Genetica molecolare
La genetica molecolare è la disciplina scientifica focalizzata sullo studio della struttura e sulla funzione dei geni a livello molecolare. In particolare, la genetica molecolare studia il DNA e i suoi prodotti, RNA e proteine, le cui alterazioni possono essere correlate o responsabili di un particolare fenotipo. Essa si basa sui fondamenti della genetica classica e i suoi esordi si possono collocare agli inizi del Novecento, quando i ricercatori cominciarono a rielaborare ed estendere le leggi di Mendel, chiedendosi in che modo i geni potessero determinare le caratteristiche ereditarie di un individuo. Nella descrizione della vasta area di studio che è identificabile con la genetica molecolare è certamente utile seguire un approccio di tipo storico, cercando di individuare, anche se in modo necessariamente parziale, alcune delle tappe fondamentali che hanno contribuito allo sviluppo della conoscenza in questo campo. Nel lavoro presentato nel 1865 alla Società di Scienze Naturali di Brno, Experiments in plant hybridization, l'abate agostiniano Gregor Mendel pose le basi della moderna genetica studiando l'ereditarietà di alcuni caratteri dei semi di pisello (colore e grinzosità) e mostrando come essi potevano essere seguiti nelle successive generazioni applicando il metodo statistico. Restava però tutta da identificare la base chimica dell'ereditarietà, che Mendel descriveva solo concettualmente come 'fattore particolato' e 'allele'.
All'inizio del XX sec. il legame fra il lavoro di Mendel e quello di numerosi biologi cellulari conduce alla formulazione della 'teoria cromosomica dell'ereditarietà'. I cromosomi vengono individuati dal biologo tedesco Walther Flemming, che osserva come questi si separano longitudinalmente all'interno del nucleo durante la divisione cellulare. Successivamente Edouard van Beneden mostra che dopo la divisione essi risultano distribuiti in numero uguale nelle due cellule figlie. Intanto, si comprende che i cromosomi rimangono sostanzialmente in numero costante in tutte le cellule (diploidi) dell'organismo, eccetto che nei gameti (aploidi) in cui esso risulta dimezzato, salvo poi ristabilirsi nel nuovo individuo, originatosi dalla fusione dei due gameti. È quindi alla luce di queste nuove conoscenze che agli inizi del Novecento Theodor Boveri e Walter Sutton, in modo indipendente, pervengono alla conclusione che geni e cromosomi vengono trasmessi parallelamente da una generazione alla successiva: i geni, quindi, devono trovarsi sui cromosomi. I cromosomi, come tutte le altre parti di una cellula vivente, sono formati da atomi disposti in molecole e alcuni scienziati ritenevano che, una volta chiarita la struttura chimica dei cromosomi, sarebbe stato possibile capire il loro ruolo come portatori delle informazioni genetiche. In effetti, proprio questa intuizione segna l'inizio della genetica molecolare. Successivamente, numerosi esperimenti condotti nell'arco di quasi un trentennio (dal 1925 al 1952) portarono all'identificazione della base chimica dell'ereditarietà nella molecola dell'acido desossiribonucleico (DNA). Oggi comunque sappiamo che in alcuni casi (retrovirus e numerosi virus di piante) questa può essere costituita da molecole di acido ribonucleico (RNA).
Un passo fondamentale per la scoperta della base chimica dell'ereditarietà e lo sviluppo della genetica molecolare fu compiuto nel 1944, grazie agli studi di Oswald Avery e dei collaboratori Colin MacLeod e Maclyn McCarty che conducevano ricerche da molti anni sugli pneumococchi, i batteri che provocano la polmonite, nell'intenzione di riuscire a sviluppare un vaccino. Questi studi si basavano su una precedente indagine di Frederick Griffith (1928) che aveva osservato la 'trasformazione' in vivo di un tipo di pneumococco (Streptococcus pneumoniae) in un altro. Nei suoi esperimenti, Griffith fu in grado di indurre la patogenicità in un ceppo e definì 'principio trasformante' la molecola capace di indurre tale modificazione. Sedici anni più tardi Avery cercava di identificare la base molecolare responsabile di quel principio trasformante e all'epoca, per la loro complessità strutturale, le proteine erano considerate i candidati più plausibili per la trasmissione dell'informazione ereditaria. Il lavoro di Avery portò invece alla conclusione che le trasformazioni genetiche erano veicolate dal DNA, ma fu accolto con un certo scetticismo dalla comunità scientifica internazionale, perché non si poteva escludere che una contaminazione di proteine fosse responsabile dell'avvenuta trasformazione.
