GENETICA (dal gr. γενετικός "relativo alla generazione")
La teoria dell'individualità dei cromosomi dà un'importanza assai notevole alla sostanza cromatica, come estrinsecatrice dei caratteri ereditari (v. eredità). Con lo sviluppo delle esperienze sull'ibridismo è sorta una teoria corpuscolare dell'eredità secondo la quale ogni singola unità ereditaria o gene sarebbe rappresentata da una particella autonoma costituita di molecole di sostanza vivente. La successiva teoria della localizzazione di tali unità erediditarie è essenzialmente dovuta a T. H. Morgan. La teoria esige che ogni singola unità ereditaria sia localizzata in determinati punti di ciascun cromosoma. Cosicché la teoria dell'individualità dei cromosomi viene perfezionata con la teoria del Morgan, la quale oggi costituisce un necessario filo conduttore per gli studî di genetica.
Cenni storici.
Tentativi fatti per spiegare la somiglianza dei figli con i genitori si trovano fin dagl'inizî della storia scritta. È stato sempre oggetto di comune osservazione il fatto che ogni specie animale e vegetale dà una discendenza simile a sé stessa, e, in senso lato, tale è il significato dell'eredità. Ma, anche in un senso più ristretto, deve essere stata rilevata la trasmissione di caratteri più particolari di somiglianza dai genitori ai figli; e infatti, da Aristotele in poi, ritroviamo, in varie opere, speculazioni intese a spiegare come sia possibile una tale ripetizione. La massima parte di queste speculazioni non hanno ormai più valore, per quanto possano sempre apparire interessanti come tentativi della mente umana per risolvere questo problema. Finché non si seppe qualche cosa di specifico intorno alla natura delle cellule germinali, attraverso le quali le proprietà dei genitori si trasmettono ai figli, la spiegazione del problema rimase insoluta. I dati necessarî furono forniti dall'opera degli scienziati del sec. XIX, iniziatasi con la conoscenza dei primi stadî di sviluppo dell'embrione e continuata con la scoperta della costituzione cellulare delle piante e degli animali superiori, e col riconoscimento che l'uovo e lo spermatozoo sono cellule, la cui unione assicura la trasmissione dei caratteri ereditarî di ambedue i genitori. Queste nuove conoscenze servirono a orientare la speculazione su tracce obiettive, ma non furono sufficienti a dare i particolari necessarî per una trattazione specifica. A ciò provvide, alla fine del secolo passato, l'opera di numerosi citologi ed embriologi, che si occuparono delle modificazioni che avvengono nella maturazione dell'uovo e della cellula spermatica. Tutte queste conoscenze acquisite, in connessione con le leggi di J. G. Mendel, ci permettono ora di trattare i problemi dell'eredità intesi come fenomeni specifici.
Avanti Darwin. - I tentativi compiuti all'inizio e verso la metà del sec. XIX (prima del 1866) per studiare l'eredità col metodo sperimentale dell'allevamento d'incroci non furono solo importanti di per sé, ma permisero al Mendel di portare a termine le sue indagini. Infatti alcuni dei risultati degli osservatori precedenti si avvicinano assai a quelli di Mendel.
Si usa qualche volta la parola ibridisti per indicare un gruppo di botanici, vissuti prima di Darwin o a lui contemporanei, che scoprirono alcuni notevoli fatti concernenti l'eredità. J. G. Kölreuter, tra il 1760 e il 1766, eseguì una lunga serie di esperimenti e poté stabilire che i fenomeni sessuali nelle piante sono identici a quelli che avvengono negli animali, per opera di uova e di spermî. Dimostrò che, per quanto riguarda il carattere dell'ibrido, non importa quale dei tipi genitori fornisca il polline e quale il seme: in altre parole il maschio e la femmina trasmettono ugualmente i caratteri alla discendenza. Il Kölreuter credeva che la fecondazione consistesse nella mescolanza di due fluidi, l'uno contenuto nei granelli pollinici, l'altro nell'ovario. Il fluido pollinico, raggiungendo gli ovuli provocava in essi l'inizio di modificazioni, che determinano lo sviluppo dei semi. Egli osservò che gl'ibridi fra specie diverse erano generalmente sterili, ma in alcuni casi potevano essere incrociati con successo con l'uno o l'altro dei genitori. La seconda generazione di ibridi spesso era a sua volta intermedia fra l'ibrido e il genitore con cui questo era stato incroeiato; ma l'autore osservava a questo riguardo un'estesa variabilità individuale. Continuando i reincroci con la medesima specie genitrice il Kölreuter ottenne infine piante che non si potevano più distinguere da essa. Constatò anche che gl'ibridi fra razze o varietà erano generalmente più fertili di quelli fra specie diverse.
Thomas Knight (1799) eseguì numerosi esperimenti, specialmente con piante coltivate, compresi i piselli da giardino; egli riuscì a dimostrare che l'ibrido di due razze distinte può essere più vigoroso delle razze genitrici. Osservò che, quando un pisello a fiori bianchi, stelo verde e tegumento del seme bianco, era incrociato con un pisello a fiori e stelo color porpora e tegumento del seme grigio, gl'ibridi rassomigliavano strettamente al genitore colorato. Incrociandoli con la razza bianca, otteneva alcune piante bianche. Ci avviciniamo qui ai risultati del Mendel, ma, non essendosi in questo caso tenuto conto dei rapporti della prole ibrida, non si trovò la chiave del problema. J. Goss (1822) fece osservazioni simili. K. F. v. Gärtner (1849) pubblicò i risultati di un gran numero d'incroci fra specie, ma, a parte le numerose osservazioni riferite, non contribuì alla soluzione teorica dei problemi.
Ch. Naudin (1861) riferì risultati sotto molti aspetti simili a quelli ottenuti dal Mendel, ma in assenza di dati numerici non poté comprendere la natura precisa dei processi; trovò però la ragione che spiega il ritorno al tipo genitore quando l'ibrido è ripetutamente reincrociato. Egli attribuiva questo fatto alla separazione nell'ibrido delle due "essenze" dei genitori tanto nei granelli di polline quanto negli ovuli. Considerava l'ibrido costituito da un aggregato di particelle, caratteristiche per ogni specie, ma mescolate in combinazioni differenti negli organi dell'ibrido stesso, che si separano quando le cellule germinali maturano.
Benché queste scoperte e teorie si avvicinino a quelle del Mendel, non si può pretendere, come fecero alcuni sostenitori del Naudin, che questo, piuttosto che il Mendel, debba essere considerato lo scopritore delle leggi fondamentali dell'eredità. V'è un fatto significativo nell'opera del Mendel, che la pone al disopra di quanto era stato fatto prima: l'interpretazione dei dati numerici da lui espressa, tanto per una quanto per due o più coppie di caratteri, diede la chiave per spiegare la natura specifica dei problemi. Il grande progresso che seguì la riscoperta delle leggi del Mendel fu possibile per l'estensione del metodo che il suo genio intuì.
Opinioni di Darwin sull'eredità. - Il Darwin aveva grande dimestichezza con la bibliografia sulla variabilità e sull'eredità, precedente la pubblicazione dell'Origine delle specie (1859), ma il lavoro del Mendel, benché fosse stato pubblicato un anno prima di Animal and Plants under Domestication, non era noto al Darwin. Le sue informazioni sull'eredità derivavano in parte dai giornali degli allevatori e dal contatto personale avuto con essi, in minima parte da esperimenti che egli stesso eseguì su piccioni e su piante. Egli sapeva che i cosiddetti sports, o single mutations, trasmettono talvolta integri i loro caratteri, ma non attribuiva quasi alcuna importanza a questo fatto, in primo luogo perché non riteneva che tali varianti "mostruose" potessero fornire il materiale per un'evoluzione; in secondo luogo perché pensava che le piccole variazioni fluttuanti - variazioni casuali - fossero ereditabili in alto grado. Riteneva perciò che l'azione diretta dell'ambiente potesse talora produrre variazioni ereditarie e che gli effetti dell'uso e del disuso venissero trasmessi. In un tale complesso di possibili origini di caratteri ereditarî, invano si cercherebbero semplici leggi sull'eredità, e infatti il Darwin non ne conosceva. Un curioso paradosso si trova negli scritti del Darwin e più specialmente in quelli dei suoi seguaci: il Darwin non afferma mai esplicitamente che la selezione continua di variazioni accidentali, in una determinata direzione, possa condurre a un progresso nella generazione successiva, eccettuato il caso in cui avvenga una nuova variazione casuale nella medesima direzione, ma ammette tuttavia implicitamente che la variabilità nel tipo di recente selezionato possa continuare nella stessa direzione e fornire materiali utili, per una nuova variazione. Ce lo indica la supposta ereditarietà dei caratteri acquisiti, che si rinforzano o s'indeboliscono attraverso più generazioni. Tutto ciò è vagamente implicito negli argomenti del Darwin. È certo però che molti neodarwinisti presupponessero che la selezione delle variazioni casuali conducesse avanti indefinitamente nella direzione della selezione.
C'è un'altra fine distinzione che merita di essere ricordata a questo riguardo. Si è detto: se avvengono piccole mutazioni che esorbitano dai limiti della variabilità normale e sono ereditate, perché non identificarle con quelle cui il Darwin alludeva quando considerava la trasmissione delle variazioni accidentali? La risposta è che, per il solo fatto di questa discontinuità, esse rappresentano una classe separata dalle fluttuazioni a cui il Darwin si riferiva quando basava i suoi argomenti in favore della selezione naturale su quel genere di variabilità che è sempre presente. Anche se la sostituzione di piccoli mutamenti a varianti casuali rappresentasse realmente un vantaggio, gli argomenti in favore della selezione naturale dovrebbero essere considerati sulla base delle nostre conoscenze attuali circa la loro origine e il loro possibile significato nella evoluzione. Se l'evoluzione si è compiuta col meccanismo delle mutazioni, si ha a che fare con un principio di discontinuità, benché i gradini siano piccoli, e superficialmente il progresso possa sembrare continuo.
Lo studio statistico delle variazioni. - Storicamente l'opera del belga Quételet rappresenta il primo tentativo diretto ad ottenere dati numerici per lo studio della variabilità. La conclusione principale fu che tali dati, se ordinati, dànno una curva che segue quella delle probabilità. È principalmente merito di Francis Galton, l'avere portato questi metodi in primo piano, facendo sorgere la scuola moderna della Biometrica.
Il Galton non fu troppo fortunato nella scelta del materiale per lo studio dell'eredità, in base alle conoscenze moderne, poiché le macchie colorate dei cani bassotti, la statura umana, i colori dei papaveri di Shirley, il genio ereditario sono caratteri dipendenti da fattori complessi. Più fortunata fu la scelta di dati sull'eredità del colore dell'occhio nell'uomo, che forse ha condotto alla scoperta di una semplice legge dell'eredità, sebbene il numero limitato dei singoli accoppiamenti renda difficile la determinazione di rapporti numerici, specie in accoppiamenti non controllati per materiale che non è di allevamento. Nonostante questi difetti, la ricchezza di risorse del metodo di Galton e il suo equilibrato giudizio destano tuttora la nostra ammirazione. Il Galton comprese anche per primo l'importanza della discontinuità nell'evoluzione, e, almeno in parte, la sua funzione nell'eredità. Inoltre lo sviluppo delle formule atte a misurare il valore di dati biologici quantitativi, che seguì l'opera del Galton e poi quella di K. Pearson, è ampiamente utilizzato oggi dagli studiosi di genetica, ma più come misura del valore statistico dei dati che come tentativo per dedurre le leggi dell'eredità.
Gli studî di Francis Galton sull'eredità (1883, 1897), specialmente quelli sull'uomo, occupano un posto importante nella storia di questo argomento. La legge dell'eredità ancestrale da lui proposta è la migliore del genere fra quelle formulate fino ad allora (astrazion fatta dall'opera del Mendel, sconosciuta al Galton). Secondo questa legge il bambino eredita metà dei caratteri del suo patrimonio ereditario dai genitori, un quarto dai nonni, un ottavo dai bisnonni, ecc. L'eredità totale del bambino è la somma dei contributi di tutti i suoi antenati. L'eredità decresce pereiò fortemente man mano che si risale indietro. K. Pearson, che ha sviluppato ulteriormente i metodi di Galton, ha leggermente modificato la valutazione del Galton dei contributi ancestrali.
Quando le leggi di Mendel furono conosciute (1866), gli esponenti principali della scuola biometrica le combatterono vigorosamente nei principî. Ma l'opera successiva degli studiosi di genetica ha posto ora su salde basi sperimentali i principî dell'eredità formulati dal Mendel.
