Generi tecnici e marginali
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Lungi dall’essere aridi manuali, molti trattati tecnici e raccolte erudite dell’antichità si rivelano pervasi dall’humanitas dei loro autori (si pensi alla Geografia di Strabone, o alla descrizione della Grecia di Pausania), e in ogni caso si rivelano preziosi ed indispensabili per ricostruire l’“enciclopedia” culturale di Grecia e Roma, che per molti aspetti ci sono note soprattutto grazie a questi testi.
Fin dalla primissima età imperiale, probabilmente anche sulla scia della riscoperta della Poetica di Aristotele, si intensifica l’attività dei critici letterari, che spesso svolgono la professione di retori.
Una delle figure più importanti in quest’ambito è Dionigi d’Alicarnasso, già citato per la sua opera storica sulle origini di Roma. Alla base delle sue concezioni si colloca l’innalzamento del dialetto attico a modello supremo di purezza, con particolare riferimento alla lingua degli oratori. Sopravvivono, non a caso, suoi “saggi” su Lisia, Isocrate, Iseo, sullo stile di Demostene e su Dinarco. Si occupa anche di Tucidide, che tuttavia finisce per sottovalutare. Nel trattato De compositione verborum, Dionigi tratta della bellezza del discorso, da ottenere tramite la composizione delle parole. Arriva anche a distinguere tre “armonie” fondamentali, ciascuna esemplificata da autori del passato: la severa (Pindaro, Eschilo e Tucidide), la fiorita (Saffo ed Euripide) e la mista (Omero, Sofocle ed Erodoto). Il ricorso a modelli stilistici, ai quali occorre attenersi strettamente, è postulato infine nei frammenti del trattato Sull’imitazione, secondo una pratica che, come è stato giustamente notato, se da un lato promuoveva un recupero dell’eredità classica, dall’altro apre la strada ad un formalismo sterile e sclerotizzato.
Una visione differente, invece, è quella che anima il più enigmatico dei trattati antichi di critica letteraria, che al contempo è anche il più vicino alla sensibilità moderna. Un solo manoscritto, conservato a Parigi, tramanda un’opera incompleta intitolata Sul sublime e attribuita a “Dionisio o Longino”. Una serie di ragioni induce a scartare sia la prima sia la seconda attribuzione, tanto che talora, per l’autore, è invalsa la denominazione di Pseudo-Longino. Lo scritto sembra databile alla prima metà del I secolo; lo caratterizza la peculiare concezione secondo cui l’abilità tecnica, per quanto importante, non basta per raggiungere la grandezza. Per questa è necessario il genio, una qualità sostanzialmente innata e tuttavia fondamentale. Lo scrittore di genio, infatti, può permettersi anche qualche errore: rimarrà comunque superiore agli autori formalmente sempre ineccepibili, ma privi del “fuoco”. L’opera, punteggiata di brillanti ed icastici giudizi critici sui grandi scrittori dell’antichità, godette di grande fortuna a partire dall’editio princeps cinquecentesca, arrivando a influenzare anche la critica d’arte e l’ideologia romantica.
Pseudo-Longino
Del sublime, 12.4
Mi sembra, carissimo Terenziano (te ne parlo nei limiti in cui anche a noi Greci è dato giudicare quest’argomento), che anche Cicerone differisce da Demostene per il tipo diverso di grandezza. Demostene s’innalza ad altezze per lo più scoscese; Cicerone, invece, tende ad espandersi; il nostro oratore, per la foga, per la terribilità che lo mettono in condizione di tutto bruciare e saccheggiare, potrebbe essere paragonato a un uragano o una folgore, mentre Cicerone, a mio parere, come un incendio che si propaga, dappertutto divora e s’involge, con un fuoco abbondante e durevole e che si distribuisce ora qua ora là, e che, in successive riprese, trova sempre esca in se stesso.
Pseudo-Longino, Del sublime, a cura di F. Donadi, Milano, BUR, 1991
L’antichità ci ha lasciato due grandi opere geografiche di impianto profondamente differente e per molti versi complementare. La Geografia di Claudio Tolomeo, in otto libri, è costituita sostanzialmente da un elenco di località, foci di fiumi, catene montuose presenti nel mondo conosciuto, per ciascuna delle quali sono fornite coordinate che permettono di costruire vere e proprie mappe.
