DENISY, Gazo de
Discendeva da una nobile famiglia francese proveniente dalla località di Saint-Mesme nell'attuale dipartimento di Seine-et-Oise, ma nulla si sa né dei suoi genitori né degli inizi della sua carriera. Non è noto neanche quando il D. si sia trasferito nel Regno di Sicilia. Al tempo di Carlo I d'Angiò, comunque, nessun membro della sua famiglia si era ancora stabilito nell'Italia meridionale. Un Jean de Denisy è ricordato tra i consiglieri di Carlo di Valois, venuto nel Regno nel 1302, su invito di Bonifacio VIII, per muovere guerra contro la ribelle isola di Sicilia. Questo fatto potrebbe far pensare che anche il D., che nel 1346 è qualificato come "senex", in gioventù abbia partecipato a questa campagna, conclusasi il 31 ag. 1302con la pace di Caltabellotta.
È sicuro però che il D. riuscì ben presto a entrare nella cerchia dei potenti, grazie anche alla sua appartenenza a una nobile famiglia francese: era così avvantaggiato nei confronti di quei parvenus italiani che iniziarono la loro ascesa sociale sotto Carlo Il e Roberto d'Angiò giungendo a ricoprire le cariche più alte nell'amministrazione del Regno. Tuttavia, proprio il legame con una di queste famiglie "nuove" deve avergli aperto ulteriormente la strada. Prima del 1330, infatti, il D. sposò Marguerita di Niccolò Pipini, il cui avo Giovanni aveva sgominato nel 1300la colonia saracena di Lucera.
I Pipini erano allora la famiglia più potente della Puglia. Giovanni. un piccolo notaio di Barletta, grazie al suo lavoro a corte come maestro razionale e soprattutto in virtù della sua azione contro i musulmani, era riuscito a guadagnarsi la fiducia e la benevolenza di Carlo II e di Roberto d'Angiò. Nel 1309acquistò la contea di Minervino e l'anno seguente ottenne le contee di Lucera, Potenza, Troia e Vico e riuscì anche a far sposare suo figlio Niccolò, il futuro suocero del D., con l'erede della contea di Altamura. Da questo matrimonio nacquero tre figli e tre figlie. Giovanni, il maggiore, ereditò le contee di Altamura e di Minervino, Pietro divenne conte di Vico e signore di Troia, Ludovico conte di Potenza; la figlia Marguerita sposò il D.; le altre due figlie si unirono in matrimonio con uomini delle famiglie Della Marra e Aquino. La rapida ascesa dei Pipini dovette necessariamente suscitare l'invidia dell'antica nobiltà e Niccolò, e soprattutto i suoi figli, con la loro condotta violenta fecero in modo che questo sentimento di gelosia si trasformasse in vero e proprio odio. Il risultato finale fu la guerra civile.Mentre era ancora vivo Niccolò, il D. era diventato acerrimo nemico dei Pipini, che avevano occupato il suo castello di Loreto. Nel 1338 si giunse a scontri aperti in Capitanata tra i Pipini da una parte e i Della Marra e i Sanseverino dall'altra, ma la fortuna restò ben decisamente dalla parte dei Pipini. Alla fine dell'anno 1339 intervenne re Roberto. Citò i tre fratelli a Napoli che tuttavia rifiutarono di obbedire all'ordine del re e vennero quindi dichiarati nemici dei Regno, mentre al D., che nel frattempo era stato nominato maresciallo del Regno, fu dato l'incarico di condurli - vivi o morti - a Napoli. L'intervento del maresciallo ebbe però scarso successo. Ma quando, all'inizio del 1341, fallì un ulteriore tentativo di mediazione da parte della moglie di Roberto, Sancia, il re ordinò a Bertrando Dei Balzo di confiscare i loro beni e mandò il conte di Mileto, Ruggiero di Sanseverino e l'altro maresciallo, Raimondo Del Balzo, a rafforzare la posizione del Denisy. La nuova campagna condusse infine, nella primavera del 1341, 'alla cattura dei tre fratelli, che si arresero su consiglio della madre. Ma il re non usò verso di loro la clemenza in cui avevano sperato: vennero condannati al carcere a vita mentre i loro possedimenti furono divisi tra i nemici. Con molta probabilità, anche il D. fu tra coloro che ottennero profitti materiali dalla disgrazia dei tre fratelli. Gli avvenimenti relativi ai Pipini spiegano anche perché il D. dovette farsi rappresentare da un procuratore quando il 16 genn. 1341 acquistò un enorme possedimento immobiliare da un certo Ruggiero e quando il 2 febbraio successivo, insieme a sua moglie, fece una generosa donazione di immobili "pro anima" alla locale chiesa di S. Nicola.