Le leggi di Mendel. - La genetica data dall'inizio di questo secolo, benché la scoperta di G. Mendel, sulla quale essi si basano, risalga al 1865. Tutto ciò che è stato scritto prima del 1900 ha oggi un interesse puramente storico. Il successo del Mendel deriva dal giusto apprezzamento che egli fece della natura del problema, come pure dalla scelta del materiale e dei metodi più adatti alla soluzione. Egli ben conosceva l'opera di coloro che prima di lui si erano occupati degl'ibridi, Kölreuter, Gärtner, Herbert, Lecoq e M. Wichura, ma si accorse che nessuno dei loro esperimenti d'incroci era stato eseguito con ampiezza e metodo tali da rendere possibile sia la determinazione del numero delle differenti forme della discendenza degl'ibridi, sia la loro classificazione nelle singole generazioni, sia l'accertamento dei loro rapporti statistici. Inoltre il Mendel affermava la necessità di un'accurata scelta del gruppo di piante che dovevano servire agli esperimenti. In queste osservazioni si può notare quale influenza abbiano avuto le conoscenze di fisica e matematica possedute dal Mendel. Le piante per gli esperimenti d'ibridazione devono, egli diceva, 1. possedere caratteri differenziali costanti; 2. gl'ibridi di tali piante vanno protetti dall'influenza di polline estraneo; 3. gl'ibridi e i loro discendenti non dovrebbero soffrire alcuna perdita notevole di fecondità nelle successive generazioni. Tentativi preliminari convinsero il Mendel che le leguminose presentavano quei requisiti necessarî e perciò egli scelse il pisello comune, Pisum sativum, come il tipo più adatto per questo scopo, principalmente perché le differenti forme di questa specie posseggono caratteri costanti facilmente e sicuramente riconoscibili; in secondo luogo perché gl'ibridi incrociati fra loro dànno una discendenza perfettamente feconda. Inoltre è poco probabile che avvenga l'impollinazione per opera di polline estraneo, poiché le antere si aprono all'interno del fiore, coprendo lo stigma di polline prima che il fiore stesso sbocci. Questo fatto rende necessaria la castrazione di uno dei genitori scelti per l'incrocio; ma, d'altra parte, è un vantaggio che i primi ibridi si autofecondino senza pericolo di contaminazione, poiché ciò rende possibile ottenere con piccolo sforzo un numero maggiore d'individui nella seconda generazione nella quale i rapporti numerici hanno particolare valore. Il Mendel saggiò 34 varietà di piselli ottenute dagli orticoltori, e di queste ne utilizzò 14 per i suoi primi esperimenti. In tali varietà erano considerate coppie di caratteri opposti, cioè: 1. semi maturi rotondi o grinzosi; 2. colore dei cotiledoni (sotto l'involucro trasparente del seme) giallo o verde; 3. involucro dei semi bianco o grigio; 4. baccelli maturi rattrappiti o turgidi; 5. baccelli non maturi verdi o gialli; 6. fiori distribuiti lungo lo stelo o terminali; 7. piante alte (con lunghi internodî) o basse (con brevi internodî). Questi caratteri differenziali furono accoppiati per mezzo della fecondazione incrociata. Il Mendel, nel descrivere i risultati, si servì di una semplicissima terminologia ed indicò con il nome di ibridi il prodotto dell'incrocio di varietà di piante, sebbene in genere questo termine fosse riservato alla discendenza di due specie diverse. Il carattere di uno dei genitori che compare nella prima generazione d'ibridi fu dal Mendel chiamato carattere dominante, mentre egli indicò come recessivo il carattere dell'altro genitore, che non si manifesta nell'ibrido. Pochi esempî scelti fra gli esperimenti di Mendel serviranno ad illustrare i risultati che egli ottenne e le conclusioni che ne trasse. Se un pisello di varietà alta viene incrociato con un pisello nano (fig.1) tutte le piante figlie sono alte. Il carattere altezza domina il carattere nanismo. Se si fa in modo che gl'ibridi si autofecondino, la seconda generazione che ne deriva è costituita di piante alte e piante nane nel rapporto di circa 3:1. I piselli nani ne producono altri simili in tutte le successive generazioni. Gli alti, invece, se sono autofecondati, si comportano diversamente: un terzo dà origine a piselli alti puri, due terzi a piselli alti e nani nel rapporto di 3 : 1. In base a questi e ad altri risultati simili, il Mendel propose la seguente teoria: se nella cellula uovo della varietà alta vi è un fattore per l'altezza (A) e nel polline della razza bassa uno per il nanismo (a), l'ibrido riceverà dai genitori entrambi i fattori (Aa), e, se l'ibrido è alto, diremo che il carattere altezza domina quello del nanismo. Se ora questi due fattori si separano nelle cellule germinali dell'ibrido (A − a), quando si formano la cellula uovo e il polline, in maniera che una metà di essi venga a ricevere il primo fattore e l'altra il secondo, i risultati numerici ottenuti nella seconda generazione (supponendo egualmente probabili le combinazioni possibili fra ovulo e granello pollinico) possono essere così spiegati:
Simili rapporti numerici si sono ottenuti con incroci di altri tipi di piselli. Ad esempio: piselli a semi gialli × piselli a semi verdi dànno ibridi con semi gialli, che a loro volta producono, fecondati fra loro, piselli a semi gialli e a semi verdi nel rapporto di 3:1. Ancora: piselli a chicchi rotondi, incrociati con piselli a chicchi grinzosi, dànno piselli a chicchi rotondi, che poi ne producono rotondi e grinzosi nel rapporto di 3:1. Il primo principio del Mendel o legge della separazione stabilisce che i fattori di caratteri opposti dell'ibrido si separano durante la formazione delle cellule germinali. Il Mendel eseguì anche incroci nei quali erano prese in considerazione due coppie di caratteri opposti. Così, se un pisello giallo (A) e liscio (B) è incrociato con un pisello verde (a) e grinzoso (b), l'ibrido (AaBb) contiene due coppie di caratteri: per i chicchi gialli e lisci. Quando nell'ibrido le uova e i granelli pollinici maturano, i fattori di ciascuna coppia si separano l'uno dall'altro, dando luogo a quattro classi di cellule germinali:
Queste cellule germinali saranno nel rapporto di 1 : 1 : 1 : 1. Le combinazioni possibili ed egualmente probabili nell'unione dei gameti maschili con i femminili sono 16, come si vede nel diagramma:
Se le 16 classi d'individui sono classificate secondo i caratteri che palesano, essendo il carattere dell'individuo dato dai fattori dominanti, vi saranno 9 gialli lisci, 3 gialli grinzosi, 3 verdi lisci, i verde grinzoso. Le cifre effettive ottenute in un tale esperimento sono conformi alle previsioni. I risultati che si deducono da un esperimento simile possono essere calcolati direttamente, ammettendo che le due coppie di caratteri si separino indipendentemente. Così alla seconda generazione si produrranno 3 gialli per 1 verde, cioè nel rapporto 9 : 3. Tra i gialli, 3 saranno lisci e 1 grinzoso, e fra i verdi ve ne saranno 3 lisci e 1 grinzoso. E poiché i gialli sono tre volte più numerosi dei verdi, il rapporto sarà 9 : 3 : 3 : 1.
Il Mendel dimostrò che per tre coppie di caratteri indipendenti vale la stessa relazione, ottenendosi otto classi di cellule germinali nell'ibrido di prima generazione e sedici classi nella seconda generazione. Egli ammette che la legge della separazicne indipendente dei fattori valga per ogni numero di coppie distinte di caratteri. In realtà però esperimenti successivi hanno dimostrato che la seconda legge del Mendel ha un'applicazione più ristretta, poiché si è constatato che alcune coppie possono essere legate fra loro (v. oltre).
In luogo del termine generale "ibrido" è stato, col progresso della scienza, introdotto il termine eterozigote, che indica che l'individuo possiede almeno una coppia di fattori antagonisti (Aa). Il termine omozigote indica che l'individuo possiede fattori simili in una o in ambedue le coppie. In sostituzione del mendeliano fattore o elemento è divenuta di uso generale la parola gene che rappresenta l'unità teorica della cellula germinale, in relazione causale con un determinato carattere dell'individuo. Il gene però agisce solo come un discriminante, che può essere considerato come causa del carattere. Esso non è infatti che uno dei molti fattori (geni) che, operando insieme, determinano il carattere. Per es.: un uomo dagli occhi azzurri può differire da un altro dagli occhi bruni per una coppia di geni, ma probabilmente vi sono più geni che contribuiscono alla produzione del colore azzurro o di quello bruno degli occhi, e la presenza in un individuo dei geni per il colore azzurro o per il bruno determina il colore in un senso o nell'altro. Il termine caratteri-unità era usato anche prima che divenisse abitudinario il chiamare i caratteri mendeliani caratteri-unità, cosicché per un certo tempo si fece una grande confusione, in quanto il carattere-unità (occhio azzurro, per esempio) era inteso come sinonimo del gene per gli occhi azzurri. Ciò implicava che soltanto un gene fosse responsabile di ciascun carattere, ma ora è noto che più geni posson determinare lo stesso carattere e, ciò che è egualmente importante, che ciascun gene può aver relazione con più caratteri. Una modificazione nei geni degli elementi germinali non è soltanto in relazione causale con qualche modificazione di un carattere dell'individuo che ne risulta, ma, nella maggioranza dei casi, tale modificazione interessa diversi o molti altri caratteri dell'individuo stesso. Ciò mostra quanto sarebbe erroneo voler identificare in un gene un solo particolare carattere-unità. In pratica, è vero, si parla di ciascun gene in relazione con qualche carattere particolare che si studia, ma ciò solo per comodità. Nello studio dell'eredità si usa scegliere un carattere spiccato dell'individuo o un carattere meno variabile, trascurando il fatto che vi possono essere anche altri caratteri associati al medesimo gene. Uno qualunque di essi potrebbe essere utilizzato, e il risultato, per quanto riguarda l'eredità, sarebbe identico.
Le cellule germinali, sia uova sia spermî (e anche i granelli pollinici), sono dette gameti. L'individuo che risulta dall'unione di due gameti è lo zigote (o zigoto). I due geni che formano una coppia di caratteri sono detti allelomorfi e ciascuno si dice essere allelomorfico rispetto all'altro. I genitori da cui s'inizia l'incrocio rappresentano la generazione parentale che si indica con P1, la prima generazione di ibridi con F1, la seconda con F2, ecc.
Il Mendel in una coppia di caratteri allelomorfi indicava come dominante quel carattere che appare nell'ibrido simile a quello di un genitore; ma oggi è noto che questa non è affatto la regola perché in moltissimi casi il carattere dell'ibrido è intermedio fra quelli dei genitori. Così, se una pianta di Bella di notte (Mirabilis jalapa) a fiori rossi è incrociata con una pianta a fiori bianchi il fiore dell'ibrido della prima generazione (F1) è rosa. Tuttavia, quando si formano i gameti di questo ibrido, una metà di essi contiene un gene per il rosso e l'altra metà un gene per il bianco. Nella generazione successiva, conseguentemente, apparirà un individuo a fiori rossi (puro) per 2 a fiori rosa (che dànno alla loro volta un rosso, 2 rosa, e 1 bianco) e per 1 a fiori bianchi. La legge di Mendel della separazione vale, in questo caso, né più né meno come quando l'ibrido mostra il carattere dominante. È ora noto che la dominanza e la recessività sono d'interesse secondario. Si possono avere tutti i gradi intermedî di dominanza anche costanti per ogni combinazione. In alcuni casi l'ibrido intermedio (eterozigote) può presentare a un estremo il carattere dominante, in altri il carattere recessivo, in altri ancora tutti e due i caratteri. In quest'ultimo caso si può avere una serie continua di forme dalla dominante a un estremo, dalla recessiva all'altro. Tuttavia, se gl'individui della F1 di una tale serie si fanno riprodurre fra loro, 1/3 di essi si comportano come dominanti puri, 1/3 come eterozigoti e 1/3 come recessivi puri. In altre parole la legge della separazione si verifica in questo, come nel caso classico. Tale risultato dimostra in primo luogo che il carattere superficiale dell'eterozigote non rappresenta un criterio sicuro per stabilire la sua composizione genetica, e prova, in secondo luogo, che il carattere intermedio non è il risultato della contaminazione dei geni, in quanto nel gamete si ha una netta separazione di essi. Tale conclusione è particolarmente importante per il metodo statistico dell'eredità, fondato sull'esame dei caratteri esterni dell'individuo.
È ora noto che la variabilità dell'eterozigote dipende in alcuni casi dalla distribuzione di altri geni la cui azione esalta o deprime l'influenza del gene principale; in altri la variabilità è dovuta a differenze ambientali alle quali ogni individuo è soggetto durante il suo sviluppo e alle quali, come è ampiamente dimostrato, reagisce.
Il lavoro del Mendel rimase ignorato per 35 anni, finché nel 1900 tre botanici pubblicarono indipendentemente i risultati ottenuti con esperimenti che confermavano le scoperte di Mendel. Hugo de Vries rese noti undici esperimenti d'incroci che alla F2 davano una proporzione approssimativa di 3 : 1. C. Correns ottenne percentuali simili col mais e i piselli da giardino. E. v. Tschermak riferì fatti simifi ottenuti in gran numero coi piselli e coi fagioli. I tre autori riconobbero così al Mendel il merito di aver scoperto il principio fondamentale che si nasconde dietro questi risultati. Incidentalmente si può notare che, mentre la proporzione riscontrata di 3 : 1 avrebbe potuto servire a trovare il bandolo della matassa, l'interpretazione del risultato dipendeva dall'ulteriore prova deducibile dal fatto che tale proporzione si può scomporre nella proporzione 1 : 2 : 1 ciò che il Mendel fece, dimostrando così la separazione dei geni in egual percentuale nei gameti dell'ìbrido, per mezzo di un incrocio inverso della F1 con il recessivo puro.
Dopo il 1900 lo studio della genetica secondo la teoria del Mendel fece grandi progressi. L'unica seria opposizione a questo indirizzo fu avanzata dalla scuola inglese dei biometrici (Welden e K. Pearson), ma con la dimostrazione dell'estesa applicazione della legge di Mendel tale opposizione non ebbe influenza alcuna.
La dimostrazione della possibile applicazione delle leggi del Mendel agli animali fu data da L. Cuénot e W. M. Bateson nel 1902. Il Cuénot incrociando topi grigi con topi bianchi ottenne alla F1 tutti individui grigi, alla F2 3 grigi per 1 bianco. Un anno dopo dimostrò che i topi albini possono portare geni per il grigio, il nero o il giallo, secondo la loro origine, e che anche in tal caso è valida la legge di Mendel. Egli suppose, per esempio, che agli albini mancasse un fattore che egli chiamò, seguendo Coutagne, mnemone o cromogeno, e che considerò come uno dei costituenti necessarî per qualunque colore. Gli albini sarebbero anche forniti di una data serie di fattori per i colori specifici. Così un topo bianco porta i geni cc, mentre uno grigio ha i normali allelomorfi dominanti CC. Inoltre i diversi topi possono possedere un fattore per qualche tirosinasi particolare che determina il colore GG per il grigio, BB per il nero, ecc. Un albino con fattore grigio avrebbe i geni ccGG e un topo grigio CCGG. Il Cuénot inoltre dimostrò che i geni per il grigio, il nero e il giallo sono allelomorfi, poiché solo due di essi possono essere presenti in un particolare individuo. Essi si separano nelle cellule germinali, come gli allelomorfi ordinarî. Nel 1904 egli trovò che nei topi a pelo chiazzato (panaché) questo carattere si comporta come recessivo di fronte a quello del pelo a colorazione uniforme, dando alla F2 il 75% di individui a pelame uniforme e il 25% di individui a pelame chiazzato. Il Cuénot riteneva che il grado di chiazzatura variasse continuamente, senza che le sue particolarità fossero rappresentate nel plasma germinale, e dimostrò che con la selezione si possono ottenere razze più o meno bianche. Questo apparente paradosso è stato più tardi descritto anche da W. E. Castle per i ratti chiazzati, e ritenuto come dipendente dalla variabilità del gene stesso. Ma ricerche successive hanno dimostrato che questa variabilità dipende in gran parte da altri fattori genetici, il cui intervento determina il grado del carattere chiazzato. Vi sono buone ragioni per supporre che questi fattori si separino anche in questo caso secondo la legge di Mendel.
W. Bateson, che aveva sostenuto l'importanza della variazione discontinua e aveva eseguito esperimenti sui polli domestici anche prima della riscoperta delle leggi di Mendel, ottenne nel 1902 risultati che erano in armonia con i principî mendeliani. Riscontrò in alcuni casi la perfetta applicabilità di tali principî, in altri una manifesta deviazione da questi, che egli discusse e che in seguito venne chiarita. Fu fatta anche un'altra constatazione, cioè che in casi in cui nessuno dei caratteri domina completamente sull'altro, l'ibrido produce in egual numero gameti di due specie simili a quelle dei genitori, come in casi di dominazione completa.
La teoria cromosomica dell'eredità.
Un gran numero di esperimenti eseguiti in tutte le parti del mondo hanno stabilito che le leggi di Mendel, e in particolare quella della separazione dei caratteri, sono applicabili tanto alle piante quanto agli animali. Considerata la grande differenza tra i fenomeni di riproduzione sessuale nelle piante e quelli negli animali, tale constatazione si doveva certamente mettere in relazione con i caratteri comuni alle une e agli altri. La spiegazione fu trovata nel comportamento dei cromosomi durante il processo di maturazione degli elementi germinali maschili e femminili. Questa scoperta segnò un progresso simile a quello dovuto al Mendel; ma questa nuova fase degli studî si era iniziata prima della riscoperta degli studî di Mendel fatta dal Correns e dal Tschermak: molti fatti fondamentali erano già infatti noti prima del 1900, sebbene la loro applicazione particolare alla legge di Mendel non fosse stata subito intravista. Soltanto nell'ultimo quarto del sec. XIX l'importanza dei cromosomi è divenuta evidente in seguito alla conoscenza accertata della loro costanza nel numero e nella forma nelle diverse specie, della precisione con cui si dividono e della scoperta, fatta in seguito, che ogni individuo ne possiede una doppia serie, gli uni provenienti dal padre, gli altri dalla madre. Si è anche scoperto che questa costanza è mantenuta dai fenomeni di riduzione (a metà) del numero dei cromosomi, che avvengono durante la maturazine delle cellule germinali (v. fecondazione), mentre il numero completo si ristabilisce quando la cellula uovo viene fecondata dallo spermatozoo (E. van Beneden, 1883-1884).