Solo nel 1952, i risultati prodotti da Alfred D. Hershey (Premio Nobel per la medicina o fisiologia nel 1965) e Martha Chase indicarono in maniera definitiva nella molecola di DNA la responsabile della trasmissione dei caratteri ereditari. Tale conclusione fu il risultato di più di un decennio di studi condotti sui batteriofagi, un particolare tipo di virus in grado di attaccare i batteri. Questo tipo di studi fu portato avanti inizialmente da Max Delbruck e Salvador Luria (premi Nobel per la medicina o fisiologia nel 1965) utilizzando il batteriofago T4 come sistema sperimentale. I batteriofagi sono strutturalmente composti esclusivamente da proteine che rivestono una molecola di DNA, che viene iniettata all'interno della cellula batterica ospite al momento dell'infezione. La struttura estremamente semplice dei batteriofagi (DNA e proteine) li rendeva quindi ideali per risolvere in maniera definitiva la questione su chi, fra DNA e proteine, rappresentasse la base molecolare dell'ereditarietà. Hershey e Chase riuscirono, attraverso un elegante esperimento in cui entrambi questi costituenti erano marcati radioattivamente in maniera diversa, a stabilire che era il DNA a essere ereditato nelle successive generazioni virali e non le proteine. Quindi, il fattore particolato di Mendel e il principio trasformante di Griffith, responsabili rispettivamente del colore e della grinzosità dei semi di pisello e della patogenicità dei ceppi di Streptococcus pneumoniae, erano indiscutibilmente costituiti dal DNA.
Gli acidi nucleici erano conosciuti da tempo. Nel 1869, e cioè nello stesso decennio in cui Charles Darwin pubblicava On the origin of species e Mendel comunicava i suoi risultati alla Società di Storia Naturale di Brno, Friedrich Miescher aveva isolato il DNA da sperma di pesce e da pus fuoriuscito da una ferita e battezzato questa sostanza come 'nucleina' dal momento che risiedeva all'interno dei nuclei. Venti anni dopo Sidney Altman (Premio Nobel per la chimica nel 1989) aveva cambiato il nome di questa molecola in 'acido desossiribonucleico' e successivamente, nel 1920, il biochimico Phoebus A. Levene ne aveva identificato la struttura chimica rilevando che era composta da quattro basi azotate: Citosina, Timina, Adenina e Guanina; dallo zucchero desossiribosio e da un gruppo fosfato. Solo nel 1950, con le ricerche del biochimico Erwin Charghaff, fu chiaro che le proporzioni dei nucleotidi rimanevano identiche per ogni cellula di una singola specie, mentre variavano ampiamente da specie a specie. Oggi sappiamo che la sequenza delle quattro basi lungo il filamento di DNA è molto conservata fra individui della stessa specie, quindi tra cellule identiche, e meno conservata tra individui (e cellule) di specie diversa.
Ormai era stato chiarito il ruolo del DNA come materiale genetico per la trasmissione dei caratteri ereditari, ma rimaneva da scoprire la relazione fra i geni e il DNA. I tempi erano ormai maturi per la decifrazione della struttura del DNA e ciò fu possibile grazie agli studi di Francis Crick, James Watson, Rosalind Franklin e Maurice Wilkins. Nel 1953, Watson e Crick (premi Nobel per la medicina o fisiologia nel 1962), raccogliendo tutte le informazioni disponibili sulla composizione degli acidi nucleici e utilizzando le informazioni ottenute da Franklin e Wilkins sulla struttura tridimensionale del DNA mediante l'uso della cristallografia a raggi X, conclusero che la molecola di DNA ha la forma di una doppia elica regolare che svolge un giro completo ogni 34 Å (10 nucleotidi). Essi arrivarono alla conclusione che il diametro costante di 20 Å della doppia elica era dovuto alla relazione complementare esistente fra le basi puriniche (Adenina e Guanina) e pirimidiniche (Timina e Citosina), presenti nella parte centrale delle due catene polinucleotidiche costituenti e legate da un legame idrogeno. Inoltre, la duplicazione dell'informazione sotto forma di due catene polinucleotidiche complementari faceva già intuire i possibili meccanismi di trasmissione dell'informazione genetica.
