Genere storico
La storiografia di Eusebio di Cesarea
L’età costantiniana fu passaggio fondamentale per la creazione e la diffusione di una storiografia prodotta dai cristiani, a opera di Lattanzio ma soprattutto di Eusebio di Cesarea1, entrambi spettatori della persecuzione dioclezianea, poi dell’ascesa di Costantino e del consolidamento del suo potere. I risultati più significativi nel campo si debbono a Eusebio: da un lato egli modifica radicalmente, con i Chronici canones, l’impostazione della cronografia cristiana, e, dall’altro, addirittura crea un nuovo genere letterario, componendo la prima Historia ecclesiastica. In entrambi gli scritti la svolta impressa da Costantino al rapporto dell’Impero romano con i cristiani gioca un ruolo essenziale. Eusebio compose successivamente due opere connesse in maniera esclusiva all’imperatore: le Laudes Constantini e la Vita Constantini, che sviluppano ulteriormente e con più ampiezza la riflessione sulla sua figura. Per un verso possono essere considerate lavori storiografici, ma il loro carattere è ibrido, perché partecipano di diversi generi letterari, il panegirico e l’agiografia, e quindi meritano una trattazione a parte.
La mescolanza di impostazione storica e panegiristica doveva caratterizzare un’altra opera monografica sull’imperatore scritta da un contemporaneo, Prassagora di Atene, a soli ventidue anni: la Storia di Costantino il Grande, in due libri. Sarebbe stato per noi di enorme interesse poterla leggere, ma ci è giunto solo il riassunto del patriarca Fozio (Bibl. 62), il quale, con qualche stupore, osserva che, benché pagano, l’autore era un fautore di Costantino; certo, stando al riassunto, l’entità delle lodi nei suoi confronti e la pari avversione verso Massenzio e Licinio sembrano pura propaganda2. Il parere di Fozio merita di essere registrato: evidentemente la reazione degli storici pagani al filocristianesimo di Costantino e la critica del suo operato si svilupparono nel periodo successivo alla sua morte, quando furono evidenti le conseguenze della sua politica anche religiosa. A ogni modo, l’opera perduta di Prassagora e l’Origo Constantini Imperatoris3, di incerta datazione, sono le scarse reliquie storiografiche di parte pagana databili a età costantiniana o poco oltre, a fronte dell’ampia riflessione conservata di parte cristiana. Non stupisca questa disparità: pur senza escludere che qualcosa sia andato perduto della produzione pagana, si comprende bene come il rapido e favorevole mutamento avvenuto fra 311 e 313 nella situazione dei cristiani, provati da una persecuzione che era stata tanto lunga quanto inaspettata dopo il precedente quarantennio di pace (la cosiddetta ‘piccola pace della Chiesa’), fosse letto in chiave provvidenziale e li sollecitasse a riflettere sul proprio ruolo nella storia, in uno sforzo di definizione identitaria, e a cercare il senso positivo del rapporto con le istituzioni dell’Impero, portando a maturazione spunti che già la precedente letteratura apologetica cristiana aveva fornito. Man mano che Costantino, rimasto solo al potere, intensificava l’appoggio al cristianesimo e l’integrazione della Chiesa nella compagine statale a rafforzamento di quest’ultima, l’attenzione da parte cristiana si concentrò su di lui: il percorso del pensiero non solo storico ma anche teologico-politico di Eusebio evidenzia quindi una progressiva messa a fuoco della figura dell’imperatore, che si esprimerà appieno nelle opere strettamente biografiche cui sopra abbiamo accennato, ma che già prende corpo nelle due opere storiche.
La nascita di Eusebio è da collocare a Cesarea di Palestina fra il 260 e il 265. Discepolo di Panfilo, a sua volta allievo di Pierio, maestro alessandrino seguace di Origene, divenne vescovo della città verso il 313-314 e morì forse nel 339. Per lunghi decenni, nella storiografia occidentale fra Ottocento e Novecento, la stretta associazione con Costantino ha portato a una visione riduttiva e in larga parte distorta della sua figura. Più o meno consapevolmente, molti moderni ancora risentono della posizione di Edward Gibbon, che assegnò a Eusebio il titolo di «vescovo cortigiano»4, estremizzata poi da Jacob Burckhardt, il quale portò al massimo la strategia del sospetto nei confronti «del più odioso dei panegiristi»5, per cui, a fine secolo, Franz Camille Overbeck lo definì «l’arricciatore di corte della parrucca imperiale»6: difficile che potesse esserlo, visto che gli incontri diretti con Costantino furono pochi, anche a causa della lontananza della sua sede da Costantinopoli7. È senz’altro vero, invece, che Eusebio si conquistò la fiducia di Costantino, non da ultimo, forse, anche per la prudenza dimostrata quando rifiutò di passare alla prestigiosa sede di Antiochia, dopo la deposizione di Eustazio: in quella occasione Costantino elogiò il suo comportamento (v.C. III 61), in altra occasione gli commissionò cinquanta bibbie di pregio (v.C. IV 36), prova dell’altissima qualità ed efficienza dello scrittorio di Cesarea, in altra lo elogiò per il suo scritto sulla delicata questione pasquale (v.C. IV 35). La fama raggiunta come studioso, tale che la sua produzione ebbe influenza sullo stesso avversario Atanasio di Alessandria8, e la stima dell’imperatore lo protessero in vita dall’ostilità nei suoi confronti dei più accesi filoniceni. Questi invece, lui morto, diffusero a suo carico la diceria peggiore, quella di aver sacrificato agli idoli per scampare alla persecuzione dioclezianea. Lo insinuò Atanasio9, poi Epifanio10. L’apostasia è improbabile perché, se l’accusa avesse avuto fondamento, avrebbe suscitato scandalo e impedito l’elezione a vescovo: essa si spiega con l’avversione di chi gli rimproverava di aver difeso Ario e di essere stato membro autorevole, dopo il concilio di Nicea, di uno schieramento di vescovi orientali che, senza aderire ad Ario, guardavano con sospetto l’homoousion («consustanziale») aggiunto, per volontà di Costantino, in senso esplicitamente antiariano, al Simbolo niceno, il cui testo base riproduceva peraltro largamente proprio quello della sede di Eusebio11: il termine era infatti passibile di interpretazione monarchiana e per giunta estraneo alla Scrittura. Questa presa di posizione da parte di Eusebio ha portato a considerarlo un ariano12, sulla scorta del giudizio di Girolamo («impietatis Arii apertissimus propugnator»13) e della storiografia apologetica di parte cattolica (Baronio, Tillemont), mentre diversa fu la posizione dei riformati14. Attualmente è stata fatta giustizia sia del giudizio tendenzioso sul suo pensiero teologico, formatosi in realtà ben prima dell’insorgere della questione ariana e pertanto non dipendente da Ario, sia della ricostruzione vulgata della controversia: questa non fu la strenua opposizione di un gruppo di coraggiosi difensori di una fede cattolica già formulata contro gli eretici ariani, come pensava una consolidata storiografia moderna ancora dipendente dalla visione atanasiana, bensì rappresentò il faticoso confronto in Oriente e in Occidente fra schieramenti ecclesiastici aventi differenti impostazioni teologiche, ugualmente legittimate da una lunga tradizione, in merito al rapporto fra Dio Padre e il Figlio preesistente: l’effettivo punto di incontro si raggiunse solo nel 381, al concilio di Costantinopoli, ben dopo la morte di Eusebio. La sua posizione, prudentemente conservatrice e dipendente in larga parte, anche se non in toto, dall’insegnamento di Origene, suo costante punto di riferimento intellettuale, fu considerata da Erik Peterson – nella fondamentale opera Der Monotheismus als politisches Problem, scritta nel periodo storico della presa di coscienza nei confronti dei totalitarismi (1935) – radice e fonte di una dannosa teologia politica, in quanto l’imperfetta cognizione del dogma trinitario, unita alla caduta della tensione escatologica, lo avrebbero predisposto ad accettare senza remore la funzione teologica della monarchia costantiniana quale corrispettivo terreno della monarchia celeste di Dio Padre. Entrambi i presupposti di Peterson, cioè la diretta connessione dell’arianesimo, peraltro mai sostenuto in quanto tale da Eusebio, con l’esaltazione incondizionata della monarchia terrena e la visione ottimistica del regno terreno quasi a sostituzione della visione del regno celeste come matrici della teologia politica eusebiana, sono contestabili in sede storica15: non potendo qui svolgerne la dimostrazione, ci limitiamo a elencare anche il giudizio di Peterson fra i motivi che hanno ritardato una equilibrata valutazione di Eusebio.
Barnes, con il suo Constantine and Eusebius del 1981, ha decisamente corretto l’immagine dell’opportunista filoimperiale per ragioni di interesse16. Tuttavia nella sua ricostruzione, che situa in una datazione molto alta (prima del 303) la prima edizione della Historia ecclesiastica, la carriera intellettuale e letteraria di Eusebio viene suddivisa troppo nettamente in due fasi: la prima, cronologicamente e idealmente, vedrebbe lo storico e lo studioso e la seconda l’apologeta, costretto dalle circostanze storiche – la sopravvenuta persecuzione – a una serrata difesa del cristianesimo. A partire da Frend17, mediante una revisione della tesi di Barnes, la personalità di Eusebio viene recuperata a unità e il suo focus identificato nell’intenzione apologetica, non più considerata, come avveniva per esempio in Berkhof18, un limite e un segno dell’incapacità di essere un grande teologo, quanto piuttosto centro propulsivo di idee e matrice per sviluppare in modo originale, soprattutto sul piano delle forme letterarie, la grande eredità di Origene. Nelle opere propriamente storiografiche di Eusebio, così come in quelle dichiaratamente apologetiche, si deve riconoscere il medesimo intento di difesa del cristianesimo da attacchi di intellettuali agguerriti del suo tempo quali Porfirio e Ierocle, che rinverdivano, superandole spesso in acribia e sforzo teorico, le precedenti argomentazioni anticristiane di Celso, ancora ben presenti a Eusebio, fornendo il supporto ideologico alla persecuzione dioclezianea, la più cruenta e prolungata. Questa è vista, negli studi più recenti, come l’incubatrice in cui prendono corpo le opere eusebiane, con conseguente dispiegamento di una vis polemica che intende fondarsi non tanto o non solo sulla retorica delle parole, quanto sulla pretesa di una corretta ricostruzione del passato, sulla esegesi delle Scritture e sulla disamina delle opinioni filosofiche alla luce della verità della rivelazione di Cristo-Logos. Ecco dunque che l’eredità origeniana, filtrata attraverso l’insegnamento del maestro Panfilo, morto martire nel 310, e supportata dalla biblioteca da lui allestita a Cesarea a partire dal nucleo appartenuto a Origene, viene declinata da Eusebio soprattutto sul versante filologico ed erudito, di cui l’emblema, ai suoi occhi, era rappresentato dall’impresa monumentale degli Hexapla, sinossi su sei colonne parallele dell’Antico Testamento, in ebraico e nelle diverse versioni greche.
L’ampia produzione letteraria di Eusebio19 si può distinguere, con una suddivisione consacrata da Johannes Quasten ma in qualche misura arbitraria per la continua commistione dei generi, in quattro filoni, dalla incerta cronologia, in alcuni casi ricostruibile in base alla relazione fra un’opera e l’altra: storico (Chronici Canones, Historia ecclesiastica, de martyribus Palaestinae, de laudibus Constantini, Vita Constantini); apologetico (Generalis elementaria introductio, Eclogae propheticae, Contra Hieroclem, Praeparatio evangelica, Demonstratio evangelica, Theophania); esegetico (Canones evangelici, Onomasticon, Quaestiones evangelicae ad Stephanum, Quaestiones evangelicae ad Marinum, Commentarii in Psalmos, Commentarii in Isaiam); dogmatico-polemico (Contra Marcellum, de ecclesiastica theologia). Perdute, tranne frammenti, le seguenti opere: Apologia pro Origene (il primo libro rimane nella traduzione latina di Rufino), scritta con Panfilo, Vita Pamphili, Contra Porphyrium, de solemnitate pascali e un’opera sulla poligamia e le famiglie dei patriarchi.