Questo trattato, per quanto arido, risulta comunque fondamentale per lo sviluppo della grande cartografia rinascimentale.
Completamente diverso è invece l’impianto della Geografia di Strabone di Amasea. Dopo due libri iniziali di prolegomeni, che contengono l’introduzione teorica alla materia, nei rimanenti 15 Strabone si dedica ad esporre una geografia essenzialmente umana e filosofica del mondo conosciuto. La sua trattazione, lungi dall’essere arida e pedante, è molto piacevole ed animata da frequenti digressioni culturali e letterarie, aneddoti, curiosità, attinti sia da fonti letterarie (in particolare Omero, ma anche geografi precedenti come Artemidoro e Posidonio), sia dall’esperienza personale, frutto dei viaggi compiuti in Egitto, Asia Minore, Grecia e Italia. Lo schema è quello del periplo, che inizia con la descrizione della Spagna e poi prosegue facendo il giro orario del bacino del Mediterraneo (con excursus dedicati alle regioni, anche lontane, dell’entroterra), per concludersi poi con l’Egitto e la Libia. Lo scopo dichiarato di Strabone è quello di fornire ai governanti uno strumento per conoscere le principali caratteristiche, utili in pace e in guerra, delle varie regioni del mondo; la visione universale presente nella sua opera è stata riconnessa all’ideologia augustea, ed è un dato di fatto che la romanizzazione delle popolazioni più marginali o arretrate dell’impero sia valutata in maniera positiva.
Nel corso del II secolo un altro greco proveniente dall’Asia Minore, Pausania, si dedica a un’ampia Descrizione della Grecia in dieci libri, ciascuno dei quali dedicato a una differente regione. Si inizia con l’Attica ed Atene, per proseguire con Megara, Corinto, l’Argolide, il resto del Peloponneso la Beozia, per concludere con la Focide, la regione dov’era situato il santuario di Delfi. Delle varie località sono forniti cenni storici uniti a una descrizione puntuale, spesso di prima mano, dei monumenti (templi, statue, dipinti). L’autore coglie frequentemente l’occasione per intraprendere digressioni anche ampie, che espandono il suo raggio d’azione ad altre aree del mondo greco, come l’Asia Minore o l’Italia meridionale.
La Periegesi costituisce un’opera di “topografia culturale” che presenta punti di contatto l’opera di Strabone, rivelandosi però spesso più acuta, dettagliata nelle descrizioni e al contempo dotata di maggior respiro: una lettura estremamente gradevole si coniuga con una quantità strabiliante di informazioni assolutamente inestimabili sulla topografia, la storia dell’arte, le tradizioni locali e l’antropologia del mondo antico. Il carattere unico dell’opera ha posto dei problemi ai critici che si sono preoccupati di classificarla e di comprenderne le finalità. Sicuramente non si tratta di una “guida turistica” ante litteram, né di una semplice esercitazione retorica. Si è parlato di una forma “sperimentale” di letteratura tipica del tardo ellenismo e si è supposto, in maniera suggestiva, che Pausania abbia voluto “tesaurizzare” nelle sue pagine la memoria delle bellezze di una Grecia della quale forse presagiva la fine imminente.
La suggestiva immagine del più o meno consapevole “salvataggio” di un patrimonio classico in procinto di andare disperso potrebbe forse essere applicata anche alle grandi raccolte erudite prodotte in età imperiale, che si rivelano per noi importantissime, se non altro come fonte di infiniti frammenti di autori e opere altrimenti perduti.
Il rappresentante più emblematico di questa tendenza è probabilmente Ateneo di Naucrati, vissuto nella seconda metà del II secolo. Collocandosi sulla scia del Simposio platonico e delle Questioni conviviali di Plutarco, scrive i suoi Deipnosofisti (“Sapienti a banchetto”), immaginando una cena offerta da un ricco letterato romano cui prendono parte ben 29 invitati, esponenti di varie branche della cultura (vi sono grammatici, filosofi, medici, giuristi…), che conversano su vari argomenti, attinenti principalmente all’ambito simposiale (e dunque il vino, gli utensili da banchetto, vari cibi…). Su questo canovaccio estroso, ma esile, si innestano continue digressioni e, soprattutto, una massa impressionante di citazioni, soprattutto dalla commedia di mezzo e nuova: in totale, Ateneo fornisce circa 12 mila frammenti altrimenti ignoti. Quella che noi possediamo, peraltro, è solo una riduzione (per giunta lacunosa) dell’opera originale. La lettura diretta dei Deipnosofisti, forse anche per questo processo di taglio, è in genere abbastanza frastornante, anche se esistono sezioni gradevoli, ad esempio il libro XIII dedicato alle donne (in particolare le cortigiane) e all’amore.
