Genesi e struttura della società
Scritta da Giovanni Gentile tra l’agosto e il settembre del 1943, «a sollievo dell’animo in giorni angosciosi per ogni Italiano», ma anche «per adempiere un dovere civile», in vista dell’«Italia futura» per la quale egli aveva speso «tutta la vita», Genesi e struttura della società è presentata al lettore – così suona il suo sottotitolo – come un «saggio di filosofia pratica» (G. Gentile, Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, 1946, 1987). L’ultima grande opera gentiliana – pubblicata postuma, nel 1946, non esente da sbavature formali e stilistiche – riprendeva così il tema che l’autore aveva affrontato nella sua prima, precocissima, opera, La filosofia di Marx (1899), dove era contenuto un saggio sulla «filosofia della prassi» marxiana. E come allora, Gentile doveva innanzitutto evidenziare che non poteva essere concesso uno spazio alla prassi che non coincidesse con l’orizzonte teorico inaugurato dal soggetto pensante. Si trattava cioè di ribadire ancora una volta che – per dir così – gli occhi messi sulla realtà erano anche le mani che la suscitavano, strappandola all’inerzia del presupposto caro al «pregiudizio realistico» (Genesi e struttura della società, cit., p. 7). La persuasione che la vita pratica eccedesse quella teoretica proveniva, infatti, da argomenti che potevano accontentare solo chi si fosse fermato sulla superficie della questione. Ora, di primo acchito, come poteva negarsi che un conto erano le cose da conoscere, antecedenti lo sguardo del soggetto, e un altro conto, invece, le cose da fare, conseguenti la sua volontà? Le prime, insomma, c’erano già, prima di conoscerle; le seconde, invece, non c’erano, se non dopo averle prodotte. Eppure, occorreva rendersi conto che l’oggetto eletto dalla «volontà» dell’Io, distinguendo il «bene» dal «male», non oltrepassava l’«atto del volere», ma equivaleva all’«atto stesso, buono o meno buono, a cui si rivolge il nostro giudizio morale». Un voluto già voluto o non ancora voluto, taceva infatti intorno alla volontà che, essendoci «realmente», congedava ogni altra realtà, in astratto già voluta o da volere. L’oggetto concretamente voluto, insomma, coincideva con il «volere» stesso, da interpretare allora come un volere se stesso, esponendosi, con l’esito della propria azione, alla lode o al biasimo, al premio e al castigo.
Per questa via, l’uomo suscitava quel che «di nuovo e di suo» (p. 5) che non sarebbe mai esistito senza di sé, vale a dire se stesso in quanto volente. «L’oggetto della creazione umana è lo stesso uomo» (p. 6) – scriveva Gentile –, artefice del «bene» che il voluto, investito della luce attuale, restituiva nel farsi della sua «libertà». Il voluto autentico era cioè il volersi della volontà che l’Io sprigionava al modo di un dominio reale equivalente alla «legge» del mondo presente a se stesso: la legge che, come «una voce dentro l’anima che non tace mai, […] lo sprona a non ristare, ad andare avanti […] verso […] quello che egli deve essere» (pp. 7-8). Creando se stesso, il volere suscitava il bene che non stava affatto in «una cosa posta là, fuori, nello spazio e nel tempo» (p. 5), bensì nello spirito dell’uomo destinato a rimanere presso di sé, oltrepassando l’uno e l’altro. Gentile tornava così ancora una volta a insistere sulla necessità di assoggettare le cose al processo che, concretizzandone l’andamento, restituiva la vita incessante dell’artefice «inoggettivabile» di ogni oggetto (p. 3). Sennonché, concessa l’esistenza della vita pratica in cui era il volere a imporre se stesso, dettando al mondo la sua consistenza morale, come sottrarre all’«autoctisi» della volontà la vita teoretica, in ragione della quale si trattava appunto di «scegliere il vero» (p. 7), a scapito del falso? Non era infatti il conoscere uno svelarsi del soggetto che, consapevole della verità, svelava sé a se stesso, anche quando esso rifletteva intorno alla realtà, decidendone la consistenza? Decidere era decidersi, acquistando la coscienza di sé che non precedeva affatto il sé e nemmeno era da esso preceduta, ma scaturiva dal divenire del soggetto. In tal senso, conoscere il mondo equivaleva innanzitutto a volere se stessi, creando l’oggetto destinato a saturare l’autocoscienza dell’Io al modo del voluto. Per il soggetto, dunque, conoscere la verità sarebbe equivalso a volerla, volendo se stesso, nello sprigionarsi di una luce che era «la gran luce del mondo e la fonte d’ogni bene di cui si vada in cerca nel mondo» (p. 7). Non l’irruzione del buio in mezzo alla luce della coscienza, bensì il graduale chiarirsi della sua luce, suscitandone l’orizzonte trasparente. Il conoscere cadeva cioè sotto la specie del volere, non essendoci se non il crearsi dello spirito testimoniato da un mondo che non poteva sottrarsi alla «responsabilità dell’azione» (p. 8). L’esistenza dell’uomo equivaleva dunque all’esistenza di un «dovere» che, palesando la vita come «soluzione» di un «problema» incessante, scaturiva dalla sostanziale «eticità» del pensiero integralmente ricondotto all’attualità (p. 8).
