GELASIO I, papa, santo
Figlio di un Valerio, stando a una non del tutto affidabile nota del Liber pontificalis della Chiesa romana, sarebbe stato "natione Afer". Egualmente equivoca è, d'altra parte, l'indicazione relativa alla propria origine, che lo stesso G. dà in un passo di una sua lettera all'imperatore Anastasio I, nel quale afferma: "sicut Romanus natus Romanum principem amo… et sicut Christianus…" (Thiel, XII, 1). L'espressione può infatti alludere tanto a una sua origine propriamente romana, quanto alla sua appartenenza allo "Stato" romano o alla sua cosciente adesione alle tradizioni e alla cultura dell'impero romano e cristiano. Quando fu eletto a succedere al papa Felice III (morto tra il 25 febbraio e il 1° marzo 492) faceva parte del clero romano, nel cui seno aveva percorso tutta la sua carriera sino a raggiungere i circoli direttivi del patriarchio lateranense quale segretario e confidente del papa, come suggeriscono i più antichi documenti del pontificato di Felice III.
Consacrato il 1° marzo 492, resse la Sede apostolica per quasi cinque anni impegnandosi in un'intensa e incisiva attività, che ebbe importanti ripercussioni nella storia della Chiesa.
Nel quadro della controversia religiosa connessa con lo scisma cosiddetto di Acacio si volse innanzitutto a meglio definire i rapporti con l'Impero e il patriarcato di Costantinopoli, proseguendo la politica decisa e intransigente di Felice III. Oltre a rimanere fermo nella condanna del defunto patriarca costantinopolitano Acacio, pronunciata solennemente nel 484, si mantenne riservato sia nei suoi contatti col secondo successore di quello, Eufemio (490-496), che tergiversava tra ortodossia e adesione allo scisma acaciano, sia nei confronti della politica religiosa perseguita dall'imperatore Anastasio I. Poiché G. osservava un atteggiamento di estrema prudenza nei confronti del governo imperiale e del patriarca di Costantinopoli, fu quest'ultimo a compiere il primo passo: desideroso di giungere a una riconciliazione con Roma, Eufemio indirizzò a G. una lettera in cui, oltre a esprimere gli auguri al nuovo papa, offriva una soluzione di compromesso.
In essa Eufemio, pur dichiarando di accettare le decisioni del concilio di Calcedonia e di ripudiare quindi la formula di fede, viziata di monofisismo, contenuta nell'Henotikon (sino ad allora al centro della politica religiosa bizantina), insisteva affinché i nomi di Acacio e degli altri più autorevoli monofisiti non venissero radiati dai dittici della Chiesa costantinopolitana.
La risposta di G. (492) a questa lettera fu di netto rifiuto: con toni ironici e, a tratti, con alterigia respinse in una missiva le proposte del patriarca, al quale chiese di troncare del tutto con le posizioni da lui sino a quel momento assunte in campo dottrinale.
La lettera manifesta non soltanto la superiorità morale di G. rispetto al patriarca, ma ribadisce particolarmente il primato di Roma nella gerarchia ecclesiastica. Gli avvenimenti successivi all'ascesa al soglio pontificio di G. (e quelle, di poco anteriori, di Anastasio al trono e di Eufemio alla cattedra costantinopolitana) avrebbero provato che, con l'avvento di nuovi protagonisti a Bisanzio e a Roma, la controversia non si sarebbe sopita.
Dopo la vittoria di Teodorico su Odoacre ai primi del marzo del 493, una delegazione del Senato romano, capeggiata dal magister officiorum Probo Fausto Niger, partì per Costantinopoli per ottenere, secondo i desideri di Teodorico, il riconoscimento per quest'ultimo del titolo di re in Italia. Anche nel suo secondo anno di pontificato G. non si mostrò desideroso di riallacciare i rapporti con l'imperatore, anzi inviò al capo della delegazione senatoria a Costantinopoli un'ampia lettera, in cui respingeva come privi di fondamento gli argomenti addotti dall'imperatore e dal patriarca per risolvere il conflitto religioso che separava le Chiese occidentali da quelle orientali, e tornava a sottolineare il primato di Roma sulle altre sedi patriarcali - Alessandria, Antiochia, Costantinopoli - in quanto il papa è "beati Petri vicarius" e Roma è "sedes beati Petri apostoli". A Fausto faceva inoltre sapere che non era autorizzato a trattare materie ecclesiastiche, lo sconsigliava di avere contatti coi "non corrigentes" e gli augurava un sollecito ritorno a Roma.