I cromosomi diventano visibili, di regola, soltanto ad ogni divisione cellulare e qualora vengano colorati con metodi speciali; durante le fasi di riposo del nucleo si ha l'impressione che essi si risolvano in un reticolo. Nel 1885 K. Rabl prospettò alcune prove in favore della teoria della continuità dei cromosomi, che Th. Boveri adottò e pose su basi più sicure. Tuttavia neanche ora è stato possibile dimostrare con l'osservazione diretta questa continuità dei cromosomi, sebbene le prove fornite dagli studî di genetica non lascino praticamente alcun dubbio sul fatto che la parte essenziale del cromosoma (la catena dei geni) rimane intatta per tutta la vita di ogni cellula, con una sola eccezione, quando cioè avviene il crossing over o scambio di geni durante il periodo di maturazione (v. oltre).
Durante ciascuna divisione della cellula uovo fecondata e nelle altre divisioni cellulari i cromosomi di ogni cellula si dividono nel senso della lunghezza (fig. 2): metà di ciascun cromosoma va in una cellula figlia e metà nell'altra. Negli stadî successivi i cromosomi figli riprendono le dimensioni primitive (in larghezza), preparandosi a un'altra divisione; così ogni cellula somatica, come gli spermatogonî e gli oogonî, viene non solo a contenere il numero completo di cromosomi, ma tutte le cellule risultano identiche rispetto alla qualità del materiale cromosomico (geni ereditarî) in esse contenuto, indipendentemente da come questi geni si differenziano. Questa conclusione, basata sull'osservazione diretta e sulle prove fornite dalla genetica, forma la base della teoria moderna della fisiologia dell'eredità. L'antica opinione di W. Roux e A. Weismann, per cui nelle prime divisioni dell'uovo gli elementi ereditarî si distribuiscono tra le cellule figlie (fatta eccezione della serie germinale), fornendo così le basi per il differenziamento embrionale, è stata abbandonata (v. embriologia).
Oogenesi e spermatogenesi. - Come si è detto, le cellule che diverranno in seguito uova e spermatozoi, cioè quelle della cosiddetta linea germinale, sono da principio esattamente simili a tutte le altre cellule dell'individio e contengono il numero completo di cromosomi: esse si moltiplicano durante questo periodo come le altre cellule. Dopo un certo numero di divisioni cessano di dividersi, andando incontro a notevoli modificazioni. I cromosomi si riuniscono a due a due (fig. 3), ogni coppia risultando composta di un cromosoma d'origine materna e di uno d'origine paterna, costituendo coppie omologhe e identiche. Ciò è provato dai casi in cui i cromosomi sono di dimensioni o forma differente nei due sessi. Altri argomenti ancora più convincenti ce li offre, come diremo, la genetica. Le modificazioni suddette hanno luogo mentre ancora la membrana nucleare è intatta; i cromosomi dapprima si allungano notevolmente come filamenti sottili e poi si accollano a due a due (sinapsi) per tutta la lunghezza (fig. 3). Sembrano quasi fondersi insieme, ma anche in questo caso è stato dimostrato in maniera definitiva che non ha luogo nessuna fusione degli elementi essenziali dei cromosomi, anche se in questo momento, o un po' più tardi, possono avvenire scambî di porzioni esattamente equivalenti dei cromosomi. I cromosomi doppî incominciano quindi ad accorciarsi, finché sono lunghi quanto nelle divisioni ordinarie (benché due volte più spessi). Allora si sviluppa il fuso mitotico e i cromosomi sono portati a formare la piastra equatoriale (fig. 3, b); quindi si separano, ciascun cromosoma di ogni coppia migrando ad un polo opposto del fuso (fig. 3, c, d).
La storia della cellula uovo e degli spermatozoi è un po' diversa, ma le modificazioni essenziali, per quanto riguarda il meccanismo dell'eredità, sono le stesse. La cellula uovo si accresce per l'accumularsi in essa di materiali di riserva (vitello, grassi) mentre in molti casi si costituisce intorno all'uovo una membrana esterna o corion. Allorché l'uovo ha raggiunto le sue dimensioni definitive, si può osservare in esso una rinnovata attività del nucleo, che può verificarsi mentre l'uovo è ancora nell'ovario, oppure è disceso nell'ovidutto, o anche quando è già libero: i cromosomi ricompaiono in numero pari alla metà del normale, ognuno di essi risultando costituito di due cromosomi riuniti. La membrana nucleare si dissolve mentre si forma il fuso acromatico, alle cui fibre centrali si attaccano i cromosomi, che poi si muovono (o sono attratti) verso l'equatore del fuso (fig. 4, a). Il fuso con i cromosomi ad esso riuniti si sposta verso il polo dell'uovo: talora ivi rimane finché la fecondazione non sia avvenuta; in altri tipi di uova può dar luogo subito alla formazione del primo globulo polare. Il fuso che occupa, ora, una posizione radiale al disotto del polo dell'uovo (fig. 4, b), viene a trovarsi in parte contenuto in una piccola protrusione di protoplasma. Ciascun doppio cromosoma si separa nelle metà che lo compongono; una metà muove verso il polo esterno del fuso, l'altra verso l'interno, al polo opposto. La zona sporgente del plasma si costringe a poco a poco fino a separarsi dall'uovo: avviene così l'espulsione del primo globulo polare, che contiene metà dei cromosomi. Quelli rimasti nell'uovo si portano in un altro fuso (fig. 4, c, d), disponendosi al suo equatore, mentre il fuso, come prima, si dispone radialmente al polo dell'uovo o prossimo ad esso. Ogni cromosoma si divide nel senso della lunghezza (fig. 4, d). Il protoplasma forma una seconda sporgenza; i cromosomi figli si disgiungono, dirigendosi metà verso un polo e metà verso l'altro: si separa così un secondo globulo polare (fig. 4, e, f). A questo punto spesso il primo globulo polare si divide in due parti delle stesse dimensioni. Intorno ai cromosomi rimasti nell'uovo, che costituiscono ora come un reticolo, si forma la membrana nucleare. Le due divisioni rappresentano due divisioni cellulari, che sono però tipiche sotto un doppio aspetto. In primo luogo sono molto ineguali e inoltre, ad una di esse, le coppie di cromosomi si separano. La seconda divisione si avvicina di più a una divisione ordinaria. Le conseguenze di queste divisioni hanno un grande significato per l'interpretazione del meccanismo della separazione mendeliana. Il nucleo che si viene a formare (talvolta detto nucleo dell'uovo o pronucleo femminile) si porta verso il centro dell'uovo, dove incontra il pronucleo maschile che si è sviluppato dallo spermio. I due nuclei si avvicinano l'uno all'altro, un nuovo fuso si sviluppa e l'uovo (zigote) è ora pronto per la prima divisione (fig. 5, d).
La storia della formazione dello spermatozoo (spermatogenesi) è essenzialmente identica a quella dell'uovo, eccetto che lo spermatogonio, invece di accumulare materiali, diviene al termine del processo un corpicciolo mobile detto spermio o spermatozoo. L'origine dello spermio è la seguente: dopo molte divisioni le cellule cessano di moltiplicarsi, i cromosomi si allungano in filamenti sottili (fig. 6), che si uniscono lato a lato (sinapsi). Si forma il fuso e i cromosomi si dispongono nel piano equatoriale (fig. 6, d); i componenti di ogni coppia si separano, dirigendosi verso i due poli del fuso e la cellula si divide allora in due parti eguali (fig. 6, f). In ogni cellula figlia s'inizia subito un'altra divisione (fig. 6, g): ogni cromosoma si divide per il lungo, metà passa ad un polo, metà all'altro (fig. 6, h). Il protoplasma si divide nuovamente, formando due cellule: ne risultano quattro cellule, ognuna contenente una serie di cromosomi (fig. 6, i). Ciascuna di queste cellule va incontro quindi a un complicato processo di differenziamento: il protoplasma viene a costituire una sottile appendice vibratile, mentre il nucleo si condensa a formare la testa dello spermatozoo. Venuto a contatto dell'uovo, lo spermatozoo vi penetra; la coda o rimane fuori o, penetrando nell'uovo, vi si disintegra (fig. 5); la testa assorbe liquido, si rigonfia e costituisce il pronucleo maschile, che si porta al centro dell'uovo per unirsi al pronucleo femminile. Lo spermatozoo porta con sé un corredo cromosomico, l'uovo un altro simile e insieme ricostituiscono così il numero completo dei cromosomi.
I cambiamenti che abbiamo descritti nelle cellule germinali portano a una riduzione del numero dei cromosomi. Quattro spermatozoi attivi si formano da ogni cellula madre degli spermî, mentre dall'oogonio si origina una cellula uovo e tre globuli polari, che non prendono parte allo sviluppo. Una cellula contenente un numero di cromosomi eguali a metà del numero dei cromosomi della specie si dice aploide; una cellula contenente il numero di cromosomi della specie si dice diploide. In condizioni eccezionali il numero dei cromosomi può essere raddoppiato e allora la cellula è tetraploide. Si conoscono anche cellule poliploidi.
I grandi cambiamenti che accadono nella maturazione degli elementi germinali sono essenzialmente gli stessi nelle piante e negli animali, e sono essi a fornire il meccanismo delle due leggi di Mendel.
La riduzione del numero dei cromosomi assicura ad ogni cellula germinale un cromosoma di ogni specie. Nell'ibrido (F1), quando le cellule germinali subiscono i processi di maturazione, i cromosomi d'origine materna si uniscono a coppie con i cromosomi omologhi d'origine paterna, per separarsi durante una delle due divisioni di maturazione. Ogni cellula germinale verrà quindi a contenere un cromosoma di ogni coppia, di modo che due dei quattro spermatozoi dell'ibrido saranno forniti di un cromosoma matemo e due di uno paterno. Lo stesso avverrà nelle uova mature, di cui metà verrà a contenere un cromosoma materno e metà uno paterno. Se i cromosomi sono i latori dei geni, questo meccanismo soddisfa le esigenze della legge della separazione di Mendel.
Per soddisfare anche la seconda legge di Mendel, la legge dell'assortimento indipendente dei caratteri, è necessario ammettere che durante la riduzione i cromosomi materni e paterni si distribuiscano a caso, cioè che un cromosoma materno di una coppia e uno paterno di un'altra possano andare al medesimo polo. Vi sono anche prove dirette che dimostrano la distribuzione casuale, in cui la legge di Mendel trova un meccanismo conveniente per esplicarsi.
I cromosomi sessuali. - Il comportamento dei cromosomi ci offre dunque un meccanismo delle due leggi di Mendel, soddisfacente sotto ogni aspetto. Ma prima di procedere oltre bisogna descrivere il comportamento, in certo qual modo unico, di una coppia di cromosomi, conosciuti come sessuali, che fornisce un'ulteriore e magnifica conferma dell'ipotesi cromosomica dell'eredità.
Di regola i maschi e le femmine hanno lo stesso numero di cromosomi e ciascun cromosoma di ogni coppia è simile al suo vicino, eccetto una coppia di essi, i cromosomi sessuali. Vi sono poche eccezioni alla regola, che saranno indicate. Si conoscono due distinti meccanismi del cromosoma sessuale. In uno (tipo XX-XY), la femmina ha due cromosomi X, il maschio un cromosoma X e uno Y. Le altre coppie di cromosomi sono indicate con il nome di autosomi (A). Quando le uova XX vengono a maturazione, un cromosoma X è eliminato col globulo polare (insieme con metà degli autosomi), lasciando nell'uovo A + X. Nel maschio il cromosoma X e quello Y si separano durante una delle due divisioni di maturazione e per conseguenza metà degli spermatozoi viene a contenere un cromosoma Y (A +Y) e l'altra metà un cromosoma X (A + X). Ogni uovo (X) fecondato da uno spermatozoo X dà origine a una femmina (2A + XX); ogni uovo fecondato da uno spermatozoo Y ad un maschio (2A ?+ XY). Il processo si ripete ad ogni generazione, come dimostra la fig. 7, in cui sono indicati solo i cromosomi sessuali. Il cromosoma Y segue la linea maschile, e si trova solo nei maschi, mentre i cromosomi X si trovano in ambedue i sessi e si scambiano ad ogni generazione.
La genetica ha dimostrato che i cromosomi X sono latori di geni come gli altri cromosomi, e che ciascun gene particolare, da essi trasportato, viene trasmesso nello stesso modo come il cromosoma X che li porta. Un esempio sarà sufficiente per illustrare questo modo di trasmissione ereditaria, conosciuto come eredità legata al sesso, poiché i caratteri sono ereditati in relazione col sesso. Supponiamo che w (rappresentante il colore bianco o qualunque altro carattere legato al sesso) sia portato da un cromosoma X e l'allelomorfo W (rappresentante il colore rosso) da un altro cromosoma X (fig. 8). Quando una femmina ww si unisce a un maschio W (essendo i due w della femmina contenuti in un X e il W del maschio nel suo unico cromosoma X), la discendenza femminile (Fi) sarà wW. Se W (rosso) domina w, la discendenza femminile sarà rossa. Quella maschile riceverà il cromosoma X con w e sarà bianca, purché il cromosoma Y non modifichi il risultato.
Se gl'individui della F1 si coniugano (fig. 8) - dato che la femmina ha due specie di uova mature wX e WX e il maschio due specie di spermatozoi, wX e Y - produrranno femmine ww (bianche), femmine wW (rosse), maschi w e maschi W nella proporzione 1 : 1 :: 1 : 1. In questo caso invece di un rapporto mendeliano di 3:1 abbiamo un rapporto di 1 : 1, poiché il maschio porta un solo gene recessivo nel suo unico cromosoma X.
L'incrocio inverso (fig. 9) di una femmina WW (rossa) con un maschio w (bianco) dà un rapporto differente alla F2, ma il principio è lo stesso. La femmina della F1 è Ww (rossa) e il maschio W (rosso): fecondandosi fra loro dànno alla F2 1 femmina WW (rossa), i femmina Ww (rossa), 1 maschio W (rosso) e 1 maschio w (bianco). Senza tener conto del sesso, vi sono tre individui rossi per uno bianco, ma i bianchi sono sempre maschi (fig. 9). Il fatto più notevole dell'eredità legata al sesso è l'assenza di qualsiasi effetto del cromosoma Y, sia sul carattere dominante sia su quello recessivo. Si potrebbe dire quasi che il cromosoma Y sia "vuoto", ma pur tuttavia esso resta come cromosoma funzionale, che si divide come gli altri e durante la sinapsi si unisce al cromosoma X. In realtà, però, esso non può essere considerato come completamente "vuoto", anche in un tipo di eredità come nel caso della Drosophila, al quale si è riferita la precedente descrizione, poiché un maschio privo del cromosoma Y è sterile, ciò che significa che un fattore (bobbed) almeno è portato da questo cromosoma. In altri tipi il cromosoma Y può essere unito a un ordinario autosoma del quale rappresenta un'estremità. Che il cromosoma Y ordinariamente non sia il latore di fattori dominanti su fattori recessivi è dimostrato inoltre dalla sua eccezionale presenza nelle femmine (XXY), in cui non produce alcuna palese differenza dei caratteri (anche se questi sono recessivi) o del sesso. Perciò, benché sia presente in generale solo nella linea maschile, non si può supporre che esso porti i fattori per la mascolinità (eccettuati quelli della fertilità). La mascolinità è quindi dovuta a un cromosoma X in rapporto con gli autosomi. Inoltre il Bridges dimostrò che le due specie di spermatozoi del maschio non trasmettono rispettivamente il carattere maschile e femminile, ma solo X o Y. Ad es.: qualche rara volta, avviene che ambedue i cromosomi siano espulsi dall'uovo insieme con un globulo polare. Se tale uovo è fecondato da uno spermatozoo X, produce un maschio (sterile, perché Y è assente); se è fecondato invece da uno spermatozoo Y, muore, il che indica che il cromosoma X è necessario, almeno, per l'esistenza. Vi sono pure razze artificiali in cui le femmine portano un cromosoma Y. Se ambedue gli X sono eliminati da un uovo di tale specie e l'Y è conservato, e se tale uovo è fecondato da uno spermatozoo con cromosoma X, dà origine a un maschio funzionale XY che non differisce sotto alcun aspetto da un maschio ordinario. Ciò prova che il sesso come tale non è portato dai gameti maschili o femminili, ma è determinato ex novo a ogni generazione dalla combinazione dei cromosomi X e degli autosomi, che si stabilisce con la fecondazione
L'altro tipo di meccanismo di funzionamento del cromosoma sessuale è opposto al precedente, ma si basa sullo stesso principio generale. Uno dei due sessi, la femmina in questo caso, è eterozigote per il cromosoma sessuale (ZW) e il maschio è omozigote (ZZ). Lo schema di tale tipo è dato dalla fig. 10. Qualsiasi carattere contenuto nel cromosoma Z sarà trasmesso insieme con esso. Quando il gene recessivo legato al sesso è portato da una femmina, il rapporto alla F2 sarà 1 : 1 : 1 : 1; quando invece è portato dal maschio, il rapporto sarà 1 : 2 : 1. È evidente che i risultati sono essenzialmente gli stessi di quelli ottenuti per il tipo XX-XY. La prova dell'esistenza della combinazione WZ-ZZ nella determinazione del sesso è data sia dall'osservazione diretta dei cromosomi (Baltzer) sia dall'eredità genetica (Doncaster) di una farfalla, l'Abraxas.