Genesi e struttura della società, nato anch’esso, come tanti altri lavori gentiliani, da un corso universitario, riprendendo il tema attualistico, evocava per la prima volta il concetto della «società trascendentale» destinata a impersonare l’immanente alterità dell’Io. Si trattava infatti di accostare così «il nuovo» – «mai detto, né da me né da altri», scrive Gentile – che si sarebbe «tirato dietro» il vecchio e già abbozzato (soprattutto nei Fondamenti della filosofia del diritto), dando luogo a una dottrina concernente lo «Stato», la «Politica» e i «rapporti tra Economia ed Etica» che avrebbe infine consentito alla filosofia di far luce sull’esperienza della morte da cui ciascun uomo era atteso al termine della propria vita. Il perno di quest’opera era infatti costituito da quella che Gentile invitava a considerare come una vera e propria deduzione della «società in “interiore homine”» a partire dalla dialettica dell’Io (p. 33). Il fondamento della deduzione doveva cioè essere riconosciuto nella «volontà» trascendentale chiamata a restituire l’essenza morale del mondo investito dalla coscienza in atto, interprete della «individualità» sottratta per sempre alle astrattezze del realismo.
Individuo, infatti, non era la cosa escogitata dal pensiero ignaro di sé, posta dinanzi al soggetto, ma appunto il soggetto consapevole di sé in un oggetto che, moltiplicandosi nello spazio e nel tempo, traspariva nell’unicità (davvero «non-divisibile») della realtà «infinita, universale, intrascendibile, assoluta» (p. 13). Senza uscire da sé, l’Io incontrava tutto e tutti, incontrando così il volere che li animava, dettando a ciascuno l’identità propria e irripetibile, valida da sempre e per sempre, in eterno. Chiarendo sé a se stesso, l’Io cioè inaugurava l’orizzonte innegabile di un’esperienza destinata a valere per tutti, necessariamente: «pensando, il tutto pensa con lui e in lui», e nulla e nessuno può smentirne il decreto (p. 13). Si trattava infatti di comprendere come la singolarità originaria e irripetibile del gesto trascendentale, che Gentile vedeva all’opera nel «linguaggio» dell’uomo, implicasse il rinvio alla «comunità» alla quale tutti gli uomini sentivano di appartenere, non appena aprivano bocca. Ci si doveva insomma rendere conto di come la singolarità dell’esperienza soggettiva, testimoniata dal timbro originale della parola espressa, alludesse alla «fiducia» dell’Io nell’immancabile «consentimento» altrui. In questo senso, l’attualismo suggeriva come la lingua dell’uomo in carne e ossa fosse «sua e non sua», essendo insieme «quella de’ suoi padri, della sua tribù o clan, della sua città, della sua nazione», tale cioè da «far risonare la sua parola tutto intorno come espressione umana di qualcosa di umano». La società degli uomini, mai isolati gli uni dagli altri, se non nella finzione dell’«atomismo politico e sociale», traspariva cioè dalle parole dell’Io che nel chiuso della propria coscienza «parla e canta, e pensa e sente, e desidera e vuole, e in generale agisce con un’azione onde egli stesso si viene costituendo quello che è» (p. 14).
L’attualità dell’Io, non un individuo accanto ad altri individui, ma il solo e unico individuo esistente, sprigionava così il Noi che gli era immanente al modo della «legge interiore» destinata a interpretare l’esigenza di tutti. «In fondo all’Io c’è un Noi» (p. 15), scriveva Gentile, additando l’ambizione del gesto attuale, di dire (anche in cuor proprio) quello che si doveva dire, nella fiduciosa attesa del consenso generale, assetata di «gloria». Ora, nella coincidenza della «massima particolarità» e della «massima universalità», l’individuo sottratto alle grinfie del dominio empirico, senza libertà, si faceva interprete della volontà assoluta, lasciando risuonare così la voce di Dio. Una voce che occorreva però presentire al modo della misura ideale, cui commisurare le nostre parole, per farla essere, «poiché infine vox populi vox Dei. Ma soltanto in fine» (p. 17). Si trattava cioè di non perdere di vista che la comunità «presente e operante» nell’unicità del pensiero in atto come Io era l’Io stesso: non «un Noi già fatto e preesistente», da ereditare e mettere a frutto, bensì il Noi vivo della sua vita inestinguibile, da cui ogni comunità traeva se stessa, senza pause o indugi. Stando così le cose, il farsi della comunità era il farsi stesso dell’individuo chiamato a realizzarsi, universalizzando il particolare che esso, facendosi, doveva abbandonare: il bruciare un «combustibile» mai sottratto alla fiamma eternamente accesa del pensiero (p. 24). Essere uomo significava allora individualizzarsi, universalizzando il particolare e particolarizzando l’universale. Così recita Genesi e struttura della società:
Nessuno penserà mai, nell’atto di pensare qualche cosa, che si possa pensare che il suo non sia il pensiero vero: quello che prima o poi tutti accetteranno perché pensato bensì da lui, ma da lui fedele interprete di tutti (p. 18).