Un atteggiamento di costante rifiuto di qualsiasi rapporto con gli aderenti allo scisma acaciano espresse anche nella lettera al senatore Giovanni. Al loro ritorno Fausto e i suoi colleghi riferirono al pontefice che grande era stato il disappunto dell'imperatore per il suo comportamento e per la mancata ripresa dei buoni rapporti tra la Sede apostolica e Costantinopoli.
Solo nel 494 G., che peraltro era in buoni rapporti col Senato e il re Teodorico, inviò all'imperatore un'ampia lettera, in cui esordiva spiegando puntualmente i motivi dell'atteggiamento da lui sino ad allora tenuto nei confronti dell'autorità imperiale e proseguiva esponendo la sua teoria dei due poteri, destinata a diventare famosa.
Nel mondo ("mundus") romano e cristiano vi sono due "poteri": quello spirituale ("auctoritas sacrata pontificum") e quello temporale ("regalis potestas"), fermo restando che nel reciproco rapporto il primo è più importante ("gravius est pondus sacerdotum"), in quanto i titolari del potere spirituale debbono rispondere davanti al tribunale divino anche dell'operato dei sovrani temporali. L'imperatore ha, è vero, il potere temporale sul genere umano, ma deve comunque sottomettersi, non comandare, al potere spirituale ("religionis ordo"). Nel campo secolare i "religionis antistites" debbono sottomettersi alle leggi dell'Impero, ma chi regge quest'ultimo deve rispettare il potere spirituale se vuole redimersi. Condizione perché i contrasti si plachino è l'unità religiosa basata sull'ortodossia: "una est Christiana fides, quae est catholica". Se la Chiesa universale è travagliata da contrasti, ciò è dovuto al fatto che non viene tenuta nel debito conto la Sede apostolica, custode dell'ortodossia e della tradizione degli apostoli.
G. espose ancora più chiaramente la sua concezione dei rapporti tra potere sacro e potere temporale nel Tractatus IV, il cosiddetto Gelasii tomus: i decreti imperiali che si riferiscono al campo ecclesiastico e che contrastano con le disposizioni della Sede apostolica sono nulli. Allo stesso modo non ha validità alcuna quanto - decisioni conciliari comprese - non è stato accolto dalla Chiesa romana.
Del resto G. precisò il suo pensiero sull'argomento in numerose lettere, alcune delle quali anteriori al suo avvento al pontificato. Si veda, per es., Thiel 1, 10: l'imperatore è figlio della Chiesa, non suo sacerdote; le cose della Chiesa sono regolate dai sacerdotes e non dai rappresentanti del potere temporale. In particolare, nella lettera del 493 indirizzata a Fausto, affermava che nella sfera ecclesiastica il potere supremo è detenuto dalla Sede apostolica; a sostegno di ciò, nella famosa lettera del 495 ai vescovi di Dardania, ricordava sette casi del secolo precedente in cui i sovrani temporali si erano sottomessi al potere spirituale: il primo è la condanna, da parte di Ambrogio, dell'imperatore Teodosio e la penitenza da questo solennemente compiuta nella cattedrale milanese, nel Natale del 390.
G. giudicò severamente la politica religiosa dell'imperatore e del patriarca di Costantinopoli, come si ricava, per esempio, dalla lettera da lui inviata al vescovo africano Succonio che, rifugiatosi a Costantinopoli per sfuggire alla persecuzione dei Vandali, aveva adeguato le proprie convinzioni religiose a quelle degli ospiti scismatici.
In essa il papa esprime rammarico per la posizione assunta dal presule che pure, in precedenza, aveva meritato il suo alto apprezzamento per il suo comportamento durante le persecuzioni promosse dai Vandali nei confronti del clero cattolico africano.