La cronografia, come dice il nome, è la scrittura del tempo: vuole dare conto di una serie di eventi storici datati con precisione in relazione a un sistema cronologico assoluto di riferimento. Chi scrive un’opera cronografica ha sempre un punto di vista che orienta l’esposizione, e l’elencazione dei dati non è asettica, bensì implica una valutazione dei medesimi20. La combinazione di un’implicita ermeneutica con l’ampiezza dello sguardo rivolto agli accadimenti collocati in successione cronologica giustifica il particolare interesse per il genere mostrato dai cristiani, allorché, dal III secolo, cominciarono a riflettere sulla storia. Nella venuta di Cristo essi individuavano l’evento decisivo a partire dal quale ripensare le vicende dell’umanità: possedevano dunque una chiave ermeneutica forte, e l’orizzonte cristologico del loro pensiero li condusse a sviluppare una prospettiva decisamente universalistica, stabilendo i rapporti temporali di un novero molto più ampio di eventi dei popoli conosciuti rispetto agli antecedenti cronografici ellenistici, la cui ottica finiva per essere autocentrata. La cronografia diventò l’approccio alla storiografia cristiana più congeniale e diffuso fino alle soglie dell’Età moderna, eclissato solo per un certo periodo dal prepotente influsso della Historia ecclesiastica di Eusebio.
La riflessione in chiave provvidenziale sul contemporaneo inizio dell’Impero romano e del cristianesimo era stata inaugurata da Melitone di Sardi, nell’apologia indirizzata a Marco Aurelio e al figlio Commodo, suggerendo che tale sincronismo era finalizzato al reciproco giovamento fra Impero e Chiesa: nella ricostruzione di Melitone, ideologica e alquanto lontana dalla realtà storica, tutti i buoni imperatori avevano apprezzato il cristianesimo, mentre i malvagi lo avevano avversato, e l’Impero era fiorito sotto quelli favorevoli ai cristiani. Non mancò tuttavia chi, come Ippolito nel de Christo et Antichristo e nel de Daniel, all’inizio del III secolo considerava in modo negativo la contemporaneità fra la nascita di Cristo e dell’Impero romano, presentando l’universalismo di quest’ultimo quale contraffazione bellicosa e oppressiva del messaggio universale di Cristo21.
Non molto tempo dopo Ippolito, probabilmente nel 221, Giulio Africano scrisse le Chonographiae. Il padre della cronografia cristiana, figura poliedrica e poliglotta di intellettuale, apprezzava, da collaboratore dei Severi qual era, la sincronia fra inizio della monarchia dei Cesari e la nascita di Cristo che Ippolito aveva valutato negativamente. Roma consegue il potere universale nel momento in cui il suo sistema politico diventa monarchico, ed è proprio in quel frangente che Cristo si incarna: «fondazione della monarchia-translatio imperii-incarnazione del Cristo: è questo il sincronismo fondamentale su cui si fonda la visione della storia universale mossa dalla provvidenza»22. Le Chronographiae, pur giunte in frammenti, si rivelano lavoro di andamento narrativo e di sintesi, che comprime la storia universale in un numero ristretto di libri, cinque in tutto. Loro caratteristica fondamentale è il computo esamillenario. Furono forse i cristiani stessi23, combinando il racconto genesiaco dei sei giorni della creazione con il versetto del Salmo 89[90],4 («ai tuoi occhi mille anni sono come un giorno»), a stabilire l’equivalenza fra un giorno e mille anni e a proporre una durata di seimila anni per il mondo e la storia. Lo schema esamillenario è presente già agli inizi del II secolo nella Epistola Barnabae, poi torna in Ireneo e nel de Daniel di Ippolito. In Ireneo lo schema è inserito nella prospettiva millenarista, la dottrina escatologica forse più diffusa fra i cristiani nel II secolo, in base alla quale la resurrezione generale e il giudizio sarebbero stati preceduti dal regno di Cristo in terra con i giusti ancora in vita e con quelli risorti in una prima resurrezione, per godere di un periodo di mille anni di gioia. Secondo Ireneo, confortato dal capitolo 20 dell’Apocalisse di Giovanni e dall’interpretazione in chiave millenarista di svariati passi profetici, specie del Tritoisaia, il millennio, ultimo di sette, avrebbe rappresentato la conclusione felice della storia umana, il compimento delle promesse fatte da Dio ai patriarchi e il risarcimento per quanti avevano patito per Cristo, dopo il quale ci sarebbe stata l’eternità di gloria per i beati e di dannazione per i reprobi. L’opinione diffusa in passato fra gli studiosi che anche Giulio Africano aderisse al millenarismo è stata attualmente ridimensionata, se non negata, per l’assenza di frammenti cogenti in proposito delle Chronographiae24. Tuttavia, anche se il suo interesse appare piuttosto erudito, egli non può aver ignorato le inquietudini e l’attesa degli eventi escatologici diffusa fra i cristiani: è probabile che abbia inteso raffreddarla e incanalarla, come già aveva fatto Ippolito, il cui de Daniel aveva fissato la nascita di Cristo all’anno 5500 a partire da Adamo. È possibile che da lui Africano abbia ripreso la cronologia di Cristo, precisandone la morte al 5531 o 553225 da Adamo, e terminando l’opera al terzo anno dell’imperatore Elagabalo, cioè nell’anno 5723 da Adamo: il lasso di tempo sino al termine dei seimila anni era ancora considerevole.
Giulio Africano si colloca al centro di molteplici eredità storiografiche: la greca e poi ellenistico-romana (non a caso la sua opera riprende l’omonimo titolo di Eratostene di Cirene, del II secolo), la giudaico-ellenistica, le tradizioni indigene degli storici orientali. Dai greci eredita il sistema di datazione secondo le Olimpiadi, a partire dalla prima del 776-775 a.C., che però lasciava nell’indistinto il periodo precedente, come egli non manca di sottolineare: «i Greci non hanno tramandato nulla di storicamente preciso fino alle Olimpiadi e i loro precedenti racconti non si accordano in niente»26. Eredita anche l’accordo fra gli storici greci creatosi intorno alla datazione dell’assiro Nino, il cui regno venne riconosciuto come la prima monarchia della storia secondo lo schema della translatio imperii che arrivava ad Alessandro27. Dalla storiografia giudaico-ellenistica riprende l’apertura verso le tradizioni storiografiche locali trascurate dai greci e soprattutto l’intento apologetico, per cui rivendica l’anteriorità di Mosè, in quanto essa è storicamente precisabile rispetto all’attardarsi dei greci in un tempo mitico per il periodo anteriore alla prima Olimpiade. L’incertezza di un tempo sfuggente alla definizione storica, insita nelle cronografie greche, è superata da Giulio Africano grazie al secondo sistema di datazione, giudaico, basato sulla creazione di Adamo descritta in Genesi, il che comporta la conquista di un punto di partenza comune a tutti i popoli. L’ulteriore guadagno della sua cronografia è dato dallo specifico cristiano: l’iniziale unità della storia in Adamo, da cui si diparte la pluralità delle storie dei discendenti, riletta cristologicamente, diventa il preludio del punto focale in cui tutte le storie convergono, cioè la nascita e missione di Cristo, nell’attesa del compimento dei tempi che l’immissione della scienza cronografica greca, inserita nello schema esamillenario, permette di calcolare con precisione. Dopo la venuta di Cristo, momento centrale di tutta la storia, la narrazione dei 221 anni che intercorrono fino all’età presente è molto rapida perché «dopo quegli eventi fino a noi quasi nulla in mezzo di straordinario è da narrare storicamente»28. Tale contrazione del tempo presente consente di proiettare la sua età nel cono di luce di quello snodo fondamentale, in quanto, specie dopo la promulgazione della Constitutio Antoniniana nel 212, l’azione dei Severi confermava la positività dell’universalismo della monarchia imperiale e la possibilità di un incontro fecondo di Roma con il cristianesimo. Dopo Africano l’anonima Synagoge, il cui titolo viene dall’incipit che suona: «raccolta di tempi e di anni dalla creazione al giorno d’oggi», e la cui paternità rimane controversa29, prosegue l’impostazione esamillenaria, pur correggendo su punti significativi30 l’impostazione di Africano: ma essa non ebbe risonanza e Africano restò il modello da emulare e da contestare.
Veniamo ora al lavoro cronografico di Eusebio. Il titolo spesso usato, Chronicon, derivante da Girolamo, non corrisponde né ai titoli rintracciabili in Eusebio né alla struttura complessiva dell’opera. Meglio chiamarla Chronici Canones (χρονικοὶ κανόνες), come lo stesso Eusebio perlopiù fa, benché questa denominazione si adatti maggiormente alla seconda delle due parti in cui è divisa, la Chronographia e i Chronici Canones (ChC) propriamente detti. Purtroppo l’originale greco è andato perduto, tranne excerpta: abbiamo però una traduzione in lingua armena di fine VI-inizio VII secolo, che conserva l’opera quasi per intero, mentre la seconda parte di essa fu tradotta in latino da Girolamo. La difficoltà maggiore di ricostruzione deriva dal fatto che Girolamo, come egli stesso dichiara nella sua prefazione, si limita a una pura Graeca translatio solo per il periodo iniziale, che va da Nino-Abramo fino alla guerra di Troia, mentre nel seguito inserisce aggiunte e modifiche varie al testo eusebiano che, se dobbiamo dargli fede – ma non ci sono elementi per dubitarne –, si concludeva al ventesimo anno di Costantino (25 luglio 325-25 luglio 326). Girolamo poi prosegue di sua mano fino alla tragica sconfitta di Valente a Adrianopoli nel 378. Stando così le cose, è più difficile scorgere i dettagli del disegno di Eusebio, tanto più che la traduzione armena presenta questa parte in modo diverso e abbreviato rispetto a Girolamo. Tuttavia, grazie soprattutto all’edizione critica di Rudolf Helm31, riusciamo a cogliere la novità dell’impostazione spaziale del testo eusebiano.
Nella prima parte, la Chronographia, Eusebio espone «i materiali», come lui stesso li definisce nel prologo della seconda parte, discutendo i sistemi cronologici dei popoli (caldei, assiri, ebrei, egiziani, greci, romani) e dando indicazioni di metodo; la seconda parte è invece costituita da tavole sinottiche, i ChC, che, a partire dall’anno 43 del regno dell’assiro Nino (2016 a.C.), nel quale viene collocata la nascita di Abramo, presentano in colonne parallele scandite in decadi gli anni di ciascuno degli antichi regni, che scorrono verticalmente, mentre, inserito in mezzo a esse, si situa lo spatium historicum (come lo chiama il primo editore, Giuseppe Giusto Scaligero, nel XVI secolo32), cioè brevi notizie su re, guerre, avvenimenti vari. Tale potente innovazione visiva, geniale adattamento del modello degli Hexapla di Origene, rende immediatamente percepibile a una medesima altezza temporale la diversa cronologia di regni e popoli, e permette di cogliere in modo altrettanto immediato la loro fine o la loro confluenza in altri regni: i fila regnorum raggiungono la cifra di quindici per ridursi a due (romani e giudei) con la sconfitta di Antonio e Cleopatra ad Azio33 fino a che, dopo la presa di Gerusalemme da parte di Vespasiano e Tito34, l’Impero romano riempie tutto lo spazio. Nell’introduzione alla prima parte, Eusebio dichiara di aver letto i moltissimi volumi di storia prodotti da caldei, assiri, egiziani e greci, e di essersi risolto a esporli in breve aggiungendo quanto si ricava dalla Scrittura ebraica «per sapere quanto tempo prima della manifestazione salvifica di Dio sia vissuto Mosè e dopo di lui i profeti ebrei»35. L’anteriorità di Mosè rispetto agli altri legislatori era affermazione apologetica degli autori giudeo-ellenistici, ereditata, come abbiamo visto, da Giulio Africano e condivisa da Eusebio, il quale però demolisce l’illusione di abbracciare i tempi dell’inizio e della fine in un’unica visione mediante lo schema esamillenario sul quale si era fondato il predecessore. Dichiara infatti: «lo diciamo dall’inizio chiaramente a tutti, perché non ci sia contestazione: non è possibile acquisire una conoscenza sicura dei tempi. Ciascuno ne è certo se si rivolge al maestro veritiero che dice: “non è affar vostro conoscere i tempi e i momenti, che il Padre ha fissato di sua autorità” (At 1,7)»36. Non solo quindi Eusebio si oppone alla scansione in sei millenni (a prescindere dalle intenzioni di Africano, è un fatto che il computo esamillenario continuò ad alimentare, specie in periodi di crisi, le speranze millenariste e una visione della storia sbilanciata a scrutare i segni della fine), ma anche alla pretesa di dominare l’insieme dei tempi, l’alpha e l’omega, che è solo di Dio. Il suo disegno storico esclude di conseguenza proprio quello che Africano aveva fissato: la cronologia di Eusebio non parte da Adamo (anche se occasionalmente fa riferimento anche a lui37), perché non è determinabile il periodo trascorso in Eden, bensì, in modo razionale e verificabile, da Abramo, e la conclusione del percorso storico dell’umanità resta aperta, conosciuta solo dalla provvidenza divina.
