Genere
Genere (dal latino genus, affine a gignere, "generare") designa in senso lato ciò che è comune a più specie. Già in uso con accezioni specifiche nei vari ambiti disciplinari (letteratura, grammatica, filosofia, botanica e zoologia), il termine è introdotto, a metà degli anni Settanta del 20° secolo, nella riflessione antropologica e riferito alla divisione, socialmente e culturalmente costruita, dei sessi, per evidenziare il significato contingente, storicamente mutevole e perciò non necessario, delle qualità attribuite alle categorie di maschile e femminile.
Intorno alla fine degli anni Sessanta del Novecento, la parola genere fu utilizzata dallo psichiatra statunitense R. Stoller, studioso di transessualità, per distinguere il sesso anatomico di una persona (indicato dalla forma dei suoi genitali e dalla sua costituzione ormonale) dal suo orientamento psicosessuale, che egli chiamò per l'appunto genere (Di Cori 1997, p. 848). La nozione entrò poi nel linguaggio delle scienze sociali, nell'ambito della ricerca femminista angloamericana, come strumento destinato a esprimere la natura socialmente e culturalmente costruita delle categorie di femminile e maschile: laddove il termine sesso poteva essere usato per indicare la dimensione biologica dell'essere donna o uomo, genere invitava a considerare la variabilità delle interpretazioni che culture, tra loro diverse, hanno costruito, e costruiscono, a partire da questo dato di partenza. G. Rubin (1975) introdusse l'espressione sex-gender system nel dibattito antropologico, per analizzare l'insieme dei processi, delle modalità di comportamento e dei rapporti attraverso cui una società trasforma la sessualità biologica in un prodotto dell'attività umana. L'idea era quella di rifiutare il determinismo implicito nelle categorie di femminile e maschile, sottolineando invece l'aspetto relazionale di entrambe. Donne e uomini, le attitudini, i diritti e i doveri loro attribuiti dovevano essere esplorati in termini di reciprocità, e nessuna analisi di entrambi poteva essere portata avanti a prescindere da quest'aspetto. Le loro differenze andavano lette come il risultato di particolari rapporti sociali imposti a corpi sessuati, cercando di svelare "le origini sociali delle identità soggettive di uomini e donne" (Scott 1986, trad. it., p. 314). Nel contesto italiano, l'espressione 'identità di genere' è stata utilizzata, in modo talvolta semplicistico, con l'intenzione di porre in luce la rilevanza che dal punto di vista sociale assume la differenza tra i sessi (Di Cori 1996, p. 64). La nozione è rimasta, come del resto è nei paesi anglofoni, un 'campo discorsivo' alquanto contestato, in cui si incontrano i contributi di diverse discipline, dall'antropologia alla sociologia, dalla storia alla filosofia. Le autrici del gruppo veronese di Diotima, la cui riflessione è maturata discutendo l'opera della psicoanalista francese L. Irigaray, preferiscono parlare di differenza sessuale, cioè di un pensiero che riconosca l'alterità del femminile rispetto al maschile e che, muovendo da questo dato di partenza, arrivi a costruire nuove forme e linguaggi d'espressione che spezzino l'isolamento della donna (Diotima 1987).