Fino a poco tempo fa il meccanismo di funzionamento del cromosoma sessuale era conosciuto soltanto negli animali, ma recentemente sono stati riferiti varî casi di piante a sessi distinti (Elodea, Rumex, Humulus, Melandrium, Vallisneria), che rientrano tutti nel tipo XX-XY. In animali e piante ermafroditi, nei quali cioè sia le uova sia gli spermatozoi sono prodotti dallo stesso individuo, non sono stati rinvenuti cromosomi sessuali.
Il tipo XX-XY, di eredità legata al sesso, è stato riscontrato, in base a prove sia citologiche sia genetiche o ad entrambe, nei seguenti gruppi: parecchi mammiferi, rane, alcuni pesci, diversi ordini di insetti, nematodi e ricci di mare. Il tipo WZ-ZZ si è verificato in uccelli, alcuni pesci, farfalle e microlepidotteri.
Non vi è alcuno schema per cui si possa immaginare che un tipo si converta direttamente nell'altro; ma dal momento che, come diremo, non c'è alcun bisogno di ammettere geni specifici per il sesso, non è difficile immaginare che tale meccanismo possa sorgere ogni qualvolta un paio di cromosomi divengano differenti fra loro, purché la differenza rispetto agli altri cromosomi sia di natura tale che una specie d'individui produca solo uova e l'altra solo spermî.
"Linkage" e "crossing over".
Si è osservato che la legge mendeliana della separazione indipendente dei caratteri potrebbe esser valida solo per coppie di caratteri portati da differenti paia di cromosomi. Ci si dovrebbe quindi aspettare che tutti i geni del medesimo cromosoma fossero ereditati insieme, a meno che non avvenisse in qualche modo uno scambio di geni fra i componenti della stessa coppia. In realtà sappiamo ora che scambî avvengono regolarmente, in modo talmente definito e specifico, da permettere di predire i risultati con altrettanta certezza quanto per l'eredità mendeliana. Questo scambio è stato designato dagli autori americani col nome di crossing over e il termine è entrato ormai nel linguaggio scientifico internazionale.
Il risultato fu intravisto da W. Bateson e R. C. Punnet in incroci di piselli dolci, eseguiti nel 1906. Questi autori trovarono che certe coppie di caratteri non davano il rapporto prevedibile 9:3:3:1, ma un rapporto ben diverso, come: porporini allungati 583, porporini rotondi 26, rossi allungati 24, rossi rotondi 170. Ad esempio, quando un pisello dolce a fiori color porpora e granelli di polline lunghi, è incrociato con un altro a fiori rossi e granelli di polline rotondi, i due tipi in questione si presentano alla F2 con frequenza maggiore di quella prevedibile, per la separazione indipendente del porpora-rosso e rotondo-lungo. Bateson e Punnet pensarono che questi risultati fossero dovuti a quella che essi chiamano "repulsione" fra i fattori del "porpora" e "lungo" e del "rosso" e "rotondo". La vera spiegazione è data dalla teoria che ammette che i geni per il porpora e per il lungo si trovino in un cromosoma, quelli per il rosso ed il rotondo nel cromosoma omologo. Nell'ibrido, durante la maturazione delle cellule germinali, questi geni vanno ai poli opposti, eccettuati i casi in cui ha luogo uno scambio di geni fra questi cromosomi omologhi dell'ibrido della F1.
Gli studi più completi sul crossing over sono quelli compiuti sulla Drosophila melanogaster da C. B. Bridges, A. H. Sturtevant, H. J. Muller, T. H. Morgan e altri. Si conoscono oggi, per questo moscerino, cinquecento caratteri mutanti, che si riuniscono in quattro gruppi di linkage, indicati con I, II, III, IV. Le coppie di cromosomi sono quattro (figura 11). Il primo paio (I) è rappresentato dal cromosoma X o sessuale; il secondo e il terzo (II, III) da cromosomi a forma di V; la quarta coppia (IV) da un piccolo cromosoma rotondo. Il numero dei geni noti nei quattro gruppi di linkage corrisponde approssimativamente alle dimensioni di questi cromosomi.
L'esempio seguente di crossing over tra i cromosomi X servirà a illustrare questo principio. I caratteri: occhi rossi e occhi bianchi nella Drosophila si comportano come una coppia di caratteri mendeliani (nei riguardi dell'eredità legata al sesso); lo stesso accade per i caratteri ali gialle ed ali grigie: sono anch'essi legati al sesso. Se una femmina ad occhi bianchi ed ali gialle è incrociata con un maschio ad occhi rossi ed ali grigie, le femmine figlie hanno occhi rossi ed ali grigie (i due caratteri dominanti), i figli occhi bianchi ed ali gialle (i due caratteri recessivi presenti nel cromosoma X che il figlio ha ricevuto dalla madre). Gl'individui della F2 sono di quattro sorta. Il 99% è simile ai nonni (rosso-grigio o bianco-giallo) e l'1% ha subito il crossing over (rosso-giallo o bianco-grigio). Le combinazioni originarie entrate nell'incrocio sono ricomparse nel 99% dei nipoti, mentre nell'1% è avvenuto uno scambio di caratteri. Si suol dire che il crossing over è avvenuto nell'1% della F2. In realtà ciò ha avuto luogo nell'1% delle cellule germinali della femmina ibrida. Per ridurre i dati a percentuali, il numero dei crossing over deve essere diviso per il numero totale di individui (non crossovers e crossovers) e il quoziente moltiplicato per 100. Questa percentuale di individui che hanno subito il crossing over comprende le due classi: rossi-gialli e bianchi-grigi. L'esperimento ricordato fornì la vera misura dei crossing over nelle cellule germinali della femmina ibrida. Il maschio della F1 portava i due caratteri recessivi, quindi anche se in esso fosse avvenuto il crossing over (il che, come dimostrano altre prove, non avviene), tutte le sue cellule germinali porterebbero ancora i due caratteri recessivi, e quando esse incontrassero le uova della femmina della F1, questi due fattori recessivi non coprirebbero alcuno dei caratteri portati dalle uova: ci vien rivelato così il numero totale dei crossing over nelle uova.
Se si fa lo stesso incrocio con la coppia di caratteri differentemente combinati, il risultato è sostanzialmente simile. Se, per esempio, s'incrocia una femmina con occhi rossi ed ali gialle con un maschio con occhi bianchi ed ali grige, e le femmine della F1 (rosso-giallo) si reincrociano con una popolazione di gialli-bianchi, alla F2 si avrà il 99% di individui simili ai nonni (rossi-gialli e bianchi-grigi) e l'1% di crossovers (bianchigialli e rossi-grigi). Il risultato dimostra che per una data coppia di caratteri il numero dei crossing over è indipendente dal modo nel quale i caratteri si combinano nei genitori. È questa una relazione fondamentale che, come mostreremo, si accorda con l'ipotesi che i geni siano disposti secondo un ordine determinato nei cromosomi e che il crossing over sia un fenomeno indipendente dalla qualità dei caratteri rappresentati dai geni.
Negli esempî ora elencati, il crossing over ha luogo circa nell'1% delle cellule germinali; altri caratteri dànno valori diversi: se, per es., s'incrocia una mosca con occhi bianchi ed ali piccole con una ad occhi rossi ed ali lunghe, alla F2 si ha il 33% di crossing over. Altre coppie di caratteri dànno valori variabili da meno del 1/2% a quasi il 50% di crossovers. Se si avesse esattamente il 50% di crossing over, i risultati numerici sarebbero gli stessi di quelli che si hanno con la libera distribuzione; se fossero più del 50%, i crossovers sarebbero più numerosi dei non crossovers. Si deve anche tenere conto di un altro fenomeno, che sarà descritto in seguito, che mantiene il valore del crossing over al disotto del 50% nella Drosophila, cioè il doppio crossing over.
Per la Drosophila si è osservato che il crossing over si presenta solo nella femmina e non nel maschio. Gli esperimenti descritti furono fatti in modo da rivelare il crossing over nella femmina, poiché fu usato un maschio della Fi doppiamente recessivo. L'assenza del crossing over nel maschio in rapporto ai risultati geneiici può essere illustrata da un altro incrocio in cui sono in giuoco caratteri autosomici.
Se una mosca nera, con ali vestigiali (ambedue caratteri recessivi del secondo gruppo) è incrociȧta con una mosca grigia, ad ali lunghe, i maschi della F1 sono grigi con ali lunghe. Se invece un maschio della F1 è incrociato con una femmina doppiamente recessiva, nera con ali vestigiali, metà della F2 è nera ad ali vestigiali, l'altra metà grigia ad ali lunghe. I caratteri legati passati nel niaschio sono ricomparsi nella F2 e non vi è crossing over. Si può dire che questi due caratteri nel maschio siano completamente legati, mentre nella femmina si ha il 17% di crossing over nella F1. Questa differenza nei due sessi rispetto al crossing over, non è affatto un fenomeno generale. Nei topi, nei pesci, nelle cavallette e in parecchie piante il crossing over ha luogo in ambedue i sessi all'incirea con la stessa percentuale. Al contrario, in un tipo (polli) con formula WZ-ZZ per il meccanismo sessuale, il crossing over avviene fra i due Z del maschio e non fra il W e lo Z della femmina. Non si sa però quello che avviene negli autosomi di questo tipo.
I risultati su riferiti non dimostrano che nel crossing over gli scambî interessano grandi serie di geni o, il che è lo stesso, lunghi tratti dei due cromosomi; mentre i dati dimostrano esplicitamente che, quando lo scambio avviene, ha luogo allo stesso livello dei due cromosomi e fra due coppie di geni vicini. Se ciò non avvenisse, si potrebbe supporre che i cromosomi omologhi fossero di lunghezza diversa e contenessero serie differenti di geni. Altre prove dimostrano che, se ciò fosse, gl'individui sviluppatisi da tali serie quasi sempre morirebbero; se si verificassero delle irregolarità sarebbero corrette in tempo; ma tali irregolarità debbono essere rarissime, quasi eccezionali.
La prova che estese serie del gruppo di linkage si scambiano ci è fornita dallo studio di incroci nei quali vi sono più coppie di geni legati o dove i cromosomi sono contrassegnati, come si suol dire, per tutta la loro lunghezza. Per esempio: se un cromosoma di un ibrido contiene i geni A B C D E F G H e il cromosoma omologo i geni allelomorfi a b c d e f g h, quando lo scambio (crossing over) ha luogo tra
si troverà che nei varî casi esso è avvenuto a livelli diversi fra queste coppie, come è dimostrato dalli altri indicatori. Così un crossover può essere A B C D e f g h e il suo omologo a b c d E F G H; in altre parole, il crossing over è avvenuto fra
In altre cellule germinali lo scambio può verificarsi ad un altro livello, per es. fra
dando A B c d e f g h, e a b C D E F G H, ecc. Perciò il crossover ottenuto nella F2 rispetto a
può essere molto diverso per gli altri geni (se sono presenti coppie differenziali) ma ciascuna delle due nuove serie di geni (cromosomi) conterrà pur sempre un completo complemento di geni: il numero totale di geni in ogni cromosoma rimane invariato dopo il crossing over.
Contrassegnando più regioni di una coppia di cromosomi, si può dimostrare anche un altro fenomeno, importante per la genetica, cioè il doppio crossing over, uno scambio che avviene simultaneamente a due livelli. Così quando il crossing over avviene tra
e contemporaneamente fra
i due cromosomi che ne risultano saranno A B C d e f GH e a b c D E F g h.
L'evenienza del doppio scambio tra una coppia di cromosomi in una regione non contrassegnata introduce nei risultati un fattore che deve essere accuratamente controllato, poiché quando ciò accade l'ammontare totale del crossing over fra i due livelli in questione non figura nei risultati della F2. Un esempio servirà a chiarire le cose: se si registra il crossing over fra
senza contrassegni intermedî, ogni singolo crossover dà Ah e aH, ma non rimane traccia sui doppî crossovers, poiché, quando il crossing over si ripete due volte, le due estremità dei cromosomi rimangono quali erano prima, cioè AH e ah. In altre parole: il numero apparente degli scambî constatabile nella F2 non dà sempre la misura esatta di tutti i crossing over avvenuti. Ciò può non sembrare importante per sé stesso, poiché i risultati di uno scambio fra due coppie saranno sempre gli stessi (in quanto il crossing over è un fenomeno regolare); ma quando il crossing over deve servire come mezzo per localizzare i geni nei gruppi di geni associati, allora il doppio crossing over diventa importante ed è necessaria una correzione che ne tenga conto; oppure i loci debbono essere determinati da esperimenti fatti in maniera che le distanze fra i geni siano tanto piccole che un doppio crossing over non possa aver luogo.
La localizzazione dei geni nei cromosomi si deduce da due elementi: l'ordine lineare dei geni e la possibilità di un crossing over, con la medesima frequenza a qualsiasi livello. La dimostrazione di queste due condizioni deve esser fatta con molta accuratezza, poiché dalla sua validità dipende una questione fondamentale per la genetica, la costituzione del patrimonio ereditario. Supponiamo che due coppie di geni
diano l'1% di crossing over e che una terza coppia esaminata,
dia con
il 2% di crossing over. In tal caso si avrà che
darà con
o il 3% (I) o l'1% (II). Sono queste le possibili posizioni relative di punti lungo una retta; poiché, se l'ordine dei tre loci è
allora, se la distanza fra
è 1 e fra
tra
sarà 3. Ma se invece l'ordine è
essendovi tra
la distanza 1, e fra
la distanza 2, quella tra
dovrà essere 1.