Alla lotta contro l'eresia monofisita e lo scisma di Acacio da essa prodotto G. dedicò diversi trattati.
In uno di essi (Thiel, Tract.1) viene data una breve storia del monofisismo dai concili di Efeso e di Calcedonia al pontificato di Felice III (scomunica del patriarca alessandrino Pietro e del patriarca costantinopolitano Acacio). In un altro (Id., Tract. 3 = Patr. Lat. Suppl.), il più ampio e teologicamente meglio approfondito, tratta della teologia delle due nature del Cristo e, citando a conclusione brani di 42 scritti ortodossi, respinge il monofisismo e il nestorianesimo. In un altro ancora (Id., Tract. 4) a carattere prevalentemente giuridico, presenta il punto di vista della Sede apostolica per concludere con la teoria dei due poteri.
La politica di G. nei confronti delle Chiese dei Balcani occidentali (Dalmazia, vicariato di Tessalonica) sottoposte alla giurisdizione della Sede apostolica, è espressione del suo impegno nel conservare e rafforzare l'influsso di Roma su di esse. Informato della diffusione dell'eresia pelagiana in quelle regioni, sollecitò in una lettera, probabilmente del 493, il vescovo salonitano Onorio a vigilanza e impegno. Durante i lavori preparatori per il sinodo provinciale, che avrebbe dovuto riunire i presuli di quell'area, per il tramite di una delegazione dalmata che faceva ritorno in patria, G. fece pervenire a Onorio una lettera con le direttive per affrontare il pelagianesimo, eresia che, diffusasi anche nell'Italia centrale e nella Gallia meridionale, egli aveva combattuto in un suo ampio trattato (Thiel, Tract. 5). In seguito, per coinvolgere le Chiese dalmate nella lotta contro lo scisma acaciano, inviò una bolla ai vescovi di Dardania.
G. si impegnò nel rinnovamento del vicariato di Tessalonica che, in seguito allo scisma acaciano, aveva praticamente cessato di esistere. Nella lettera ai vescovi di Dardania e Dalmazia del 493 esordiva dicendo che si rivolgeva a loro solo dopo aver "ripreso il fiato" dopo le continue guerre (fine della guerra tra Teodorico e Odoacre nella primavera 493) e proseguiva esortando i vescovi a opporsi decisamente alle "tante eresie" dei Greci e specie alla più pericolosa, la monofisita. Vegliassero per impedire agli eretici di diffondere la falsa dottrina nella loro terra e curassero di divulgare la vera fede nelle terre sottoposte alla loro giurisdizione. In risposta, sei vescovi dardanici inviarono al pontefice una lettera in cui assicuravano la loro fedeltà alla Sede apostolica e la loro piena ortodossia; lo pregavano, infine, di inviare loro un suo legato col cui aiuto rafforzare la retta dottrina e regolare la situazione locale secondo i desideri del papa.
I suoi sforzi, mirati a restaurare l'autorità della Chiesa di Roma nell'Illirico orientale, non si limitarono alla provincia latina di Dardania. Nella lettera ai vescovi "per Dardaniam sive per Illyricum" dell'estate del 494 G. esprimeva la propria soddisfazione per i successi conseguiti sui monofisiti e tornava a sollecitare quei presuli affinché vegliassero su quanto accadeva nelle loro diocesi e in quelle vicine. Raccomandava prudenza nei rapporti col vescovo di Tessalonica e contemporaneamente li informava di aver inviato una lettera dello stesso tenore ai vescovi dalmati. Il documento che i presuli di Dardania gli inviarono in risposta dovette turbare il papa, il quale in una lettera del 1° febbr. 495, una delle più lunghe di G., pervenutaci in due redazioni, respingeva ogni dubbio circa la giustezza della condanna di Acacio, compiuta non da un concilio ma dallo stesso papa Felice III nel 484. Tornava quindi a ribadire l'assoluto primato della Sede apostolica, che aveva more maiorum diritto di condannare e assolvere anche in casi di mancata convocazione di un sinodo e persino in contrapposizione con il decreto del sinodo, quando questo fosse stato ingiusto, e riportava, a conferma, casi concreti. Respingeva inoltre il principio del primato della cattedera costantinopolitana, dovuto solo alla circostanza che essa era legata alla capitale dell'Impero. Come nella lettera ad Anastasio, riconfermava la tesi di un potere temporale subordinato all'autorità ecclesiastica portando, a conforto di tale idea, una serie di esempi storici di sovrani che si erano sottomessi all'autorità dei vescovi e, in specie, dei papi. Concludeva pregando i vescovi di portare a conoscenza del contenuto della lettera sia i fedeli dell'ortodossia cattolica, sia i seguaci di dottrine scismatiche ed eretiche: i primi per rafforzarli nella fede, gli altri per fornire loro un utile "antidoto".
