Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Favolistica e satira, che hanno la loro origine nella letteratura classica, nel Medioevo trovano forme proprie, fonti rinnovate nonché un ambito di fruizione più vasto e diversificato di quello originario. La loro evoluzione conduce anche alla nascita di un genere nuovo, l’epica animale, che riunisce in sé l’apologo morale (con gli animali come protagonisti), la poesia satirica (con il suo intento polemico) e l’epica (con la sua struttura narrativa).
Il cane rauco
Minor Fabularius
Un cane dalla voce rauca, che se ne stava sdraiato davanti a casa, a malapena riusciva a emettere flebili latrati. Quando entrava qualcuno chiedeva a un altro cane che gli stava sdraiato accanto di abbaiare, ma quello stava zitto. Spesso, nell’oscurità della notte, quando qualcuno faceva rumore gli diceva: “Abbaia!”, ma quello stava zitto. Alla fine quest’ultimo, infuriato, non avendo più voglia di sopportare l’altro, che continuava a parlare, gli disse: “Di’ un po’, cos’hai intenzione di fare? Non mi lasci dormire e immagino che tu non voglia smettere di dare ordini e di parlare a vuoto”. “Mio buon amico”, risponde però l’altro, “tira fuori per me la voce che io non posso far sentire: ho mal di gola!”. Quello, che era molto arrabbiato e che non voleva rispondergli, cominciò a ringhiare e a fare una cosa strana. “Mia buona amica”, disse alla coda, “tira fuori per me la voce che io non posso far sentire: ho mal di gola!”. Così, continuando a ripetere spesso le parole da lui usate, lo fece tacere come voleva.
Quando un servo dà a un altro servo un ordine ricevuto dal padrone, nessuno dei due mette mano all’opera.
Testo originale:
Voce canis rauca latratus murmura pauca
reddere vix potuit, ante larem iacuit.
Quando quis entravit alium latrare rogavit,
qui prope se iacuit, ille tamen tacuit.
5 Sepe sibi “Latra!” dicebat nocte sub atra,
quando quis increpuit, ille tamen tacuit.
Qui tandem mentis furibunde verba loquentis
nolens ferre magis: “Queso, quid”, inquit, “agis?
Non dormire sinis me nec vult, ceu puto, finis
10 iussibus et fatuis vocibus esse tuis”.
“Vocem deprome”, tamen alter ait, “bone, pro me,
reddere quam nequeo, guttur enim doleo”.
Fortiter ille dolens et verba sibi dare nolens
rem miram facere cepit et infremere:
15 “Vocem deprome”, caude dixit, “bona, pro me,
reddere quam nequeo, guttur enim doleo”.
Usus verborum sic sepe tenore suorum
fecit quod tacuit, sicut ei placuit.
Servus preceptum servo dat quando receptum
20 precipientis heri, neuter adest operi.
in Favolisti latini medievali e umanistici, a cura di F. Bertini e C. Mordeglia, Genova, Tilgher, 2009
Walter of Chatillion
Utar contra vitia carmine rebelli
Carmina Burana
1. Alzerò contro i vizi un canto di rivolta. Altri si mostrano dolci come il miele, ma sotto il miele nascondono veleno; hanno un cuore di pietra sotto la pelle d’oro, sono asini che vestono la pelle di leone.
2. Il loro volto contraddice il cuore: dalla bocca scorre miele, ma l’animo è colmo di veleno; non è tutto dolce ciò che sembra miele, il cuore è ben diverso dalla faccia.
3. Parlano bene e agiscono male, nascondono le tenebre dell’animo sotto il candore della neve; tutte le membra soffrono per il dolore del capo e i rami sono guasti come le radici.
4. Roma è la capitale del mondo, ma in sé non ha nulla di pulito e ciò che dal lei proviene è tutto immondo; un vizio porta infatti ad altri vizi e sa di feccia quando è vicino al fondo.
5. Roma si appropria di ognuno e di ogni cosa, la sua curia non è altro che un mercato dove si vendono i diritti dei prelati e dove il denaro risolve ogni discordia.