Il passo successivo fu infatti proprio quello di determinare come l'informazione portata dal DNA venisse copiata e trasmessa e come essa determinasse il . La risposta alla prima domanda venne da un esperimento condotto nel 1958 da Matthew Meselson e Franklin W. Stahl, i quali dimostrarono che la avviene in maniera semiconservativa e che due nuove molecole di DNA sono prodotte a ogni ciclo di replicazione, ognuna delle quali è composta da una catena polinucleotidica parentale e una di nuova sintesi. La catena parentale, come poteva essere previsto dalla struttura complementare dimostrata da Watson e Crick, fungeva da stampo per la copia della catena di nuova sintesi.
Circa la connessione fra geni e proteine, dopo il pionieristico lavoro del medico londinese Archibald Garrod, che per primo aveva intuito che alcune malattie umane dovute a carenze biochimiche sono malattie ereditarie, essa venne ulteriormente chiarita da osservazioni congiunte nel campo della cristallografia e della biochimica. Intorno agli anni Trenta, James B. Summer ottenne il cristallo dell'enzima ureasi, dimostrando che gli enzimi chimicamente sono proteine. Nel 1942 George W. Beadle ed Edward L. Tatum (premi Nobel per la medicina o fisiologia nel 1958) dimostrarono che, in accordo con gli studi di Garrod sulle malattie ereditarie, esponendo il fungo Neurospora crassa a radiazioni UV si inducevano mutazioni che determinavano variazioni sulle normali necessità nutritive del fungo esposto, il quale non era più in grado di sintetizzare le vitamine o gli amminoacidi necessari per la sua crescita. Questi studi portarono alla definizione di un dogma che per molti anni ha rappresentato un fondamento della genetica molecolare: 'un gene, una proteina'. Concettualmente, se la mutazione di un gene influenza direttamente la formazione e/o il funzionamento di un enzima e se un enzima è una proteina, allora i geni devono servire alla sintesi proteica. In seguito tale definizione è stata confutata e ora sappiamo che negli organismi superiori la corrispondenza gene-proteina non è sempre così semplice e lineare.
In questa fase esisteva comunque ancora una lacuna concettuale fra le osservazioni di genetica formale, concernenti le differenze di caratteri e di fenotipi (per es., richieste nutrizionali di batteri o funghi), e le osservazioni di natura puramente chimica, relative ai nucleotidi e al messaggio da essi codificato e portatore delle informazioni genetiche. In altre parole, mancavano ancora la definizione della struttura fine del gene e la decifrazione di un che permettesse di ampliare la concezione molecolare del gene, definendolo come il filamento polinucleotidico la cui specifica sequenza di basi, attraverso un codice genetico, determina la sequenza amminoacidica di una catena polipeptidica. Colui che più di ogni altro ampliò questo concetto molecolare di gene fu Seymour Benzer, che con i suoi studi sul batteriofago T4 introdusse il concetto di 'unità funzionale del gene' o 'cistrone'. Successivamente, nel 1961, Crick e Sydney Brenner, lavorando sempre sul batteriofago T4, provarono sperimentalmente la teoria formulata otto anni prima, al momento della scoperta della struttura del DNA, e cioè che il codice genetico è costituito da triplette nucleotidiche. Inoltre, essi riuscirono a dimostrare che la corretta lettura della sequenza nucleotidica di un gene è assicurata dal fatto che la traduzione nella sequenza amminoacidica comincia da un punto d'inizio fisso e procede tripletta per tripletta sino alla fine. Quindi, se lo schema di lettura viene spostato di un nucleotide da una mutazione, allora la lettura di tutte le triplette successive risulterà 'sfasata' causando una traduzione errata del messaggio da quel punto in poi. Infine, i risultati di quegli esperimenti suggerirono che il codice genetico è ricco di sinonimi e cioè che la maggior parte dei 20 amminoacidi costituenti le proteine devono essere rappresentati da più di una delle 64 possibili combinazioni di triplette delle 4 basi nucleotidiche del DNA. Il passo successivo fu la decifrazione completa del codice genetico scritto nelle sequenze polinucleotidiche ed è curioso notare che, a differenza di quanto si fa normalmente nella criptoanalisi, in cui si dispone del criptogramma ma non della sua traduzione, nel caso del codice genetico si è seguito un percorso esattamente inverso. Infatti, dal 1954 (con la sequenza dell'insulina) erano ormai note un gran numero di sequenze proteiche, ma solo nel 1969 Frederick Sanger (Premio Nobel per la chimica nel 1958 e 1980) e collaboratori riuscirono a determinare la sequenza nucleotidica che codificava per una proteina dalla sequenza amminoacidica nota.