Il farsi della verità, autentica bandiera dell’attualismo gentiliano, assumeva dunque le sembianze di una divina comunità in fieri: non la società che conteneva l’individuo, dettandogli un destino, bensì quella che nell’individuo era contenuta, preda di un sentimento originario, «gratuito» e tuttavia da guadagnarsi con il «lavoro eterno» dello spirito. Dio, attraverso l’uomo, diveniva il Dio che esso era, fin da principio, quando, quasi si fosse fermato sulla «soglia dello spirito» umano a «trarre il gran respiro del sentire», accomunava i singoli, destinandoli alla «civiltà» spirituale che essi avrebbero elaborato in proprio, nel concerto della volontà trascendentale (pp. 20-21). Deus absconditus, lo sprigionarsi dello spirito equivaleva all’oggetto di una ricerca incessante, in ragione della quale nulla poteva essere trovato che non fosse da cercare dentro di sé. Per questa via, l’uomo veniva scoprendo il regno eterno dello spirito, vero di una verità di cui si sarebbe potuto dire: «È così», «nonostante tutti gli errori ond’è cosparsa la storia delle umane asserzioni» (p. 18). Gentile rinviava allora con decisione allo sprigionarsi della «società trascendentale» che, «insita all’Io trascendentale» (p. 39), doveva assumere il ruolo di «condizione e principio d’ogni società costruibile nell’esperienza» (p. 32). Si trattava infatti di rendersi conto di come l’Io avesse in sé l’alter come socius, non una cosa tra le cose, bensì un soggetto uguale a lui, sebbene altro da sé.
Il filosofo siciliano suggeriva la necessità che il soggetto, uscendo da sé, confinato nella purezza di un soggetto solo soggetto, negasse realmente la purezza dell’oggetto solo oggetto, suscitando il riconoscimento dell’altro come soggetto. In tal senso, la rimozione del presupposto realistico doveva dar luogo non soltanto all’imporsi di una soggettività dell’oggetto, ma anche – ed era una precisazione importante – all’avvento di un altro soggetto. La soggettività trascendentale dell’attualismo, dunque, non evocava l’astratto rinchiudersi nella prigione di un Io senza gli altri, bensì l’aprirsi concreto dell’Io agli altri, nel tornare a sé come un altro. Del resto, la «dialettica dell’Io», evocando un’autonegazione, non muoveva né dall’«Io immediato» né dall’«immediato non-Io», ma dall’unità che, suscitandoli, veniva «prima» di entrambi. Porre il non-Io, allora, significava ribadire l’esistenza dell’«atto discriminante e positivo» come porsi dell’Io, mentre il non-Io, «opponendosi realmente all’Io», diveniva l’altro da sé. Il superamento autentico del naturalismo, in direzione dello spiritualismo cristiano e moderno annunciato dalla Teoria generale dello spirito come atto puro (1916, 19385, p. 50), non doveva cioè soltanto restituire l’essere al pensiero, lasciando all’essere la consistenza inerte della «cosa, semplice cosa», ma dar luogo a una reinterpretazione della «medesimezza fondamentale» degli opposti sprigionati dall’attualità (Genesi e struttura della società, cit., pp. 34-35). Opposti e tuttavia identici, Io e non-Io non potevano più rappresentare il soggetto e l’oggetto, da comporre e scomporre nell’altalena dialettica del pensiero attuale, bensì l’imporsi dell’oggetto come soggetto o del soggetto come oggetto, nell’unità intrascendibile dell’Io abitato da altri Io o, se si preferisce, da un altro come Io. Si sarebbe allora trattato di apprezzare in queste pagine la deduzione di una molteplicità di soggetti sul fondamento del divenire, quando al divenire fosse stata concessa la consistenza dell’atto pensante. Se essere Io significava farsi altro, l’altro non poteva che palesare le sembianze dell’Io, oggetto bensì a se stesso, ma come soggetto, un altro soggetto.
Per questo verso, l’Io coltivava dentro di sé la società che l’esperienza era chiamata a tradurre nei fatti, la quale mai si sarebbe potuta giustificare e garantire, tranne che per un capriccio, se essa non fosse stata posta all’origine di ogni contratto sociale. Fuori della «società in “interiore homine”» restava allora soltanto il «nulla», alimento e sostanza dell’«angoscia» che Martin Heidegger – è a lui che Gentile allude – vedeva all’opera nell’uomo, quando illanguidiva il senso di sé o il mondo sbiadiva fino a estraniarsi. Ma l’angoscia, come ogni dolore, rinviava al non-essere che l’uomo, essendo, doveva avvertire al modo del limite, liberandosene, sforzandosi «di trarsi a riva, ed esistere, vivere in atto la propria vita spirituale» (p. 35). Ora, dinanzi a sé come a un altro, l’uomo, suscitando il tu di un Io ormai «con un altro», inaugurava lo sprigionarsi del pensiero come un parlare e un ascoltare, dove però «chi ascolta è e non è lo stesso uomo che parla» (pp. 36-37). Si trattava cioè di rendersi conto di come l’«alterità empirica di Tizio e Caio» restituisse senza resti l’«alterità reale» dell’Io, socio a se stesso, ma appunto altro a se stesso («la distinzione è netta e assoluta»), di un’alterità dura «a vincersi». Gentile mirava così a evidenziare l’esistenza di un «dialogo interiore» dell’Io sempre alle prese con chi ci ascoltava e parlava, parlandoci, «interlocutore e attore del dramma che è la trascendentale società onde l’uomo è, assolutamente parlando, animale politico». Chi parla, infatti, innanzitutto «si ascolta, si giudica, si approva o si corregge», lacerando in sé il tessuto di una coscienza bensì ricucita, ma proprio per questo da rammendare. Solo a questo patto, dunque, l’uomo si sottraeva alla «solitudine» che, anticipata alla «vita sociale», sarebbe altrimenti apparsa come l’inevitabile destino dell’umanità (pp. 38-39). La convivenza umana restituiva allora l’armonica disarmonia di un Io al cospetto del «prossimo», che, «tutt’uno con noi», assumeva le sembianze di un «interiore nemico» (Teoria generale dello spirito, cit., p. 237), a combattere il quale l’«amore» («Ama il prossimo tuo come te stesso») poteva bastare, solo che lo si fosse interpretato come l’infinito «tirocinio di conquista e di affratellamento dell’altro con noi» (Genesi e struttura della società, cit., p. 40).