La tendenza a rendere le “cornici” delle raccolte erudite sempre più schematiche giunge a compimento con la struttura delle antologie, in cui le citazioni, raggruppate per argomento, vengono giustapposte senza raccordo. Particolarmente importante risulta l’opera di Giovanni Stobeo, vissuto nel V secolo, che dedica la sua antologia morale in quattro libri (divisa poi in gruppi di due noti come Ecloghe e Florilegio) al figlio Settimio. Anche questo testo, in cui compaiono brani in prosa e in versi, è molto importante come fonte di un gran numero di passi altrimenti perduti.
Già nell’antichità c’era bisogno di dizionari che aiutassero a comprendere le parole rare e desuete presenti negli autori del passato, a partire da Omero. L’opera più importante di questo settore è costituita dal Lessico (più propriamente Raccolta alfabetica di tutte le parole) di Esichio di Alessandria, vissuto probabilmente nel V secolo. Già così di dimensioni ragguardevoli (comprende più di 50 mila voci), il Lessico (tramandato da un unico codice del XV secolo, oggi conservato a Venezia) deriva, attraverso intermediari, dalla sterminata raccolta di Panfilo d’Alessandria, vissuto nel I secolo, che arrivava a comprendere ben 95 libri. L’opera di Esichio, oltre che per i filologi, è molto importante anche per i linguisti, che tramite essa recuperano molte parole appartenenti a lingue indoeuropee più o meno oscure come il trace e il macedone.
Un criterio non alfabetico, ma tematico è invece alla base dell’Onomastico di Giulio Polluce, che nel 178 è nominato professore di retorica nella prestigiosa sede di Atene. Suddivisa in dieci libri organizzati per argomenti (si inizia, significativamente, con gli dèi e con tutto quanto concerne la sfera del sacro, per poi proseguire con altri soggetti), la sua raccolta è molto importante per la conoscenza di minuti dettagli antiquari sul teatro antico e su molti altri elementi di vita quotidiana.
In forma pesantemente abbreviata sopravvivono anche gli Ethnica di Stefano di Bisanzio (probabilmente vissuto nella prima metà del VI secolo): si tratta di un repertorio di citazioni di autori classici riferiti a località organizzate in ordine alfabetico.
La filosofia ellenistica si occupa con una certa attenzione anche del fenomeno dei sogni. Gli epicurei ritengono che siano il frutto meccanico e casuale del movimento degli atomi; gli stoici, al contrario, postulano che siano inviati dagli dèi e che dunque abbiano davvero, come vuole la tradizione, una valenza profetica e l’interpretazione dei sogni riveste, quindi, una notevole importanza. Nell’antichità è frequente il ricorso agli oneiropoloi, gli interpreti dei sogni, e fiorisce tutta una letteratura dedicata proprio a svelarne il significato.
L’esempio più celebre è quello degli Onirocritica di Artemidoro, vissuto nel II secolo e tradizionalmente noto come Artemidoro di Daldi, con riferimento alla città di provenienza della madre. Lì era particolarmente venerato Apollo Miste (degli iniziati), e sarebbe stato proprio su incitamento del dio che Artemidoro avrebbe composto la sua opera, che suscitò anche l’interesse di Freud. In essa i sogni sono sottoposti ad un inquadramento minuzioso; in particolare i sogni profetici (riferiti ad eventi futuri) vengono suddivisi in visioni dirette e in sogni allegorici o simbolici, che necessitano di un’apposita chiave di decrittazione fornita nei primi quattro libri dell’opera; il quinto, un’aggiunta successiva, contiene invece una serie di esempi pratici di sogni “risolti” raccolti da Artemidoro nel corso dei suoi viaggi in Grecia, Asia ed Italia.