Il punto di arresto al vicennale, seppure provvisorio, non è casuale, perché si tratta dell’acme del regno di Costantino, ormai unico imperatore. Esso segnala, a contrario, il felice approdo cui perviene il cristianesimo dopo che il periodo oscuro della persecuzione tetrarchica aveva reso necessario per Eusebio un rinnovato approccio polemico alla materia e una svolta alla costruzione cronografica, come leggiamo nel prologo dei ChC, conservato almeno in parte in greco da Sincello, oltre che nella traduzione di Girolamo. Il nome di Mosè vi compare come prima parola, in connessione con la disputa sulla sua cronologia rifiorita con Porfirio, che Eusebio definisce «l’uomo che ha intrigato contro di noi», e precisamente «nel quarto libro dell’opera che scrisse invano contro di noi»38, cioè nel Contra Christianos. Mentre la tradizionale impostazione apologetica di giudei e cristiani – che Eusebio puntualizza nei nomi di Clemente (Alessandrino), Africano, Taziano per i cristiani e di Giuseppe (Flavio) e Giusto di Tiberiade per i giudei – fissava Mosè al tempo del re di Argo Inaco, cioè settecento anni prima della guerra di Troia, in modo da stabilirne l’anteriorità rispetto al tempo storico dei greci, Porfirio, spiazzando i cristiani, anticipa di molto la datazione del legislatore ebraico, ponendolo anteriormente a Semiramide, vissuta centocinquant’anni prima di Inaco. Il fine dell’operazione è probabilmente accentuare il distanziamento sino alla contrapposizione fra l’estrema antichità di Mosè, i cui scritti erano per il filosofo pagano comunque inattingibili perché andati distrutti nell’incendio del Primo Tempio, e le età successive, che con Esdra producono la falsificazione degli scritti mosaici dalla quale i cristiani avrebbero tratto le profezie su Gesù39, a cui Porfirio contrappone i venerandi oracoli di Apollo. Donde la necessità da parte di Eusebio di stabilire con certezza la datazione di Mosè mediante l’affinamento dello strumento cronografico: «Io, dal momento che considero di massima importanza la verità storica e la precisione, mi sono proposto di indagare con cura»40, dice subito dopo l’accenno a Porfirio, e continua spiegando la struttura dell’opera. In essa anche l’inizio da Abramo, il profeta in cui sono chiamate tutte le genti e a cui i cristiani si riallacciano direttamente, serve a evidenziare, mediante l’ordinamento in colonne parallele, come a quell’altezza storica nulla gli sia affiancabile da parte greca; pure il baricentro della datazione, collocato all’inizio della predicazione di Gesù e non, come era in Africano, al momento della passione, insiste sulla dimensione profetica del messaggio cristiano41. Anche nell’opera cronografica eusebiana, come avevamo constatato in quella di Africano, il periodo più vicino all’autore è fortemente contratto rispetto al dispiegarsi dei tempi antichi: la logica che presiede a questo abbreviamento dei tempi è ancora una volta l’inserimento e la proiezione del presente nel quadro più ampio, e nel cono di luce di un passato di cui si è rintracciato il disegno provvidenziale.
La risorsa tabellare risulta essere pertanto la risposta di Eusebio a una sfida recente per la quale le trattazioni dei predecessori cristiani non sono più utilizzabili. Implicitamente essa è anche rivendicazione della personale superiorità rispetto a questi. L’ansia apologetica dei ChC rende più probabile, fra le diverse ipotesi di datazione dell’opera, quella che ne colloca l’avvio negli anni della persecuzione dioclezianea. Eusebio cita varie volte i ChC, a conferma dell’importanza che annetteva a questa sua fatica, nel prologo della Historia ecclesiastica (I 1,6), nelle Eclogae propheticae, entrambe databili, in base alle varie ipotesi, fra 293 e 313, e infine nella Praeparatio evangelica, databile fra 313 e 317: ma, visto che l’ultimo evento riportato nei ChC sono i vicennali di Costantino, egli deve essere tornato almeno due volte sull’opera. Sulla produzione di redazioni successive c’è accordo fra gli studiosi, non altrettanto sulla loro datazione. In proposito, le argomentazioni di Burgess42 hanno mostrato il carattere altamente congetturale sia dell’ipotesi più accreditata, di Schwartz, che credeva impossibile compiere una tale opera durante la persecuzione, e quindi la datava intorno al 303, sia, a maggior ragione, dell’ipotesi di Barnes, che colloca la prima edizione dei ChC prima del 293, in anni molto giovanili. Chi scrive ritiene, a supporto della datazione tarda, cioè nel pieno della persecuzione o alla sua fine, che bisognerebbe tenere meglio in conto le implicazioni dello stretto discepolato di Eusebio dal maestro Panfilo (al punto che egli volle chiamarsi ‘Eusebio di Panfilo’), il quale nulla scrisse al di fuori dell’Apologia pro Origene, composta con l’aiuto di Eusebio in prigione (fra 307 e 310), sotto l’urgenza di una difesa nei confronti dell’Alessandrino contro attacchi che proprio le implicazioni della persecuzione avevano rinfocolato. Lo stesso stimolo apologetico, diretto questa volta contro chi forniva pezze d’appoggio teoriche ai persecutori, deve aver sollecitato Eusebio a iniziare una produzione letteraria. Perché mai egli avrebbe dovuto iniziare a scrivere in precedenza43, in un periodo in cui il suo stesso maestro non sembrava interessato a produrre opere in proprio?
Se le cose stanno così, e la datazione dei ChC è da porre dopo il 306, fra 308 e 311, probabilmente spostata proprio verso quest’ultima data, con almeno una successiva edizione collocabile nel 325/326, a maggior ragione, a partire dalla cornice cronologica iniziale e nella sistemazione finale, il ruolo di Costantino appare in tutta la sua rilevanza. Attraverso le segnalazioni contenute nello spatium historicum, dall’avvio del suo regno indicato in contemporanea a quello della persecuzione (Pasqua del 303), la figura di Costantino è rappresentativa di un percorso di protezione nei confronti del cristianesimo che si svolge parallelamente a quello persecutorio, e che alla fine prevale perché consonante con la direzione costante della storia, nella quale i cristiani sono radicati dall’inizio attraverso la catena dei profeti ebraici, ricollocati da Eusebio nella giusta posizione e autorità contro i tentativi di delegittimazione porfiriani. La chiusura definitiva dell’opera al 325/326 sicuramente ha il senso di celebrare sia la ritrovata unità dell’Impero universale, una volta liquidata definitivamente la deviante logica tetrarchica, sia la pace della Chiesa seguita alla sconfitta nel 324 di Licinio, colui che nella Historia ecclesiastica sarà dipinto come l’ultimo persecutore. Il 325 è anche l’anno del concilio di Nicea, conclusosi in luglio con l’avvio delle celebrazioni per il ventennale, un evento altrettanto importante perché per suo mezzo Costantino ristabilisce la pace interna della Chiesa, dopo averle assicurato la fine delle ostilità esterne. L’evento è segnalato nella traduzione di Girolamo al 321/322, subito dopo la notizia dell’opposizione di Ario al vescovo Alessandro, ma, stante la mancata menzione di Nicea nella Historia ecclesiastica, gli studiosi sono divisi se considerarne l’accenno in ChC originario oppure da attribuirsi ad additamentum geronimiano44.
Eusebio aveva potuto dimostrare nei ChC, mediante il rigore ‘scientifico’ di una cronografia dispiegata in colonne parallele, l’antichità dei cristiani, eredi dei profeti ebraici, e la convergenza delle storie dei popoli nell’unità monarchica dell’Impero romano, funzionale al diffondersi del messaggio cristiano, secondo la lettura positiva, inaugurata molto tempo prima da Melitone, del sincronismo fra la nascita di Cristo e l’avvento di Cesare Augusto. Questo risultato è messo immediatamente al servizio del progetto della Historia ecclesiastica (h.e.) in dieci libri. Nel prologo egli si richiama ai ChC dicendo: «Già prima ho esposto in sintesi nell’opera intitolata ‘Canoni cronologici’ questi argomenti, ma adesso ho intenzione di farne un’esposizione più completa [πληρεστάτην ... τὴν ἀϕήγησιν]»45. L’affermazione è quanto mai interessante, stante la rivendicazione di originalità della h.e. solennemente avanzata da Eusebio (come si vedrà nel successivo paragrafo 4): questa, assoluta rispetto ai precedenti scrittori, sarebbe solo relativa in relazione alla sua opera precedente, quasi che l’attuale sia di fatto un’espansione quantitativa di quella. In realtà le cose non stanno così dal punto di vista letterario, perché la struttura delle due opere è diversa, ed è il carattere compiutamente storiografico, quindi interpretativo, della h.e. a marcare la differenza. Ma Eusebio non si è certo ingannato, e la frase va letta come rivendicazione di una continuità nell’argomento e nello scopo delle due opere, ambedue al servizio del progetto di definitiva legittimazione del cristianesimo.
Al pari dei ChC, sussiste per la h.e. un problema di datazione che ha avuto diverse soluzioni. La posizione divenuta classica è quella del suo editore Schwartz, che distingue quattro edizioni46, a partire dal 312-313, con i primi otto libri, cui segue la seconda nel 315 con l’aggiunta del nono, la terza che completa l’opera con il decimo nel 317, infine la quarta del 324 e una revisione con l’espunzione del nome di Crispo nel 326. Barnes47 propone una cronologia alta, anteriore al 303, per la prima edizione comprendente sette libri, mentre la quarta sarebbe del 325-326. Burgess48 riprende Schwartz collocando al 313 i primi otto libri e datando la quarta edizione, considerata semplice revisione, al 326, con la damnatio di Crispo. Di recente si è ragionevolmente suggerito da più parti di evitare il termine ‘edizioni’, data la complessità della questione riguardante i processi editoriali nell’antichità e la selva di ipotesi accumulatasi su ciò che, nel caso della h.e., sarebbe da ricondurre a un’edizione piuttosto che all’altra. Lo stato della tradizione manoscritta e qualche incoerenza nel testo portano a supporre successivi rimaneggiamenti da parte dell’autore, una sorta di work in progress: piuttosto che edizioni, si distinguono due differenti stadi dell’opera. L’intreccio fra intento storico, apologetico e propagandistico è troppo pervasivo e costante per essere addebitato a una fase successiva di composizione: si pensi alla selezione, nel primo libro, degli episodi della vita di Cristo fatta per mettere in luce, su punti discussi, l’accordo dei vangeli con le fonti esterne. Di conseguenza si propende per una datazione bassa del primo stadio, forse poco dopo il 313, quando la persecuzione è appena terminata, ma permane vivo il ricordo dei suoi orrori, e si spalanca, miracolosamente, un diverso presente; mentre si può confermare una datazione al 324/325 per il secondo e ultimo stadio. In ogni caso, il punto di partenza per la riflessione sulla posizione di Eusebio come storico è il testo stabilito da Schwartz, corrispondente allo stadio in cui egli ha lasciato il suo lavoro, con le incoerenze registrabili nel trattamento della figura di Licinio, dovute forse alla mancanza della revisione definitiva49.
L’attenzione posta al testo di arrivo corrisponde anche all’esigenza, rilevata dalle attuali impostazioni critiche50, di andare oltre la tradizionale valutazione dell’opera eusebiana in termini di veridicità storica, per apprezzarne la costruzione narrativa, le strategie di comunicazione, condotte con consapevole innovatività dall’autore, che rivelano un disegno meditato, non certo una semplice collezione di fonti51, bensì un’accurata selezione per scopi precisi. Questa impostazione, molto più attenta alla scrittura e all’intenzione dell’autore, consente di comprendere meglio una delle caratteristiche strutturali macroscopiche della h.e., estranea all’antica storiografia greco-romana: l’uso massiccio da parte di Eusebio di excerpta degli autori precedenti. Non si tratta, in questo caso, di mancanza di rifinitura, ma di una precisa scelta dello storico, che si serve di excerpta anche nelle opere dottrinali, come la Praeparatio evangelica. La giustificazione teorica del procedimento è enunciata proprio nella Praeparatio: lo scopo è dare all’esposizione della verità un maggior numero di testimoni52, e la matrice del procedimento è apologetica, come dimostra non solo il precedente prossimo di Flavio Giuseppe, uno dei modelli cui Eusebio guarda, ma anche l’Apologia pro Origene, un collage di citazioni dell’Alessandrino allo scopo di dimostrarne l’ortodossia mediante i suoi stessi scritti. A un fine difensivo si possono infatti ricondurre le diverse funzioni delle citazioni nella h.e., a partire da Flavio Giuseppe chiamato a certificare la realtà del censimento di Quirino menzionato da Luca53, o a smascherare le falsificazioni pagane degli Acta Pilati, composti sotto Massimino Daia54. Ma anche le citazioni numerose degli scrittori cristiani, oltre a illustrare in qualità di testimonianze dirette alcuni episodi narrati da Eusebio, stanno a rivendicare indirettamente una tradizione culturale matura da parte dei cristiani, in una sorta di embrionale storia della letteratura cristiana.