Queste relazioni dànno la maniera di determinare la posizione di qualsiasi nuovo gene che appare in un gruppo di geni associati rispetto a tutti gli altri geni, stabilendo la percentuale di crossing over di tal gene con altri due qualsiasi geni del gruppo. Si debbono fare però alcune riserve a questo riguardo. Il numero dei crossing over può essere influenzato da fattori esterni quali la temperatura o da condizioni inerenti ai cromosomi stessi, come la presenza di speciali geni, da alterazioni nella seriazione dei geni. È stato inoltre dimostrato che la probabilità del crossing over non è eguale per tutte le regioni del cromosoma. Perciò, mentre i valori numerici attuali possono essere costanti, non debbono essere considerati come espressione di distanze assolute. Queste necessarie restrizioni non tolgono valore al principio generale, ma consigliano di essere cauti nell'applicarlo. Si tratta infatti d'una correzione simile a quella che occorre fare in tutte le misure fisiche. L'effetto del doppio crossing over sulla determinazione della posizione dei geni si deduce da quanto è stato detto. Quando avviene un doppio crossing over fra due loci, vi sono due crossings non registrati, epperò il valore del crossing over che indica la posizione reciproca fra questi due loci è inferiore al valore ricavato da tutti i crossovers che costituiscono la base per la localizzazione. Per esempio, se il valore ottenuto per
è 40, il valore reale, ricavato da esperimenti in cui i loci siano così vicini fra loro da rendere impossibile o trascurabile il doppio crossing over, può essere 75 o più. Ciò può dimostrarsi con esperimenti su cromosomi contrassegnati da cui risulti che il numero dei doppî crossovers rende conto esattamente della differenza tra valori come 40, se si considerano solo i geni terminali, e 75, quando tutto il crossing over è registrato.
In base al procedimento ora indicato, sono state costruite tavole dei gruppi di cromosomi della Drosophila melanogaster e di altre specie di Drosophila. Si stanno costruendo anche alcune tavole simili per altri animali e piante. Finora la più completa per le piante è quella di Zea mais. Nella Drosophila melanogaster, il cromosoma X è lungo 70 unità, il cromosoma II 107, il cromosoma III 106, il cromosoma IV circa 1. Per mezzo di tali tavole, la posizione di qualunque nuovo gene che appaia può essere determinata rapidamente trovandone la relazione con due geni vicini. Così i suoi rapporti genetici con tutti gli altri geni possono essere preveduti con una precisione pari a quella fornita dalla seconda legge del Mendel.
Le relazioni tra i cromosomi esistenti e il crossing over non sono state ancora determinate in modo soddisfacente, sebbene la prova genetica non lasci alcun dubbio sui cambiamenti che avvengono, e in ciò l'esperimento genetico è andato molto più avanti delle osservazioni citologiche. Tuttavia l'osservazione microscopica degli stadî di maturazione dei cromosomi indica chiaramente il verificarsi, in realtà, di alcune condizioni richieste dai risultati degli esperimenti genetici. È stato osservato che nel periodo della sinapsi i cromosomi prendono la forma di lunghi fili; quelli di una coppia omologa si accostano l'uno a fianco dell'altro e la loro unione diventa così intima da farli sembrare fusi in un cromosoma unico. Diversi osservatori hanno riferito che i due cromosomi possono in questo momento attorcigliarsi l'uno sull'altro. Lo stesso fatto è riferito in sostanza da altri osservatori, quando descrivono una sovrapposizione dei cromosomi (fig. 12). Si è potuto inoltre constatare che, per lo meno in alcuni casi, vi sono contemporaneamente quattro cromosomi derivati dal fatto che ciascuno dei cromosomi in coniugazione si è diviso nel senso della lunghezza (fig. 13). In base a osservazioni di tal genere F. A. Janssens nel 1908 tentò di dimostrare il verificarsi di scambî (crossing over) fra due almeno dei quattro cromosomi, fenomeno che egli chiamò chiasmatipia. L'osservazione diretta della rottura e della riunione delle estremità dei cromosomi è impossibile; ma siccome i cromosomi in coniugazione cominciano ad allontanarsi l'uno dall'altro nella prima divisione di maturazione, il Janssens ritenne di avere sufficienti indizî per affermare che uno scambio doveva esserci stato. La natura essenziale di un tale scambio è illustrata dalla fig. 13. Se indichiamo le strisce (cioè i cromosomi suddivisi) con aa, a′a′, bb, b′b′, dopo il crossing over esse saranno rispettivamente aa, bb, a′b′, ba′: fra le prime due coppie non v'è stato il crossing over, che si è invece verificato fra le altre due. Alla prima divisione due cromosomi, aa e b′a′, per es., vanno a un polo e due al polo opposto (bb e a′b′). Ne risultano quattro gameti: l'uovo e i tre globuli polari in un caso, quattro spermî nell'altro. L'uovo può contenere una delle quattro combinazioni; saranno quindi possibili quattro sorta di uova. Ogni spermio conterrà anch'esso una delle quattro sorta di cromosomi. Così si realizzano le condizioni che conducono al risultato dell'esperimento genetico.
Come si è detto, l'interpretazione del Janssens non è stata in generale accettata dai citologi stessi, e manca tuttora una sicura conferma del fenomeno. È stato posto in rilievo, ad es., che l'attorcigliamento dei cromosomi, ammesso da quasi tutti gli osservatori, può essere constatato chiaramente dopo l'accorciamento, ma non costituisce di per sé stesso una prova che l'attorcigliamento sia in atto quando i cromosomi sono completamente allungati durante la sinapsi (come filamenti leptoteni), ma potrebbe essere piuttosto conseguenza del processo stesso di accorciamento. Inoltre, il persistere dell'unione fra le coppie di filamenti alle loro estremità, dopo che esse si sono allontanate nel mezzo, non costituisce in alcun modo, come vorrebbe il Janssens, una prova convincente che le coppie di filamenti affiancati rappresentino realmente le metà originarie di uno stesso filamento. Tuttavia, rimane il fatto importante che, se i cromosomi sono i portatori dei geni, le modalità della maturazione sono tali da facilitare gli scambî che gli esperimenti genetici dimostrano dover avvenire; e anche se i particolari del processo ci sfuggono, sarebbe follia, soltanto perché la dimostrazione citologica non è completa, non voler considerare il fenomeno della coniugazione dei cromosomi come il migliore meccanismo ammissibile per dar luogo al crossing over.
Caratteri mutanti e genetica.
Molti dei caratteri presi in considerazione dagli studiosi di genetica si sono originati per mutazione, alcuni negli allevamenti di linee pure, altri scoperti per caso. Per gli animali domestici e per le piante coltivate si crede che molti caratteri siano sorti per mutazione e siano stati conservati in considerazione del loro valore ornamentale o economico. Non abbiamo alcuna prova sicura che un carattere, una volta comparso, si possa dimostrare come dovuto a una mutazione; ma poiché quei mutanti che compaiono nella discendenza di linee pure ci presentano la separazione mendeliana e poiché, praticamente, tutti i caratteri nuovi manifestati da piante coltivate e da animali domestici seguono la medesima regola, si può ritenere come certo che essi comparvero la prima volta come mutanti. Occasionalmente sorgono dunque in natura e improvvisamente individui con caratteri nuovi (albini, tipi melanici, ecc.) e ogni qualvolta si sono analizzati geneticamente, hanno dato i rapporti mendeliani. Non vi può essere perciò alcun dubbio che la mutazione sia un fenomeno molto comune; e poiché il comportamento genetico dei caratteri dei mutanti si può spiegare con l'ipotesi dei geni, è ragionevole supporre che ogni carattere mutante sia dovuto a qualche cambiamento avvenuto in un determinato punto di un cromosoma (locus). La possibile natura di tali cambiamenti sarà discussa in seguito. Ogni gene mutato si comporta come un allelomorfo di fronte al gene originario immutato. Così nella Drosophila vi sono circa 50 mutazioni del colore dell'occhio, tutte allelomorfiche dell'occhio rosso della specie selvatica; ma, naturalmente, il tipo naturale normale allelomorfo ha in ciascun caso un locus diverso. Ciò significa che un certo cambiamento in uno qualsiasi di questi 50 loci produce una modificazione del colore dell'occhio (e in molti casi interessa anche altre parti). Sarebbe erroneo tuttavia affermare che questi 50 loci nel tipo selvatico siano in relazione solo con la produzione del colore rosso dell'occhio. Si può dire soltanto che, dopo il cambiamento in questione, l'effetto maggiore del gene mutato si ha sul colore dell'occhio. Quasi tutte le mutazioni le cui origini sono definitivamente conosciute derivano direttamente da cambiamenti in un gene del tipo selvatico, sebbene naturalmente gl'individui possano appartenere attualmente a un ceppo che mostri già uno o più caratteri in qualche altra parte del corpo o anche nella stessa parte. Si conoscono ben pochi casi in cui un gene mutante muti di nuovo. Questo fatto potrebbe essere interpretato ammettendo che il processo di mutazione sia un evento talmente raro che vi sia molto maggiore probabilità che avvenga in uno dei numerosissimi geni presenti, in un gene particolare, sia esso del tipo mutante o selvatico; oppure che il processo di mutazione sia di natura tale da precluderne un altro nello stesso locus (v. oltre, dove si discute della presenza e assenza). Il numero, sia pure approssimativo, di geni delle varie specie ci è ignoto, ma nella Drosophila H. J. Müller e T. H. Morgan hanno tentato di stabilirne i limiti; sembrerebbe che il gene possa avvicinarsi, come limite massimo, alla grandezza della molecola organica più voluminosa che si conosca.
Una mutazione può comportare alterazioni assai profonde di un carattere, quali la perdita completa degli occhi o delle ali, oppure un cambiamento così piccolo da rientrare nei limiti della variabilità ordinaria del carattere in questione. In quest'ultimo caso la mutazione può essere messa in evidenza soltanto paragonando una popolazione d'individui del tipo originario con una del nuovo tipo, quando la curva di frequenza risulterà diversa nei due casi.
Le mutazioni erano conosciute da tempo. Casi come quelli del cane girarrosto, dell'ariete Ancon, dei fiori pelorici, ecc., sono esempî tipici. Si supponeva un tempo che tutte le mutazioni fossero mostruosità, epperò ebbero poca parte nelle discussioni intorno alla funzione della variabilità nell'evoluzione: ma ora, avendo le ricerche moderne dimostrato che praticamente tutte le variazioni ereditabili conosciute possono essere sorte come mutazioni, e che molte fra queste implicano piccoli cambiamenti in un dato carattere, le mutazioni hanno cominciato ad essere considerate più seriamente come fattori di evoluzione. Il De Vries è stato il primo (1901) ad elaborare una siffatta dottrina, sebbene la base della sua argomentazione non sia proprio quella su cui si fondano generalmente oggi i mutazionisti. Il De Vries ammetteva che animali e piante fossero costituiti di caratteri-unità, ciascuno dei quali ha un rappresentante nel plasma germinale. Le varietà affini fra di loro, che egli identifica con le specie elementari, contengono le stesse unità diversamente combinate. Esse differiscono in uno o più di questi caratteri. Quando una singola unità del plasma germinale si modifica, tutte le parti dell'individuo risultante possono essere influenzate. Difatti le specie elementari possono non essere identiche in tutte le loro parti anche se differiscono per una sola unità del plasma germinale. Il De Vries aveva, per un decennio, fatto molti esperimenti sull'Oenothera lamarckiana. Questa pianta, originatasi da piante importate in Europa dall'America Settentrionale e coltivata come pianta da giardino, si era diffusa allo stato selvatico in Olanda e altrove. Come specie selvatica non è stata trovata in America. Più probabilmente è un ibrido fra altre specie, alcune delle quali si conoscono allo stato selvatico. Il gran numero di mutanti che questa specie continuamente produce, induce a ritenere che si tratti veramente di un ibrido e che i mutanti rappresentino soltanto ricombinazioni di geni. Ma se la pianta è un ibrido, le sue mutazioni non avvengono nello stesso modo con cui si producono i caratteri mendeliani degl'ibridi. Si è trovato inoltre che parecchie altre specie selvatiche nordamericane dànno gli stessi risultati. Ulteriori lavori hanno infatti dimostrato che questo gruppo è unico sotto varî aspetti. Si sa ora che alcuni tipi mutanti descritti dal De Vries sono da attribuirsi ad anomalie cromosomiche, come la tetraploidia, eteroploidia, ecc., e altre forse a fattori letali equilibrati. Si conoscono anche per l'Oenothera lamarckiana, come pure per altre specie, alcune poche mutazioni d'un solo gene, che giustificano il modo di vedere del De Vries, in quanto si riferisce a modificazioni di un gene per volta. Inoltre si conoscono oggi migliaia di casi di varietà (mutanti) che differiscono per un solo gene, e corrispondono pertanto, sotto molti aspetti, se non completamente, alla definizione data dal De Vries delle specie elementari; ma se poi queste varietà debbano essere interpretate come inizio di nuove specie, è una questione che deve essere seriamente discussa. Infatti la maggior parte degli studiosi di genetica non accettano tale opinione senza riserve e non osano considerare ogni mutante come una specie elementare, sebbene alcuni genetisti inclinino ad attribuire l'origine della specie a mutazioni. Il problema dell'origine della sterilità fra le specie linneane e del significato della sterilità degl'ibridi è ritenuto da alcuni troppo grave per permettere che i tipi mutanti - almeno quali ora si conoscono - siano definitivamente ritenuti stadî di evoluzione di nuove specie.
Senza voler approfondire tali difficili questioni, accenniamo qui a un altro problema. È un fatto di comune osservazione che molti tipi mutanti sono dovuti a perdite di caratteri, come la perdita del colore, degli occhi, delle ali, delle setole. In linea generale si può dire che la maggior parte di essi difetti in un modo o nell'altro, intendendosi dire con ciò che il cambiamento li pone in una situazione svantaggiosa di vita e di riproduzione di fronte al tipo selvatico. Fu senza dubbio la perdita di un carattere che nei primi tempi del mendelismo fece nascere l'idea che tale perdita corrispondesse a una perdita nel plasma germinale. Ne nacque l'ipotesi (W. Bateson e R. C. Punnet), che l'allelomorfo dominante rappresentasse la presenza di un gene e il recessivo la perdita del gene stesso, formando così una coppia mendeliana. L'argomento di per sé stesso è alquanto ingenuo e la sua base apparentemente logica può essere completamente erronea, in quanto dipende da una relazione che si suppone esista fra gene e carattere. Un'obiezione ovvia contro tale interpretazione è costituita dall'esistenza di mutanti dominanti del tipo selvatico. Per eliminare questa difficoltà, si ammise che, per la perdita di certi geni, un altro gene del tipo selvatico divenisse dominante rispetto al gene primitivo. Ma la difficoltà più seria della teoria della presenza ed assenza, come è sostenuta specialmente dal Bateson, è ch'essa ammette due classi nettamente distinte, rispettivamente l'una dominante e l'altra recessiva. Tale arbitraria distinzione non è applicabile ai fatti, poiché il carattere dell'ibrido spesso mostra l'influenza di ambedue i geni. Mentre questa è una valida obiezione all'ipotesi formulata in principio, essa non viene necessariamente a infirmare un'interpretazione più larga della funzione dei geni. Si può ben supporre che ogni gene produca il suo risultato finale in collaborazione con alcuni o molti altri geni, o addirittura con tutti gli altri geni. Quando due geni allelomorfi sono assenti (recessivi puri), qualche carattere (o parecchi caratteri) è influenzato entro limiti in cui i geni mancanti (i due dominanti) contribuivano al carattere originale (del tipo selvatico). Se soltanto uno dei componenti della coppia è assente, il carattere può differire per quanto il gene contribuisce al risultato, cioè il carattere può essere meno sviluppato che non nel tipo selvatico, ma più che nel recessivo puro. Anche la dominanza può essere interpretata come dovuta alla perdita di un gene inibitore, perdita che permette agli altri geni di produrre effetti diversi da quelli prodotti prima. Si potrebbe addurre a favore di quest'ultima ipotesi il fatto che fra i mutanti della Drosophila ve n'è una categoria, detta dal Bridges di deficienza, in cui una breve regione del cromosoma genetico sembra perduta o assente, ma solamente nel senso che nell'eterozigote una regione intatta di geni portatrice di recessivi, dia il carattere recessivo o qualche cosa di molto simile, quando viene ad opporsi alla regione deficiente. Si potrebbe anche sostenere che, quando il piccolo cromosoma IV manca in un individuo di Drosophila, vengono ad essere modificati diversi caratteri di questo individuo aploide IV, e se l'altro cromosoma IV presente porta dei geni recessivi, questi divengono visibili. Si potrebbe citare a questo proposito anche il cromosoma Y (v. più avanti). Si deve pertanto ammettere che alcune o molte fra le caratteristiche mutanti più comuni possano essere interpretate come dovute in un certo senso all'assenza di geni. D'altra parte alcune considerazioni ci fanno dubitare se sia desiderabile estendere questa ipotesi a tutti i casi di mutazione.