Le implicazioni sul piano teorico di una prospettiva di genere sono di fatto ben più estese rispetto a un'indagine in cui venga esplorata, sia pure in un'ottica interdisciplinare e interculturale, la differenza tra i sessi. Questa dimensione diventa visibile a partire dalla metà degli anni Ottanta, quando l'uso del termine diviene più marcato, proprio in un momento di confusione metodologica e di sovvertimento dei paradigmi caratteristici delle scienze umane. È in questo periodo che la storica J. Scott (1986) insiste sulla necessità di un approccio critico che porti a interrogarsi sul significato stesso del fare storia, decostruendo nel contempo le categorie e i presupposti "cui ciascuno/a ricorre nell'organizzazione del proprio lavoro", svelandone le radici culturali e sociali (Di Cori 1996, p. 50): ciò cui si deve mirare è un rifiuto della qualità fissa e permanente della contrapposizione binaria tra femminile e maschile. Donna e uomo si rivelano così al tempo stesso categorie vuote e sovrabbondanti: "vuote perché non hanno un significato definitivo e trascendente; sovrabbondanti perché, anche quando sembrano fisse, continuano a contenere al proprio interno definizioni alternative, negate o soppresse" (Scott 1986, trad. it., p. 346). Se non identiche, molto simili sono le preoccupazioni che contraddistinguono la riflessione antropologica angloamericana dello stesso periodo. Il genere - scrive P. Caplan (1988) - è un campo d'indagine articolato e complesso: il quadro dei rapporti tra i sessi che vigono in una data società può presentarsi sconcertante e disordinato. Importante, tuttavia, è instaurare una relazione tra questo settore di studi, sviluppatosi al confine tra femminismo e scienze sociali, e il più ampio orizzonte metodologico dell'antropologia culturale e sociale. Secondo Caplan, chi lavora nell'ambito di questa disciplina deve maturare la consapevolezza di come la sua identità sessuata, l'età, la sua condizione sociale, il suo paese d'origine siano elementi significativi nel determinare non soltanto le caratteristiche dell'esperienza etnografica, ma anche la sua posizione nell'ambiente accademico. Occorre costruire un sapere che racconti l'altro senza trasformarlo da soggetto in oggetto di studio, ponendo al tempo stesso in crisi e in discussione l'autore stesso della ricerca. Anticipando la sensibilità critica tipica dell'antropologia dell'ultimo decennio del 20° secolo, il discorso sul genere induce così a riflettere sui vincoli, sui limiti, sulle consuetudini che la disciplina impone alla rappresentazione delle società di cui si interessa.
M. Mead (1935) fu una delle prime antropologhe a riflettere in modo critico sul modo in cui le figure della donna e dell'uomo sono rappresentate e incorporate nell'esperienza quotidiana di coloro che condividono un certo universo sociale e culturale. Prendendo in considerazione tre distinte società della Nuova Guinea, ella pose in luce come ciò che nell'una era considerato un attributo femminile per eccellenza, in un'altra era invece visto come una caratteristica maschile. Dimostrò così come essere donne o uomini non comporti necessariamente la presenza di un tipo particolare di carattere o di temperamento. Arapesh, mundugumor e ciambuli costruiscono diversamente le relazioni tra i due sessi. Fra i pacifici arapesh, la cui società è pensata all'insegna della solidarietà e collaborazione, le donne e gli uomini si prendono cura dei figli con identica sollecitudine; bambine e bambini vengono educati allo stesso modo e sono incoraggiati a sviluppare le proprie capacità e a comportarsi in maniera altruistica. I mundugumor sono invece una comunità violenta basata sull'individualismo e l'ostilità, i cui membri vengono educati, senza alcuna distinzione di genere, a essere aggressivi. I ciambuli infine, benché siano una società a discendenza patrilineare, riconoscono alle donne una funzione dominante e direttiva, mentre l'uomo riveste rispetto a esse una posizione di minore responsabilità. Le conclusioni tratte da questi diversi esempi portarono Mead a sostenere che molti dei tratti di carattere, considerati tipicamente femminili o maschili nelle culture occidentali, non dipendono in effetti dal sesso biologico, quanto dall'educazione e dai processi di costruzione delle identità individuali. L'ideale arapesh di uomini e donne egualmente miti e sensibili incarna nei due sessi le qualità attribuite alla donna in Occidente; al contrario, l'aggressività e la violenza mundugumor estendono alla donna il modo occidentale di rappresentare il maschile. Filo conduttore dell'intera analisi è l'idea che i corpi non siano solo determinati biologicamente quanto sottoposti, nelle diverse società e culture, a un lento processo di trasformazione: dobbiamo studiare - Mead scriveva in un lavoro successivo (1949, trad. it. p. 4) - "come i nostri corpi abbiano imparato, nel corso delle loro vite a essere corpi maschili o femminili".