Il titolo ᾿Εκκλησιαστικὴ ἱστορία è tradotto generalmente dai moderni con ‘Storia della Chiesa’. Bisogna però notare che, all’interno dell’opera, il termine «Chiesa» compare poche volte al singolare, nel senso teologico di Chiesa universale, unita cioè da fede, sentimento e istituzioni. Eusebio parla piuttosto di chiese, delle comunità di fedeli sparse nei diversi luoghi, e predilige la dizione, anch’essa prevalentemente plurale, di «cristiani», considerati però un solo popolo (ἔθνος), sia pure dissimile da ogni altro popolo, perché senza carattere etnico e universalmente diffuso55. L’aggettivo ἐκκλησιαστικός connota la retta fede che si professa, e questa sfumatura deve essere considerata implicita nel titolo: difatti le eresie sono menzionate solo in quanto oggetto delle confutazioni degli scrittori antieretici. Insomma, il titolo rispecchia la complessità del fenomeno trattato, ma definisce e garantisce anche l’identità del popolo cristiano in quanto distinta e separata da gruppi che si dichiarano cristiani ma che, per Eusebio, rappresentano una contraffazione demoniaca. Egli crede fermamente nel carattere unitario, a un livello profondo, ontologico, della realtà volta e guidata da Dio che intende narrare, e, quando lo esprime, lo fa solennemente. Si veda per esempio la seguente affermazione: «si accresceva e aumentava sempre, costantemente e in modo inalterato, lo splendore della Chiesa universale, unica e vera [ἠ τῆς καθόλου καὶ μόνης ἀληθοῦς ἐκκλησίας λαμπρότης]»56.
I dieci libri dell’h.e. sono accuratamente suddivisi in capitoli, di lunghezza varia, ciascuno con il suo titoletto. Ogni libro è preceduto da una tavola con la lista numerata dei capitoli, e questa suddivisione pare risalire a Eusebio stesso. Egli peraltro era troppo attento per lasciare qualcosa al caso, e quindi la disposizione della materia, che aveva una lunghezza obbligata per ciascun libro, a causa delle dimensioni del rotolo, è stata da lui accuratamente vagliata. Nel prologo, per prima cosa, individua le tematiche generali, frutto di una meditata selezione in vista di ciò che merita di essere tramandato ai posteri: in primo luogo le successioni degli apostoli, poi gli eventi della storia ecclesiastica; i vescovi, i personaggi e gli scrittori illustri; gli eretici (indicati con ampia perifrasi come novatori e portatori di false dottrine e bollati con la metafora dei lupi rapaci); le disgrazie dei giudei per la morte di Cristo; i persecutori pagani e i martiri. Poco più avanti (I 1,4) Eusebio afferma di essere felice di sottrarre all’oblio «le successioni, se non di tutti, almeno dei più rinomati apostoli del nostro Salvatore nelle chiese ancora oggi illustri e famose»57. Di nuovo, alla fine del settimo libro e all’inizio dell’ottavo, nel momento in cui passa da un blocco all’altro dell’opera, dice di aver concluso di parlare delle successioni per venire a trattare delle «lotte contemporanee». Dunque, con le successioni apostoliche, si ha davanti non il primo fra una serie di temi, ma un elemento cui Eusebio assegna una funzione particolare. La successione (διαδοχή) apostoli-vescovi fu lo strumento, escogitato dall’autore cristiano Egesippo a metà del II secolo e ripreso da Ireneo, per superare, da parte di coloro che si sarebbero affermati come cristiani ‘ortodossi’, le difficoltà della tradizionale successione maestro-discepolo, cui i cristiani si erano fino ad allora affidati per la trasmissione degli insegnamenti di Gesù, ma che ormai era inadatta a contenere il proliferare di scritti e di dottrine, specie gnostiche. Da quando la maggioranza delle chiese, dopo la metà del II secolo, proclamò la garanzia della successione apostolica, la storia del cristianesimo acquisì il volto istituzionale ancor oggi praticato in quasi tutte le confessioni cristiane, e che Eusebio valorizza ritenendolo, anacronisticamente, l’organizzazione da sempre esistente nelle chiese. Di conseguenza le successioni costituiscono per Eusebio la garanzia della presenza permanente di Cristo-Logos nelle chiese, il che comporta la sicurezza di una identità inalterata rispetto a deviazioni estranee (le eresie) e ai contraccolpi esterni, diventando elemento qualitativamente primario nell’ambito dei nove (a tanti sembra assommare l’elenco eusebiano sopra riportato) componenti la griglia tematica. In tal modo Eusebio impone una gerarchia di rilevanze, di per sé interpretative, che fungono da filo rosso della narrazione, altrimenti a rischio di naufragio a causa della mole delle notizie tramandate dalle diverse fonti e bisognose di organizzazione. Ma le successioni episcopali rispondono anche all’esigenza di affiancare alla griglia cronologica romana delle successioni imperiali, già presenti nei ChC, una griglia cristiana ed ecclesiastica, e così assolvono a una duplice funzione: da un lato sono oggetto principale dell’indagine storiografica, dall’altro sono elemento strutturante in senso temporale della medesima.
L’affiancamento della cronologia ecclesiastica a quella romana produce il doppio effetto di valorizzare il sincronismo fra nascita dell’Impero romano e nascita del cristianesimo e di cristianizzare il tempo storico, anche se le successioni episcopali sono poste sempre dopo quelle imperiali. Ma come deve intendersi l’assenza della menzione delle successioni episcopali, annunciata dallo stesso Eusebio all’inizio dell’ottavo libro (si veda quanto detto poco sopra), nei tre libri finali e come si manifesta la cristianizzazione del tempo nel complesso dell’opera?
Per quanto riguarda la prima questione, stando all’ipotesi di Barnes58, secondo cui Eusebio aggiunse in un secondo tempo gli ultimi tre libri, facendo dei piccoli aggiustamenti nella prefazione qui e là, si potrebbe rispondere semplicemente che essi rispondono a una diversa logica, a causa delle mutate circostanze, cioè per il sopraggiungere della persecuzione: anche se il tema dell’ostilità contro i cristiani percorre, insieme con gli altri summenzionati, tutti i primi sette libri della h.e., esso diventa in pratica l’oggetto esclusivo della narrazione negli ultimi tre, fino alla felice risoluzione contenuta nel decimo. Ma la debolezza dell’ipotesi della posteriorità dei tre libri sta nel presupposto, tanto indimostrabile quanto necessario per sostenerla, che tutte le anticipazioni di eventi successivi nel libro settimo e tutti i rimandi siano aggiunte a posteriori, appositamente fatte per la sutura59. È pertanto più corretto e più conforme a quello che traspare dalla stessa opera considerare il mutamento strutturale della h.e. da trattazione annalistica e pluritematica in narrazione monografica di eventi circoscritti nel tempo come necessario e previsto in funzione del messaggio da comunicare, consistente nel mostrare il piano provvidenziale di Dio nei confronti dei cristiani. È lo stesso Eusebio a guidarci verso questa interpretazione. Egli aveva introdotto nel prologo del primo libro l’ultimo tema, la persecuzione anticristiana, con le parole: «quanto, come e in quali tempi la parola divina ha lottato contro i gentili, i valorosi che sostennero per lei l’agone con il sangue e i supplizi, le testimonianze in mezzo a noi, il benevolo e benigno soccorso venutoci dal nostro Salvatore»60. La formulazione rispecchia il sentimento della vittoria guidata dalla provvidenza. I protagonisti non sono infatti i persecutori: essi non avrebbero avuto la forza di combattere contro la parola di Dio, pensa Eusebio, se non gli fosse stata in qualche modo concessa dalla provvidenza. È la parola di Dio che combatte contro i suoi avversari («la parola divina ha lottato contro i gentili»), mentre i valorosi si sacrificano per lei e il Salvatore alla fine soccorre. In queste poche battute c’è il senso di tutta la storia; di conseguenza, la sospensione nei tre libri finali di ogni elemento di continuità, di rassicurazione dato da uno scorrere del tempo scandito dalla normalità dell’avvicendamento dei vescovi, come avveniva nei precedenti sette libri, e la concentrazione sugli eventi catastrofici servono a sottolineare il carattere decisivo della lotta e della vittoria e a dimostrare l’assunto iniziale: solo il volere di Dio ha guidato il cammino dei cristiani.
Veniamo alla seconda questione, strettamente connessa alla prima, riguardante la cristianizzazione dei tempi. Nella h.e. l’ampiezza del tempo storico viene delimitata a partire dagli apostoli e dai loro successori, cioè dagli effetti della venuta in terra di quel Salvatore che avrebbe suggellato con la sua misericordia la vittoria dei cristiani. La novità della scansione temporale, programmata sul momento della comparsa sul palcoscenico della storia di Cristo e dei cristiani, che costituisce il proprium della h.e., porta in piena luce l’obiezione con la quale i cristiani si confrontavano da sempre: l’essere dei novatori, quindi una deviazione rispetto sia a Israele sia ai culti tradizionali dell’Impero. Eusebio ne è ben consapevole e predispone la risposta. Nel primo libro, al prologo fa seguito un riassunto di carattere dottrinale sull’economia e teologia di Cristo, che successivamente Eusebio chiama προκατασκευή‚ termine retorico per indicare l’antefatto di una narrazione. Tale antefatto ha una funzione assolutamente centrale per la comprensione dell’opera: la mia esposizione delle cose che seguono può essere completa solo se condurrò lo svolgimento del discorso partendo dalle cose più importanti ed essenziali secondo la storia riguardo a esso. Dimostrerò così anche l’antichità e il carattere degno di Dio dei cristiani a coloro che li ritengono gente nuova nata ieri61.
Dunque la προκατασκευή manifesta il sensus plenior della narrazione, perché riconduce la storia dei cristiani al volere di Dio, attraverso l’esposizione della duplice natura di Cristo che, come Logos e Sapienza preesistente, è la seconda causa dell’universo insieme con il Padre e, come Dio fatto uomo, è artefice della salvezza. L’antichità addirittura primordiale di Cristo in quanto Logos è garanzia dell’antichità dei cristiani, suoi seguaci diretti dal momento della sua manifestazione terrena, mentre i profeti e i giusti precedenti lo avevano potuto venerare solo in figura. Non sfugge la chiara impostazione polemica di Eusebio: la recenziorità e il carattere deviante del cristianesimo erano parte del corredo accusatorio prodotto dagli avversari che di recente, come Porfirio o Ierocle, avevano messo in discussione la legittimità storica dei cristiani. Scopo epistemologico e scopo apologetico risultano intimamente e indissolubilmente connessi nella h.e., al pari che nei ChC. Rispetto alla precedente opera cronografica però qui Eusebio può diffondersi nell’argomentazione, situando apertamente il fondamento della storia ecclesiastica nel piano salvifico dell’economia di Cristo «che è più divina di quanto sembri a molti». Nella προκατασκευή, pertanto, è enunciata la chiave di lettura complessiva della storia umana, governata dalla provvidenza, in funzione dei cristiani, mediante due dispositivi: l’accrescimento inarrestabile del nome cristiano, per contrastare il quale l’azione del demonio si scatena variamente ma invano, e un sistema di premi/punizioni che arriva sempre a segno, però secondo tempi e modi imprevedibili per l’uomo. Mentre i ChC dimostravano l’assunto provvidenziale evidenziando sulla lunga durata la direzione complessiva della storia dei popoli e contraendo il presente perché fosse agevolmente compreso sullo sfondo della storia universale, nella h.e., che prende in considerazione solo un segmento, sebbene il più importante, della storia universale, i fatti del passato recentissimo e del presente si dilatano nei tre libri, che narrano solo dieci anni, rispetto ai sette libri che raccontano poco meno di trecento anni: il motivo della sproporzione risiede nel fatto che sono proprio questi decisivi dieci anni la dimostrazione più eloquente dei due dispositivi messi in atto dalla provvidenza lungo tutta la storia.