La morte di Roberto d'Angiò, avvenuta il 20 genn. 1343, non comportò in un primo momento alcun cambiamento nella posizione del Denisy. Nel novembre del 1343 fu confermato nella sua carica di maresciallo da Giovanna I, succeduta al trono di Roberto. Inoltre, godette presto del favore del legato del papa, Aimeric de Châtelus, recatosi nel maggio del 1344 a Napoli per assumere, per ordine di Clemente VI, la reggenza in sostituzione del Consiglio di reggenza nominato per testamento da Roberto. Il compito principale del legato era di assecondare il passaggio del potere a Giovanna e, sempre tenendo presente il punto di vista di Clemente VI, imporsi a corte sulle diverse fazioni che si combattevano tra loro. Quando, il 28 agosto, Aimeric ricevette da Giovanna, nella chiesa napoletana di S. Chiara, l'"omaggio", era presente alla cerimonia anche il Denisy.
Il legato non si intromise subito nell'organizzazione del governo centrale, ma aspettò l'inizio del nuovo anno di indizione (10 sett. 1344) per affidare le cariche più importanti dell'amministrazione provinciale a persone di suo gradimento. Già poco prima però, il 28 agosto, giorno dell'omaggio, il D. era stato nominato capitano di Napoli. In tal modo furono sottoposte al maresciallo anche le forze di polizia della capitale, con le quali egli doveva assicurare la sicurezza delle strade della città.
La situazione di quel tempo, che aveva assunto l'aspetto di una guerra civile, è ben documentata, e anche Petrarca la descrive in una lettera scritta durante il suo soggiorno a Napoli. Ben più pericolosi delle bande giovanili armate che rendevano malsicuri i quartieri erano però gli scontri tra nobili, "popolo grosso" e "mediani". Aimeric, costernato per la situazione, impartì al D. l'ordine di procedere con tutta la severità necessaria contro i sobillatori e di distruggere le case dei capigruppo, ma non si trattava di un compito facile; molti dei capibanda godevano della protezione delle più potenti famiglie del Regno, oppure erano appoggiati dal partito ungarico. Il D. pretese perciò dal legato i pieni poteri straordinari. Ma anche dopo averli ottenuti, non sapeva decidersi a intervenire con durezza, perché sapeva di mettersi in una situazione molto pericolosa, anche per la sua stessa vita.
Subito dopo l'arrivo del legato nel Regno, era inoltre accaduto un fatto che doveva acutizzare ancora di più le divisioni in fazioni e riguardare da vicino anche il Denisy. Andrea, il consorte ungherese della regina che, come era stato infine deciso da papa Clemente VI, doveva prendere il titolo di re, ma senza potere accampare il diritto di governare, il 28 ag. 1344 aveva rilasciato i Pipini e il giorno dopo li aveva armati cavalieri. Con questo gesto dimostrativo rese suoi acerrimi nemici una buona parte dei nobili, innanzitutto quelle famiglie che da tempo immemorabile erano nemiche dei Pipini e avevano tratto dei vantaggi dalla loro disgrazia. Queste trovarono a corte i loro naturali alleati tra le forze che fin dall'inizio avevano ordito grandi intrighi contro Andrea e spingevano per una separazione tra lui e la moglie; tra di essi, in primo luogo, i Taranto e i Cabanni. Soprattutto i Cabanni esercitavano una grande influenza personale su Giovanna.
Che il D. in particolare modo si fosse avvicinato a questa famiglia lo testimonia il fatto che alla fine del 1344 suo figlio Ludovico si fidanzò con Caterina, figlia di Roberto, gran siniscalco del Regno. Ma quando, all'inizio dell'anno 1345, ciò giunse all'orecchio di Clemente VI, il papa si oppose e pretese lo scioglimento di questi legami, come risulta anche da una lettera indirizzata personalmente al Denisy. Non sappiamo però come il D. abbia reagito.
Alla fine del maggio 1345 il legato, richiamato, partì da Napoli e in conseguenza le lotte di fazioni ripresero con pieno vigore. Guillaume de Lamy (Amici), vescovo di Chartres, che era stato inviato a Napoli con la carica di nunzio, non riuscì a ricomporre i dissidi e fallì completamente nella sua missione di conciliazione; né poté ristabilire una buona intesa tra Giovanna e Andrea. Clemente VI, che spingeva per una rapida incoronazione di Giovanna e Andrea, se ne adirò molto e nel settembre indirizzò letterg a entrambi, per esprimere il suo malcontento. Contemporaneamente chiese a tutti i dignitari del Regno, e quindi anche al D., il loro appoggio attivo.