Mead non fu l'unica antropologa a interessarsi alle tematiche relative alla differenza tra i sessi: nello stesso decennio P. Kaberry (1939), studiando le donne australiane, ne aveva descritto la relativa indipendenza, legata, a suo avviso, alla loro partecipazione nella sfera del rituale e al controllo che esse esercitavano sulle risorse economiche della comunità. Le intuizioni di queste e altre autrici furono tuttavia approfondite soltanto a partire dagli anni Settanta del 20° secolo, quando una serie sempre più numerosa di ricerche etnografiche cominciò a dimostrare l'estrema variabilità culturale dell'essere donna oppure uomo e la conseguente impossibilità di attribuire un unico significato a queste categorie. Nasce così quella che viene definita un''antropologia delle donne', scritta da donne che si interessano di altre donne, con intenti chiaramente politici: viene posta in evidenza l'invisibilità di talune categorie sociali; ci si interroga su che cosa significhi condurre ricerche in società caratterizzate da una percezione del genere profondamente diversa rispetto a quella dell'Occidente, dove l'essere donna o uomo costituisce un elemento discriminante nel determinare quali tipi di relazione possono essere instaurati e quali domini di conoscenza esplorati (Callaway 1992, p. 35). Viene contestato l'assunto, pressoché implicito nelle tradizioni teoriche all'epoca dominanti, per il quale chi si occupa di antropologia debba rappresentare sé stesso come un soggetto neutro: in realtà, se gli uomini considerano il genere maschile come qualcosa che ben si adatta alla professione, le donne esperiscono invece una sorta di conflitto, sia durante il lavoro sul campo sia negli ambienti accademici, fra la propria identità di genere e il mestiere che esercitano (Callaway 1992, p. 29).
La disciplina dimostra insomma di essere un sapere maschile costruito da uomini dialogando con altri uomini. E. Ardener (1972), riflettendo sulle sue esperienze di ricerca tra i bakweri del Camerun, sottolinea la difficoltà di conoscere le rappresentazioni femminili dell'ordine sociale. Il caso delle donne è simile a quello di altri 'gruppi muti'. Le loro voci, al contrario di quelle maschili, difficilmente possono essere ascoltate: le strutture dominanti le riducono al silenzio, e se esse desiderano esprimersi devono farlo attraverso queste stesse strutture. La loro libertà di articolare un proprio punto di vista è in una certa misura bloccata. Il modo in cui esse concettualizzano la società nella quale vivono può tuttavia differire profondamente dai modelli maschili. L'esempio dei bakweri è a questo proposito significativo. Il mito d'origine di questa popolazione racconta come vi fossero quattro personaggi, Moto (l'antenato dell'uomo), Ewaki (della scimmia), Eto (del topo) e Mojili (dello spirito d'acqua), i quali, pur vivendo assieme nel villaggio, erano in continuo conflitto tra di loro. Così decisero di fare una prova: ciascuno doveva accendere un fuoco; se alla sera il fuoco ancora non si fosse spento, colui che lo aveva mantenuto acceso avrebbe avuto il diritto di continuare a vivere nel villaggio. Moto, che era astuto, costruì il focolare in modo che durasse a lungo, utilizzando legni spessi e ben sistemati. Alla sera il suo fuoco era l'unico ancora acceso. Rimase nel villaggio e divenne l''uomo'. Gli altri furono relegati nella foresta, trasformandosi nella scimmia, nel topo e nello spirito d'acqua; da qui continuarono a esercitare il loro fascino nei confronti delle donne bakweri e dei loro bambini, tanto da rendere necessaria tutta una serie di prescrizioni rituali tesa a difendere questi ultimi dalla loro influenza. Il mito viene presentato dagli uomini come un punto di vista globale sulla società bakweri, un punto di vista che marginalizza le donne, associandole al dominio selvaggio esterno agli insediamenti costruiti dagli uomini. Vi è tuttavia anche un'altra prospettiva: le donne bakweri, quando rappresentano la propria società, includono proprio quel dominio selvaggio che il primo uomo, Moto, escluse. Esse esprimono la loro interpretazione attraverso un rito che nella loro adolescenza le trasforma in creature della foresta, una qualità che conserveranno per tutta la vita. Possedute dallo spirito dell'acqua, vengono iniziate all'uso di un linguaggio che solo le donne comprendono; nel rito rifiutano tutti i simboli che siano in qualche modo collegati al maschile.