La vacuità del cromosoma Y della Drosophila è tale soltanto per modo di dire. Il cromosoma Y si comporta come un cromosoma normale sotto tutti gli aspetti, eccetto che nei suoi rapporti col gene recessivo del cromosoma X. Esso si divide e si coniuga col suo omologo (X) nel processo di riduzione; non lo si può pertanto trascurare; tutt'al più si può dire che i suoi geni, se presenti, sono talmente ridotti da non avere alcuna influenza sui geni recessivi noti dei cromosomi X. La sua presenza è necessaria per la produzione di uno spermio normale ed esso porta per lo meno un fattore che agisce come l'allelomorfo normale di un carattere mutante celato nel cromosoma X. Alcuni fatti sembrano indicare che le regioni deficienti che si trovano in altri cromosomi possano non essere dovute esclusivamente a completa assenza, ma a qualche cambiamento nei geni analoghi alla condizione del cromosoma Y. È vero che non v'è crossing over tra l'X e l'Y e nemmeno in una regione deficiente, ma è provato che cromosomi con regioni deficienti dànno in altre regioni, i rapporti normali di crossover, che non si potrebbero aspettare se uno dei cromosomi della coppia fosse accorciato. È inoltre teoricamente probabile che qualsiasi modificazione nella composizione chimica d'un gene possa influire sul prodotto finale della catena di reazioni a cui questo gene partecipa. Sembra più probabile che un qualunque cambiamento nel plasma germinale debba in generale produrre sull'individuo effetti sfavorevoli anziché vantaggiosi, poiché, come risultato di un lungo processo evolutivo, ogni individuo si è andato intimamente adattando a un dato ambiente; qualsiasi fortuito cambiamento dovrebbe pertanto considerarsi come un difetto. L'opinione opposta, cioè che le variazioni in generale debbano essere considerate come vantaggiose, deriva da una concezione mistica, da cui la speculazione biologica ha durato gran fatica ad emanciparsi. L'evoluzione si è compiuta lentamente attraverso modificazioni del materiale ereditario; tali modificazioni possono essere eventi relativamente più rari delle ordinarie mutazioni; ma possono tuttavia essere mutazioni. Finché non avremo maggiori conoscenze sulla natura dei geni e sulle modificazioni chimiche che in essi avvengono, sia distruttive sia costruttive, sembra saggio astenersi da alcuna interpretazione particolare.
La possibile influenza dell'ambiente come causa di mutazioni è stata spesso discussa e molti tentativi si sono fatti per produrre effetti specifici, col sottoporre individui a condizioni estreme. In generale non si sono ottenute mutazioni che rivelassero una relazione specifica con gli agenti adoperati. Sta di fatto che le mutazioni appaiono in generale sporadicamente e con ogni probabilità sono sempre il risultato di un qualche cambiamento in una cellula germinale, indizio di qualche accidente avvenuto nel delicato meccanismo con cui si compie la divisione cellulare. Ma questo, d'altra parte, non è inconciliabile con la possibilità di altre e più complesse modificazioni nella struaura chimica del gene stesso.
L'ipotesi rapidamente accolta con tanto fervore sotto il nome di lamarckismo (v. evoluzione), secondo la quale le mutilazioni del corpo d'un individuo o le favorevoli modificazioni indotte nella sua attività si trasmetterebbero ai geni influenzandoli in modo che nella generazione successiva essi producano la medesima modificazione nella prole, è stata spesso verificata sperimentalmente, ma non è stata mai dimostrata in modo soddisfacente, come si è varie volte affermato. Questa interpretazione teorica del nesso fra geni e caratteri non s'accorda con ciò che le moderne ricerche di genetica ci hanno rivelato e la storia del lamarckismo dimostra chiarameme come questa dottrina si sia sempre aggirata nel campo del mistero.
Vi sono, è vero, alcuni casi nei quali un cambiamento nell'ambiente sembra determinare una tendenza a mutazioni specifiche, fra cui le più caratteristiche sono i tipi melanici, che sembra compaiano in alcune farfalle (Selenia e Taphrosia), sotto l'azione di alcuni agenti, con frequenza maggiore che non nelle condizioni normali. Il Harrison riferisce che, alimentando i bruchi di queste farfalle con foglie spruzzate di nitrato di piombo o solfato di manganese in soluzione al 0,1%, ottenne alcuni individui di tinta più oscura, che trasmisero fedelmente questa colorazione alle successive generazioni. Dato che questo risultato non sia accidentale, l'interpretazione più probabile è che le sostanze velenose usate abbiano agito sul plasma germinale. Notevoli effetti si sono ottenuti negli ultimi anni sottoponendo animali e piante all'azione dei raggi X. Ma mancano prove sicure per ritenere che gli effetti siano specifici, nel senso che una data dose produca sempre medesimi effetti; sembra piuttosto che gli effetti siano per la maggior parte distruttivi. Prescindendo dalle proliferazioni neoplastiche dovute a ustioni da raggi X, la comparsa di mutanti è stata segnalata per le piante dal McDougall, per i topi da Bagg e Little, per la vespa Habrobracon e, più recentemente su più vasta scala, dal Müller in Drosophila. Alcuni di questi mutanti sembrano dovuti a deficienza o lesioni dei cromosomi; altri allo spezzarsi o anche a fusione di cromosomi e altri ancora sono simili a mutanti conosciuti come mutanti per difetto (point-mutants). Potrebbe sembrare che quest'ultima classe sia pure da attribuirsi a lesioni dei cromosomi (mancanza dei loci), ma nulla può affermarsi se prima non si avranno ragguagli più precisi circa i loro rapporti con gli altri tipi. Sembrano frequenti i casi in cui metà o parti di cromosomi si uniscono ad altri cromosomi, formando nuovi gruppi associati (Mu̇ller, Dobzhansky). In questi casi i risultati degli esperimenti genetici corrispondono bene a modificazioni visibili dei cromosomi, e osservabili nei preparati microscopici.
L'ereditarietà del sesso.
Mentre è stato dimostrato in numerosi casi che la determinazione del sesso in animali e piante dipende dalla distribuzione dei cromosomi sessuali, non si può affermare rigorosamente che il sesso sia ereditato nel senso che vi siano geni specifici per questa particolare funzione. Finora, per lo meno, nessun gene è stato scoperto neanche nella Drosophila, dove tutto il cromosoma X è stato esaminato. È certo che se anche tali geni vi fossero, sarebbe difficile scoprirli, poiché si troverebbero allora in ambedue gli X e il crossing over non produrrebbe alcun effetto visibile. Solo nel caso di avvenuta mutazione di un gene sessuale sarebbe possibile constatarne la presenza. D'altra parte, la relazione esistente fra í cromosomi X e gli autosomi offre un valido argomento per ammettere che il sesso d'un individuo dipenda da un dato equilibrio fra i geni dei cromosomi X e quelli degli autosomi. La conferma sperimentale di questa supposizione ci è data da alcuni fatti scoperti dal Bridges nella Drosophila, oltre che da prove indirette in altre specie. Nella Drosophila, la femmina diploide è 2A + 2X, e lo stesso rapporto si trova nella femmina triploide 3A + 3X, e in quella tetraploide 4A + 4X. Il maschio diploide è 2A + X, quello tetraploide 4A + 2X. Quando il numero degli autosomi è aumentato come in 3A + X, l'individuo è un supermaschio; ma quando la proporzione è differente, come in 3A + AX, l'individuo è in parte maschio e in parte femmina, con alcuni caratteri maschili, altri femminili. Si può supporre che i cromosomi X contengano in maggior quantità quelle sorta di geni che producono una femmina, e il resto dei cromosomi contenga in maggior quantità quei geni che producono un maschio. I gameti stessi non sono né maschi né femmina, ma portatori dei cromosomi che dànno l'una o l'altra combinazione che determina il sesso. Nella Lymantria dispar si sono ottenute alterazioni del rapporto sessuale incrociando specie differenti. R. Goldschmidt ha riscontrato che quando il maschio di una certa razza giapponese di questa farfalla è incrociato con una femmina di una razza europea, figli e figlie sono prodotti in egual numero, ma quando l'incrocio si fa in senso inverso, i figli sono normali, le figlie invece sono femmine intersessuali, cioè più o meno simili a maschi. In altri incroci fra altre razze europee e giapponesi di questa farfalla, altre modificazioni sono state riscontrate dal Goldschmidt; in alcune combinazioni le figlie sono tutte cambiate in maschi, in altre i figli in femmine. Uno studio delle varie combinazioni ha condotto il Goldschmidt all'opinione che in queste razze il rapporto fra i fattori che producono il carattere maschile e quelli che dànno il carattere femminile (presumibilmente geni portati dai cromosomi o dal citoplasma) presenta valori che egli ritiene quantitativamente diversi. I fattori femminili, suppone il Goldschmidt, si trovano nel citoplasma (FF), o anche nel cromosoma W, poiché in alcune combinazioni le uova sono determinate. La disposizione a mosaico dei caratteri sessuali dipende, sempre secondo il Goldschmidt, dallo stadio di sviluppo in cui predomina l'influenza femminile o quella maschile. Così, se in una certa combinazione (ibrido) l'influenza maschile è più forte al momento in cui nell'embrione si formano certi caratteri sessuali, essi saranno maschili, mentre più tardi quando vengono ad avere il sopravvento gl'influssi femminili, i caratteri allora determinati saranno femminili. Il Goldschmidt constata che questa interpretazione va d'accordo con osservazioni da lui compiute nel momento in cui si sviluppano i caratteri della imago. Osservazioni simili sugl'intersessi della Drosophila fatte dal Dobzhansky hanno anche dato risultati favorevoli a questa ipotesi, sebbene altri caratteri non sembra che seguano la stessa regola.
Negli ultimi anni è stato studiato con grande attenzione il meccanismo di funzionamento del cromosoma sessuale in alcuni casi eccezionali, in cui si ha un'inversione del sesso. L'inversione del sesso può essere definita come un caso in cui un individuo avente la composizione cromosomica d'un maschio si sviluppa parzialmente o completamente in femmina, o viceversa. È importante tenere a mente che le formule ordinarie (XX-XY e WZ-ZZ) significano che il risultato ha luogo in un dato ambiente, che è quello in cui vive l'individuo. In altre condizioni ambientali, l'equilibrio normale può essere modificato. Si è visto da tempo che in alcune piante dioiche possono svilupparsi prima gli organi femminili (o maschili) e poi quelli maschili (o femminili). L'età della pianta rappresenta qui il fattore determinante. Qualsiasi modificazione dell'ambiente che abbia per effetto d'inibire l'ulteriore sviluppo potrebbe allora sembrare capace di trasformare la pianta ermafrodita in maschio o in femmina. In certe piante dioiche gli organi di uno dei sessi possono presentarsi allo stato rudimentale, e svilupparsi sotto determinate condizioni d'ambiente. In altre piante dioiche alcune modificazioni ambientali possono produrre l'inversione del sesso. Nella Cannabis sativa, per esempio, i semi, quando sono piantati sul principio della primavera, dànno piante maschili e femminili quasi in egual numero; ma se sono piantati in un terreno fertile e si cambia artificialmente il periodo della loro esposizione alla luce, si può produrre l'inversione del sesso tanto in una direzione quanto nell'altra, dipendentemente dall'esposizione alla luce. Un esame circa il comportamento dei gameti in casi d'inversione dimostra che il comportamento normale non è mutato, ma è stato soltanto mascherato da fattori esterni. Così se il maschio è XY e, invertito, produce organi femminili, i gameti maturi sono X e Y, e non solamente X come nella pianta di sesso femminile normale. Similmente se una femmina XX produce organi maschili, i granelli di polline sono tutti X, invece che X e Y, come nella pianta maschile normale. La dimostrazione in questo caso non è ancora proprio convincente, ma si conoscono altri casi in cui le cose vanno a questo modo. L'interpretazione di tali risultati è che, mentre il meccanismo interno che determina il sesso lo fa deviare in un senso o nell'altro sotto certe condizioni, sotto altre condizioni esterne può essere mascherato. Il fatto importante è che il meccanismo interno persiste anche dopo la trasformazione temporanea.
Il caso classico d'inversione del sesso negli animali è quello descritto (Giard, 1880) nel granchio, Carcinus moenas, quando il maschio, parassitato da un cirripede, la Sacculina, sviluppa caratteri esterni femminili. In questo caso le modificazioni fisiologiche indotte dal parassita producono l'inversione del sesso, almeno per quello che riguarda i caratteri sessuali secondarî. Altri casi simili sono stati riferiti fra gl'insetti. Una mosca del gen. Miastor si riproduce partenogeneticamente allo stato di larva (cacchione). Dopo diverse generazioni partenogenetiche, l'ultima generazione di larve può dare origine ad adulti maschi e femmine. Poiché certe linee di discendenza producono soli maschi altre sole femmine, è evidente, poiché gl'individui delle prime si riproducono per mezzo di uova, che essi divengono maschi allo stato adulto. In varî altri animali sembra che esistano ambedue le possibilità. In un anellide del gruppo dei Gefirei, la Bonellia (v.), è stato dimostrato che le larve liberamente natanti, se si attaccano alla proboscide della grossa femmina, rimangono piccole, e diventano maschi rudimentali; ma se la larva si fissa altrove diventa femmina.
In molti casi il sesso è in relazione con l'età dell'individuo. In certe specie di pesci gl'individui funzionano da maschi nell'età giovanile, da femmine nel resto della vita. In alcune specie di rane e rospi si verifica una serie complessa di condizioni. Vi sono razze di Rana temporaria, che si differenziano precocemente in maschi e femmine. In altre la trasformazione è più tardiva, specialmente per il maschio. Le giovani gonadi di questi futuri maschi sono da prima assai simili a quelle della femmina e contengono grandi cellule che sono state battezzate per uova. Al tempo della metamorfosi, alcune di queste gonadi si trasformano in testicoli, ma soltanto al primo o al secondo anno i maschi si differenziano completamente (Harms, Ponse, Witschi). Si è supposto anche che le grosse cellule del giovane maschio non siano uova, ma cellule madri degli spermatozoi molto sviluppate e precoci, e si è visto (Swingle) che in Rana catesbiana che attraversa un lungo periodo giovanile, queste cellule possono nel girino raggiungere gli stadî di maturazione con coniugazione dei cromosomi, ma negli stadî successivi si disfanno e vengono riassorbite. Nelle rane esiste una coppia di cromosomi sessuali; il maschio XY, la femmina XX. Talvolta si trovano rane adulte ermafrodite, nelle cui gonadi vi sono regioni ovariche e regioni testicolari; questi individui geneticamente sono femmine poiché le loro uova, se fecondate da sperma normale, dànno maschi e femmine; se lo sperma di un tale individuo ermafrodita feconda uova di una femmina normale, tutta la discendenza è femminile, il che dimostra che gli spermatozoi portano il cromosoma X. L' origine di questi ermafroditi si spiega: o ammettendo che le cellule dei testicoli contengano XX e gli spermatozoi maturi X, cosicché tutte le uova fecondate (X) divengono femmine; o che i testicoli dell'ermafrodita si siano originati da una cellula dove non è avvenuta la disgiunzione e quindi il cromosoma X è andato perduto. Questa cellula originò i testicoli o quella parte della gonade che rappresenta il testicolo, le cui cellule, raggiunti gli stadî di maturazione, produssero due classi di spermatozoi, l'una con X, l'altra senza. Si può supporre che questi ultimi degenerino in seguito alla mancanza dell'Y, o, se persistono e sono funzionanti, possano produrre ermafroditi; il Witschi ottenne questi tipi adoperando lo sperma d'un ermafrodito.