Testo originale:
1. Utar contra vitia carmine rebelli.
mel proponunt alii, fel supponunt melli,
pectus subest ferreum deaurate pelli
et leonis spolium induunt aselli.
2. Disputat cum animo facies rebellis,
mel ab ore profluit, mens est plena fellis;
non est totum melleum, quod est instar mellis,
facies est alia pectoris quam pellis.
3. Vitium in opere, virtus est in ore,
tegunt picem animi niveo colore,
membra dolent singula capitis dolore
et radici consonat ramus in sapore
4. Roma mundi caput est, sed nil capit mundum,
quod pendet a capite, totum est immundum;
trahit enim vitium primum in secundum,
et de fundo redolet, quod est iuxta fundum.
5. Roma capit singulos et res singulorum,
Romanorum curia non est nisi forum.
Ibi sunt venalia iura senatorum,
et solvit contraria copia nummorum.
Walter of Chatillion, Carmina Burana, a cura di P. Rossi, Milano, Bompiani, 1995
Ademaro di Chabannes
La zanzara e il cammello
Una zanzara, essendosi fermata casualmente sul dorso di un cammello insieme con tutti i bagagli, saltando poi giù disse: “Scendo subito a terra per non affaticare te che sei stanco”. E quello: “Ti ringrazio”, disse. “Ma come non ho avvertito un sovraccarico quando sei salita, così non provo sollievo ora che sei scesa”.
Chi senza rispettare le distanze si sforza di porsi sullo stesso piano di chi è più in alto, incorre a nostro giudizio nel disprezzo.
Testo originale:
Culex dum forte in cameli dorso morasset cum omnibus sarcinis, deinde saliens dixit. “Ideo me ocius ad terram mitto, ne te attritum gravem”. At ille: “Gratum est”, inquit, “sed nec imposito te sentire pondus potui, nec deposito habere levamen”.
Qui se superiori absque ordine coaequare nititur, in despectu notitiae nostrae devenit.
in Favolisti latini medievali, a cura di F. Bertini e P. Gatti, Genova, Tilgher, 1988
Leone di Vercelli
L’asino travestito da Leone
Metrum Leonis
Al dissolversi delle tenebre, la povera mula di Sparone [20] ruppe il capestro di ferro, come se Leone fosse solito bastonarle ripetutamente i fianchi, [25] come se piangesse per l’orzo, come se piangesse per l’avena e come se la carice maleodorante non fosse per lei una nobile lettiera.
[30] Questa è già una gran cosa, in seguito sarà anche più grande.
Indossando una pelle di leone, l’asinello sparse il terrore tra i nemici, [35] ma, visto che non si muoveva a balzi, non ergeva il collo terribile per la radura né, [40] con il capo ritto, torceva occhi furiosi, quanto rapidamente si arrampicò, tanto rapidamente precipitò.
Questa è già una gran cosa, [45] in seguito sarà anche più grande.
Visto appunto che ragliava e non spargeva l’arena con la zampa, [50] che agitava le lunghe orecchie e che, rivoltando la schiena nella polvere, la pelle mal cucita gli si sfilò, [55] la sua identità precedente fu riconosciuta e venne inevitabilmente battuto a morte.
Questo è già giusto, [60] in seguito sarà anche più giusto.
Colpito dal caprone con un bastone di salice, consumò in anticipo l’espiazione [65] del male che aveva fatto.
Testo originale:
Nocte s[olu]ta
Curta Sparonis
20 Ferrea rupit
Mula capistra,
Cuius ut olim
Si Leo lumbos
Sępe dolaret,
25 Ordea fleret,
Fleret avenam,
Putida carex
Nec foret illi
Nobile stramen.
30 Hoc modo grande,
Maius in ante.
Terruit hostes
Pelle leonis
Tectus asellus;
35 Sed quia saltu
Nec spaciatur
Nec per apertum
Colluit atrox
Nec furiosa,
40 Vertice stante,
Lumina torquet,
Ut cito repsit,
Sic cito mersit.