Se dunque gli uomini raccontando il mito d'origine separano l'umanità dall'universo naturale circostante, definendo il proprio punto di vista come comune a entrambi i sessi (Moto è infatti l'antenato dell'uomo e della donna insieme), le donne nei loro riti lasciano che i due domini si sovrappongano. Le visioni degli uni e delle altre non sono completamente congruenti: gli uomini considerano marginale ciò che per le donne è invece una caratteristica fondamentale della società bakweri, ovvero la relazione con la foresta (Ardener 1972; ed. 1987, pp. 77-78). Entrambe le interpretazioni sono, in fondo, prospettiche. L'elemento interessante nell'argomentazione di Ardener è costituito dalla relazione che egli individua tra linguaggio e subordinazione femminile. Le sue considerazioni sull'emergere di gruppi muti rappresentano, ancora oggi, un valido strumento di riflessione.
4. Il problema della disuguaglianza
Il dibattito antropologico sviluppatosi negli anni Settanta del 20° secolo evidenzia come, nonostante l'estrema variabilità culturale delle rappresentazioni del maschile e del femminile, sia possibile riscontrare una quasi universale subordinazione delle donne nei confronti degli uomini. Il punto intorno al quale si condensa la discussione è quindi l'idea, ben radicata nelle culture occidentali, che tale subordinazione sia biologicamente fondata. Si tratta invece di esplorarne le origini culturali e sociali. Appare infatti possibile individuare rapporti tra il dominio maschile e alcuni tratti ricorrenti dell'organizzazione culturale e sociale (Moore 1994, p. 821). S. Ortner (1974) pone in relazione la subordinazione delle donne rispetto all'uomo e l'associazione fra donna e natura presente in numerosi tipi di società. La contrapposizione tra i due sessi rispecchierebbe, come nel caso sopra menzionato dei bakweri, la frattura che si viene a creare tra natura e cultura. I poteri riproduttivi della donna, poteri che in qualche modo sfuggono al controllo degli uomini, fanno sì che ella sia relegata nella sfera della natura, nel mondo cioè che deve essere mantenuto sotto il controllo, tutto maschile, della cultura. M. Rosaldo (1974), invece, suggerisce che le relazioni di potere tra i due sessi possano essere spiegate a partire dal forte monopolio che gli uomini esercitano sulla scena pubblica, mentre le donne sono associate alla sfera domestica. Entrambi i saggi sono stati ampiamente discussi, ponendo in luce come le nozioni di natura e di cultura differiscano in modo considerevole da una società a un'altra; quanto alla contrapposizione tra pubblico e privato, essa stessa è il prodotto di un particolare periodo della storia europea e americana (Nature, culture and gender 1980).
Il punto problematico che emerge da analisi di questo tipo concerne l'opportunità di utilizzare, nella considerazione di società e culture distanti nel tempo e nello spazio, dicotomie così profondamente radicate nel pensiero occidentale, quali sono per es. cultura e natura, pubblico e privato, dicotomie che di per sé già implicano una percezione gerarchica delle relazioni tra le categorie coinvolte (Gender and kinship 1987, p. 18). Gli studi sul genere dimostrano la necessità di costruire un sapere critico in cui gli strumenti utilizzati nell'analisi siano instabili e sottoposti a un continuo processo di decostruzione e ricostruzione, piuttosto che essere considerati evidenti o facenti parte della natura delle cose (Caplan 1988, p. 16). Il discorso sulla subordinazione femminile, lungi dall'essere concluso, impone di riflettere sul modo in cui le discriminazioni di genere si intersechino e si inscrivano in un più ampio discorso relativo alla disuguaglianza, siano tali discriminazioni di censo, di razza, di rango, di prestigio. Il genere è uno tra altri elementi che possono diventare significativi nel costruire identità e differenza. Anche laddove le donne siano esplicitamente sottoposte al controllo maschile si può riscontrare una pluralità di atteggiamenti e posizioni. Le ricerche condotte da V. Maher tra le donne marocchine hanno evidenziato come esse elaborino una serie di strategie per aggirare talune restrizioni. La nozione di parentela di latte, creata offrendo il seno non solo ai propri figli biologici ma anche ad altri bambini bisognosi, permette alle donne "di frequentare individui e gruppi esterni alla cerchia familiare e quindi di superare in modo selettivo alcune delle restrizioni inerenti alla segregazione dei sessi" (Maher 1989, p. 147). Quest'ultima, non solo si configura diversamente a seconda dello status dei soggetti coinvolti, ma è compensata da fitte reti di rapporti clientelari tra donne.