Nel rospo (Bufo) all'estremità anteriore del testicolo si trova una formazione simile a un ovario (organo del Bidder). Un organo simile, sebbene meno sviluppato, si trova all'estremità anteriore dell'ovario giovanile, ma in seguito scompare. L'asportazione del testicolo nel maschio produce lo sviluppo ulteriore dell'organo del Bidder il quale dopo due o tre anni diventa un ovario le cui uova giungono a maturazione (Guyénot, Harms, Ponse). Tanto il Ponse quanto il Harms hanno visto che queste uova, fecondate con sperma normale, producono maschi in numero doppio delle femmine. Se il rospo maschio è XY, c'è da aspettarsi che le uova derivanti dall'organo del Bidder debbano essere X e Y in egual numero. Se sono fecondate da spermatozoi normali (X e Y) daranno 1 XX + 2XY + 1YY: gl'individui YY probabilmente non si svilupperanno, e ne risulterà il rapporto di due maschi per una femmina.
Nei polli vi è un solo ovario funzionante, il sinistro, mentre quello destro è rudimentale. Se l'ovario sinistro viene asportato a un pulcino giovane, quello destro s'ingrossa, nuovo tessuto vi penetra da sotto e l'organo assume la struttura di un testicolo, in cui però non si sviluppano (?) cellule sessuali. Va ricordato che negli uccelli giovani sono presenti gli abbozzi tanto degli organi sessuali accessorî maschili quanto di quelli femminili (tube e dotti). Di questi abbozzi nella femmina se ne sviluppa una parte, quella del lato sinistro, nel maschio l'altra. Sembra che, dopo l'asportazione dell'ovario funzionante, gli organi accessorî dell'altro lato che erano rimasti rudimentali ricomincino a svilupparsi. Il meccanismo dei cromosomi sessuali nei polli (ZZ-WZ) agisce in maniera che una metà degli individui si sviluppano come maschi, l'altra metà come femmine; ma se si asporta l'ovario, le condizioni interne divengono tali da permettere agli organi maschili di procedere nel loro sviluppo, che la presenza dell'ovario nella femmina normale aveva inibito. La castrazione del giovane maschio invece non ha alcun effetto sull'ulteriore sviluppo dell'abbozzo dell'ovario.
Lo sviluppo degli organi sessuali secondarî dei polli (cresta, bargigli, sprone, penne falcate e del groppone) è sottoposto all'influenza degli organi sessuali. Se l'ovario della femmina è asportato o subisce un'alterazione patologica, la femmina sviluppa le penne secondarie del maschio, la cui formazione nella femmina normale è inibita da sostanze emesse dall'ovario. L'asportazione del testicolo nel maschio non produce invece nessun cambiamento nel carattere delle penne, ma soltanto ne esagera le caratteristiche; la cresta e il bargiglio si riducono invece alla grandezza che è loro propria nella femmina. In questo caso il testicolo segrega alcune sostanze (ormoni), che producono l'aumento delle dimensioni della cresta e del bargiglio. Così in ambedue i casi l'effetto normale dei fattori sessuali (ZZ o ZW) è di dar luogo allo sviluppo d'un ovario o d'un testicolo. E questi organi poi a loro volta determinano soppressioni o addizioni di caratteri sessuali secondarî.
Gruppi di cromosomi e distribuzione dei geni in specie affini.
Se varietà e specie affini sono prodotti dello stesso numero e delle stesse qualità di geni differentemente combinate, poco importerebbe che questi geni fossero riuniti in un numero più o meno grande di cromosomi. Ma se invece in una varietà vi fossero pochi cromosomi e in una varietà affine ve ne fossero molti, il comportamento ereditario di geni identici sarebbe diverso, in quanto certe coppie, indipendenti in un caso, potrebbero essere legate insieme nell'altro. Conosciamo oggi il numero di cromosomi in molte specie di animali e di piante. In linea generale si può dire che le specie affini hanno lo stesso numero di cromosomi, o per lo meno un numero non molto diverso; vi sono tuttavia molte eccezioni alla regola; una delle più comuni è la presenza di gruppi multipli in specie affini. In alcuni generi polimorfi, quali il biancospino, le more, esistono serie poliploidi di cromosomi, e in un gran numero di tipi selvatici e coltivati si conoscono gruppi triploidi, tetraploidi, esaploidi (acero, canna da zucchero, carice, papaveri, lattuga, ecc.). Alcune per lo meno di queste serie sembrano essere multipli dello stesso gruppo fondamentale o aploide, come vogliono indicare i nomi di triploide, tetraploide, ecc. In alcuni pochi casi, dove negli allevamenti di linee pure sono comparsi gruppi multipli (Drosophila, Datura), è stata dimostrata l'esistenza di questi tipi molteplici e in un certo numero di altri gruppi la cosa è probabile per il modo nel quale i cromosomi si uniscono durante la coniugazione. In un solo gruppo di specie (quelle della Drosophila) sono stati esaminati geni mutanti in numero sufficiente da permettere un confronto fra i grumi di cromosomi e la distribuzione dei geni. E propriamente in due sole specie (D. melanogaster e D. simulans) il confronto ha fornito una dimostrazione soddisfacente. In queste due specie, che hanno identici gruppi di cromosomi, si è visto che ogni coppia è composta di geni della stessa specie, disposti nella massima parte nello stesso ordine. L'ordine può anche essere invertito in certe regioni, il che è assai significativo, poiché anche nella Drosophila melanogaster si sono avuti alcuni casi in cui in un breve tratto di cromosoma l'ordine dei geni è invertito. Questi fatti sono sufficienti a dimostrare che i confronti tra cromosomi di gruppi diversi, anche fra quelli di specie "affini", sono pericolosi, sempre che non si sia studiata la distribuzione dei geni.
È noto che nella Drosophila i cromosomi possono unirsi a formare unità doppie, le quali persistono nelle successive divisioni cellulari durante la maturazione. In un caso, per esempio, i due cromosomi X si sono uniti fra loro all'estremità dove si attacca la fibra del fuso mitotico. Una femmina così costituita darà un nuovo tipo di eredità corrispondente ai geni portati dai cromosomi X. In altri casi il cromosoma II si è unito al cromosoma IV, riunendo così in un solo i due gruppi associati. In altri casi ancora il cromosoma II o il III si sono spezzati in due parti. A meno che non rimanga l'estremità di attacco di questi frammenti, essi vanno presto perduti. Risulta così necessaria la conoscenza del meccanismo di attacco, e un nuovo elemento finora trascurato deve essere preso in considerazione per poter speculare intorno alla formazione di nuovi gruppi di cromosomi da quelli preesistenti.
Tenendo presenti queste considerazioni, possiamo ora passare rapidamente in rassegna alcuni fatti che si riferiscono ai gruppi multipli. Il gruppo quadruplo o tetraploide (rappresentato con 4 n, la lettera n indicando il gruppo fondamentale aploide contenente un cromosoma di ogni sorta) rappresenta probabilmente una delle eventualità più frequenti nella formazione di gruppi multipli, non solo in natura ma anche nelle specie coltivate. Per alcuni casi si sa e per altri si suppone come si formi questo gruppo di cromosomi. Se, nella divisione di una cellula diploide, i cromosomi figli non sono portati ai poli del fuso, essi possono ricostituire un unico nucleo, che verrà così a contenere il numero tetraploide di cromosomi, numero che poi si conserverà in tutte le successive divisioni cellulari. Se ciò avviene in una cellula somatica, una regione corrispondente dell'individuo sarà tetraploide; se, invece, il caso si verifica nella linea germinale (o nella serie germinale meristematica d'una pianta), si produrranno elementi germinali tetraploidi in numero più o meno grande. Quando una cellula germinale tetraploide raggiunge lo stato di maturazione, i cromosomi omologhi si riuniscono o in coppie o in tetradi e, dopo la maturazione, le uova e gli spermatozoi che ne risultano conterranno il numero diploide di cromosomi, cioè il doppio di quello dei cromosomi presenti nelle cellule germinali ordinarie. Due di questi gameti diploidi unendosi nella fecondazione produrranno un individuo tetraploide, che può essere il capostipite di una razza tetraploide. Alcune particolarità di questi individui tetraploidi sono caratteristiche. Di regola gl'individui sono più grandi, o per lo meno sono più grosse le loro cellule. Ogni cellula porta 4 geni allelomorfi di ogni sorta, e, dal momento che il rapporto dei geni rimane invariato, anche i caratteri ereditarî dell'individuo rimangono gli stessi, salvo a possedere cellule di dimensioni maggiori. Il comportamento genetico dei geni mutanti degli individui tetraploidi è complicato dalla presenza di quattro allelomorfi in luogo dei due soliti. Il fatto più interessante della tetraploidia, dal punto di vista dell'ipotesi evoluzionistica, è l'opportunità che essa offre di un aumento del numero dei geni, con la conseguente possibile formazione di nuovi allelomorfi. Se, come le prove genetiche che abbiamo sembrano indicare, nuovi geni si formano solo in seguito a modificazioni di quelli preesistenti, il numero totale di essi deve rimanere costante. D'altra parte, quando si forma un individuo tetraploide, si verifica un aumento improvviso del numero dei geni in quella varietà o specie, donde la possibilità di un'ulteriore elaborazione. Quale parte questo processo abbia avuto nell'evoluzione si può solo congetturare, ma esso ci offre un modo di sfuggire all'apparente dilemma che il numero dei geni riunitisi in gruppi di cromosomi non ha più avuto possibilità di aumentare. Il tipo triploide di regola non si riproduce se non accidentalmente in rari individui, poiché alla maturazione delle cellule germinali si producono molte irregolarità in seguito alla distribuzione erratica dei cromosomi. Solo le cellule germinali che ricevono un gruppo aploide o diploide sono funzionali. Per le ricerche genetiche gl'individui triploidi permettono di studiare alcuni problemi speciali, ma senza importanza per le teorie evoluzionistiche.
Vi sono pochi casi in natura in cui individui aploidi costituiscono una parte del ciclo vitale, o anche uno dei due sessi. Nelle api, nelle formiche e in altri imenotteri, il maschio è aploide, la femmina diploide; le uova presentano una riduzione regolare. L'uovo fecondato produce una femmina diploide, mentre le uova non fecondate si sviluppano partenogeneticamente in maschi aploidi. Il rapporto sessuale non è fisso in questo caso, ma dipende dal numero delle uova fecondate. Una femmina non fecondata darà il 100% di maschi; e poiché il maschio riceve il corredo cromosomico dalla madre, da questa soltanto erediterà i proprî caratteri. Anche in altri gruppi i maschi sono aploidi; così nei rotiferi e in alcuni emitteri. Nei muschi, nelle epatiche e in altri funghi si succedono due generazioni, una aploide, l'altra diploide, spesso alternatamente.
I gruppi cromosomici aumentano di numero non solo in seguito alla poliploidia, ma in casi speciali possono anche acquistare o perdere uno o più cromosomi. Tali casi fanno sorgere interessanti problemi genetici. L'assenza d'un cromosoma può essere talvolta dannosa fino al punto da impedire lo sviluppo dello zigote; ma in altri casi questo sopravvive, e i suoi caratteri allora possono essere profondamente modificati in varî modi. Viceversa l'aggiunta di un cromosoma può produrre molte piccole differenze nei caratteri dell'individuo, poiché l'equilibrio fra i geni ne viene modificato. A modificazioni simili erano dovuti alcuni fra i tipi mutanti dell'Oenothera riportati dal De Vries. Questi tipi eteroploidi di regola non si perpetuano senza aiuto artificiale, essendo talvolta poco vigorosi o sterili, o anche perché soltanto una metà delle cellule germinali contiene il cromosoma soprannumerario. È bensì vero che nei casi in cui vi sono due cromosomi in soprannumero, costituenti una coppia addizionale, il gruppo cromosomico può teoricamente perpetuarsi come tale; ma anche in questo caso il turbato equilibrio fra i geni può avere per conseguenza l'eliminazione del tipo aberrante. Non sembra dunque che in natura sia avvenuta spesso addizione o sottrazione di cromosomi per eteroploidia.
Applicazioni della genetica ad alcuni casi speciali.
La genetica ha risolto molti problemi tradizionali dell'eredità: ne menzioneremo qui brevemente alcuni.
Reversione (atavismo). - Da molto tempo si conosce la comparsa improvvisa del tipo originario o ancestrale in alcune specie domestiche. Il caso più comune è quello del colombo torraiolo azzurro che compare quando s'incrociano certe razze domestiche. Dall'incrocio fra certe razze bianche di polli (a cresta rosa × bianco seta) deriva il tipo selvatico con i suoi smaglianti colori (Gallus bankiva). Un topo nero incrociato con una certa razza di topo bianco può riprodurre il topo grigio del tipo selvatico. Due varietà diverse di piselli dolci bianchi possono dare il tipo selvatico porporino, ecc. La genetica ci fornisce una spiegazione semplice di questi casi. Per esempio: da un tipo selvatico può derivare un individuo bianco in seguito a una tale modificazione di un gene che lo rende non più atto a produrre il colore. Un altro tipo bianco può originarsi dallo stesso tipo selvatico in seguito alla modificazione di un altro gene originariamente essenziale anch'esso per la produzione del colore. Ciascuno di questi individui conserva gli allelomorfi dominanti normali del gene mutato dell'altro tipo. Quindi, quando le due specie di cellule germinali che producono il colore bianco si uniscono, ognuna di esse fornisce uno dei due geni dominanti del tipo selvatico, essenziali per la produzione del colore. La stessa spiegazione vale per tutti gli altri casi in cui ricompaiono tipi atavici o ancestrali. Si può certamente avere atavismo anche quando un gene mutato torna nuovamente al tipo originario selvatico, ma sembra che tali casi siano rarissimi.
Fattori multipli. - La genetica ha dimostrato che, mentre nel plasma germinale vi sono elementi (geni) che hanno un'influenza specifica su certi caratteri mutanti, ogni singolo carattere è il prodotto finale di una moltitudine di geni. Vi sono anche parecchi caratteri mutanti il cui sviluppo completo può dipendere dalla presenza di più geni. Si conoscono pochi casi di questo tipo, ma molti se ne sospettano. La statura nell'uomo e la produzione del latte nel bestiame dipendono da più geni che fanno aumentare (o diminuire) l'entità del carattere. Si è visto che ogni coppia di geni segue la legge mendeliana della disgiunzione. Un caso speciale di fattori molteplici è quello in cui un gene è essenziale per la produzione d'un carattere, mentre gli altri aumentano o diminuiscono l'effetto del gene principale. Il manto chiazzato dei ratti è dovuto a un gene recessivo, ma l'estensione delle zone nere a geni modificatori. Molti fattori multipli si trovano in "gruppi associati" separati, di altri si sospetta che facciano parte di uno stesso gruppo, e, se sono legati strettamente ad altri fattori dello stesso genere, può sembrare che agiscano come un fattore unico, finché un crossing over non li separi.