G. iniziò il suo pontificato proprio mentre era in atto lo scontro tra Teodorico e Odoacre per il possesso dell'Italia, che provocò devastazioni nella penisola e anche gravi danni nell'assetto ecclesiastico. Il pontefice fece di tutto per alleviare gli effetti della guerra nella popolazione civile e questi suoi sforzi dettero concreti risultati. La guerra aveva spossato psichicamente il papa, che in varie lettere del 493 aveva ripetutamente fatto menzione delle difficoltà che essa causava. Una volta che Teodorico si fu consolidato al potere, insorsero problemi nei rapporti tra la Chiesa di Roma e il nuovo regime, più sensibile di quello di Odoacre nel campo religioso. I contatti con i Goti ariani e in particolare con Teodorico furono rari e per niente difficili. Nella corrispondenza papale i Goti vengono menzionati di rado, Teodorico compare quale destinatario di tre brevi missive papali, di cui due sono semplici raccomandazioni, mentre la terza si riferisce alla soluzione di una vertenza.
In questa lettera il papa insisteva sulla necessità che le controversie ecclesiastiche fossero trattate, come per il passato, dalla Sede apostolica piuttosto che dal tribunale regio. Anche nei suoi rapporti con funzionari goti, in due lettere, difese le prerogative della giurisdizione ecclesiastica richiamandosi alla corretta politica perseguita dal re.
Sebbene particolarmente sensibile alle manifestazioni di eresia e ai residui di paganesimo persistenti nella popolazione romano-italica, G. sembra aver inteso evitare un confronto diretto con l'arianesimo allora diffuso sia tra i Goti, sia tra le altre genti germaniche presenti nella penisola: nei suoi scritti a noi pervenuti non attacca mai le istituzioni ecclesiastiche ariane sorte in Italia e nella stessa Roma. Dello scritto in due volumi Adversus Arium, menzionato dal Liber pontificalis ma a noi non pervenuto, nulla si sa. Evidentemente, le due organizzazioni ecclesiastiche, l'universale cattolico-romana e quella nazionale gotico-ariana convivevano una accanto all'altra senza che insorgessero forti contrasti, nonostante G. ritenesse l'eresia un male peggiore delle devastazioni barbariche. Egli sembra piuttosto aver indirizzato i propri sforzi a combattere altre correnti ereticali, quali il pelagianesimo diffuso nella Gallia meridionale, in Italia e in Dalmazia, nonché la persistenza di riti e di pratiche pagane. L'espulsione da Roma di una comunità di manichei è ricordata dal Liber pontificalis; nel trattato diretto contro il senatore Andromaco G. si scaglia duramente contro l'ancora diffuso festeggiamento dei Lupercali.
Il principale impegno di G. nella sua opera pastorale fu volto alla riforma della vita morale e religiosa delle popolazioni italiane, e soprattutto del loro clero, e a eliminare le debolezze che più minacciavano le Chiese del suo tempo: decadenza della disciplina, degrado morale, scostumatezze, vizi, materialismo, ricerca dei piaceri mondani. Il pontefice già nel 493, in una lettera indirizzata ai vescovi del Piceno, attaccò aspramente il degrado morale in cui versavano le loro Chiese. Nella primavera del 494 inviò ai vescovi della Lucania, dell'Abruzzo e della Sicilia una lettera in cui, sulla base dei decreti promulgati da precedenti sinodi, dettò 28 canoni di contenuto prevalentemente disciplinare miranti all'eliminazione delle irregolarità e alla restaurazione dell'ordine nella Chiesa.