A partire dagli anni Cinquanta si iniziò a investigare anche su come l'informazione genetica portata dalla sequenza nucleotidica del DNA viene trasferita sulla sequenza amminoacidica della catena polipeptidica corrispondente. In particolare negli anni Settanta, François Jacob e Jacques Monod (premi Nobel per la medicina o fisiologia nel 1965) introdussero il concetto di RNA messaggero che trasferisce, mediante il processo della trascrizione, l'informazione per le sintesi delle proteine dal DNA all'esterno del nucleo, sui ribosomi. Su questi avviene il montaggio vero e proprio degli amminoacidi in catene polipeptidiche di sequenza predeterminata, ossia la traduzione del messaggio portato dalle molecole di RNA messaggero e scritto nella sua sequenza nucleotidica.
Queste informazioni furono elaborate e sviluppate da Jacob e Monod nello studio della regolazione dell'espressione dell' lattosio (lac) in Escherichia coli, che rappresenta il primo esempio di meccanismo di regolazione dell'espressione genica a essere stato chiarito. Il concetto rivoluzionario concepito da Jacob e Monod è stato quello della distinzione fra sostanze regolative e siti bersaglio sui quali esse agiscono per regolare l'espressione genica. In particolare, essi riuscirono a delineare la complessa rete di fattori (agenti in trans) e siti (agenti in cis) che determinano la regolazione dell'espressione dell'operone lac, i cui prodotti sono essenziali per il trasporto e il metabolismo dello zucchero lattosio. Tale operone è costituito da tre geni strutturali adiacenti (lacZYA) e da sequenze regolative (promotore, terminatore e operatore) che ne controllano l'espressione in risposta alla disponibilità di glucosio e lattosio nel terreno di crescita del batterio.
La genetica molecolare ha continuato a svilupparsi fino ai nostri giorni di pari passo con l'avanzamento delle tecniche di biologia molecolare e, attualmente, con l'accumulo delle informazioni disponibili, la sua importanza come strumento d'indagine è ulteriormente aumentata. Infatti, all'inizio degli anni Ottanta la scienza della genetica, insieme alla biochimica, alla biologia molecolare e agli altri rami della biologia, ha iniziato lo studio delle sequenze dei genomi. Grazie alle ricerche precedenti, che avevano portato alla decifrazione del codice genetico universale, era infatti a portata di mano la decifrazione di tutti i geni contenuti in ogni genoma studiato. Riferendosi agli organismi superiori, il genoma è l'insieme globale dell'informazione genetica che esiste nel DNA riunito nel nucleo della cellula iniziale, lo zigote, formato dopo la fecondazione, e che si conserva invariato in tutte e in ciascuna delle cellule di un individuo. Il genoma umano, per esempio, contiene poco più di 3000 milioni di coppie di basi distribuite nelle molecole di DNA, che sono ripartite in 23 coppie di cromosomi.