Eredità nell'uomo. - È naturalmente da aspettarsi che i caratteri fisici dell'uomo siano sottoposti alle leggi dell'eredità applicabili agli altri animali e alle piante, e si è infatti potuto constatare che così è. Il gene recessivo per il colore azzurro degli occhi, e il suo allelomorfo dominante per il bruno, si comportano come una coppia mendeliana. La cecità per i colori e l'emofilia seguono le leggi dell'eredità legata al sesso. La brachidattilia (cioè dita più corte per assenza di una falange) segue le leggi della dominanza. La statura, il colore della pelle e dei capelli sono dovuti a fattori multipli, il numero esatto dei quali è ancora ignoto. I quattro gruppi sanguigni umani si possono riferire a due coppie di geni o forse costituiscono una serie di tre geni allelomorfi. Numerose deformità seguono la legge della segregazione, così pure alcune forme di alienazione mentale. Si suppone perfino che certi tipi mentali (imbecilli, deficienti e altri) possano essere ereditarî, ma per ora non se ne hanno prove sufficienti; si ha ragione invece di supporre che alcuni effetti siano il risultato di deficienze ghiandolari accidentali o dovute a condizioni ambientali (malattia, inedia, mancanza di sufficienti vitamine, ecc.) o anche casi di fattori multipli non ancora analizzati nei loro fattori interni ed esterni. Lo stesso si può dire riguardo alla suscettibilità alle diverse malattie (tubercolosi, cancro, ecc.). Mentre è stato dimostrato chiaramente in altri animali e in piante che certe forme di suscettibilità sono ereditate proprio come le strutture somatiche, non si è potuto ancora nettamente assodare se le differenze di suscettibilità a certe malattie siano anche esse ereditarie nell'uomo, benché in alcuni casi ciò sembri molto probabile. Quando poi si passa alle differenze mentali ed emotive presentate dai diversi individui, mancano prove sufficienti per stabilire fino a qual punto esse siano dovute all'eredità o piuttosto a influenze subite dall'individuo, dalla nascita alla sua maturità. L'ambiente e l'educazione hanno tale importanza nello sviluppo dei caratteri mentali, morali e sentimentali che, in mancanza di dati misurabili per questi effetti diversi, ci è ancora ignoto quanto spetta alla natura e quanto alla nutrizione (in senso lato).
Fattori letali. - Dal momento che tanti tipi mutanti sono difettosi, non c'è da sorprendersi che alcuni di essi non arrivino a svilupparsi e che anche i gameti stessi quando contengano certi geni letali (gameti letali) non siano più capaci di funzione oppure muoiano. Siffatti geni possono modificare profondamente i rapporti delle classi sopravvissute. Un buon numero di geni dominanti sono letali se omozigoti, ma questa non è punto una caratteristica di tutti i mutanti per dominanza. Tali dominanti letali possono essere conservati facendo riprodurre eterozigoti, i quali dànno due dominanti (eterozigoti) per uno normale. Quando un gene letale è portato da un cromosoma X nel tipo XX-XY, una femmina che abbia un cromosoma con un gene letale e uno normale produrrà femmine in numero doppio dei maschi, poiché i maschi che vengono ad avere il cromosoma X letale muoiono. Vi sono anche altri fattori letali che uccidono i gameti o li rendono non funzionali quando vi penetrano dopo che si sono separati nell'eterozigote dall'altro allelomorfo normale, che ha mantenuto in vita la cellula fino a questo stadio. Questi fattori letali gametici alterano pertanto i rapporti mendeliani, eliminando alcune classi di cellule germinali. L'effetto si manifesta evidente, quando il fattore letale si trova nello stesso gruppo di linkage come carattere d'osservazione. Un simile caso si ha quando c'è un fattore letale recessivo in un cromosoma, e in quello opposto omologo se ne trova uno dominante che è letale quando è omozigote. Quando due individui che si trovino in tale condizione - definita come letale equilibrata - si accoppiano, metà della figliolanza è destinata a morire, cioè i doppî letali (ll) e i doppî dominanti (DD), mentre l'altra metà risulta di eterozigoti simili ai genitori (lD). Questi fatti producono alterazioni nei rapporti di altri caratteri recessivi dipendenti dai geni contenuti in questi due cromosomi. Quelli che si manifestano risultano dal crossing over fra i due cromosomi in parola, onde il gene recessivo nell'uno o nell'altro cromosoma viene liberato dal gene letale o dominante che lo accompagna. Nell'Oenothera lamarckiana alcuni cromosomi sembrano trovarsi proprio in questa condizione e alcuni dei mutanti che ne risultano sono resi vitali dal crossing over.
Xenia o eredità materna. - Un caso particolare di eredità, conosciuto già da tempo sotto il nome di xenia, si è constatato esser dovuto ai caratteri dell'endosperma di certi semi. In alcuni semi si trova una massa cellulare ricca di sostanze destinate a nutrire l'embrione la quale si sviluppa contemporaneamente a questo nel sacco embrionale comune. Due nuclei aploidi del sacco (fratelli del nucleo della cellula uovo) si uniscono con uno dei nuclei aploidi (fratelli di quello spermatico) portati dal granello pollinico, per formare un nucleo triploide, cioè fornito di un triplice corredo cromosomico. Questo nucleo si divide per mitosi ordinaria e dà così origine ai nuclei del tessuto dell'endosperma, il cui colore, p. es., è generalmente visibile attraverso l'involucro trasparente del seme. Se s'incrocia una femmina di una razza di granturco a endosperma farinoso (f) con un maschio di razza a endosperma duro (F), i semi (endosperma) saranno farinosi come quelli della madre (ffF). Al contrario, se s'incrocia una femmina di razza dura con maschio a grani farinosi, i semi saranno duri (FFf). In ambedue i casi l'eredità è materna. Nel primo caso (ffF) l'endosperma è farinoso, poiché due geni per questo carattere (benché recessivi) dominano sul gene per il carattere opposto. Nel secondo caso (FFf) due geni per il carattere della durezza dominano sul gene unico per il carattere farinoso. Che così sia è dimostrato dal comportamento delle generazioni successive all'incrocio. L'embrione nel sacco embrionale, in amhedue gl'incroci menzionati, è diploide (Ff). Quando poi le sue cellule germinali maturano, i due geni si separano e dànno (per tutti i caratteri non endospermici) i soliti rapporti mendeliani. In un'altra serie di casi, l'embrione sviluppatosi da un incrocio può essere simile a quello della razza materna per certi caratteri (pigmento, p. es.). Si sa che il risultato in questo caso è dovuto al carattere (pigmento) già presente o in via di sviluppo nel citoplasma dell'uovo. Anche allora le generazioni seguenti dimostrano che il carattere risale in ultima analisi a geni dei cromosomi che hanno determinato la natura del citoplasma dell'uovo prima della fecondazione.
Eredità citoplasmatica. - Si conoscono alcuni casi in cui certi elementi che si perpetuano da sé nel citoplasma dànno un tipo definito di eredità, che può essere indipendente dai geni dei cromosomi. Il caso più saliente fra questi è l'ereditarietà dei cloroplasti o di altri cosiddetti plastidî. Questi corpiccioli presenti nel citoplasma si moltiplicano per divisione e a ogni divisione cellulare si distribuiscono a caso, così che può avvenire, quando sono presenti due sorta di plastidî, gli uni colorati gli altri incolori, che alcune cellule vengano a possedere i plastidî incolori, altre quelli colorati e altre ancora tanto gli uni quanto gli altri. Le prime produrranno nella pianta delle regioni bianche, le seconde delle regioni verdi, le terze delle regioni grigie o d'un verde pallido. Da questo processo hanno origine alcune piante variegate. Nella maggioranza dei casi i plastidî sono contenuti soltanto nel citoplasma dell'uovo; probabilmente in pochi casi anche il citoplasma del budello pollinico può essere fornito di plastidî e trasmetterli all'uovo. Nel primo caso l'eredità è materna e citoplasmatica. Interi rami di queste piante possono essere bianchi, altri verdi, ecc. Le uova che si formano su rami bianchi non trasmetteranno plastidî verdi, e però i germogli albini di tali piante moriranno appena esaurite le riserve nutritizie. D'altra parte, le uova dei rami verdi trasmetteranno un assortimento completo di plastidî e i germogli che ne nasceranno e i loro discendenti saranno verdi puri. Le uova dei rami a cellule miste daranno origine a piante variegate, come è stato già detto.
Distinzione fra caratteri fondamentali e secondari. - Alcuni autori hanno affermato che la teoria di Mendel è applicabile soltanto a caratteri secondarî, mentre le caratteristiche fondamentali sarebbero ereditate attraverso il citoplasma dell'uovo. È vero che molti dei caratteri presi in considerazione nello studio del mendelismo, quali il colore, la forma, la grandezza, ecc., si possono ritenere superficiali. Tali caratteri mutanti sono spesso scelti per gli esperimenti perché meno atti a porre gl'individui in condizioni svantaggiose così da alterarne i risultati numerici, laddove modificazioni più profonde turberebbero l'armonia fra l'organismo e l'ambiente e pochi individui potrebbero sopravvivere. Ma fin dove è possibile una siffatta distinzione, si può affermare essere stato dimostrato che un buon numero di caratteri fondamentali seguono le leggi di Mendel. È lecito forse considerare la simmetria come carattere fondamentale; ebbene, è noto che la simmetria spirale levogira e destrogira, quella bilaterale e quella radiata dànno rapporti mendeliani. La durata della vita, la fertilità e la sterilità, l'autofecondazione di fronte alla fecondazione incrociata sono pure probabilmente trasmesse per eredità secondo le leggi mendeliane. Molti geni letali, che pure influiscono su processi fondamentali di sviluppo, mendelizzano. Chi conosce di prima mano l'argomento non può accettare l'affermazione che i caratteri mendeliani siano superficiali. La critica è sorta dal fatto ben noto che il citoplasma dell'uovo sembra essere il fattore determinante nelle prime fasi dello sviluppo, ma è ormai dimostrato che la natura o condizione del citoplasma è dovuta, in ultima analisi, alla qualità dei geni portati dai cromosomi.
Fisiologia dello sviluppo e genetica. - Le leggi fondamentali della separazione genetica dei geni allelomorfi, dell'assortimento casuale delle coppie di geni, dell'ordinamento dei geni in gruppi vincolati, del crossing over fra gruppi omologhi si accordano tutte col comportamento dei cromosomi nella divisione e nella maturazione. Il meccanismo mendeliano si fonda dunque fin qui su basi fisiologiche. Ma più specificamente il problema fisiologico tradizionale si riferisce al modo con cui i geni funzionano per agire sul protoplasma della cellula in cui sono contenuti: se tutti i geni rimangano in ogni momento attivi in ogni cellula, anche negli stadî di riposo del nucleo, o se entrino in attività ora più presto, ora più tardi, è problema che non si può per ora risolvere.
Si è supposto che i geni siano enzimi, ma questa non è finora che una pura ipotesi. Non sembra tuttavia probabile che la loro costanza, permanenza e localizzazione possano trovare riscontro in una siffatta interpretazione alquanto grossolana. Può darsi che una fra le funzioni dei geni sia quella di produrre enzimi che, diffondendosi dal nucleo, determinerebbero i differenziamenti del citoplasma; ma anche questa supposizione è affatto campata in aria. Finché non si otterranno altri dati sul modo come i geni esercitano la loro azione, la natura chimica dei geni stessi e di quella parte del filamento cromosomico costituita dai geni ci rimarrà ignota.
Incroci fra specie. - È stato sostenuto, soprattuto dal Lotsy, che nuove specie si originano soltanto o prevalentemente da incroci fra specie selvatiche. Vi sono buoni argomenti per ritenere che ciò talvolta si verifichi, ma non sembra probabile che tutto il processo dell'evoluzione abbia potuto svolgersi così semplicemente. Siffatta teoria non ci spiega dove ebbero origine le differenze prime da cui si originarono poi il regno animale e il regno vegetale, per ricombinazioni di differenze preesistenti. Questa teoria non spiega nulla e relega le origini della differenza in un passato remoto, senza chiarire in modo soddisfacente le differenze iniziali su cui poggia il processo evolutivo. I genetisti per lo più si sono astenuti dal fare incroci tra specie diverse, purché non servissero alla soluzione di problemi speciali, poiché l'esperienza del passato ha dimostrato che in tali incroci le differenze ereditarie sono così numerose che lo studio dei singoli caratteri riesce assai malagevole. Inoltre le differenze tra specie e specie non soltanto sono spesso piccole, ma dipendono ciascuna da molti fattori genetici. Per questo motivo due problemi classici della biologia sistematica, cioè la causa della infecondità fra specie diverse e della sterilità degl'ibridi, sono rimasti in gran parte insoluti. Se le specie selvatiche si sono originate con l'accumularsi di caratteri mutanti, non sembra si possa dare una spiegazione soddisfacente dell'origine della loro infecondità quando sono incrociate, se, come è ormai dimostrato in molti casi, mutanti comparsi di recente risultano fecondi tanto col ceppo originario quanto fra loro. L'unica via per superare questa difficoltà è di non accettare la definizione delle specie come gruppi di individui che risultano infecondi se incrociati, infecondi nel senso che producono poca o punta prole; tale definizione non può applicarsi a tutti gl'incroci fra quelle che i sistematici riconoscono per buone specie. La definizione è arbitraria e raramente applicabile, poiché si conoscono tutti i gradi d'infecondità negl'incroci fra specie. Questa fase della difficoltà, se tale si deve considerare, non è più grave per la teoria della mutazione che non per qualsiasi altra teoria dell'evoluzione. Rimane tuttavia da spiegare il fatto generale che diversi gruppi selvatici sono spesso fra loro infecondi, fatto che pure, fino a un certo punto, si può intendere. Supponiamo per esempio che una data specie si risolva con l'andar del tempo in due o più gruppi, in ciascuno dei quali si accumulino lentamente alcune mutazioni vantaggiose. Se talune di queste modificazioni implicano alterazioni del meccanismo della fecondazione, come la velocità di germinazione del budello pollinico nelle piante, di sviluppo dell'apparato copulatore negli animali, o del sistema di reazione dei gameti, tali modificazioni tenderanno a produrre un certo grado d'infecondità, o anche la sterilità completa, se saranno abbastanza profonde. Rimane, è vero, pur sempre, la difficoltà di spiegare come possano verificarsi siffatte alterazioni, se la mutazione è un evento raro e si presenta in pochi individui in una volta; ma questa difficoltà non è insuperabile, specialmente per il fatto che i caratteri mutanti non vengono eliminati dall'incrocio col tipo originario. Inoltre, se sono sorti dei fattori che inibiscono l'autofecondazione in piante dioiche, i quali seguono le leggi di Mendel - come sembra dimostrato in qualche caso - non si può obiettare nulla all'ipotesi che possano sorgere fattori producenti l'infecondità inter-specifica, anche in gruppi separati della medesima varietà o specie. La sterilità degl'ibridi non offre alcuna seria difficoltà per la teoria mutazionistica dell'evoluzione, poiche è noto che questo fenomeno dipende non da uno solo, ma da più sorta di processi, alcuni dei quali sono comuni. Alcuni ibridi provenienti da incroci di specie, quale per esempio il mulo, sono vigorosi, ma, al tempo della maturazione delle cellule germinali, i cromosomi non si coniugano regolarmente, e i gameti risultanti vengono perciò a contenere gruppi insoliti di cromosomi, onde non producono uova e spermî capaci di funzionare. In altri casi in cui l'ibrido è debole non si producono affatto o soltanto parzialmente le cellule germinali normali. In conclusione, si può dire che le obiezioni sollevate a proposito dell'infecondità e della sterilità degl'ibridi non costituiscono per la teoria della mutazione difficoltà maggiori che non per qualunque altra teoria dell'evoluzione, basata su prove obiettive. Conviene soltanto aggiungere che molto ancora resta da fare prima che la teoria della mutazione possa poggiare su una solida base di prove sperimentali.
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