Gli argomenti affrontati in questa lettera riguardano: l'acuta penuria di sacerdoti e il conseguente adeguamento della prassi ecclesiale; i requisiti per la promozione al presbiterato di monaci e laici (assenza di precedenti penali, libertà personale, integrità morale e fisica, alfabetismo); gli obblighi di vita del presbitero (divieto di accettare denaro in occasione del conferimento del battesimo e di svolgere attività di lucro; comportamento di vita rispettoso dell'ordine sacro e degli obblighi disciplinari e religiosi a esso inerenti); la competenza della Sede apostolica nel controllo della disciplina ecclesiastica; le condizioni per l'amministrazione del battesimo, per l'ordinazione sacerdotale e per la monacazione; la condizione della donna all'interno della comunità ecclesiale; l'amministrazione dei beni e dei redditi ecclesiastici; la dedicazione degli edifici di culto che viene sottoposta al benestare del papa.
Talune norme contenute in questa lettera furono riprese da G. anche successivamente. Di altre si valse per casi concreti; emanò poi norme, conservateci solo frammentariamente, riguardanti lo status degli scomunicati, il furto di inventari ecclesiastici, l'asilo ecclesiastico.
Del successo della politica di affermazione dell'autorità della Sede apostolica sulle Chiese italiane perseguita da G. è testimone Eugippio il quale, nella sua Vita di s. Severino, l'apostolo del Norico, afferma che il corpo di quest'ultimo venne inumato presso Napoli, "in castello Lucullano Gelasii Sedis Romanae pontificis auctoritate".
Dell'attenzione che G. ebbe in quegli anni per le Chiese della Gallia transalpina sono testimonianza due lettere del 494.
Nella prima, diretta a Rustico, vescovo di Lione, ringraziava i presuli di quella regione per l'appoggio che gli avevano e avrebbero continuato a dare "circa impiissimi Acacii causam". Dal tono della lettera sembra potersi ricavare che quei vescovi non stessero tutti dalla sua parte. Nella seconda, diretta a Eonio vescovo di Arles, esprimeva benevolenza e simpatia per le Chiese della Gallia e invitava il suo corrispondente a comunicarle ai "fratres et coepiscopi nostri per Gallias constituti".
Il coronamento della politica di G. volta a rafforzare l'autorità della Sede apostolica fu il sinodo di Roma del 13 marzo 495, convocato per risolvere la questione del vescovo Miseno che, inviato a Costantinopoli dal papa Felice III nel 483, aveva aderito alla dottrina di Acacio. Al sinodo parteciparono 45 vescovi e numerosi altri chierici e laici. Di fronte a essi Miseno fece atto di contrizione e fu assolto dal papa, che, al termine di un lungo discorso, venne acclamato per undici volte "Vicarius Christi", appellativo che, per quanto ne sappiamo, fu usato allora per la prima volta.
L'impegno particolare posto da G. nella promozione morale e culturale del clero e l'impulso da lui dato alle attività caritative e sociali, in tempi per la Chiesa estremamente duri, sono sottolineati in modo particolare dall'anonimo autore della sua Vita inserita nel Liber pontificalis, il quale ricorda inoltre che egli fece erigere e dedicò personalmente almeno tre nuove chiese in Roma e gli attribuisce il merito di aver ordinato 32 nuovi presbiteri per la diocesi romana e 67 vescovi "per diversa loca". La Vita pone anche in evidenza l'opera svolta da G. come autore in campo teologico e dottrinale, liturgico e pastorale, lodandone la cultura, la capacità espressiva, le doti di polemista e ricordando, oltre che il trattato Adversus Nestorium et Eutychem, anche altri suoi scritti a noi non pervenuti: i due libri Adversus Arium, inni "ad modum beati Ambrosii", un Sacramentarium, omelie (orationes).