Delineando il cammino progressivo dell’umanità, grazie all’ispirazione del Logos, dallo stato ferino all’organizzazione pacifica di legislatori e filosofi, Eusebio non manca di sottolineare che proprio perché gli uomini hanno raggiunto una «pace profonda» (εἰρήνην βαθεῖαν)62 e quindi sono divenuti capaci di conoscere il Padre, il Logos divino si manifesta nella natura umana «al principio dell’Impero romano» (ἀρχομένης τῆς ῾Ρωμαίων βασιλείας: I 2,23). Un’analoga visione di progresso è espressa nel proemio del libro ottavo della Demonstratio evangelica. Da allora inizia il cammino trionfale dei cristiani: così senza dubbio Eusebio, mettendo in atto il primo dispositivo, vuol farlo apparire nei primi sette libri, dove ogni tentativo del diavolo, sotto forma di istigazione all’eresia e alla persecuzione, in breve tempo si dissolve, dando l’impressione che la consistenza anche numerica della realtà cristiana permanga inalterata dagli inizi. Non è, peraltro, quello progressivo, l’unico schema della h.e., in quanto Eusebio ve ne alterna uno di segno opposto, pur se all’interno di un discorso, il panegirico per la dedicazione della basilica di Tiro63, composto in diversa occasione e poi inserito nel libro decimo (h.e. X 4,11): nello schema negativo una progressiva malvagità si impadronisce, con poche eccezioni, del genere umano, sicché il Salvatore scende come medico universale, avendo l’eccesso di male travolto lo stesso popolo ebraico. Il punto comune ai due schemi, in prospettiva generale, sta nell’essere entrambi comandati dalla necessità di giustificare apologeticamente il ritardo nella venuta del Figlio di Dio nella carne: a tal fine è equivalente dire che egli era finalmente giunto perché si era toccato il culmine del male o del bene possibile. Tuttavia neppure l’incarnazione, sebbene costituisca la svolta risolutiva della storia umana, può garantire, per quanto riguarda i movimenti del libero arbitrio, che gli stessi cristiani si comportino in maniera conseguente all’esempio mostrato da Cristo. Ed è a questo punto che il secondo dispositivo della h.e., riferito nei primi sette libri alla punizione dei giudei, degli eretici o di qualche persecutore pagano, entra in scena applicandosi per la prima volta ai cristiani. All’inizio dell’ottavo libro, Eusebio ricorda con enfasi la gloria e la libertà di cui universalmente godeva la parola «della pietà religiosa del Dio dell’universo», penetrando in modo pervasivo nei gangli della società del tempo (esercito, magistrature): nei palazzi imperiali i cristiani pullulavano e nessuna forza contraria si opponeva «fino a quando la mano divina copriva e proteggeva il suo popolo ed esso ne era degno» (VIII 1,6). Ma ecco che la tracotanza mina all’interno la compagine cristiana, secondo la topica tragica di tutti i tempi applicata alla storia cristiana secondo la quale, raggiunta la vetta di una situazione positiva, arriva la catastrofe: i cristiani cominciano a combattersi fra loro: «i capi delle chiese si volsero contro altri capi, i popoli si levarono l’uno contro l’altro». Non si cessa dai conflitti neppure dopo le prime disposizioni imperiali contro «i fratelli che erano nell’esercito»64, lasciate nel vago da Eusebio, tutto intento a dimostrare che si deve addebitare alle discordie interne la causa della persecuzione: «Quelli che si dicevano nostri pastori, trascurando i precetti di pietà, si infiammarono in contese reciproche e non fecero altro che aumentare le liti, le minacce, l’invidia, l’animosità degli uni contro gli altri e l’odio, poiché con tutto se stessi – a guisa di tiranni – bramavano il potere»65.
L’elenco dei mali è stilizzato ma non di maniera: colpisce la nettezza con cui Eusebio addossa ai vescovi la responsabilità primaria di aver scatenato l’ira divina. I fatti a cui si riferisce restano ignoti: sono collocati, come si è visto, a ridosso della persecuzione, quindi al più presto negli ultimi venti anni prima del 303, un periodo che rimane completamente in ombra nella h.e. Il passo è di importanza capitale perché Eusebio dichiara apertamente, subito dopo («non compete a noi affidare alla memoria le discordie e i reciproci oltraggi avvenuti prima della persecuzione»: VIII 2,1), che l’omissione dei contenuti delle discordie è una sua scelta deliberata, e il modo in cui vi allude porta a derubricarli come rivalità personali. In realtà con ogni probabilità essi implicavano una componente dottrinale, e riguardavano anche la controversa eredità di Origene. Eusebio giustifica l’omissione con il criterio dell’utilità, già evocato nel prologo della h.e., e qui indirizzato primariamente a un’utenza cristiana: «aggiungeremo alla storia universale solo ciò che potrà essere di utilità a noi stessi e poi a quanti verranno dopo di noi. Partiamo dunque da qui, descrivendo succintamente le sacre lotte dei martiri per la parola di Dio»66. Evidentemente l’utilità consiste nell’edificazione di una coscienza interna alle comunità cristiane, fondata sull’esemplarità dei martiri nell’ambito di una trattazione omogenea, comandata da un unico meccanismo narrativo: l’ineludibilità del rapporto consequenziale fra trasgressione e punizione. Sul finire del libro ottavo Eusebio può dare l’annuncio della riconciliazione della provvidenza con il suo popolo, e non si sfugge alla conclusione che proprio l’eroismo dei martiri abbia portato a tale ribaltamento.
Al di là della differente organizzazione della materia nelle due parti della h.e. quanto a tematica e dimensioni cronologiche, e a tecnica compositiva, dal momento che nei primi sette libri si segnala un uso abbondante di excerpta di antichi scrittori mentre negli ultimi tre si fa riferimento a testimonianze autoptiche e a documenti ufficiali dell’autorità civile, Eusebio è riuscito a dare all’opera un impianto ideologico omogeneo. Il libro decimo porta a compimento l’impostazione enunciata nel primo: di solito se ne sottolinea la frammentazione, mentre se ne dovrebbe riconoscere la compattezza di visione, essendo esso dedicato al canto nuovo, come dice Eusebio, innalzato per la pace, celebrata sì, ma di cui si supplica anche, in un residuo di incertezza, la stabilità. Tutto il libro ruota intorno al panegirico (h.e. X 4,1-72) per la dedicazione della basilica di Tiro, che costituisce la ripresa e l’ideale prosecuzione della προκατασκευή del libro primo67. In questa, conformemente al suo alessandrinismo moderato, Eusebio distingue l’ipostasi del Figlio-Logos da quella del Padre e pone il Logos, simile per sostanza, in posizione mediana fra Dio Padre, cui è inferiore in quanto ne è generato, e il mondo creato, cui è superiore in quanto creatore per volere del Padre68, in modo da salvaguardare il monoteismo nei confronti tanto del giudaismo quanto dell’enoteismo filosofico greco, e da situare il Figlio-Logos al centro del processo salvifico. Cristo-Logos in questa sintetica esposizione viene visto come colui che ammaestra e illumina proclamando a tutti un insegnamento che in precedenza solo pochi, a partire da Abramo, avevano ricevuto. Nel panegirico la basilica di cui si celebra la magnificenza, da poco edificata a Tiro per impulso del vescovo Paolino, diviene metafora del ristabilimento della Chiesa, città di Dio e sposa di Cristo, che dopo essere stata abbandonata all’ira per le sue colpe è riscattata e risorge più bella di prima (X 4,7), donde il ringraziamento a Dio e al Salvatore, che ha interceduto per la sua sposa. Eusebio si sofferma sulla condivisione da parte del Dio fatto uomo degli affanni degli uomini e sul suo successivo trionfo sul diavolo che aveva scatenato la persecuzione. Questa era iniziata dagli edifici e la sua sconfitta è resa palese dalla loro riedificazione. Ma più importante, e qui Eusebio manifesta l’impostazione spirituale ereditata da Origene, è la riedificazione dell’edificio spirituale delle anime, create dal Figlio di Dio a sua immagine e bruttate dal demonio. Il recupero cui il Logos si dedica inizia dalle anime degli imperatori (X 4,60), per mezzo dei quali purifica il mondo. L’accenno a Costantino e Licinio dunque c’è, ma è discreto e quasi inserito di passaggio nella contemplazione dell’azione del Logos che rende tutta la terra immagine del cielo, cioè della Gerusalemme celeste cui si deve tendere.
Una lettura spassionata mostra come Eusebio nella h.e. sia lontano dall’attardarsi sull’esaltazione fine a sé stessa della Chiesa terrena o della situazione di pace instaurata dagli imperatori. Un’antropologia pessimista e un radicale dualismo antropologico, evidente nei suoi scritti, lo induce a respingere il millenarismo, di cui non comprende le esigenze e che considera una dottrina bassa e insulsa, ma gli impedisce, contrariamente a quanto molti critici sostengono, di identificare il regno di Dio nelle istituzioni terrene, le quali sono semmai l’alveo per proseguire sicuri verso l’unica meta della Gerusalemme celeste.
Giunti a questo punto, la valutazione dell’originalità di Eusebio è facilitata. Rispetto alla storiografia pagana riguarda in primo luogo l’oggetto della sua storia, la Chiesa/le chiese, che egli qualifica spesso e volentieri come popolo o nazione (ethnos) cristiana. Tale dizione richiama immediatamente la tradizione delle storie nazionali, ben note a Eusebio, cui appartengono gli storici romani, come anche gli storici dei popoli non greci, da Manetone al giudeo Flavio Giuseppe, nei quali, ora più ora meno, è ravvisabile la tendenza apologetica che muove anche Eusebio. Il precedente a lui più prossimo è senz’altro Flavio Giuseppe, citato ampiamente nei primi libri della h.e. Per entrambi la storia è guidata dalla provvidenza di Dio e gli accadimenti negativi debbono avere una giustificazione compatibile con essa: dunque per Giuseppe, ma già nella letteratura profetica, manifestano il giusto castigo di Dio per l’infedeltà del suo popolo69, e lo stesso avviene in Eusebio, come abbiamo visto nel caso dell’ultima persecuzione. In forza della fede nella provvidenza, l’adagio dell’historia magistra vitae, comune alla storiografia classica e condiviso da Eusebio, che afferma l’utilità della sua opera per «coloro che desiderano trarre il buon insegnamento dalla storia»70, acquista un senso più stringente. La sua offre il più grande insegnamento possibile, perché in essa sono Dio stesso e il suo Logos ad agire: la visione storica di Eusebio è propriamente una teologia della storia. Rispetto alla storiografia greca la sostituzione del fato o fortuna con la provvidenza è segno di una nuova comprensione del rapporto degli uomini con il soprannaturale. Predomina nei greci il sentimento dell’ineluttabilità di ciò che è assegnato all’uomo, al di là della sua comprensione e del suo volere: l’autonomia della decisione umana, che pure sussiste, si situa in una cornice soprannaturale incontrollabile71 e il nesso consequenziale fra le azioni e la corrispondente retribuzione è labile. Nella visione eusebiana, che eredita e sistematizza in proposito il convincimento ebraico, tale nesso è stringente, perché Dio è insieme provvido e giusto. Un disegno divino sta dietro ogni accadimento e Dio permette al diavolo di agire, come prova o come punizione per il suo popolo, all’unico fine di condurre a compimento il suo disegno benevolo. Il margine di inafferrabilità degli eventi rimane sempre alto, perché non si conosce quando Dio interverrà a mutare una situazione negativa, ma è il sentimento con cui si vive la loro imprevedibilità a cambiare, perché il cristiano sa che il processo storico è finalizzato al bene del popolo di Dio.
Posta questa sostanziale differenza fra la concezione eusebiana della storia e quella della storiografia classica, Eusebio si differenzia altrettanto da Flavio Giuseppe, e quindi dall’impostazione della storia nazionale, perché spezza il nesso fra ethnos e religione: il popolo cristiano non ha caratteri etnici e la sua religione è universale. Di conseguenza l’ottica di Flavio Giuseppe è molto più incentrata sugli avvenimenti politici del suo popolo, specie le guerre intraprese, rispetto all’intento dell’autore cristiano, che nella h.e. riesce a produrre una trattazione multidimensionale e nello stesso tempo focalizzata sul fenomeno squisitamente religioso72. Eusebio è consapevole che la sua narrazione si colloca su un piano diverso da quello ‘politico’ degli scrittori di storia allorché rammenta le vittorie, i trofei, soprattutto il sangue che imbratta i soldati e gli stermini compiuti «per i figli, la patria, gli altri guadagni» cui contrappone «le guerre del tutto pacifiche per la pace dell’anima», intraprese dagli «atleti della pietà religiosa (εὐσέβεια)» per la verità piuttosto che per la patria, per la pietà religiosa piuttosto che per i propri cari73. Il piano politico e quello religioso convergono però nuovamente negli eventi più recenti, grazie al ruolo assunto da Costantino nel mutamento delle sorti dei cristiani, la conseguente necessità di comprendere la guerra contro Massenzio in chiave di investitura divina e di differenziarne la posizione rispetto a Licinio74. Su ciò torneremo.
