genere
Il termine, nella forma volgare, occorre solo nel Convivio; nella forma latina (genus, greco γένος) occorre in tutte le opere latine di D., sempre con vari significati.
Secondo Aristotele (Metaph. V 28, 1024a 29-b 16), g. sta sia per l'ininterrotta generazione di una specie di viventi, sia per la totalità di coloro che discendono da un'unica causa, sia per indicare il sostrato delle differenze specifiche e quindi il primo elemento della definizione, sia, infine, per categoria, perché tutte le categorie sono di g. diverso in quanto nessuna è riducibile a un'altra. Di questi, il valore logico è evidenziato nei Topici, dov'è definito (I 5, 102a 31) " ciò che si predica essenzialmente di molti che specificamente differiscono ". Porfirio (Isag., ediz. Busse, Comm. in Arist. Graeca, Berlino 1887, 2-3) dà una tripartizione degli usi di g. (transl. Boethii): " Genus enim dicitur et aliquorum quodammodo se habentium ad unum aliquid et ad se invicem collectio... Dicitur autem et aliter rursus genus quod est uniuscuiusque generationis principium vel ab eo qui genuit vel a loco in quo quis genitus est... Aliter autem rursus genus dicitur cui supponitur species, ad horum fortasse similitudinem dictum; et enim principium quoddam et huiusmodi genus earum quae sub se sunt specierum; videtur etiam multitudinem continere omnem quae sub eo est. Tripliciter igitur cum genus dicatur, de tertio apud philosophos sermo est "; vedi il confronto istituito da Boezio (In Isag., ediz. Brandt, I 34 ss.) fra la partizione di Porfirio e quella di Vittorino.
A proposito dell'uso logico di g., è da ricordare che nel Medioevo ci si chiese, seguendo Porfirio (proemio all'Isagoge) quale valore fosse da attribuire alle " quinque voces " o predicabili (genere, specie, differenza, proprio, accidente).
In Cv IV Le dolci rime 111 Dunque verrà, come dal nero il perso, / ciascheduna vertute da costei [nobiltà], / o vero il gener lor, ch'io misi avanti, e nella chiosa (XX 1) Dice dunque, conchiudendo da quello che dinanzi detto è: dunque ogni vertude, o vero il gener loro, cioè l'abito elettivo consistente nel mezzo, verrà da questa, cioè nobilitade, si afferma che ogni etica, o il g. delle virtù etiche, rispetto al quale le virtù costituiscono le specie, trova la sua radice nella nobiltà. Per l'abito elettivo, ecc., cfr. Le dolci rime 86-87 un abito eligente / lo qual dimora in mezzo solamente, e Aristotele Eth. Nic. II 6, 1106 b 36 " Est igitur virtus habitus electivus in medietate existens ". Si tratta della nota dottrina aristotelica, fatta propria da D., secondo la quale la virtù etica consiste nel ‛ giusto mezzo ' tra i possibili due estremi, per eccesso o per difetto. Questo carattere comune a tutte le virtù etiche è il g. di esse.
Nel senso di " totalità (collectio) di individui in qualche modo uniti ", g. occorre in Cv I XII 4 Tanto è la cosa più prossima quanto, di tutte le cose del suo genere, altrui è più unita: onde di tutti li uomini lo figlio è più prossimo al padre; di tutte l'arti la medicina è la più prossima al medico, e in IV XVI 6, a proposito di chi pensa che nobiltà significhi ‛ essere da molti nominato e conosciuto '... E questo è falsissimo; ché, se ciò fosse, quali cose più fossero nomate e conosciute in loro genere, più sarebbero in loro genere nobili.
L'espressione ‛ in g. ' ricorre con valore avverbiale in I VI 4 dico in genere che cotali sono quasi bestie, a li quali la ragione fa poco prode, 6 Quelli che conosce alcuna cosa in genere, non conosce quella perfettamente, e 7 Lo latino conosce lo volgare in genere, ma non distinto.
Nelle opere latine, genus ha valori corrispondenti ai due primi segnalati da Aristotele nella Metafisica, specie nell'espressione humanum genus, che però D. rende in volgare con umana generazione (v. GENERAZIONE). Genus vale invece " categoria " (predicamento), in Mn III XI 5 reponitur sub genere ‛ ad aliquid ', sive ‛ relations ', e 6 habent reponi sub praedicamento relationis, et per consequens reduci ad aliquod existens sub illo genere.