Per questa via, evidentemente, Gentile individuava l’origine ideale della società, da cercare fuori del tempo e dello spazio che essa era tuttavia chiamata a occupare. La dialettica del soggetto esprimeva così la sua essenziale valenza «pratica», la quale escludeva radicalmente l’esistenza di un processo gnoseologico che non equivalesse alla sua traduzione nel contesto pragmatico, gravido del «nesso sociale» in cui erano gli uomini in carne e ossa a imporsi. La circostanza, tuttavia, implicava l’inesistenza di un tempo senza la società umana, di cui la civiltà e la storia dell’uomo rappresentavano la propaggine più significativa. Non c’era insomma un prima dell’uomo e della coscienza trascendentale, di cui solo la fantasia poteva pascersi, sciogliendo «il nodo ferreo della sintesi» attuale, per immaginare «un universo naturale […] come un virtuale essere amorfo», pronto a scuotersi nel pensiero del primo uomo. Si trattava cioè di comprendere che lo svegliarsi del mondo a se stesso, nel primo timido e indistinto senso di sé, sarebbe stato (ed era) l’istante autocreativo del mondo, già da sempre sveglio, anche per chiedersi: «Ma dunque prima c’ero, e dormivo?» (p. 43).
Essere uomo significava divenire tale, pensando. Ecco perché Gentile, riprendendo Tommaso Campanella, traduce la legge dell’uomo nell’imperativo morale: «Pensa!», equivalente al «Sii uomo», che egli aveva preferito nel Sommario di pedagogia come scienza filosofica (2 voll., 1913-1914). In questo modo, era il tutto come «autoconcetto» a imporsi, evocando un Dio chiamato a governare e a reggere il mondo, innamorato di sé e degli uomini. Un tutto intimo a se stesso, ma anche distinto in sé, di una distinzione che doveva palesare «l’alterità […] dentro di noi» alla quale ridurre ogni «alterità estrinseca», nell’intendimento pratico di chi pensa e fa, aderendo all’altro. Genesi e struttura della società rinviava così alla «radice» dell’autocoscienza, additando il «punto di partenza della libertà» nel «senso morale» scaturigine della «vita etica» universale testimoniata dalla pienezza di un gesto trasparente e responsabile (pp. 44-49). Ne usciva così la definizione trascendentale del «bene» come attualità dello spirito, in ragione della quale l’essere congedava il nulla, decretando l’irruzione del vero. Il «male», infatti, era il disvoluto (l’«errore») della volontà chiamata a suscitare se stessa come valore eterno: nostro o altrui, esso era quello di cui noi dovevamo liberarci, liberandocene. «Non importa se a torto o a ragione. L’uomo (universale) ha sempre ragione. E chi ha torto, prima o poi farà ragione, e si metterà in regola. Al bene nessuno, che se n’avveda, volge mai le spalle». Del resto, «i traviamenti orribili dell’Innominato» non erano forse attuali soltanto nella coscienza del cardinal Federigo, chiamato così ad assumersene la responsabilità? Il male altrui non era insomma anche (e soprattutto) il nostro male? Quello che, senza sottrarsi allo sguardo, destava in noi una «costrizione» e l’«angoscioso bisogno nostro di espiare»? Gentile invitava allora a comprendere come alla libertà del bene appartenesse la schiavitù del male, che traeva «in giù» lo spirito ormai in volo, benché il volo, frenato, non potesse essere impedito (pp. 55-56).
La volontà volente dell’Io che, sprigionando la socialità originaria, rinviava gli uomini al medesimo destino, fatto di coscienza e libertà, assumeva allora le sembianze di un’eticità pervasiva e inalienabile. Non doveva allora sorprendere come per questa via fosse introdotto da Gentile il concetto di uno «Stato etico» chiamato a impersonare «il volere comune e universale» del soggetto, in direzione (e non già al cospetto) del «valore» assoluto. Ora, a dispetto delle apparenze, si trattava di marcare la differenza che la formula «Stato etico» finiva per occultare, appiattendo il bene, oggetto supremo della volontà, su alcuni fondamentali «aspetti empirici» dello Stato (p. 57). L’appello gentiliano a uno Stato che si sarebbe dovuto rivelare intimo all’uomo, tanto da appartenergli come ciascun uomo apparteneva a se stesso, non doveva cioè far dimenticare che l’uomo in questione era appunto l’attualità dell’orizzonte trascendentale suscitato dal pensiero. Occorreva insomma non dimenticare che l’esistenza dello Stato, cui l’uomo avrebbe dovuto guardare come alla limitazione dell’arbitrio, scaturiva dalla volontà di un individuo che era già «virtualmente Stato (volontà universale)» (p. 110), ma che, proprio per questo – «malgrado il suo nome!» – non poteva alludere a «nulla di statico» (p. 103). Ritraendo la consistenza spirituale dell’Io come «inquietudine flagrante» del vero (p. 100), lo Stato non mortificava affatto la libera autodeterminazione dell’uomo, ma la disciplinava, additando l’«ideale» che – scrive Gentile – «sopravanza sempre il suo modo di esistere» (p. 107). Lo Stato autentico, insomma, era quello che non poteva accontentarsi di essere stato, suscitando una misura esteriore ed estranea, degna della «statolatria» astratta di chi si consegnava allo «Stato di fatto», ma quello che sentiva «il suo vero sé al di sopra di sé» (p. 107). Il destino dello Stato era così quello stesso dell’individuo che coltivava in sé la società trascendentale e obbligava il parlante ad ascoltare, venendo a patti con se stesso.