Eusebio era ben consapevole dell’originalità della sua opera e la rivendica nel prologo quando chiede nella captatio benevolentiae, usando anche la figura retorica della tapinosi, l’indulgenza dei suoi lettori perché si accinge, come un viandante inesperto, lungo una strada inesplorata, dove non sono visibili impronte umane, ma solo deboli indizi lasciati dagli scrittori precedenti, fra i quali egli deve scegliere le parti adatte «per farne un corpo organico mediante l’esposizione storica». L’espressione usata, ὐϕήγησις ἱστορική75, sottolinea il carattere lineare dello sviluppo storico, una volta che le testimonianze siano ricomposte in una globalità di senso grazie al suo lavoro. La pietra di confronto per stabilire la sua originalità sono gli scrittori ecclesiastici (ἐκκλησιαστικοὶ συγγραϕεῖς), nessuno dei quali si è impegnato, a suo giudizio, in un’opera del genere76. Scartati gli autori che forniscono a Eusebio qualche dettaglio della sua impostazione, come per esempio Egesippo, alcuni moderni hanno voluto considerare Luca, con gli Atti degli apostoli77, il vero padre della storiografia cristiana: in lui si ritrova quella stessa visione provvidenziale della storia che si è visto caratterizzare la h.e. ed, embrionalmente, anche il rapporto preferenziale con l’Impero romano. Questa ipotesi di paternità non tiene conto del fatto che Luca non fu sentito né da Eusebio né dagli storici antichi come un predecessore, in quanto la sua narrazione era ancorata ai personaggi delle origini e soprattutto perché era autore sacro, e non coglie lo specifico di Eusebio, la cui originalità va misurata, come lui stesso sollecitava a fare richiamando il confronto con i precedenti autori cristiani, sul piano della creazione letteraria, cioè per la produzione di un nuovo genere letterario. Secondo la posizione teorica attualmente più accreditata, i generi possono essere definiti come gruppi di testi dotati di specifiche proprietà discorsive tanto a livello dell’enunciazione e della destinazione quanto a livello semantico e sintattico: marcatori testuali, specificità pragmatiche, determinazioni di contenuto, peculiarità organizzative. La delimitazione del corpus di testi riconducibili a uno stesso genere letterario si costituisce a posteriori, sulla base della continuità storica78 di caratteristiche comuni, che vengono storicamente istituzionalizzate e diventano riconoscibili, costituendo, da un lato, il modello in base al quale si configura la produzione di opere simili, dall’altro l’‘orizzonte d’attesa’ nel processo di ricezione. Così come, dopo quelli lucani, molti Atti di apostoli continuano il genere letterario incentrato sulle imprese di personaggi delle origini, l’opera storica di Eusebio si riconosce come capostipite di un genere per il gran numero di imitatori e di continuatori in epoca immediatamente successiva, fra IV e V secolo, grazie a una forza attrattiva che fu capace di interrompere, per un lungo periodo, le fortune della cronografia, che erano iniziate un secolo prima e che successivamente continuarono per tutto l’evo medio79. La nuova situazione della Chiesa, inserita organicamente dopo Costantino nella compagine statale, con una proiezione esterna e una ricaduta sulla società civile prima impensabile, compresi anche i contraccolpi dei conflitti dottrinali, richiedeva una riflessione storiografica da parte cristiana cui Eusebio aveva fornito uno strumento duttile, grazie a una chiave di lettura unitaria per un lungo passato, con i primi sette libri, e la possibilità di articolare in dettaglio il discorso sul periodo breve con gli ultimi tre. I continuatori della h.e. sono i migliori testimoni del valore fondante dell’opera eusebiana. «Eusebio di Panfilo» sono le parole iniziali della Historia ecclesiastica di Socrate80, e il fatto che egli si adoperi a marcare le differenze fra il suo modo di fare storia e quello di Eusebio è la prova di un rapporto ineludibile di dipendenza e di emulazione. Teodoreto81 dichiara di prendere la fine della storia di Eusebio come punto di partenza della sua. Filostorgio lo loda senza riserve per quanto riguarda la storia82, anche se, essendo un ariano radicale, lo disapprova nella fede. Ancora Evagrio Scolastico, ben più tardi (la sua Historia ecclesiastica comprende gli avvenimenti dal 429 al 593), inizia con il nome di Eusebio. Il solo Sozomeno cita prima di lui Clemente Alessandrino, Egesippo, Giulio Africano, ma ciò si comprende alla luce della dichiarata rinuncia all’iniziale progetto di partire dalle origini83, donde la cura con cui egli elenca i nomi di quelli che ne avevano, in vari modi, trattato. Inoltre l’ampia qualifica di erudito conferita a Eusebio segnala una maggiore considerazione, senza contare il fatto che l’indicazione di Clemente ed Egesippo come di coloro che avevano stabilito le liste episcopali, le quali «costituivano la sostanza stessa»84 della storiografia ecclesiastica, dimostra inequivocabilmente l’influsso profondo dell’impostazione eusebiana su Sozomeno.
La sincronia fra Impero e cristianesimo, come sopra abbiamo visto, è elemento strutturante nella h.e.: il fatto che le successioni apostoliche siano generalmente indicate in relazione alle successioni imperiali induce nei lettori l’idea che l’Impero sia l’alveo naturale per l’espansione del messaggio cristiano. Tuttavia, per non sopravvalutare la portata di questa constatazione, non si dimentichi che l’inquadramento metastorico proposto dalla προκατασκευή esprime nella rivelazione del Logos un più alto livello di universalismo sia prima sia dopo l’incarnazione: e forse non è un caso che Eusebio introduca alla fine del primo libro la figura del re Abgar di Edessa, fuori quindi dall’Impero romano, primo re della terra a riconoscere la divinità di Gesù (I 13,7-8), e all’inizio del secondo riprenda la notizia specificando la fedeltà a Cristo degli edesseni fino ad oggi, «offrendo così una dimostrazione non trascurabile della benevolenza del nostro Salvatore anche verso di loro»85. Tuttavia l’universalismo cristiano giocato indipendentemente dall’universalismo dell’Impero romano è cursorio nella h.e. rispetto allo schema che relaziona l’espansione del messaggio di Gesù all’Impero. Poco dopo, nel libro secondo, Eusebio riporta la storia, leggendaria86, del tentativo di Tiberio di far riconoscere al Senato la divinità di Gesù. Il Senato rifiuta l’approvazione (II 2). Questo episodio negativo negli esiti dà modo a Eusebio di esprimere la sua posizione, che tiene in equilibrio due esigenze diverse: da un lato la conferma dell’appoggio di Roma al cristianesimo, per cui gli episodi persecutori rappresentano una deviazione da questa linea costante, e dall’altro il primato della benevolenza di Dio sulla volontà umana. Infatti secondo Eusebio la vera ragione per cui il Senato non acconsente è che l’annuncio divino non ha bisogno dell’approvazione degli uomini87, e, d’altra parte, il mantenersi nell’imperatore di una disposizione d’animo favorevole ai cristiani è dovuto al disegno salvifico della provvidenza (ἡ οὐράνιος πρόνοια κατ’ οἰκονομίαν)88. L’agente primario, insomma, è sempre Dio e, se la sua economia prevede il favore di Roma verso i cristiani, le sorti di Roma stessa e dei suoi imperatori dipendono da Dio e dal favore espresso verso i cristiani. Eusebio esemplifica tale favore raccontando l’episodio della pioggia che salva dalla sete Marco Aurelio e le sue legioni nella guerra contro i sarmati, e che sarebbe stata propiziata dalle preghiere dei soldati cristiani, anche se lo fa con cautela, perché sa che le fonti sono incerte e discordanti89. L’enunciazione più chiara di questa sorta di legge si trova a proposito dell’imperatore Aureliano, del quale Eusebio ricorda l’intervento a favore dei vescovi che avevano deposto Paolo di Samosata. Quando Aureliano, mal consigliato (classico topos dei cattivi satelliti), muta atteggiamento, la giustizia divina lo raggiunge, cosicché Eusebio, anticipando la spiegazione che darà riguardo alla persecuzione dioclezianea, conclude che «non sarebbe mai stato facile per i principi di questo mondo procedere contro le chiese di Cristo, a meno che la mano che ci protegge, con giudizio divino e celeste, non permettesse di farlo per nostra educazione e ammonimento, ogni volta che lo reputa opportuno»90. La differenza fra i cristiani e i loro nemici sta nel fatto che, mentre per i primi la punizione è applicata con discrezionalità imperscrutabile dalla provvidenza, i secondi la subiscono sempre e immancabilmente. Il premio per i cristiani non è escluso nella vita presente – lo si vede con l’avvento di Costantino e Licinio –, pur attuandosi pienamente nella vita futura; al contrario, la sorte finale dei loro oppositori è sempre e solo negativa, non solo nella vita futura, ma pure, con una consequenzialità tanto ferrea da apparire forzata, nella vita terrena. Si tratti dei giudei, i cui mali, per aver causato la morte di Cristo, si accrescono fino all’editto di espulsione dalla loro terra91, o dei persecutori dei cristiani, presto o tardi la pena per i misfatti compiuti li coglie in maniera pubblicamente riconoscibile. Nel caso i persecutori si pentano in extremis (come nel caso di Agrippa o di Galerio), il beneficio che gliene consegue consiste nell’accettazione della morte come giusta punizione (Agrippa)92 o in una morte meno dolorosa rispetto ai dolori fino a quel momento patiti (Galerio)93, ma la punizione avviene comunque. Eusebio, del resto quasi in parallelo con il de mortibus persecutorum lattanziano, non fa che rendere sistematico un meccanismo già presente in forma più o meno embrionale negli autori cristiani precedenti94 e nella Scrittura ebraica.
La stessa legge è ribadita nel caso dei tetrarchi. Eusebio afferma che essi compirono felicemente decennali e ventennali fino a quando mantennero la pace con i cristiani95, e che invece la persecuzione coincise con lo sconvolgimento di tutto l’Impero. Nessuno di loro ebbe una morte serena, tranne Costanzo96, padre di Costantino, che Eusebio loda senza condizioni, non menzionando neppure la distruzione delle chiese da lui applicata secondo i dettami del primo editto97. In questo stesso contesto introduce Costantino, la cui acclamazione ad Augusto da parte dell’esercito appare la sanzione della scelta divina98. Tutta la visione della successione costantiniana è derubricata e deproblematicizzata secondo una naturale ottica dinastica99, e la narrazione della guerra contro Massenzio è governata dal presupposto della decisione di Dio a favore di Costantino.
Senza addentrarci nella questione delle edizioni o stadi compositivi della h.e., è opportuno segnalare che gli ultimi libri, in particolare l’VIII e il IX, recano traccia nella tradizione manoscritta di spostamenti di prospettiva dovuti all’evolversi delle situazioni storiche durante il regno di Costantino. Schwartz aveva notato che una discontinuità, segno di ripensamenti successivi a una prima elaborazione della h.e., doveva essere rintracciata nel fatto che fino a VIII 13 i tetrarchi non sono nominati e si allude ad essi con perifrasi: ciò è conseguente all’idea di Eusebio che la persecuzione è innanzitutto punizione divina. Valerio Neri100 aggiunge un ulteriore indizio di discontinuità da individuare nella costruzione di due coppie contrapposte: Costantino-Licinio versus Massenzio-Massimino, a partire da VIII 14 e per tutto il libro nono. Massenzio in Occidente, al pari di Massimino in Oriente, viene connotato con una serie di accuse squisitamente politiche (avidità, libidine, magia) come tiranno101, un epiteto che Eusebio non aveva mai assegnato ai tetrarchi e a nessuno degli imperatori precedenti. La prova più evidente che il carattere tirannico di Massenzio è tratteggiato secondo le linee guida della propaganda costantiniana sviluppatasi dopo la vittoria di ponte Milvio, ed è perciò accomunato al persecutore Massimino, è l’impossibilità di negarne la tolleranza religiosa, perché troppo nota, in quanto esercitata a Roma, e apprezzata dai cristiani d’Oriente che ne avevano avuto notizia: Eusebio la riduce dunque ad apparenza insincera (VIII 14,1), accusa alquanto aleatoria perché di impossibile verifica.
Una serie di ripensamenti riguarda l’accentuazione encomiastica nei confronti di Costantino, evidenziata dal confronto fra h.e. VIII 13,12-14 e la cosiddetta appendice al libro ottavo, un brano riportato solo in alcuni codici, in particolare h.e. VIII app. 4-5. I due testi non avrebbero potuto coesistere nella stessa opera, e quello dell’appendice si dimostra anteriore rispetto all’altro: nell’appendice infatti Costantino è semplicemente acclamato Augusto dalle truppe, invece nel capitolo 13 viene sottolineata la precedente elezione da parte di Dio102. Quando Eusebio costruisce le coppie contrapposte e i rispettivi esiti, Licinio è accomunato a Costantino. Eusebio lo gratifica dell’appellativo di caro a Dio103, di difensore della pace e della religione104, o di altissimo105. La posizione originaria di Eusebio nei confronti di Licinio, del tutto favorevole, la si legge, come abbiamo detto sopra, nel panegirico del 315-316, in cui entrambi gli imperatori sono uniti nel medesimo atto di riconoscere l’unico vero Dio e di respingere gli idoli106, e le anime di entrambi sono scelte da Dio per liberare la terra dai tiranni107.