Gli studi più recenti dimostrano come non sia corretto ipotizzare l'esistenza di un solo modello delle relazioni di genere all'interno di una data società. Immagini egemoniche e discorsi alternativi spesso si intrecciano tra loro. Presso le popolazioni hua degli altipiani orientali della Nuova Guinea è possibile, per es., riscontrare tre modelli di genere simultaneamente in atto. Il primo modello, che ha luogo soprattutto nei rituali di iniziazione maschili, enfatizza come i corpi femminili siano disgustosi e pericolosi per gli uomini, insistendo sul fatto che le donne manchino di intelligenza e consapevolezza. Il secondo è il contrario del primo e asserisce la superiorità del corpo femminile su quello maschile; nei loro riti, quindi, gli uomini cercano di appropriarsi dei poteri riproduttivi delle donne. Il terzo modello infine, che contraddistingue la vita quotidiana, è egualitario ed enfatizza la complementarità dei due sessi (Moore 1994, p. 824). Vi sono dunque contesti nei quali le donne sono subordinate agli uomini, senza per questo trasformarsi in vittime passive, così come vi sono situazioni in cui esse godono di una considerevole autonomia. Ciò che non è possibile sostenere, tuttavia, è che le donne abbiano il controllo completo della propria vita.
Il sesso, scrive la studiosa J. Butler (1993, p. 5), "non è un dato corporeo su cui siano artificialmente imposti dei costrutti culturali bensì una norma culturale che governa la materializzazione dei corpi". Tale osservazione può essere avvicinata a quella dell'antropologa H. Moore: "i corpi, i loro processi, le loro parti non hanno alcun senso al di fuori dei modelli culturali e sociali che permettono di interpretarli" (Moore 1994, p. 816). Entrambe queste affermazioni sintetizzano bene alcuni degli esiti problematici che caratterizzano la riflessione sul genere, tipica dell'ultimo decennio del Novecento. L'intero discorso, come si è visto, prese le mosse negli anni Settanta del 20° secolo a partire da una distinzione tra dimensioni biologiche della corporalità, cioè nascere femmina o maschio, e la costruzione sociale dei ruoli sessuali, diventare donna oppure uomo. L'impulso iniziale allo sviluppo della questione fu dato dal movimento femminista, il quale in un primo tempo si interessò alla questione della disuguaglianza, spostando successivamente, ovvero dagli anni Ottanta, l'attenzione sulla costruzione sociale della soggettività femminile. Da qui il discorso si è esteso fino a comprendere la costruzione delle identità maschili, la questione della transessualità, il problema dei diritti dei gruppi omosessuali (Connell 1995).
Nelle sue diverse articolazioni il dibattito ha costantemente prestato una particolare attenzione alla questione del corpo: il genere è infatti una pratica sociale che fa sempre riferimento ai corpi e a ciò che i corpi fanno. Maternità, allattamento, riproduzione sono alcuni dei processi su cui più intensamente si è concentrata l'attenzione delle studiose. Decenni di ricerche e discussioni non hanno, in ogni caso, portato a una risposta universalmente accettata su quali siano le relazioni tra sesso e genere. Troppo spesso la distinzione è rimasta sullo sfondo, un punto di partenza considerato del tutto aproblematico, quasi che la differenza binaria tra i sessi fosse qualcosa di immediatamente visibile nel corpo, una sorta di dato elementare indispensabile alla riproduzione biologica della specie umana. Implicita era quella che L. Nicholson chiama 'una concezione attaccapanni dell'identità', dove il corpo viene considerato, per l'appunto, "come un tipo di attaccapanni sul quale vengono gettati o sovrapposti i diversi manufatti culturali, in particolare quelli della personalità e del comportamento" (Nicholson 1994, trad. it., p. 43). Società e culture, tuttavia, non soltanto danno forma al comportamento e alla personalità degli individui, ma ne influenzano anche le aspettative, i pensieri, i sentimenti, nonché le azioni. Dobbiamo, ella conclude, abbandonare del tutto l'idea dell'attaccapanni, considerando il sesso come qualcosa che è parte del genere, una condizione che non può essere vissuta o esperita a prescindere dai discorsi sociali che stabiliscono i significati da attribuire alle differenze corporee.