Hoc modo grande,
45 Maius in ante.
Nam quia rudit
Et pede nullo
Spargit arenam,
Nam quia longas
50 Excutit aures,
Nam quia tergum
Pulvere versat
Et male sutum
Tergus omittit,
55 Notus hic idem,
Qui fuit ante,
Cęditur usque
Funus ad ipsum.
Hoc modo iuste,
60 Iustius unde.
Cęsus ab hirco
Fuste saligno
Ante peredit,
Ante redemit,
65 Que mala fecit.
in Poesia e potere all’inizio del secolo XI, a cura di R. Gamberini, Firenze, Edizione nazionale dei testi mediolatini 6, serie II 3, 2002
La favolistica latina del Medioevo è un genere dotato di una forte coerenza, derivata dalla limpidezza dei modelli di riferimento e dall’essenzialità dei messaggi veicolati. Senza arrivare mai a snaturare le caratteristiche fondamentali della categoria letteraria, gli autori si muovono al suo interno con estrema libertà compositiva e, spesso, con notevole originalità. Fermo restando l’intento educativo dei testi, che, come nell’antichità, erano destinati principalmente a essere letti nelle scuole primarie, e ferma restando la loro configurazione esteriore, composta solitamente da un breve racconto caratterizzato da una linea narrativa estremamente semplice e da una morale finale, il genere conta innumerevoli varianti che si sviluppano seguendo tre direttrici principali, due delle quali hanno la loro origine nell’opera del favolista greco Esopo: la prima passa attraverso la latinizzazione di Fedro, la seconda attraverso la versificazione di Babrio e la traduzione di Aviano, mentre la terza nasce dalla raccolta indiana del Pañcatantra.
Le favole che giungono al Medioevo latino tramite la versione di Fedro si diffondono a partire da alcune raccolte tardoantiche e altomedievali, la principale delle quali è denominata Romulus e consiste in una versione in prosa delle favole fedriane arricchita da testi provenienti dagli Hermeneumata pseudo-Dositheana e da altre fonti. Ne sono conosciute almeno tre diverse redazioni: la Recensio Wissenburgensis, la Recensio Gallicana e la Recensio vetus o vulgaris. A queste hanno attinto numerosi autori, che ne hanno variamente rielaborato, accresciuto e contaminato il materiale originario.
Molti di essi sono anonimi, come il compilatore del Romulus Nilantii o quello del Romulus LBG, retroversione latina delle favole fedriane tradotte in francese da Maria di Francia (1130 ca. - 1200); altri sono di incerta identificazione, come Gualtiero Anglico, forse riconoscibile in Gualtiero (1111-1122), arcivescovo di Palermo, al quale viene attribuita una delle raccolte più fortunate del Medioevo: l’Aesopus communis o Liber Aesopi, indicata anche come Anonymus Neveleti, che comprende 58 favole versificate in distici elegiaci. Altri autori, invece, sono personalità note, come il monaco Ademaro di Chabannes (988 ca. - 1034), che scrive 67 favole, dieci delle quali originali, le altre tratte dal Romulus o da altre antologie fedriane, oppure Egberto di Liegi (X/XI sec.), maestro di scuola che nel suo manuale, Fecunda ratis, riprende le favole esopiche, aggiungendo molti nuovi racconti tratti dalla tradizione orale e da uno sviluppo narrativo di proverbi popolari.
Il secondo filone della favolistica ha il suo punto di riferimento nell’opera di Aviano che, tra il IV e il V secolo, ha tradotto in distici elegiaci latini un gruppo di favole derivate prevalentemente da Babrio. Anche il testo di Aviano, di ampia diffusione manoscritta, ha trovato i suoi rimaneggiatori medievali, che tuttavia hanno goduto di minor successo dell’originale. Tra questi, il Poeta Astensis, che riscrive liberamente le favole avianee in una raccolta trasmessa da tre manoscritti; l’inglese Alexander Neckam – che oltre a un Novus Aesopus, riscrittura delle favole fedriane, scrive anche un Novus Avianus, che comprende sei favole ed è conservato in due codici – e gli anonimi autori degli Apologi Aviani, dell’Antiavianus, dei Novi Aviani flores e di numerose altre raccolte tramandate per lo più da un solo manoscritto.