Il conflitto subentrato fra i due e la sconfitta di Licinio nel 324 portano Eusebio a ripensare la coppia: mentre Costantino emerge come nuovo Mosè, si produce l’oscuramento di Licinio. Le modifiche privano Licinio dell’aurea del favore divino. Solo nei manoscritti ATER compare, nel contesto dell’incitamento di Dio a Costantino contro Massenzio e Massimino, una frase che gli affiancava Licinio e definiva entrambi gli imperatori «onorati per avvedutezza e religiosità, cari a Dio»108. Il risultato dell’eliminazione è che Costantino diventa l’unico ad avere da Dio il mandato esplicito di combattere i tiranni, mentre Licinio è relegato al semplice ruolo di colui che, comandando in Oriente, deve vedere inevitabilmente la caduta di Massimino. Nel medesimo contesto appaiono gli accenni alla futura pazzia di Licinio, evidentemente aggiunti dopo il 324109. Nei due capitoli conclusivi della h.e. la mutazione è definitivamente compiuta: Licinio diventa emulo dei tiranni (X 8,2), spinto dall’invidia verso il collega. Ma, ancora una volta, Dio muove gli eventi e si fa protettore dell’eletto, Costantino (X 8,6), mentre Licinio, accecato, gli muove guerra e «contemporaneamente decise di schierarsi in campo anche contro il Dio dell’universo»110. Della valutazione storica delle affermazioni di Eusebio riguardo a Licinio, soprattutto sulla sua politica verso i cristiani, si occupano altri saggi. Qui ci si limita a segnalare il ruolo assegnato da Eusebio a Costantino e a Licinio nella prospettiva di una storia ecclesiastica. La vittoria di Costantino e di suo figlio Crispo contro il nuovo tiranno non può che essere facile perché risponde al disegno di Dio (X 9,4). L’esito finale è la ricomposizione in unità dell’Impero, che si identifica, a questo punto dell’opera, con il mondo intero (X 9,6). La prima lode che nelle città e nelle campagne si leva è a Dio, e poi all’imperatore e ai figli; il godimento dei beni presenti si accompagna all’attesa di quelli futuri (X 9,8). Pur nello spostamento di accenti e giudizi, Eusebio tiene salda la barra della sua prospettiva provvidenzialista, che non vede nell’universalismo dell’Impero romano, in quanto tale, la mèta agognata e il regno promesso, bensì lo strumento predisposto da Dio per il raggiungimento dell’universale culto divino nell’attesa dei cieli. È in quest’ottica che va inquadrata l’esaltazione della figura di Costantino.
1 Per la bibliografia su Eusebio in generale e sulle opere storiografiche in particolare due sono gli strumenti a disposizione: l’accurato bollettino bibliografico pubblicato annualmente dalla rivista Adamantius e la messa a punto di S. Morlet e L. Perrone, Bibliographie de l’Histoire ecclésiastique, in Eusèbe de Césarée, Histoire ecclésiastique, Commentaire, Tome I. Études d’introduction, dir. S. Morlet, L. Perrone, Paris 2012, pp. 305-377. Sulla storiografia cristiana, a parte il classico E. Schwartz, Über Kirchengeschichte, in Id., Gesammelte Schriften, I, Berlin 1938, pp. 110-130, si vedano A. Momigliano, Pagan and Christian Historiography in the Fourth Century A.D., in The Conflict between Paganism and Christianity in the Fourth Century, ed. by A. Momigliano, Oxford 1963, pp. 79-99 (trad. it. Storiografia pagana e cristiana nel secolo IV d.C., in Il conflitto fra paganesimo e cristianesimo nel sec. IV, Torino 1968, pp. 89-110); G.F. Chesnut, The First Christian Histories. Eusebius, Socrates, Sozomen, Theodoret and Evagrius, Paris, 1977 (2a ed. rivista e accresciuta Macon [GA] 1986); M. Mazza, Sulla teoria della storiografia cristiana: osservazioni sui proemi degli storici ecclesiastici, in La storiografia ecclesiastica nella tarda antichità, Atti del Convegno (Erice 3-8 dicembre 1978), Messina 1980, pp. 335-389; R. Mortley, The Hellenistic Foundations of Ecclesiastical Historiography, in Reading the Past in Late Antiquity, ed. by G. Clarke et al., Rushcutters Bay 1990, pp. 225-250; Id., The Idea of Universal History from Hellenistic Philosophy to Early Christian Historiography, Lewiston (NY) 1996; M. Simonetti, Tra innovazione e tradizione: la storiografia cristiana, in Vetera Christianorum, 34 (1997), pp. 51-65; L’historiographie de l’église des premiers siècles, éd. par B. Pouderon, Y.-M. Duval, Paris 2001, pp. 207-235; P. Siniscalco, Il senso della storia. Studi sulla storiografia cristiana antica, Roma 2003; M. Wallraff, Protologie und Eschatologie als Horizon der Kirchengeschichte? Das Erbe christlicher Universalgeschichte, in Historiographie und Theologie. Kirchen und Theologiegeschichte im Spannungsfeld von geschichtswissenschaftlicher Methode und theologischem Anspruch, hrsg. von W. Kinzig, H. Leppin, G. Wartenberg, Leipzig 2004, pp. 153-167; Die antike Historiographie und die Anfänge der christlichen Geschichtsschreibung, hrsg. von E.M. Becker, Berlin 2005; La Storia ecclesiastica di Eusebio: alle origini della storiografia cristiana. Giornata di studio, a cura di L. Perrone, A. Villani, in Adamantius, 16 (2010), pp. 6-124; P. Van Nuffelen, Theology versus Genre? The Universalism of Christian Historiography in Late Antiquity, in Historiae mundi. Studies in Universal History, ed. by P. Liddel, A. Fear, London 2010, pp. 162-175.
2 T.D. Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Late Roman Empire, Malden (MA)-Oxford 2011, pp. 195-197.
3 F. Winkelmann, Historiography in the Age of Constantine, in Greek and Roman Historiography in Late Antiquity. Fourth to Sixth Century A.D., ed. by G. Marasco, Leiden-Boston 2003, pp. 3-42, in partic. 15-17.
4 E. Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire. Volume the First (1776) and Volume the Second (1781), ed. by D. Womersley, London 1994 (1776, 1781), p. 577.
5 J. Burckhardt, Die Zeit Constantins des Grossen, Leipzig 18802 (prima edizione, Leipzig 1853; trad. it. Firenze 1957, p. 322).
6 F.C. Overbeck, Über die Anfänge der Kirchengeschichtsschreibung, Basel 1892, p. 28.
7 Secondo T.D. Barnes non più di quattro: Constantine and Eusebius, Cambridge (MA) 1981, pp. 261-275. Raymond Van Dam nota come Eusebio voglia suggerire un suo rapporto più stretto con l’imperatore: R. Van Dam, Remembering Constantine at the Milvian Bridge, Cambridge (NY) 2011, pp. 56-61.
8 Le prime Lettere Festali di Atanasio risentono, con contatti anche verbali, dell’opera sulla Pasqua di Eusebio (La solennità pasquale): Atanasio di Alessandria, Lettere festali. Anonimo, Indice delle Lettere festali, a cura di A. Camplani, Milano 2003, p. 177.
9 Ath., apol. sec. 8,3.
10 Epiph., h.e. 68,8.
11 Socr., h.e. I 8; Thdt., h.e. I 12.
12 Si veda ancora l’attardarsi di W.L. Petersen, (Eusebius and the Paschal Controversy, in Eusebius, Christianity, and Judaism, ed. by H.W. Attridge, G. Hata, Leiden 1992, pp. 311-325, in partic. 318) a considerarlo ariano in teologia.
13 Hier., epist. 84,2, CSEL 55,122; cfr. epist. 61,2.
14 Per una visione sintetica della fortuna di Eusebio nella storiografia cattolica e protestante cfr. M. Amerise, Introduzione a Eusebio di Cesarea, in corso di stampa, pp. 139-142.
15 M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, Roma 1975; E. Prinzivalli, Storia ed escatologia in Eusebio di Cesarea, in Bizantinistica 5 (2003), pp. 97-112.
16 T. Barnes, Constantine. Dynasty, cit., pp. 9-13, ricostruisce la vicenda critica da Burckhardt in poi, strettamente connessa con le vicende storiche della Germania di Bismarck.
17 W.H.C. Frend, The Rise of Christianity, London 1984, pp. 478 segg.
18 H. Berkhof, Die Theologie des Eusebius von Caesarea, Amsterdam 1939, p. 62.
19 Per l’elenco delle opere, compresi i frammenti, e le edizioni disponibili cfr. Clavis Patrum Graecorum, cura et studio M. Geerard, Turnhout 1974, II, pp. 262-275, e Supplementum, Turnhout 1998, pp. 186-190.
20 O. Andrei, L’emergere di una cronografia cristiana come fattore di costruzione identitaria, in Annali di storia dell’esegesi, 22 (2005), pp. 57-97, in partic. 57.
21 Hipp., antichr. 25; Dan. 4,9,2.
22 U. Roberto, Le Chronographiae di Sesto Giulio Africano. Storiografia, politica e cristianesimo nell’età dei Severi, Soveria Mannelli 2011, p. 122. Per i frammenti corrispondenti di Africano: cfr. frammenti T6,17 e F15,9-14, editi in Iulius Africanus, Chronographiae. The Extant Fragments, ed. by M. Wallraff, U. Roberto, K. Pinggéra et al., (GCS, n.f. 15) Berlin 2007.
23 O. Andrei, La formazione di un modulo storiografico cristiano: dall’esamerone cosmico alle Chronographiae di Giulio Africano, in Aevum, 69 (1995), pp. 147-170, in partic. 149. L’opinione corrente fra gli studiosi, che lega lo schema millenario al millenarismo e lo fa derivare da influssi ebraici e orientali, risente dell’influenza di J. Daniélou, La typologie millénariste de la semaine dans le Christianisme primitif, in Vigiliae Christianae, 2 (1948), pp. 1-16; Id., La teologia del Giudeo-Cristianesimo, Bologna 1964, pp. 450-458.
24 Lo schema dei seimila anni non necessariamente presuppone un settimo millennio storico, ma può sfociare direttamente nel riposo, cioè nell’eternità: O. Andrei, La formazione di un modulo storiografico cristiano, cit., p. 167.
25 Per l’incertezza delle testimonianze in merito e la maggior probabilità del 5532 come data effettivamente indicata da Africano cfr. l’introduzione all’edizione di Wallraff et al., cit., p. xxvi.
26 F34, GCS n.f. 15, p. 73.
27 Cfr. U. Roberto, Le Chronographiae di Sesto Giulio Africano, cit., pp. 68-74.
28 F93, GCS n.f. 15, p. 284, ll. 84-85.
29 In base a una complessa ricostruzione ottocentesca, l’autore veniva un tempo, e ancora oggi da alcuni studiosi specie di ambito tedesco, identificato come Ippolito di Roma. La ricostruzione è stata di recente, e a più riprese, messa in questione da un numero sempre più nutrito di studiosi che, nell’ambito del corpus di scritti precedentemente considerati di Ippolito, distinguono la produzione dell’Ippolito esegeta da quella di un autore romano, la cui identità permane oscura, che scrisse, oltre alla Synagoge, l’Elenchos e il Sull’universo: si veda la trattazione sintetica di M. Simonetti, Ippolito, in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, a cura di A. Di Berardino, II, pp. 2584-2604. Contra O. Andrei, Spazio geografico, etnografia ed evangelizzazione nella Synagoge di Ippolito, in Zeitschrift für antikes Christentum, 11 (2007), pp. 221-278, che attribuisce la Synagoge a Ippolito.
30 Sulle differenze fra le due opere: O. Andrei, L’emergere di una cronografia cristiana, cit., pp. 83 segg.
31 Si veda la discussione delle testimonianze in R. Helm, Berlin 1956, GCS 47, Eusebius Werke VII, pp. xxvi-xlvi. Sull’originalità di Eusebio: B. Croke, The Originality of Eusebius’ Chronicle, in American Journal of Philology, 103 (1982), pp. 195-200; O. Andrei, I Chronici Canones di Eusebio di Cesarea. Una rivoluzione cronografica, in Adamantius, 16 (2010), pp. 34-51. Sull’arte della mise en page eusebiana, che rende possibile la visualizzazione rapida ed efficace delle informazioni cfr. A. Grafton, M. Williams, Come il cristianesimo ha trasformato il libro, Roma 2011, pp. 133-174.