Artemidoro di Daldi
L’interpretazione dei sogni
Oneirocritica (Il libro dei sogni), Libro V, 85
Uno schiavo sognò di ricevere dalla sua padrona un uovo sodo, di gettarne il guscio e di consumare l’uovo. La padrona di costui rimase incinta, e in seguito generò un bambino. Essa poi morì, e per ordine del marito della padrona l’uomo che aveva fatto il sogno prese il bambino e lo allevò. In questa maniera l’involucro esterno risultò cosa da gettare e di nessun valore, mentre il contenuto offrì i mezzi di sostentamento a chi aveva fatto il sogno.
Un tale che doveva farsi operare allo scroto, pregò Serapide per la riuscita dell’operazione, e sognò che il dio gli dicesse: “Fatti operare senza timore, dopo l’intervento sarai guarito”. Morì; infatti doveva essere liberato da ogni dolore, come chi ottiene la guarigione. […]
Artemidoro, Il libro dei sogni, a cura di D. Del Corno, Milano, Adelphi, 1975
L’interpretazione simbolica di segni e immagini è alla base anche di una curiosa opera risalente all’epoca tardoantica, gli Hieroglyphica di Orapollo di Nilopoli, probabilmente da identificare con un sacerdote pagano vissuto in Egitto nella seconda metà del V secolo. Nei due libri di questo trattato vengono fornite poco meno di 200 spiegazioni di geroglifici egiziani, interpretati come simboli esoterici che alludono a verità superiori. L’opera ha scarsa rilevanza dal punto di vista dell’egittologia, ma conosce una strepitosa fortuna in epoca rinascimentale.
Con il nome bizantino di “paradossografia”, coniato nel XII secolo da Giovanni Tzetze, si indica il genere letterario, attestato fin da Callimaco, incentrato sulla raccolta di nozioni sorprendenti e meravigliose relative alla storia naturale, all’etnografia, all’antiquaria. Sopravvivono vari trattati o trattatelli, variamente sottoposti ad abbreviazioni; tra di essi si segnala quanto resta dell’opera di Flegonte di Tralle, liberto di Adriano, che finisce per diventare il vero e proprio segretario dell’imperatore (probabilmente l’ispiratore delle sue opere).
Quello che resta del suo Libro delle meraviglie è tramandato da un unico codice. Il contenuto si rivela caratteristico del periodo e molto vicino a quanto conosciamo dei gusti di Adriano: compaiono infatti frequenti citazioni di oracoli e, soprattutto, storie di fantasmi e apparizioni, come quella, molto celebre in epoca romantica, della fanciulla Filinnio di Anfipoli, antesignana del tema della “morta innamorata”.
L’antichità ci ha trasmesso anche una raccolta di 265 storielle umoristiche, databile alla tarda età imperiale e intitolata Philogelos (“Il ridanciano”). Spesso accostata a un moderno “barzellettiere”, questa curiosa silloge è organizzata tematicamente, sulla base di personaggi stereotipati (l’ubriacone, l’avaro, lo scorbutico, il pigro) o di “tipi” geografici, con riferimento a città i cui abitanti godevano fama di stupidità (Abdera, Sidone e Cuma). Il vero protagonista della raccolta, però, è lo “scolastico”. Con questo termine, tecnicamente, si indicano in età tarda le persone istruite, in particolare gli avvocati; già Galeno ed Epitteto, peraltro, testimoniavano come il termine potesse essere usato per indicare un pedante talmente perso nelle sue astruserie da essere irrimediabilmente sciocco e privo di buonsenso. È questo il senso che la parola ha invariabilmente nel Philogelos, che costituisce la vera e propria epopea di questa bizzarra figura comica.
Philogelos
Uno scolastico, volendo vedere se fosse bello quando dormiva, si guardava nello specchio ad occhi chiusi.
Uno scolastico cercava dove farsi costruire il sepolcro. Quando alcuni gli raccomandarono un certo posto, osservò: “Ma il luogo è malsano!”
Uno di due gemelli morì. Uno scolastico, dunque, imbattutosi nel sopravvissuto gli chiedeva: “Ma chi è morto, tu o tuo fratello?”
in Come ridevano gli antichi (Philogelos), a cura di T. Braccini, Genova, Il melangolo , 2008