Gli studi di sequenziamento hanno consentito di stabilire che nell'uomo i geni sono circa 39.000 e hanno una dimensione media di circa 10.000-15.000 coppie di basi, anche se esiste un'enorme variabilità. Alcuni dei nostri geni superano appena le 1000 coppie di basi, come succede per il gene che codifica per l'insulina. Ci sono altri geni che superano i 2 milioni di coppie di basi, come il gene della distrofia che codifica per una importante proteina del tessuto muscolare. L'enorme diversità che riscontriamo tra le persone che ci circondano si deve principalmente all'espressione del repertorio particolare della combinazione delle circa 39.000 coppie di alleli propri di ciascun individuo, in rapporto all'ambiente, cioè alle condizioni e agli episodi accaduti durante lo sviluppo. Oggi sappiamo che lo sviluppo di un individuo è il risultato di un programma ordinato di attività genetiche differenziate nello spazio e nel tempo. La 'genomica funzionale' è appunto il nuovo approccio investigativo che dopo aver svelato la struttura di un genoma cerca di rispondere alle domande: che cosa fa un gene, quali sono la sua funzione e il suo ruolo nell'ambito di un determinato processo biologico e quali le conseguenze delle sue alterazioni?
Uno sviluppo importante, negli ultimi decenni, è stato ottenuto grazie alla capacità di manipolare sistemi genetici modello con livelli di complessità crescente, che si sono aggiunti a quelli utilizzati in passato (batteriofagi e batteri) e sui quali viene compiuta oggi la maggior parte delle investigazioni.
Un sistema modello è un organismo semplice e facilmente manipolabile che normalmente presenta caratteristiche quali: un rapido sviluppo con un breve ciclo vitale, facile riproduzione, piccole dimensioni, facili condizioni di crescita e semplicità delle metodologie a esso applicate. Gli organismi modello sono stati e continuano a essere indispensabili negli studi di genetica molecolare e biologia cellulare, perché i meccanismi biologici fondamentali si sono rivelati molto simili fra specie diverse e quindi le conclusioni raggiunte in tali sistemi risultano trasferibili anche a organismi più complessi, uomo compreso. Per esempio, il codice genetico e molti dei macchinari cellulari coinvolti nella replicazione, trascrizione, traduzione e regolazione genica sono essenzialmente identici in tutti gli organismi eucariotici e in molti casi i geni responsabili di questi processi sono risultati essere funzionalmente inter-scambiabili fra specie diverse. Una prova evidente del valore universale di queste ricerche è certamente data dal numero di scienziati insigniti del Premio Nobel per la medicina o fisiologia per le ricerche compiute sugli organismi modello, che hanno consentito un eccezionale allargamento delle conoscenze di base aprendo la strada verso possibili applicazioni di queste scoperte anche nell'uomo.
Nel 2001 è stato conferito il Premio Nobel per la medicina o fisiologia agli scienziati Leland H. Hartwell, Timothy Hunt e Paul M. Nurse per gli studi compiuti sul lievito Saccharomyces pombe, che hanno consentito di chiarire i meccanismi molecolari che regolano il e quindi la duplicazione cellulare (un processo studiato da più di un secolo). Nel 2002 a Sydney Brenner, Robert Horvitz e John E. Sulston è stato conferito il Premio Nobel per la medicina o fisiologia per gli studi compiuti sul verme Caenorhabditis elegans, organismo multicellulare di estrema semplicità. Gli studi compiuti su questo organismo hanno portato a enormi avanzamenti nelle indagini sulla regolazione genetica del differenziamento cellulare e della morte cellulare programmata, o apoptosi. Per esempio, il segreto di questo tipo di studi era legato al fatto che in tale sistema modello è possibile seguire tutte le divisioni cellulari dall'uovo fertilizzato all'organismo adulto.