G. morì a Roma il 21 nov. 496. Il suo corpo fu inumato nella basilica di S. Pietro.
G. fu senza dubbio il papa più importante del secolo e mezzo compreso tra il pontificato di Leone Magno e quello di Gregorio Magno e influì in misura sostanziale sulla teoria e sulla prassi del Papato nel Medioevo grazie alla teoria "dei due poteri" da lui elaborata, alla sua idea del primato del potere spirituale su quello temporale, alla sua dottrina dell'assoluta supremazia della Sede apostolica. Importante fu il suo contributo nel campo del diritto canonico.
Uomo di eccezionale energia, vicino per concezione e stile di vita agli ideali dell'ascetismo, inflessibile e coerente, G. riuscì ad acquistarsi, nel corso del suo breve pontificato, la stima, l'ammirazione e l'amore del popolo cristiano, che, dopo la sua morte, non tardarono a trasformarsi in venerazione. La sua festa veniva celebrata nella liturgia il 21 novembre.
Sotto il nome di G. vanno due importanti opere anonime compilate dopo la sua morte: il Decretum Gelasianum e il Sacramentarium Gelasianum. La prima è una raccolta di decretali (composta nell'Italia settentrionale o nella Gallia meridionale e attribuibile ai primi del sec. VI) riguardanti il primato della Sede romana nella gerarchia ecclesiastica e la canonicità dei concili dei secoli IV e V; essa contiene anche un elenco degli autori e delle opere ortodosse e un elenco delle opere non ortodosse e quindi proibite. La seconda (il cui titolo risale al sec. IX) è una raccolta di testi liturgici.
Gli scritti di G. sono stati pubblicati in Patr. Lat., LIX, coll. 9-190; Supplementum, III, coll. 739-787; Epistolae Romanorum pontificum…, I, a cura di A. Thiel, Brunsbergae 1868, pp. 285-613; P. Ewald, Die Papstbriefe der Britischen Sammlung, in Neues Archiv, V (1880), pp. 275-414, 503-596; Regesta pontificum Romanorum…, I, a cura di Ph. Jaffé - G. Wattenbach, Lipsiae 1885, pp. 83-95; Epistulae Romanorum pontificum ineditae, a cura di G. Löwenfeld, Leipzig 1885; Mon. Germ. Hist., Auctores antiquissimi, XII, Berolini 1894, pp. 389-392; Epistolae imperatorum, pontificum, aliorum inde ab anno 367 usque ad annum 553 datae, Avellana quae dicitur collectio, a cura di O. Günther, in Corpus scriptorum ecclesiasticorum Latinorum, XXXV, 1-2, Vindobonae-Pragae-Lipsiae 1895-98, pp. 225-229, 357-439, 453-468, 474-487, 774-790; Das Decretum Gelasianum de libris recipiendis et non recipiendis, a cura di E. von Dobschütz, Leipzig 1912; Gélase Ier, Lettre contre les Lupercales et dix-huit messes du Sacramentaire léonien, a cura di G. Pomarès, in Sources chrétiennes, LXV, Paris 1959; Clavis patrum Latinorum, a cura di E. Dekkers - A. Gaar, Steenbrugge 1961, nn. 1608 s., 1617, 1622, 1625, 1666-1676.