Le favole orientali, invece, giungono in Europa tra XII e XIII secolo attraverso traduzioni in varie lingue del Calila e Dimna, versione araba della raccolta indiana Pañcatantra, nella quale due sciacalli (di nome Calila e Dimna) raccontano una serie di apologhi, che un anonimo autore ha riunito con l’intento di comporre uno speculum principis. Rientrano in questa tradizione il Novus Aesopus di Baldone, che scrive 35 favole in esametri leonini, ciascuna corredata di un prologo e di un epilogo; il Directorium vitae humanae di Giovanni da Capua, che traduce in latino una versione ebraica del Pañcatantra; l’opera di Raimondo di Béziers, dedicata al re Filippo IV di Francia, che invece latinizza una versione spagnola e la arricchisce di sentenze, citazioni poetiche, proverbi e brevi testi in prosa; l’anonimo Minor Fabularius, che si riferisce tanto a materiale orientale quanto a proverbi di tradizione germanica.
Sia le favole di derivazione dotta, sia quelle di origine popolare trovano un ulteriore canale di diffusione nella predicazione e nelle raccolte di exempla, come, per esempio, negli Specula di Vincenzo di Beauvais, che raccolgono 29 favole, o nel Tripartitus moralium di Corrado di Halberstadt il Giovane, dove si possono leggere circa 200 testi. Spiccano per originalità le Parabolae di Oddone di Cheriton, favole scritte come strumento di predicazione rielaborando profondamente le fonti e aggiungendo molti testi nuovi.
Nella letteratura mediolatina la satira si esprime con una grande varietà di forme, conseguenza di una pluralità di intenti unita a uno scarso interesse per la definizione teorica del genere.
I modelli classici sono Orazio, Persio e Giovenale, con il loro afflato moralista ripreso apertamente negli esametri dei Sermones di Sesto Amarcio che, ora in forma di dialogo, ora di trattato, prende di mira gli usi e gli abusi dell’alto clero e dei potenti del suo tempo. Classicheggiante è anche la meno nota Satyra de amicicia, mentre nel solco della satira menippea (mista di versi e prosa) si collocano rare opere, tra le quali il Planctus Naturae di Alano di Lilla. I toni possono essere ironici, scherzosi e addirittura comici, tuttavia molte satire – come il De contemptu mundi di Bernardo di Morlas – esprimono invettive violente, assai distanti dalla finezza degli antichi maestri. Bersagli degli autori satirici medievali sono la brama di potere, l’avidità, la lussuria e tutti i vizi che si manifestano nelle più disparate categorie di uomini: monaci, prelati, studenti, maestri, regnanti, nobili, cortigiani, popolani e donne, vittime costanti della misoginia clericale e secolare. Si rivolgono all’ambiente ecclesiastico le opere di Gilleberto – De superfluitate clericorum –, Egidio di Corbeil – Hierapigra ad purgandos prelatos –, Enrico di Würzburg – De statu curie Romane – e l’anonimo Speculum prelatorum, quattro testi di buona qualità letteraria che ambiscono a un vasto pubblico. Indirizzati contro maestri di scuola sono i poemi di Garnerio di Rouen, nei quali egli attacca furiosamente due colleghi e rivali.
