GENETICA (XVI, p. 509; App. II, 1, p. 1022; III, 1, p. 716)
I più importanti progressi della g. nell'ultimo decennio si riferiscono a quattro argomenti principali: la struttura e la sintesi degli acidi nucleici e la loro funzione nel metabolismo cellulare (v. nucleici, acidi, in questa App.); la citogenetica e la g. umana; la g. di popolazioni; le manipolazioni del patrimonio genetico, cioè quell'insieme di operazioni che va sotto il nome di "ingegneria genetica". Agli ultimi tre argomenti sono dedicate le sezioni seguenti.
Genetica umana.
Il rapido e continuo progresso della g. ha trovato larga e diretta applicazione all'uomo. La comprensione sempre più particolareggiata della struttura del materiale genetico al livello molecolare, e dei meccanismi di attività del gene, ha permesso d'interpretare il controllo genetico di alcuni polimorfismi umani di considerevole importanza anche medica, come il polimorfismo delle emoglobine, (v. emoglobina, in questa App.), delle immunoglobuline e di vari sistemi enzimatici. Fra i numerosi campi di più significativo progresso due, tuttora in rapida evoluzione, vanno segnalati: a) Citogenetica: le tecniche del cosiddetto bandeggio (dall'ingl. band: fascia, banda) hanno portato all'identificazione dei singoli cromosomi, offrendo nuove prospettive. sia alla costruzione anche nell'uomo di "mappe cromosomiche" sia all'identificazione di nuove sindromi patologiche; b) Immunogenetica: la scoperta e l'analisi del Sistema Maggiore della Istocompatibilità (HLA) ha messo in evidenza un sistema polimorfico senza precedenti legato ai meccanismi di riconoscimento cellulare, con implicazioni di fondamentale importanza in biologia e in medicina.
Citogenetica. - I cromosomi umani, colorati con le tecniche tradizionali, vengono classificati secondo un ideogramma che li divide per gruppi, nell'ambito dei quali solo un esiguo numero di elementi può essere riconosciuto. L'introduzione delle tecniche di bandeggio (ingl. banding) che permettono di ottenere una colorazione differenziale lungo l'asse cromosomico, ha consentito il riconoscimento dei singoli cromosomi o segmenti di cromosoma. Il primo progresso nella colorazione differenziale dei cromosomi è stato ottenuto da T. Caspersson e collaboratori (1970) che utilizzarono un colorante acridinico alchilante, la mostarda di chinacrina (QM). Alla luce ultravioletta i preparati mostrano zone d'intensa fluorescenza (bande Q) intercalate a zone meno fluorescenti. L'ideogramma del cariotipo umano ottenuto con questa tecnica consente di dividere ciascun cromosoma in regioni, a loro volta suddivise in bande e sottobande, secondo una sequenza specifica per ciascuno di essi. Questo ideogramma è stato adottato ufficialmente con minime modificazioni, dalla Conferenza di Parigi per la "standardizzazione del cariotipo umano" (1971). Dopo colorazione con QM le regioni vicine ai centromeri dei cromosomi 3,4,13 e soprattutto il braccio lungo del cromosoma Y presentano una particolare brillantezza. Si era ritenuto che la comparsa di bande dimostrabili con questa tecnica fosse conseguente alla particolare affinità del colorante per le regioni cromosomiche più ricche in sequenze guanina-citosina: risultati ottenuti anche con sostanze non alchilanti e dopo trattamento delle metafasi con anticorpi fluorescenti antiadenina e anticitosina, ciò che suggerisce che le zone a più intensa fluorescenza siano più ricche in sequenze adenina-timina (AT).