Fonti e Bibl.: Liber pontificalis, LI, Gelasius, in Le Liber pontificalis. Texte, introduction et commentaire, a cura di L. Duchesne, Paris 1886, pp. 255-257; Dionysius Exiguus, Epistula ad Iulianum presb., in Thiel, pp. 286 s.; Eugippius, Vita s. Severini, a cura di Ph. Régerat, in Sources chrétiennes, CCCLXXIV, Paris 1991, p. 294; A. Roux, Le pape saint Gélase Ier, Paris 1880; Ch.-J. Hefele - H. Leclercq, Histoire des conciles, II, Paris 1908, pp. 940-945; P. Godet, Gélase Ier, in Dictionnaire de théologie catholique, VI, Paris 1915, coll. 1179 s.; E. Caspar, Geschichte des Papsttum von den Anfängen bis zur Höhe der Weltherrschaft, II, Tübingen 1933, pp. 44-81; H. Koch, Gelasius im kirchenpolitischen Dienst seiner Vorgänger, der Päpste Simplicius (468-483) und Felix III. (483-492), in Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Phil.-hist. Klasse, VI (1935); L. Knabe, Die gelasianische Zweigewaltentheorie bis zum Ende des Investiturstreites, Berlin 1936; G. Soranzo, I precedenti della cosiddetta teoria gelasiana, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, I (1947), pp. 3-21; L. Spätling, G. I, papa, santo, in Enc. cattolica, V, Roma 1950, coll. 1980-1983; F. Dvornik, Pope Gelasius and emperor Anastasius I, in Byzantinische Zeitschrift, XLIV (1951), pp. 111-116; W. Ensslin, Auctoritas und Potestas. Zur Zweigewaltenlehre des Papstes Gelasius I., in Historisches Jarhbuch, LXXIV (1955), pp. 661-668; R. Merkelbach, Zur Epistola papae Gelasii adversum Andromachum, in Vigiliae christianae, X (1955), pp. 176 s.; V. Monachino, G. I papa, santo, in Bibliotheca sanctorum, VI, Roma 1965, pp. 90-93; J.L. Nelson, Gelasius I. Doctrine of responsability, in The Journal of theological studies, XVIII (1967), pp. 154-162; A. Fliche - V. Martin, Storia della Chiesa, IV, Torino 1972, pp. 379-381, 422 s.; P. Charanis, Church and State in the later Roman empire. The religious policy of Anastasius the First, 491-518, Thessaloniki 1974, pp. 48-52; J. Taylor, The early Papacy at work: Gelasius I (492-496), in Journal of religious history, VIII (1974-75), pp. 317-332; A.W.J. Hollemann, Pope Gelasius I and the Lupercalia, Amsterdam 1974; H.M. Hoeflich, Gelasius I. Doctrine and Roman law. One further word, in Journal of theological studies, XXVI (1975), pp. 114-119; S. Prete, La lettera di G. I ai vescovi del Picenum sul pelagianesimo, 1° nov. 493, in Studia Picena, IV (1976), pp. 9-28; G. Otranto, Due epistole di papa G. I (492-496) sulla comunità cristiana di Lucera, in Vetera christianorum, XIV (1977), pp. 122-137; B. Altaner - A. Stuiber, Patrologie, Freiburg-Basel-Wien, 1978, pp. 462 s.; J. Moorhead, The Laurentian schism. East and West in the Roman Church, in Church history, XLVII (1978), pp. 126-136; W. Ullmann, Gelasius I. (492-496). Das Papsttum an der Wende der Spätantike zum Mittelalter, Stuttgart 1981, ad indices; B. Moreton, Gelasius I., in Theologische Realenzyklopädie, XII (1984), pp. 273-276; P. Nautin, Gélase Ier, in Dict. d'hist. et de géogr. eccl., XX, Paris 1984, coll. 283-294; Ch. Pietri, La géographie de l'Illyricum ecclésiastique et ses relations avec l'Église de Rome (Ve-VIe siècles), in Villes et peuplement dans l'Illyricum protobyzantin, Rome 1984, pp. 21-59 (spec. pp. 38-41); R. Schieffer, Gelasius I., in Lexikon des Mittelalters, IV, München-Zürich 1989, col. 1197; R. Bratož, Die frühchristliche Kirche in Makedonien und ihr Verhältnis zu Rom, in Klassisches Altertum, Spätantike und frühes Christentum, Würzburg 1993, pp. 528-533; M. Spinelli, Gelasius I., in Lexikon für Theologie und Kirche, IV, Freiburg im Br. 1995, coll. 401 s.; I. König, Aus der Zeit Theoderichs des Großen, Darmstadt 1997, pp. 141-143; R. Schieffer, Zweigewaltenlehre, Gelasianische, in Lexikon des Mittelalters, IX, München-Zürich 1998, col. 720.