Satire politiche sono invece il Rhytmus satiricus attribuito ad Adalberone di Laon, un’invettiva violenta in 28 strofe ambrosiane contro il conte Landerico di Nevers, e l’anonima Satira in Mettenses scritta alla fine del secolo XI. Più vari e generali sono invece i bersagli dell’Architrenius di Giovanni di Hauvilla, che in forma di un lungo romanzo di viaggio esprime tutte le sue critiche agli ambienti monastici, alle corti e alle università, per poi rappresentare l’autoredenzione del protagonista nelle nozze con la Temperanza, celebrate dalla Natura e dai filosofi antichi. Anche Giovanni di Garlandia nel Morale scolarium colpisce più bersagli: le università, la vita quotidiana, le regole di comportamento, i poveri, i ricchi, l’imperatore e la curia di Roma. Lo stesso vale per il Carmen satiricum occulti Erfordensis di Nicola da Bibra, dove si attaccano anche personaggi ben identificati; per il Palponista di Bernardo von der Geist, un conflictus tra l’autore e un cortigiano sui vantaggi assicurati dalla vita di corte e dall’adulazione; per l’Antigameratus di Frovino di Cracovia, che in 430 esametri formula una serie di precetti per correggere le cattive abitudini del clero, dei principi, dei giudici, dei servi, dei coniugi, dei cuochi, degli agricoltori e di molte altre categorie.
Il genere satirico vede una rigogliosa fioritura e una compiutezza stilistica nella tradizione goliardica, che si sviluppa nelle scuole del XII secolo a partire dall’Apocalypsis Goliae (satira in forma di visione) e si esprime con numerose opere anche molto diverse tra loro, come il De coniuge non ducenda, una satira misogina in forma di visione comica; il Discipulus Goliae de grisis monachis, che attacca pesantemente i rappresentanti dell’ordine cistercense; la parodia del Vangelo secondo il Marco d’argento, la Metamorphosis Goliae, contro gli intellettuali, e l’Utar contra vitia, carme sulla corruzione della curia romana, forse attribuibile a uno dei massimi poeti del genere: Gualtiero di Châtillon. Molti altri sono gli autori satirici dell’epoca, ma tra i più importanti vanno certamente annoverati Pietro di Blois, Filippo il Cancelliere, Ugo Primate e l’Archipoeta.
L’epica animale è un genere di invenzione medievale. Nasce da un ampliamento narrativo delle favole esopiche composto secondo la tecnica e lo stile della poesia eroica o delle Metamorfosi ovidiane. Il corto circuito tra genere favolistico e satirico era già avvenuto nella sesta satira di Orazio, che contiene il celebre apologo del topo di città e del topo di campagna, ma l’epica animale del Medioevo lo rende sistematico, unendo l’intento educativo della favola a quello moralistico della satira. I testi sono costruiti come lunghe allegorie, derivate dall’ampliamento e dalla combinazione di una o più favole, prive di morale sintetica finale e prive di una chiave interpretativa esplicita.
Uno dei primi esempi è il poemetto Aegrum fama fuit, composto nel IX secolo sul tema del leone malato; tema ripreso all’inizio del secolo XI nel Metrum Leonis di Leone di Vercelli, una satira politica che combina questo motivo narrativo con quello dell’asino nella pelle del leone e quello del lupo travestito da monaco. Quest’ultimo soggetto ritorna, in un contesto differente, anche nel De lupo di Marbodo di Rennes.
Prodotto monastico è uno dei poemi più significativi e dibattuti del Medioevo latino: l’Ecbasis cuiusdam captivi per tropologiam, dove la favola del leone malato è inserita in una cornice che ha come protagonista un monaco-vitello che fugge dalla stalla e gode di un brevissimo momento di libertà prima di finire nella tana di un lupo da dove sarà salvato dagli animali della foresta che lo riporteranno alla stalla-monastero. Il lupo dell’Ecbasis si ritrova anche in un poema molto più ampio, l’Ysengrimus, che in circa 3200 versi racconta le battaglie tra il lupo (Isengrino) e la volpe (Rainardo), che alla fine avrà la meglio dopo avere inflitto al rivale molteplici tormenti.
La favola animale costituisce anche l’intelaiatura dello Speculum stultorum di Nigello Wireker, o de Longo Campo (di Longchamps), una satira articolata che racconta le disavventure dell’asino Brunello, che gira l’Europa cercando di ottenere una coda più lunga, un titolo universitario e di fondare un nuovo ordine monastico, ma finirà infelicemente per perdere, oltre alla coda, pure le orecchie.