Anselmi, era rimasta incompiuta alla sua morte.
Nel catino absidale il G. completò l'Adorazione dei magi, inserendo alle due estremità i folti e variegati gruppi di personaggi, ed eseguì i fregi di putti sotto l'imposta dell'arcone. Tutto avvenne entro il 29 dic. 1559, data ricordata nella Espositione redatta dai fabbricieri, nonché della lettera scritta da Cremona a uno di essi, Damiano Cocconi (Sacchi, 1872, p. 128), nella quale il pittore faceva riferimento tanto all'opera "che io ho facto in la Steccata" quanto alla nuova impresa, la decorazione della "Cuba", la cupola, per la quale avrebbe firmato il contratto di allogazione l'8 gennaio successivo. La decorazione della cupola, con l'Assunzione della Vergine, fu un'impresa di vaste proporzioni: vi lavorò, pur con qualche intervallo, fino al 1570, quando eseguì il fregio del cornicione e le figure nei grandi pennacchi saldate il 22 ott. 1572.
Le fonti tramandano la presenza di aiuti del G. sui ponteggi della Steccata, tra i quali il figlio Aurelio, il nipote Gervasio, B. Spranger e L. Gambara (Godi, p. 68). Qui il confronto con il Parmigianino e con quegli artisti capaci di aggiornare la sua lezione, era diretto: dal Bedoli all'Anselmi che, toscano di nascita e parmense di adozione, nell'abside principale della Steccata aveva realizzato l'Incoronazione della Vergine su idea e parziale disegno di Giulio Romano (Cirillo - Godi, 1978, pp. 32-34).
Mentre lavorava alla Steccata, al G. fu richiesto di partecipare ad altre imprese parmensi e, nonostante gli fosse stato fatto obbligo di risiedere a Parma, si recò più volte a Cremona. Tra l'altro, fu di nuovo attivo nel cantiere di S. Sigismondo tra il 1560 e il 1561, dove lavorò alla cappella della Madonna, eseguendovi la decorazione del soffitto e la pala con l'Annunciazione, della quale disegnò anche la cornice; inoltre, sottoscrisse un'intesa nell'aprile del 1568 per collaborare con Bernardino Campi alla decorazione del tiburio, ma l'accordo non ebbe seguito.
Il 18 giugno del 1572 il pittore sottoscrisse un contratto con l'abate di Chiaravalle, Cosimo Plantanida, per eseguire l'Incoronazione della Vergine con i ss. Bernardo e Benedetto, realizzata secondo lo schema dell'Ascensione di S. Sigismondo, ripreso nella successiva Assunta per l'altare maggiore del duomo di Cremona. Per questa, che fu la sua ultima opera, il G. firmò il contratto l'11 aprile 1573 "con tutto che per la vecchiaia fosse tremante e dipignesse con la sinistra mano" (Lamo, p. 36), e si impegnò a trasferirsi in città, portando con sé la famiglia (Sacchi, 1872, p. 195). Già malato e forse colpito da paralisi, il pittore proseguì il lavoro lentamente, fino a prendere la decisione di non portare a termine l'opera (Voltini, 1985, p. 148). Come stabilito nella convenzione del 1573, ai suoi eredi, il figlio Aurelio, la moglie Ippolita e le figlie Laura, Placida e Francesca, sarebbe stato corrisposto il compenso per il suo lavoro.
Il G. morì a Cremona il 22 febbr. 1576, dopo aver dettato le sue ultime volontà, e venne sepolto il giorno seguente nella chiesa di S. Domenico.
Degna di nota è la sua attività grafica, soprattutto per la particolare elaborazione dei disegni, spesso composti di numerosi frammenti di carta incollati insieme. Ciò evidenzia la sua ricerca di soluzioni figurative fondate sulle tipologie dei grandi maestri e l'abilità nel "contrafare ogni sorta di disegni, facendo però sempre scielta de i più eccellenti" come scrisse a metà del XVI secolo Bernardino Campi nel suo Parere sopra la pittura (Bora, 1994, pp. 114 s.).
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