Certo, la voce imperiosa dello Stato testimoniava la durezza della legge imposta come «diritto positivo», ma la circostanza non doveva farci perdere di vista il porsi dell’Io in quanto volere che, «volendosi», concretava le fattezze dell’ordinamento giuridico. Voluto, l’impianto istituzionale dello Stato alludeva al volere dell’individuo che ne incarnava la legge. Si trattava cioè di rendersi conto che il porre stava nel positivo come la vita stava nel vivente, vivo finché essa non lo abbandonava. Era il modo con il quale Gentile intendeva far emergere l’intreccio che, senza eccezioni, vincolava la libertà al limite, non potendosi immaginare una libertà che non fosse insieme autolimitazione, «prova» e non smentita della sua straordinaria «energia». Per questo verso, lo Stato piegava bensì l’arbitrio, sprigionando tuttavia l’arbitrio assoluto di una volontà chiamata a rispondere soltanto a se stessa, obbedendo alla sollecitazione morale che doveva ostacolarne il definitivo appagamento. Per questa via, l’attualismo invitava a comprendere come non si potesse nemmeno immaginare uno scopo del divenire che, scopo a se stesso, non lo ribadisse, determinando il superamento del proprio esito. Nessuno Stato, insomma, poteva rappresentare il modello assoluto della convivenza civile, ispirata alla libertà dell’uomo. Del resto, la storia del «liberalismo» doveva apparire a Gentile come la storia di una libertà che non poteva essere riassunta se non dai modi con i quali essa, storicamente, si era determinata, contemperando ogni volta le due opposte istanze della spontaneità e della coazione. I «congegni opportuni», escogitati dall’uomo per dosare l’una e l’altra, non potevano infatti essere dedotti «alla luce di principii eterni, ma con criteri storici fondati su considerazioni di opportunità secondo il variare delle contingenze storiche» (p. 60).
Il liberalismo stesso, lungi dal costituire una «dottrina filosofica dell’uomo considerato […] sub specie aeterni», doveva rassegnarsi a palesare la soluzione di un problema dettato storicamente dall’ascesa della borghesia, artefice della stagione rivoluzionaria del 17° e 18° secolo. Dal Comune, «culla dello Stato liberale», alla Signoria, al Principato, fino alla monarchia nazionale, premessa della Rivoluzione francese, già inglese e americana, il farsi della libertà aveva trovato modi e forme diverse per imporre se stesso, contemperando le esigenze e gli interessi degli uomini divenuti tali per effetto della storia. Per Gentile, insomma, non c’era lo Stato, ma lo Stare della volontà universale che, volendo, oltrepassava ogni voluto, risolvendo e conservando, con il loro limite, i soggetti storici chiamati a testimoniare l’unico soggetto della storia, da interpretare ormai come «storia dello Stato» (p. 106). La storia, tuttavia, non si era fermata e non poteva fermarsi. Si trattava allora di entrare nel vivo delle vicende politiche e sociali più recenti. La soluzione liberale, infatti, aveva rappresentato la soluzione di un problema collegato alla custodia della libertà del «terzo» Stato che, risolto, aveva ceduto il passo a un nuovo problema, collegato all’avvento del «quarto» Stato, cui la vecchia soluzione non poteva dare la risposta adeguata. Socialismo? Comunismo? Come rispondere, infatti, al «sindacalismo» otto-novecentesco, erede e frutto della «divisione del lavoro», con le ricette liberali esposte al «massiccio materialismo» di una dottrina per cui esistono le parti prima del tutto e il tutto (anche il tutto della rappresentanza sindacale) è una parte accanto alle altre?
Ora, per Gentile, il fascismo (cui allude con la perifrasi: «il recente movimento politico italiano», p. 111) aveva suscitato una prima e incompiuta risposta i cui frutti non potevano andare perduti. Stando al filosofo siciliano, ormai prossimo all’incontro con Benito Mussolini a Salò, l’esperimento costituzionale fascista, benché viziato «dalle necessità transitorie del momento politico (interno ed esterno)», era venuto incontro all’«esigenza di una rappresentanza organica» del popolo che doveva assumere le sembianze dello «Stato corporativo». Educando al senso politico e all’interesse per la cosa pubblica, il fascismo aveva cioè assecondato l’ideale democratico, tentando così di corrispondere «alle tendenze e ai bisogni degli individui, secondo i loro effettivi interessi». «Partiti e parlamenti», precipitati nel baratro delle «forme astratte», erano stati allora inverati dall’esercizio di una «volontà differenziata» nel «sistema organico» delle corporazioni, autentico «Stato della libertà, aderente alle effettive determinazioni del popolo, cui si deve attribuire questa libertà». Date le circostanze, infatti, garante e artefice della libertà doveva ormai apparire lo «Stato […] del lavoratore», il lavoro essendo la trama stessa del divenire dell’uomo, celebrato dall’avvento di un nuovo «umanesimo», appunto l’«umanesimo del lavoro». Il superamento del vecchio «umanesimo della cultura» letteraria e filosofica, tappa fondamentale della liberazione dell’uomo, alludeva tuttavia alla trasformazione del concetto stesso di cultura, chiamata a integrare «ogni forma di attività onde l’uomo lavorando crea la sua umanità». Si trattava infatti di rendersi conto fino in fondo che «lavora il contadino, lavora l’artigiano, e il maestro d’arte, lavora l’artista, il letterato, il filosofo», quando ciascuno di essi «lavora da uomo, con la coscienza di quel che fa, ossia con la coscienza di sé e del mondo in cui egli s’incorpora» (p. 111).