Le antropologhe J. Collier e S. Yanagisako sostengono che l'idea di una differenza biologica e binaria tra i sessi, poiché è tipica del senso comune occidentale, non dovrebbe essere data per scontata, ma spiegata in quanto costruzione sociale. Nella loro prospettiva, sia il sesso sia il genere sono socialmente costruiti, l'uno in relazione all'altro: "per quanto non si possa negare che esistano differenze biologiche fra gli uomini e fra le donne, la nostra strategia analitica pone in discussione che queste differenze costituiscano la base universale per la costruzione delle categorie di 'maschio' e di 'femmina', insomma [...] l'idea che la variabilità culturale delle categorie di genere non sia che la semplice elaborazione ed estensione di un medesimo fatto naturale" (Gender and kinship 1987, p. 15). La loro argomentazione, come del resto la più ampia discussione sulle relazioni tra sesso e genere, si ispira alle considerazioni di M. Foucault (1976) sulla sessualità. Verso la fine degli anni Settanta si assiste alla penetrazione nel mondo angloamericano della cultura francese; l'opera di Foucault, tradotta e da lui stesso divulgata in conferenze e seminari, esercita un'influenza determinante nello sviluppo degli studi sul corpo (Di Cori 1996, p. 31-32). Si assiste, anche in antropologia, a una rielaborazione di alcuni dei concetti di base di Foucault, soprattutto dell'idea che la nozione di sesso non esiste prima di una sua determinazione all'interno di un discorso in cui vengano specificate le sue costellazioni di significato: "i corpi non hanno sesso al di fuori dei discorsi che ne definiscono il sesso" (Moore 1993, p. 197). La categoria sesso, nella prospettiva di Foucault, è un effetto piuttosto che un'origine: non ha una sua intrinseca coerenza, ma è invece un 'campo discorsivo contestato', creato da un insieme di pratiche storicamente riconoscibili, nel quale sono stati artificialmente raggruppati elementi anatomici, funzioni biologiche, condotte e sensazioni.
La distinzione binaria tra corpi maschili e femminili cominciò a emergere nel Settecento, quando si andò affermando un discorso teso a sottolineare l'estraneità di un sesso rispetto all'altro e la loro radicale differenza sul piano fisiologico e anatomico. Nell'Europa rinascimentale il corpo femminile non era considerato come radicalmente diverso da quello maschile; piuttosto la donna era una versione imperfetta e incompleta dell'uomo, un essere in cui genitali maschili erano introversi e non completamente giunti a maturazione (Nicholson 1994, trad. it., p. 47). "Comprendere che l'idea di sesso come categoria unitaria è stabilita nelle, e attraverso, le pratiche discorsive dell'Occidente - scrive Moore (1994, p. 817) - implica che la nozione occidentale di sesso non può essere sottesa ai costrutti di genere elaborati in altre regioni del mondo". In discussione non è tanto il fatto che esistano o meno differenze fisiologiche tra donne e uomini, ma che questo tipo di differenze sia universalmente significativo e che produca una contrapposizione rigida, fissa e binaria tra femminile e maschile. Tra gli hua della Nuova Guinea, per es., le persone vengono classificate a seconda dell'aspetto dei loro genitali, ma esiste anche una seconda forma di classificazione, parallela alla prima, che si concentra sulla maggiore o minore quantità di sostanze femminili detenute dalla persona, sostanze che sono trasferite da un corpo all'altro attraverso i contatti quotidiani, le relazioni eterosessuali e l'alimentazione. Il risultato di questo tipo di classificazione è che una persona contraddistinta da genitali maschili può essere considerata una donna, mentre una con genitali femminili un uomo. Il genere, così, si inscrive nella costruzione dell'identità personale, senza tuttavia corrispondere a una distinzione rigida e binaria tra sesso femminile e maschile.