Il 10 sett. 1345 il D. fu destituito dalla carica di capitano della città di Napoli e nominato giustiziere della Terra di Bari, ma non pare che con questa nomina la regina abbia voluto allontanarlo dalla corte. Il D., infatti, non si recò subito nella provincia a lui assegnata, come la consuetudine avrebbe richiesto, ma rimase ancora nell'entourage dellasovrana. Gli avvenimenti seguenti ce ne forniscono i motivi. Quando nella notte tra il 18 e il 19 sett. 1345 Andrea d'Ungheria fu assassinato ad Aversa, pare con il tacito consenso della regina, all'assassinio prese parte attivamente anche il D., insieme a Bertrand Artus, amministratore del patrimonio privato del principe, che aveva organizzato e effettuato l'imboscata tesa ad Andrea.
Per nascondere la loro partecipazione all'assassinio del re e fare apparire l'accaduto come l'opera di persone che agivano di propria iniziativa, già il 20 settembre, il giorno dei funerali di Andrea, il D. e l'Artus procedettero contro un personaggio marginale del complotto; catturarono il ciambellano Tommaso Mambriccio e lo torturarono pubblicamente ad Aversa con tenaglie arroventate provocandone la morte. Prima, però, il D. gli aveva strappato la lingua perché non potesse incolpare pubblicamente i suoi giudici e compagni di complotto. Anche un altro personaggio secondario fu catturato e condannato. Ma solo Giovanna e il suo partito appoggiarono la versione secondo la quale il delitto poteva ritenersi, con queste condanne, vendicato. Dopo l'assassinio il D. si recò finalmente nella Terra di Bari per ritornare però di nuovo a corte già all'inizio dell'anno 1346, e fu coinvolto immediatamente nel vortice delle lotte per il potere che scuotevano allora Napoli e di cui la ricerca degli assassini di Andrea sembrava essere solo un pretesto.
Roberto di Taranto, quando fu chiaro che era perdente nella lotta contro suo fratello Luigi per ottenere la mano della regina - e con questa il potere - si era coalizzato con Carlo di Durazzo. Insieme assoldarono mercenari e richiesero a gran voce la consegna dei familiari della regina. Infine, il 6 marzo, diedero battaglia e catturarono il siniscalco Raimondo da Catania che sotto tortura fece i nomi degli assassini del re. Nella lista. che fu letta pubblicamente, si trovava anche il nome del Denisy. In seguito a ciò la folla, sobillata, assediò il Castelnuovo nel quale si erano trincerati Giovanna e il suo seguito, tra cui anche il Denisy. Tre giorni più tardi, dopo che gli ispiratori occulti della sollevazione avevano minacciato la ribellione aperta, si arrivò all'accordo di consegnare i colpevoli al popolo, dandoli però in custodia al gran giustiziere Bertrando Del Balzo che per la durata dell'inchiesta, fino all'inizio di un regolare processo, avrebbe dovuto tenerli in prigione a Castel dell'Ovo. I prigionieri, tra cui anche il D., furono imbarcati su una galera di Ugo Del Balzo che doveva percorrere le poche centinaia di metri fino alla rocca. Ma, prima di arrivarci, la galera fu fermata. Per tutta la notte gli imputati subirono torture volte a estorcere loro ulteriori confessioni e soltanto il giorno dopo furono incarcerati nella fortezza.
Qualche indizio farebbe ritenere che dietro tutti questi avvenimenti, che si svolsero tra il 6 e il 10 marzo, ci fosse anche Clemente VI. In un editto ben calcolato e preparato, promulgato il 24 marzo, il papa ingiungeva alle persone accusate dell'assassinio di Andrea di presentarsi davanti a lui entro tre mesi per discolparsi. L'inchiesta fece il suo corso, mentre si stava profilando il pericolo di una invasione degli Ungheresi che volevano vendicare la morte ignobile di Andrea.
Nonostante ciò Giovanna, il 19 marzo, si pronunciò per l'innocenza delle persone arrestate e proibì ogni inchiesta giudiziaria nei loro confronti. Ma quando, il 3 giugno, anche Clemente VI affidò ufficialmente al gran giustiziere la conduzione dell'inchiesta giudiziaria e del processo, ella dovette piegarsi.
Il 2 ag. 1346 furono eseguite le prime esecuzioni capitali. Il D. e Roberto de Cabanni furono posti sul carro del boia, e già lungo il cammino verso il luogo del supplizio torturati con tale spietatezza che solo il D. arrivò vivo al rogo. La vicenda ebbe un seguito ancora più efferato: la folla, eccitata, diede l'assalto al carro e i corpi dei due delinquenti furono letteralmente fatti a pezzi.
Intanto la moglie del D. si era rifugiata in un convento presso Monopoli dove rimase nascosta per molto tempo, insieme con il figlio Ludovico. Tutta la proprietà della famiglia fu confiscata, come era costume per i rei di alto tradimento e in parte devastata. La contea di Terlizzi passò prima a Niccolò Acciaiuoli, e in seguito a Roberto di Sanseverino.
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