Non era in verità un tema nuovo per Gentile, ma nuovo era certamente l’approccio, consapevole della responsabilità condivisa dagli uomini, nel momento in cui non era l’uomo, astrattamente considerato, a decidere della storia, ma la storia concretamente avvolta dall’atmosfera spirituale, cui l’uomo doveva ridursi, a decidere l’umanità destinata a imporsi sulla scena del mondo. Per Gentile, insomma, la libertà autentica implicava il ricorso alla volontà universale dello Stato, capace di scongiurare l’arbitrio, suscitando l’autorità intorno alla quale gli uomini erano chiamati a raccogliersi, sforzandosi di garantire il bene. «Fiat voluntas tua!», si sarebbe perciò potuto dire allo Stato, interpretando la preghiera cristiana come un monito per l’uomo al cospetto dell’assoluto (p. 6).
Del resto, Giuseppe Mazzini, che «di libertà se ne intendeva», non andava forse proclamando che la libertà non apparteneva all’individuo astratto bensì al «popolo», cui Dio parlava all’orecchio? Ora, la flagrante conferma dell’eticità dello Stato, quando allo Stato si concedeva la consistenza dell’individuo trascendentale, pareva a Gentile evidente, non appena ci si rendeva conto di come la ribellione morale dinanzi allo Stato etico scaturisse dalla percezione della forza statale disgiunta dal riconoscimento del suo valore (positivo). Non era questo, infatti, un modo, negativo, per riconoscergli un valore, «come al peccatore che si vuol ravveduto, pentito redento, e si considera perciò capace di ciò»? E poi, contestando allo Stato la consistenza morale, che per Gentile equivaleva a considerarlo non solo «peggio che immorale», ma addirittura «inumano», come si sarebbe potuta pretendere da lui la promozione della libertà, favorita dalla rimozione dei suoi ostacoli? Se lo Stato «deve con le sue istituzioni favorire e promuovere l’esercizio di questa libertà», come giustificare quel «deve», riferito a un’entità «anetica», senza «contradire in pratica a quella natura sub-umana e però antisociale che gli si è attribuita senza troppo pensarci su?» (pp. 69-70).
Ci si avviava così ad apprezzare la signoria dell’Io nel suo stare perennemente innanzi a sé, come a dire un passo avanti, lasciando indietro, dovendo essere, il proprio non essere. Scopo a se stesso, lo Stato concretamente inteso era infatti un rivolgersi a se stesso come a un altro, sprigionando l’insoddisfazione e la critica che, anche «inavvertita e magari inavvertibile», doveva trasformarlo o addirittura sovvertirlo (p. 109). Il che non avveniva per caso o in forza di una «fatale legge esterna di decadenza», ma appunto per la «necessità del suo divenire» che chiamava in causa la «distinzione di essere e non essere» suscitata dalla «negatività interna alla realtà spirituale» (p. 107). Anzi, l’immancabile «critica demolitrice o trasformatrice» dello Stato, prendendo le distanze da esso, doveva essere interpretata come lo sprigionarsi ineluttabile di un’«autocritica», artefice della «rivoluzione» che – scrive Gentile – faceva dello Stato la «storia della sua continua rivoluzione: ossia del processo in cui lo Stato propriamente consiste». «Quindi eterna autocritica, eterna rivoluzione», si sarebbe dovuto dire a proposito dello Stato, il quale, certo – osserva Gentile – «sta», se guardiamo alle sue istituzioni, ma, «in barba al mito» della stabilità astratta che consolida l’ideale, insieme «viene rinnovandosi» senza pause o indugi nella «co;scienza politica del popolo» (p. 109). Gentile invitava allora a considerare l’umanità dello Stato, platonicamente chiamato a ingigantire l’uomo stesso, per quel tanto che all’uomo, colto nella sua «struttura» essenziale, competeva un indirizzo economico, un’esperienza religiosa e un compito scientifico. Economia, religione e scienza non potevano dunque – ma era il dunque contestato aspramente da Benedetto Croce, cui Gentile allude, senza nominarlo – sottrarsi al governo dello Stato, proprio perché immanente allo Stato era l’economicità, la religiosità e la scientificità del suo farsi, mai subordinato ad altro che non fosse, appunto, se stesso. Ciò evidentemente implicava una radicale riconduzione dell’agire economico, volta all’utile, ma anche della credenza religiosa, stretta nelle mani di Dio, e dell’indagine scientifica, indirizzata al sapere, alla sovrana volontà del soggetto.
«Utile», allora, non era più la cosa da fare o quella già fatta, messa a disposizione dell’uomo, bensì l’«azione» con cui, «mediante le cose, ma soprattutto mediante il nostro sforzo», riuscivamo a «creare un nostro modo di essere che senza il nostro sforzo non avrebbe potuto esserci mai, a creare quindi in noi un nuovo uomo» (p. 75). «Dio», allo stesso modo, non era più il «Dio oggetto», astrattamente collocato nell’alto dei cieli, cui l’uomo poteva guardare solo chiudendo gli occhi, bensì il «Dio infinito che è alla radice del soggetto, punto in cui s’incentra il tutto» e scaturisce il sentimento del divino, misura oggettiva del suo libero andamento. Il «sapere», daccapo, si emancipava dall’inerzia del dato scientifico, sprigionando la matrice «negativa del sistema», «promotrice di progresso e di ideale», benché nulla che fosse una volta apparso all’orizzonte della coscienza potesse davvero essere negato senza riconoscerne l’«energia positiva» (p. 98).