32 Sul ruolo di Scaligero nella ricostruzione dell’opera cronografica di Eusebio, sulle successive edizioni cfr. A.A. Mosshammer, The Chronicle of Eusebius and Greek Chronographic Tradition, London 1979, pp. 38-83.
33 Ed. Helm, p. 163.
34 Ed. Helm, p. 187.
35 Ed. J. Karst, Leipzig 1911, GCS 20, Eusebius Werke V 1.
36 Ed. Karst, p. 2.
37 W. Adler, Eusebius’ Chronicle and Its Legacy, in Eusebius, Christianity and Judaism, cit., pp. 467-491, in partic. 479.
38 Giorgio Sincello, Ecloga chronographica, hrsg. von A.A. Mosshammer, Leipzig 1984, p. 73.
39 O. Andrei, Per un commento alla Historia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea: i Chronici Canones quale philosophia ex oraculis antiporfiriana, in Adamantius, 14 (2008), pp. 151-190. Per il passo di Porfirio: G. Rinaldi, La Bibbia dei pagani II. Testi e documenti, Bologna 1998, p. 375 nota 505.
40 Eusebio in Sincello, loc. cit. supra, nota 38.
41 ChC 173C-174C Helm; cfr. O. Andrei, Per un commento alla Historia Ecclesiastica, cit., p. 174.
42 R.W. Burgess, The Date of Editions of Eusebius’ Chronici Canones and Historia Ecclesiastica, in Journal of Theological Studies, 48 (1997), pp. 471-504.
43 Se si legge la disamina accurata delle varie ipotesi di datazione per le opere eusebiane fatta da Sébastien Morlet, si vede che per nessuna si hanno a disposizione indizi cogenti: cfr. S. Morlet, Eusèbe de Césarée: biographie, cronologie, profil intellectuel, in Eusèbe de Césarée, Histoire ecclésiastique. Commentaire, cit., pp. 1-31.
44 Convincente il ragionamento di O. Andrei a favore dell’autenticità eusebiana del riferimento: Canons chronologiques et Histoire ecclésiastique, in Eusèbe de Césarée, Histoire ecclésiastique. Commentaire, cit., pp. 33-82, in partic. 46-48. Per opposta posizione: R.W. Burgess, Studies in Eusebian and post Eusebian Chronography, Stuttgart 1999, pp. 62-65.
45 Eus., h.e. I 1,6; ed. E. Schwartz, Leipzig 1903, GCS 9,1, Eusebius Werke I, p. 8,22-24.
46 Il suo punto di partenza è la costatazione di varianti significative nei manoscritti del gruppo cosiddetto ATER: cfr. GCS 9,3, xlvii-lxi: lvi-lxi. La più recente messa a punto sui manoscritti conservati della Historia ecclesiastica è quella di M. Cassin, Tradition manuscrite grecque de l’Histoire ecclésiastique, in Eusèbe de Césarée, Histoire ecclésiastique. Commentaire, cit., pp. 209-242.
47 T.D. Barnes, The Editions of Eusebius’ Ecclesiastical History, in Greek Roman and Byzantine Studies, 21 (1980), pp. 191-201, in partic. 196.
48 R.W. Burgess, The Dates and Editions of Eusebius’ Chronici Canones and Historia Ecclesiastica, cit., pp. 471-504.
49 M. Cassin, M. Debié, M.-Y. Perrin, La question des éditions de l’Histoire ecclésiastique et le livre X, in Eusèbe de Césarée, Histoire ecclésiastique, cit., pp. 185-202.
50 Si veda il recente lavoro di M. Verdoner, Narrated Reality: The Historia ecclesiastica of Eusebius of Caesarea, Frankfurt a.M. 2011, e quello precedente di D. Mendels, The Media Revolution of Early Christianity, An Essay on Eusebius’s Ecclesiastical History, Grand Rapids-Cambridge 1999.
51 Questa era l’opinione di E. Schwartz, Über Kirchengeschichte, cit., p. 116.
52 Eus., p.e. 10,9,28, SC 369, p. 424.
53 Eus., h.e. I 5, ed. Schwartz, p. 46.
54 Eus., h.e. I 11,4, ed. Schwartz, p. 80,10-15.
55 Eus., h.e. I 4,2, ed. Schwartz, p. 38,10-15.
56 Eus., h.e. IV 7,13, ed. Schwartz, pp. p.313
57 Eus., h.e. I 1,4, ed. Schwartz, p. 8,15.
58 Che riprende, con modifiche, quella a suo tempo proposta da R. Laqueur, Eusebius als Historiker seiner Zeit, Berlin-Leipzig 1929.
59 Cfr. V. Neri, Les éditions de l’Histoire ecclésiastique (livres VIII-IX): bilan critique et perspectives de la recerche, in Eusèbe de Césarée, Histoire ecclésiastique, cit., pp. 151-208. Al gruppo dei manoscritti ATER è aggiunta, in diverse posizioni (h.e. VIII 13; alla fine del libro ottavo, alla fine del decimo) la recensione breve dei Martiri della Palestina, la cui recensione lunga è conservata in una versione siriaca e, in parte, in greco. È sorta fra gli studiosi la questione dell’originaria indipendenza o meno dei Martiri della Palestina dalla Historia ecclesiastica. Valerio Neri, nel saggio succitato (pp. 155-164), con argomenti convincenti opta per l’originaria indipendenza dell’opera dalla Historia ecclesiastica, che comunque nasce, nella recensione breve, come complemento alla persecuzione narrata nel libro ottavo e successivamente viene ulteriormente ampliata da Eusebio nella recensione lunga conservata in lingua siriaca. L’argomentazione di Neri è un altro indizio a favore dell’appartenenza del libro ottavo a un primo stadio compositivo della h.e. Per uno studio dei Martiri della Palestina nel contesto della letteratura martirologica e nelle specifiche strategie retoriche cfr. A. Monaci Castagno, Eusebio di Cesarea storico e agiografo della persecuzione in Palestina, in Caesarea Maritima e la scuola origeniana: multiculturalità, forme di competizione culturale e identità cristiana, a cura di O. Andrei, Brescia 2013, pp. 179-201.
60 Eus., h.e. I 1,1-2, ed. Schwartz, p. 6,1-16.
61 Eus., h.e. I 2,1, ed. Schwartz, p. 8,30.
62 Espressione tipica del linguaggio politico che indica una società non coinvolta in lotte intestine o in guerre, usata fin dalle origini dagli autori cristiani (I Clem. 2,2) applicandola o alla comunità dei fedeli o, come fa Eusebio, a tutta l’umanità: W.C. van Unnik, “Tiefer Friede” (1.Klemens 2,2), in Vigiliae Christianae, 24 (1970), pp. 261-279.
63 Stesso schema negativo nel libro quarto della Demonstratio: d.e. IV 10,9, ed. Heikel, p. 166.
64 Eus., h.e. VIII 1,7, ed. Schwartz, p. 738,11-20.
65 Eus., h.e. VIII 1,8, ed. Schwartz, p. 738,20-28; trad. G. Lo Castro, Roma 2001, p. 149.
66 Eus., h.e. VIII 2,3, ed. Schwartz, p. 742,6-7; trad. G. Lo Castro, p. 150.
67 Cfr. anche T.C. Ferguson, The Past is Prologue. The Revolution of Nicene Historiography, Leiden-Boston 2005, p. 41.
68 Eus., h.e. I 1,5, ed. Schwartz, p. 12 e h.e. I 1,8 ed. Schwartz, p. 14.
69 F. Calabi, La “missione” di storico per Flavio Giuseppe, in Adamantius, 16 (2010), pp. 12-21.
70 Eus., h.e. I 1,5, ed. Schwartz, p. 8,20.
71 A. Magris, Destino, provvidenza, predestinazione. Dal mondo antico al cristianesimo, Brescia 2008, pp. 26-58.
72 Su questo aspetto dell’originalità della h.e. insiste Manlio Simonetti, che sottolinea la distanza con la concezione greca e romana della religione: cfr. M. Simonetti, Tra innovazione e tradizione, cit., p. 52.
73 Eus., h.e. V 1,3-4, ed. Schwartz, p. 400,13-16. Eusebio probabilmente, per esprimere il suo pensiero, riecheggia quanto aveva scritto in un’altra opera perduta, la Raccolta dei martiri, cui fa cenno nel contesto.
74 V. Neri, Massimino e Massenzio, coppia di tiranni (Eus., HE VIII,14), in Adamantius, 14 (2008), pp. 207-217.
75 Eus., h.e. I 1,4, ed. Schwartz, p. 8,13-14; cfr. I 1,8, ed. Schwartz, p. 8,28.
76 Eus., h.e. I 1,5, ed. Schwartz, p. 8,18: «penso che per me sia assolutamente necessario dedicare le mie fatiche al tema perché non mi risulta che nessuno finora degli scrittori ecclesiastici [τῶν ἐκκλησιαστικῶν συγγραϕέων] si sia assunto il compito di scrivere su ciò».
77 Cfr. per la citazione di Dibelius (1948): D. Marguerat, Le première histoire du christianisme. Les Actes des Apôtres, Paris 1999, p. 26 (trad. it. La prima storia del cristianesimo. Gli Atti degli Apostoli, Cinisello Balsamo 2002).
78 H.R. Jauss, Literary History as a Challenge to Literary Theory, in Id., Toward an Aesthetic of Reception, Minneapolis 1982, pp. 3-45, in partic. 34; P. Bagni, Genere, Firenze 1997.
79 M. Wallraff, Le origini della storia universale cristiana. Da Taziano a Giulio Africano, in Adamantius, 16 (2010), pp. 22-33.
80 Socr., h.e. I 1, ed. G.Ch. Hansen, Berlin 1995, p. 1,4.
81 Theod., h.e. I 1,4, ed. L. Parmentier, G.Ch. Hansen, Berlin 1998, p. 4,20.
82 Philost., epit. I,2, ed. J. Bidez, F. Winkelmann, Berlin 1972, p. 6,2-3.
83 Soz., h.e. I 1,12, ed. J. Bidez, G.Ch. Hansen, Berlin 1960, p. 8,27.
84 E. Carotenuto, Tradizione e innovazione nella Historia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, Napoli 2001, p. xvii.
85 Eus., h.e. II 1,7, ed. Schwartz, p. 106,5-6.
86 Eusebio la mutua dai racconti di Giustino, 1Apol 35 e di Tertulliano, Apologeticum 5,2.
87 Eus., h.e. II 2,2, ed. Schwartz, p. 110,11-12.
88 Eus., h.e. II 6, ed. Schwartz, p. 112,9.
89 Eus., h.e. V 5,1-7, ed. Schwartz, pp. 432-434.
90 Eus., h.e. VII 30,21, ed. Schwartz, p. 714,15-19; trad. G. Lo Castro, p. 135.
91 Eus., h.e. IV 6, ed. Schwartz, pp. 306-308.
92 Eus., h.e. II 10,6-7, ed. Schwartz, p. 128.
93 Eus., h.e. VIII, appendix 1, ed. Schwartz, p. 796,1.
94 Si leggano le parole di Dionigi di Alessandria riguardo a Decio e a Gallo: h.e. VII 1, ed. Schwartz, p. 636,10-15.
95 Eus., h.e. VIII 13,9, ed. Schwartz, p. 774,12-15.
96 Eus., h.e. VIII 13,13, ed. Schwartz, p. 776,17-18.
97 La ricorda invece Lattanzio, de mort. 15,7.
98 Eus., h.e. VIII 13,14, ed. Schwartz, p. 776,20.
99 Si tace completamente dello sfortunato Flavio Severo, Cesare di Costanzo.
100 V. Neri, Massenzio e Massimino, cit., in Adamantius, 14 (2008), pp. 207-217; Id., Documenti e narrazione storica nel libro IX della Historia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, pp. 218-228.
101 V. Neri, Massenzio e Massimino, cit., p. 209.
102 Su questo e in generale sul problema dei ripensamenti all’interno della h.e. cfr. V. Neri, Les éditions de l’Histoire ecclésiastique, cit., pp. 151-208.
103 Si veda titoletto 10 del libro IX e nota dell’ed. Schwartz, p. 798.
104 Eus., h.e. IX 9A,12, ed. Schwartz, p. 838,11.
105 Eus., h.e. X 2,2, ed. Schwartz, p. 860,6.
106 Eus., h.e. X 4,16, ed. Schwartz, p. 867,24.
107 Eus., h.e. X 4,60, ed. Schwartz, p. 879,20-22.
108 Eus., h.e. IX 9,1, ed. Schwartz, p. 826 (apparato).
109 Eus., h.e. IX 9,1, ed. Schwartz, p. 828,3; IX 9,12, ed. Schwartz, p. 832,15.
110 Eus., h.e. X 8,8, ed. Schwartz, p. 894,8.