Impiegando il moscerino della frutta, Drosophila melanogaster (un altro dei simboli della genetica classica, già utilizzato a partire dall'inizio del XIX sec.), Christiane Nusslein-Volhard, Eric F. Wieschaus ed Edward B. Lewis (premi Nobel per la medicina o fisiologia nel 1995) furono in grado di identificare un piccolo numero di geni gerarchicamente molto importanti nella definizione dell'asse e del piano del corpo della mosca e dei suoi segmenti. Lewis, investigando come questi geni potessero controllare l'ulteriore sviluppo di questi segmenti corporei in organi specializzati, fu in grado di isolare mutanti in cui il rapporto spaziale fra tali segmenti e organi era alterato e verificò che i geni coinvolti erano localizzati lungo il cromosoma nello stesso ordine dei segmenti corporei di cui controllano lo sviluppo. I primi geni di questo gruppo, per esempio, controllano il differenziamento della regione della testa, quelli successivi lo sviluppo dei segmenti addominali e infine gli ultimi controllano lo sviluppo della regione della coda. Più recentemente, il pesce zebra (Danio rerio) è stato utilissimo nello studio del differenziamento embrionale nei Vertebrati. In questo organismo modello le uova si sviluppano all'esterno del corpo materno ed è possibile seguire tutte le fasi dello fino alla formazione di un nuovo organismo adulto. Inoltre l'embrione è trasparente e sono quindi facilmente visualizzabili al microscopio tutte le fasi di formazione di nuovi organi, riconoscendone le cellule progenitrici e potendo verificare sperimentalmente l'effetto del contesto in cui si differenzia una determinata cellula spostandola in una diversa localizzazione embrionale. In questo modo, i ricercatori stanno scoprendo la causa di alcuni difetti di sviluppo nell'uomo.
Fra gli organismi vegetali la specie modello è rappresentata dalla pianta Arabidopsis thaliana, appartenente alla famiglia delle Brassicacee, che non ha alcun interesse agronomico ma ha consentito di elucidare moltissimi aspetti dello sviluppo e della fisiologia delle piante superiori attraverso l'isolamento di una serie vastissima di mutanti, fra i quali, per esempio, gli analoghi a quelli citati in Drosophila in cui il normale rapporto spaziale fra i vari organi è alterato.
Un altro organismo modello fondamentale per lo studio delle malattie umane è il topo, Mus musculus, che certamente dal punto di vista della sequenza del genoma è più simile all'uomo (95% di similarità). Nel caso del topo, per esempio, è stato possibile alterare l'espressione di geni coinvolti in alcune malattie come: cancro, Alzheimer, artrite, diabete, malattie cardiocircolatorie, fibrosi cistica e obesità, e tali ceppi rappresentano quindi un materiale ideale per lo studio di queste malattie nell'uomo.
Ai sistemi modello citati sono stati applicati due fondamentali approcci sperimentali, che hanno consentito un notevolissimo approfondimento delle conoscenze. Uno è rappresentato dalla cosiddetta forward genetic, il cui scopo è quello di identificare le mutazioni che producono un determinato fenotipo. Spesso le popolazioni sono prima esposte a mutageni di natura chimica o fisica per ottimizzare questo tipo di indagine e, una volta che il mutante con il fenotipo di interesse è stato identificato e caratterizzato (per es., una linea di C. elegans non in grado di riprodursi o una pianta di A. thaliana più piccola), il gene mutato viene identificato dal punto di vista molecolare. In alcuni casi la mutazione può essere indotta inserendo a caso nel genoma dell'organismo modello degli elementi di DNA di sequenza nota, che facilitano successivamente l'identificazione del gene mutato (elementi trasponibili o T-DNA nel caso delle cellule vegetali). L'obiettivo finale di un approccio sperimentale di questo tipo è arrivare a una condizione saturante in cui c'è la massima probabilità che ogni gene responsabile di un particolare fenotipo in una data specie possa essere isolato. L'altro approccio è quello della reverse genetic, in cui si segue il percorso inverso: inserendo mutazioni specifiche in una sequenza nota si caratterizzano i fenotipi che queste determinano. Questo tipo di strategia si basa su una serie di risorse metodologiche sviluppatesi negli ultimi due decenni, che hanno consentito di intervenire in maniera sempre più mirata sulle sequenze del DNA così da riprogrammare in modo mirato il codice genetico e verificare l'effetto di queste mutazioni sul fenotipo. Fra le altre vanno certamente ricordate, a opera di Kary B. Mullis (Premio Nobel per la chimica nel 1993), l'invenzione della PCR (Polymerase chain reaction), che consente di amplificare sequenze genomiche specifiche, e, associata a questa scoperta, quella della mutagenesi sito-diretta a opera di Michael Smith (covincitore del Premio Nobel per la chimica del 1993) che consente di mutagenizzare in maniera mirata tali sequenze.