Per questo verso, insomma, lo Stato, senza servire l’economia, la religione e la scienza, era al servizio dell’uomo che, per dir così, se ne serviva in vista di sé, vale a dire in vista dell’infinita ed eterna creazione di un mondo sottratto al limite, quando il limite era posto da altro o da altri. L’imperativo della civiltà umana, assunto dallo Stato in cui era la società trascendentale a imporsi, instaurava cioè la volontà dell’Io come subordinazione di ogni scopo (nella forma delle cose e dei saperi intorno a esse) alla produzione indefinita di scopi destinata perciò a «creare un nuovo uomo», facendo di ogni scopo (compresi l’economia, la religione e la scienza) uno «strumento […] intrinseco» all’azione eterna ed immutabile del suo «genio» creatore (pp. 86-90). Gentile celebrava così le «mani possenti dell’uomo», cui nulla doveva mai sottrarsi, tutto essendo il risultato (sempre rinnovato e mai definitivo) della sua fatica volto ad addomesticare tecnicamente il mondo. Pare allora difficile sottrarsi all’impressione che queste pagine gentiliane, additando il ritrarsi e il piegarsi della natura al volere umano, lascino intravedere le sembianze della odierna civiltà tecnico-scientifica, preda di un Artefice immanente chiamato bensì a supplire il vecchio Dio trascendente, ma per compierne il destino, muovendo in direzione di un «regno dello spirito», dove l’uomo, asservita la natura, è ovunque a casa e «disarma il Fato, e conquista vita immortale» (pp. 85-86).
Ora, l’immortalità dell’uomo, cui l’attualismo aveva costantemente indirizzato il proprio discorso, quando all’uomo fosse stata riconosciuta la consistenza del cogito, doveva esibire il profilo della società trascendentale. Immortale, infatti, sarebbe apparso l’orizzonte infinito della coscienza in cammino verso l’altra coscienza, nella pluralità degli uomini che volendo se stessi, volevano infine lo stesso. Si trattava cioè di apprezzare l’eternità dello spirito, esercitando «la vera assoluta democrazia» in uno Stato bensì senza limiti, ma sempre in «guerra», fuori e dentro di sé, empiricamente parlando (p. 103). La «guerra», chiamata in molti modi a dirimere il dissenso («Maestro-scolaro, genitori-figliuoli, educatore-educando, padrone-schiavo, popoli dominanti per superiore civiltà indice di una superiore potenza (o viceversa!)-popoli dominati»), enfatizzava così l’immancabile «momento dell’alterità» che, senza preludere alla sua abolizione, alludeva al suo superamento, prodigo di una conciliazione più alta. Non in vista del consenso che, come la morte manzoniana, pareggiava tutte le erbe, ma in ossequio all’eterno dovere della coscienza, da assecondare, assecondandola. Il conflitto immortale dell’Io, fuoco inestinguibile del mondo, non tradiva cioè un narcisistico «desiderio di solitudine», bensì l’attesa di quella pace per cui il mio e il tuo andavano incontro al nostro, artefice di un patrimonio spirituale più ricco (p. 104).
In questo senso, del resto, i «contrasti» e gli «urti» della «politica», che Gentile interpretava come «l’attività dello spirito in quanto Stato», non potevano essere disgiunti dall’etica, vero e proprio «lievito della politica», immancabile in ogni attività umana, artistica, scientifica o religiosa che fosse. «Farne perciò – scriveva Gentile – è un diritto», per esistere liberamente, in quanto questo era il dovere dell’uomo, nella reciprocità dei due termini che alludeva ancora una volta alla «trascendentale socialità» dell’individuo. Si trattava infatti di comprendere come ogni mio diritto provenisse dal dovere dell’altro, il cui diritto proveniva dal mio dovere, nel circolo chiuso dell’autocoscienza attuale «pel quale a mano a mano che il rapporto si attua, l’altro cessa di essere un altro e si immedesima con l’uno. Il quale, in virtù del rapporto, non può ricevere se non quel che dà», dandolo a se stesso. Gentile poteva allora concludere che «chi ha diritto è sempre colui che abbiamo il dovere di far esistere», per il rispetto dovuto a quel Noi di cui ciascuno era responsabile e artefice (p. 137). Prima il dovere, dunque, per godere di un diritto; ma, anche, prima il diritto, quando esso non ignorava il dovere che ne rappresentava il risvolto.