Un altro esempio interessante è quello del bardache. Il termine, derivato dall'arabo bardaj (che denota la prostituta-uomo), fu applicato per descrivere quegli uomini che, nelle culture indiane nordamericane, vivevano alla maniera delle donne, indossandone i vestiti e svolgendone le mansioni (così come quelle donne che dedicandosi alla caccia adottavano, invece, le abitudini maschili). Oggi la parola viene rifiutata sia dai nativi sia dagli antropologi, i quali preferiscono ricorrere all'espressione 'gente dal doppio spirito'. Ora, gli uomini-donna, piuttosto che adottare completamente il ruolo culturalmente definito delle donne, combinano, in grado e misura diversi, parte dei ruoli maschili e parte di quelli femminili: nelle culture indigene essi non sono pensati come 'donne', ma come un genere separato che combina elementi maschili e femminili. Lo stesso si può dire di quelle donne che adottano i comportamenti tipici degli uomini: non sono uomini, bensì donne-uomo, una sorta di quarto genere che si affianca all'uomo, alla donna e all'uomo-donna. Nel costruire questo spettro di differenze vengono considerate significative le attitudini della persona, le sue abilità e la sua partecipazione nella sfera delle attività economiche e rituali, prima ancora che il sesso che essa presenta alla nascita. L'individuo ha inoltre la possibilità di modificare la propria identità di genere nel corso della vita (Lang 1996, p. 185).
Come emerge da queste considerazioni, quando si parla di corpi, e di corpi sessuati, non vi è alcuna verità trascendente e fissa (Di Cori 1996, p. 47). Nonostante il vasto uso, frequentemente poco consapevole, che ne viene fatto, la nozione di genere conserva una sua dimensione critica, che non deve essere né sottovalutata né neutralizzata; essa costituisce un utile strumento metodologico per riflettere sulla costruzione del sapere intorno alla differenza sessuale, decostruendo i modelli occidentali di sesso e di genere e ponendo in discussione proprio quella distinzione tra sesso, come biologicamente fondato, e genere, come costruzione culturale, da cui ha preso le mosse l'intera discussione. Ciò significa, in senso lato, interrogarsi sull'interazione tra costrutti sociali e corpi individuali, cultura e dimensione biologica. Mead, che fu una delle prime antropologhe ad attirare la nostra attenzione sul fatto che il modo di rappresentare i corpi, i significati loro attribuiti e le pratiche cui sono sottoposti sono storicamente e culturalmente variabili, descrisse anche l'esperienza dell'incorporazione, cioè il processo attraverso il quale pratiche e simboli vengono trasformati in disposizioni e abitudini di soggetti umani reali. Le sue intuizioni possono essere ulteriormente approfondite. Il corpo come finora è stato rappresentato sia nel pensiero colto sia in quello popolare, è tipicamente un'entità materiale fissa, soggetta alle regole empiriche delle scienze biologiche, un a priori rispetto al flusso della diversità culturale, caratterizzato da sue intrinseche necessità. Il nuovo corpo che ha cominciato a prendere forma nel dibattito degli anni Novanta del 20° secolo non può essere considerato un mero fatto di natura: ha una sua storia, o meglio diverse storie, che lo rendono un concetto problematico. La contemporanea riflessione antropologica pone in discussione tutta una serie di dicotomie concettuali, tra cui la distinzione convenzionale tra mente e corpo, mentale e materiale, e di conseguenza anche quella tra sesso e genere, dicotomie che tendono a semplificare le complesse relazioni che si instaurano tra corpi e cultura, considerando i primi una sorta di dato preculturale ed escludendoli da una loro partecipazione originaria e primordiale nel dominio della cultura (Embodiment and experience 1993, pp. 7-8).
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