Come ricordato precedentemente, uno degli scopi principali della moderna biologia è senza dubbio quello di cercare di collegare l'attività genica con la struttura e il funzionamento di organismi complessi, fino a tentare di comprendere la funzione dei geni e l'effetto delle alterazioni responsabili delle malattie umane. A questo scopo la tecnica del 'gene targeting' è stata fondamentale, perché consente, a partire da una sequenza genica nota, di inattivare quel gene nelle cellule embrionali di topo (cellule ES). Una cellula ES è ottenuta e messa in coltura a partire da embrioni di topo allo stadio di blastocisti. Quando le cellule ES sono microiniettate in un embrione ospite a uno stadio di differenziamento molto precoce, grazie alla loro totipotenza si integrano perfettamente nel programma di sviluppo embrionale, e una volta che l'embrione è reimpiantato nell'utero esse possono contribuire alla formazione di un topo adulto. Il gene targeting in definitiva consente di studiare la funzione di un gene nel contesto dell'organismo mammifero, creando un topo difettivo in quel determinato gene.
Oggi uno degli obiettivi degli studi di genetica molecolare è certamente quello della terapia genica. Molte malattie, come l'emofilia e la fibrosi cistica, sono il risultato di un singolo difetto genico che causa la produzione di una proteina non funzionale. In questi casi la terapia genica mira a rimpiazzare il gene mutato con quello normale, e quindi ancora una volta il successo di questo approccio dipende dalla comprensione della relazione fra geni e proteine e tra e fenotipo.
Negli ultimi anni si è aggiunto un ulteriore livello di complessità nell'interpretazione dei meccanismi alla base della trasmissione dei caratteri ereditari. Si è infatti osservato che in alcuni casi cambiamenti nella struttura del DNA e delle proteine a esso legate (cromatina) possono influenzare l'espressione di un particolare gene, senza alterarne la sequenza nucleotidica, e ciò è l'oggetto di studio della cosiddetta epigenetica che comprende tutte le alterazioni geniche non associate a cambiamenti nella sequenza. Le modifiche epigenetiche possono essere dovute a cambiamenti chimici del DNA (per es., aggiunta di gruppi metilici o deacetilazione degli istoni), che determinano cambiamenti strutturali, modificando per esempio il modo in cui un gene interagisce con le molecole che ne regolano l'espressione nel nucleo. Queste modifiche epigenetiche possono controllare l'espressione di geni coinvolti nel controllo della proliferazione cellulare e quindi potenzialmente responsabili del cancro.
Ancora più recente è la scoperta di un altro fattore che sembra acquisire sempre maggiore importanza nella regolazione dell'espressione genica, legato alla presenza nelle nostre cellule dei cosiddetti microRNA, che sono una vasta classe di piccole molecole di RNA non codificanti. Queste sequenze, identificate già nell'ordine delle centinaia nei genomi animali e vegetali, regolano l'espressione genica agendo sulle molecole di RNA codificanti complementari. Tali complessi sono riconosciuti e maturati grazie all'azione di un macchinario multifattoriale in via di completa identificazione e possono determinare la degradazione degli RNA messaggeri bersaglio.
La sfida del futuro per la genetica molecolare è sicuramente rappresentata dalla interpretazione di fenotipi che non sono determinati da una semplice corrispondenza biunivoca fra le sequenze di DNA e le proteine da esse codificate, ma sono il risultato di una complessa rete di fattori e componenti con diverse funzioni, che interagiscono fra loro in particolari condizioni, per determinare uno specifico fenotipo. L'obiettivo di questo nuovo approccio globale sarà quindi quello di definire una nuova disciplina che rappresenti, dopo la genetica molecolare e la genomica funzionale, un'ulteriore evoluzione della genetica classica e che potrebbe essere definita 'genetomica', con il compito di precisare il ruolo di singoli componenti nella determinazione di fenotipi complessi, come per esempio quello del comportamento animale.
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