Ma come andava interpretato questo diritto-dovere all’esistenza? In effetti, la società trascendentale, inaugurato l’orizzonte dell’eticità che innervava il divenire dello Stato, conferendogli la consistenza filosofica dell’Io trasparente a se stesso come realtà condivisa, non era forse anche il testimone dello spezzarsi irrevocabile del legame tra gli uomini? Il dialogo dell’uomo con l’altro uomo, prodigo della concordia discors sprigionata sempre e di nuovo dalla volontà universale, non andava forse incontro anche alla parola che rimaneva senza risposta, quando era la «morte» a irrompere sulla scena, «inattesa, inopinata, come fulmine che s’abbatte sulla più robusta pianta e minaccia di svellerla»? (p. 140). La morte, d’altra parte, era lo spettacolo della morte, inimmaginabile senza che a posarvi gli occhi fosse l’Io, «eterno spettatore ignorato!» (p. 81). Lo spettacolo della «morte altrui», evidentemente (p. 168). Ma l’altrui non era forse il mio, quando io, stringendo l’altro nel vincolo attuale, vivevo anche della sua vita? Per questo verso, benché io non potessi fare esperienza della mia morte (ma c’era una morte solo mia?), morivo insieme all’altro, l’altro sottraendosi per sempre all’Io da cui proveniva e in cui sarebbe dovuto tornare, sprigionando l’eternità dell’essere che, essendo, annullava se stesso. «Non essere del nostro stesso essere. Non essere, nulla», l’altro, «fuggita la vita», si congedava dall’orizzonte trascendentale, provocandone la «crisi» (p. 161). La morte dell’altro appariva, infatti, come l’annullarsi dell’Io che, per dir così, rimaneva nulla, adombrando, con l’avvento della cosa, soltanto cosa, la disgregazione della sintesi attuale.
Ma come poteva davvero disgregarsi la struttura dialettica e consociativa dello spirito chiamata perennemente a illuminare la scena del mondo? In effetti – Gentile doveva sottolinearlo senza indugi e ritrosie –, non poteva. L’ammutolirsi dell’altro, l’irrigidirsi del suo corpo, presagendo il nostro ammutolire e irrigidirci, in un corpo che si faceva estraneo a noi stessi, «esanime, cadavere», doveva alludere a un astratto decadere dello spirito a natura. Astratto, appunto, poiché esso era e non poteva che essere il «risultato di un’astrazione» a presiedere la quale rimaneva il pensiero, vale a dire la «società trascendentale» che, anche quando essa pareva spegnersi e scomporsi, rimaneva al suo posto. Si trattava cioè di comprendere che «la morte è un fatto sociale» e che «chi muore, muore a qualcuno», non essendo possibile una morte che non supponga la società destinata così alla propria «dissoluzione» (p. 169). La morte, palesando «l’altro che è il nostro altro, ridotto ad altro senza nessuna relazione con noi; non più nostro», accadeva cioè in presenza dell’Io: «non più nostro, e pur sempre nostro». «Scavalcare» il «Noi», morendo, quasi si fosse potuto trovare uno spazio fuori del suo recinto, significava dunque consolidare quel recinto, negando l’astrattezza dell’esanime, perciò immediatamente resuscitato, morto e vivo della vita immortale dell’Io. Certo, era un’immortalità che schiantava le «illusioni» (p. 155) di chi, confondendo eternità e perpetuità, amava raffigurarsi la vita immortale come una replica dell’esistenza vissuta, imbalsamata nei fotogrammi dell’esperienza trascorsa e proiettata in un avvenire indefinito.
Sennonché, come poteva sottrarsi al nulla quello che non era mai esistito? L’immortalità dell’uomo, riguardando il dominio che godeva dell’eterno respiro del pensiero, sottratto al fatto, era piuttosto un «immortalarsi» (p. 157), lasciando questo mondo. Non perché l’uomo fosse atteso da un altro mondo: l’altro mondo stava in quello da cui ogni mondo veniva, vale a dire nel «processo eterno dell’Io che esiste nel suo attuarsi», «abnegazione e sacrificio del sé piccolo al sé grande» (p. 170), in direzione della vera vita, dove «ogni persona empirica si unifica nella persona che è volontà universale, unica, infinita, legge, valore» (p. 156). Oltrepassare la morte e salvarsi, allora, significava – era Gesù a dettare le parole – perdere la propria anima, suscitando il legame che stringeva la nostra esistenza a quella degli altri. Inverando filosoficamente il sentore di verità trasmesso dalla logica insufficiente della religione cristiana, si trattava dunque di accedere alla «necessità della Croce e della morte dell’uomo per la sua resurrezione nella vita eterna» (p. 145). Vivo, morendo, l’uomo moriva vivendo. Peccando, egli espiava; espiando, peccava, eternando la negazione del male in cui il bene intramontabile doveva consistere, senza mai presumere se stesso.
Eco della recente esperienza del lutto, per la prematura morte del figlio Giovanni, o presentimento della fine imminente, queste ultime battute del testo lasciavano trasparire lo stato d’animo dell’autore, scoprendo alcuni tratti autobiografici. Certo, alludendo al coraggio di chi, celebrata l’immortalità dell’Io, andava incontro alla speciale responsabilità che il concetto della reale infinità dello spirito addossava all’uomo, Gentile rivendicava il proprio coraggio speculativo. Ma, com’è chiaro, non si trattava soltanto di coraggio speculativo. Del resto, Genesi e struttura della società, additando la volontà che, incarnato il «volere d’un istante», testimonia la fermezza del «carattere» come eterna presenza a sé della coscienza, aveva esortato l’uomo al «coraggio civile». Non sorprende allora che, quasi abbozzando un tragico autoritratto, Gentile dovesse attribuirlo a chi rivendicava a se stesso la
ferma fedeltà alla propria coscienza, nel parlare od agire secondo i suoi dettami, assumendone di fronte agli altri tutta la responsabilità. Dote essenziale del cittadino che se non custodisce impavido la propria dignità personale, testimoniando socialmente la verità che riconosce nella propria coscienza, non tradisce una verità che potrebbe non aver bisogno della sua testimonianza e nulla guadagna da questa come nulla perde dalla mancanza di essa; ma tradisce sé stesso, che di quella verità vive, e in essa ha il proprio valore (p. 31).
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