Quasi contemporaneamente alla scoperta delle bande Q, due gruppi di ricerca dimostrarono le cosiddette bande C, corrispondenti a un tipo particolare di cromatina che nell'uomo è prevalentemente localizzato sulle regioni centromeriche e sul braccio lungo dell'Y. Tale cromatina viene definita "costitutiva" e non contiene geni strutturali; viene pertanto distinta dalla "eterocromatina facoltativa", che contiene geni strutturali, citologicamente condensati e geneticamente inattivati in rapporto al grado di differenziamento e all'attività funzionale delle cellule. Queste bande si mettono in evidenza sia ibridando in situ con DNA satellite marcato il DNA cromosomico reso monocatenare con un trattamento denaturante, sia denaturando il DNA con metodi diversi (elevato pH, calore, ecc.) e controllandone la rinaturazione con soluzioni ad alta forza ionica. Modificando queste tecniche si sono ottenute colorazioni selettive per il braccio lungo dell'Y e per la costrizione secondaria del cromosoma 9. Queste osservazioni indicano che nell'ambito della cromatina costitutiva, che è formata da sequenze altamente ripetitive di DNA, possono essere distinti diversi tipi, fra i quali il DNA satellite, che mediante centrifugazione differenziale in gradiente di CsCl può essere ulteriormente differenziato nelle frazioni I, II, III, IV, ognuna delle quali ha una caratteristica distribuzione nel cariotipo (K. W. Jones, 1973). L'esistenza di un preciso rapporto tra le bande cromosomiche e la cromatina appare evidente quando si pensi che a seguito di modificazioni delle tecniche che portano alla dimostrazione delle bande centromeriche, e quindi con tecniche di denaturazione, si possono mettere in evidenza altri tipi di bande. Le bande G si ottengono trattando i preparati con soluzioni saline concentrate e colorandoli con la miscela di Giemsa. Le bande ottenute sono quasi esattamente sovrapponibili a quelle dimostrabili dopo colorazione con QM e si ritengono derivate da un tipo di eterocromatina costitutiva meno altamente ripetitiva rispetto a quella centromerica, e che viene correntemente definita "intercalare". Al pari della cromatina centromerica, essa è povera di informazioni, e come tutta l'eterocromatina, è ricca in sequenze AT. Tuttavia l'ipotesi che le bande G fossero dovute a processi di denaturazione-rinaturazione di DNA ripetitivo è stata riconsiderata, in conseguenza dell'osservazione che un particolare tipo di banda G può essere ottenuta trattando i cromosomi con enzimi proteolitici (bande E). Ciò indicherebbe che le bande cromosomiche non sono in rapporto con le sequenze del DNA, ma con l'organizzazione della cromatina, e quindi anche con le proteine cromosomiche, tenuto conto del fatto che gli stessi risultati possono essere ottenuti con agenti denaturanti le proteine, quali l'urea.
Un particolare tipo di bande, le bande R (da reverse, in quanto danno un quadro inverso rispetto a quello delle bande Q e G) è stato dimostrato da B. Dutrillaux e J. Lejeune (1971) denaturando i cromosomi col calore. Per le modalità del loro ottenimento le bande R sono state collegate con la presenza lungo il cromosoma di zone di denaturazione selettiva, nel senso che le zone colorate (bande R) rappresenterebbero segmenti di DNA non denaturato, mentre i tratti intercalari rappresenterebbero zone in cui il DNA è denaturato. Questa interpretazione sembra provata dalla sequenza di zone d'intensa fluorescenza verde, alternate a zone di fluorescenza rossa che si ottengono lungo l'asse dei cromosomi così trattati dopo colorazione con acridina orange (si tratta di un colorante metacromatico fluorescente che rivela una fluorescenza verde nella forma monomera e rossa quando è polimerizzato). La dimostrazione che questo tipo di banda, al pari degli altri, non dipende dal comportamento dei DNA ma anche dagli altri componenti della cromatina, e in ultima analisi dall'organizzazione cromosomica, deriva dal rilievo che variando in maniera progressiva i parametri utilizzati nel loro allestimento, quali il pH e la forza ionica del mezzo di denaturazione, si possono ottenere in successione sul medesimo preparato, le bande G, R, T, e infine C. Le bande T, derivate per denaturazione più spinta delle bande R, colorano selettivamente le regioni terminali di alcuni cromosomi.
L'impiego sistematico delle tecniche di bandeggio nello studio dei cromosomi umani non solo ha permesso di acquisire fondamentali conoscenze sulla morfologia dei cromosomi, ma ha consentito di compiere importanti progressi nella delineazione delle sindromi da aberrazione cromosomica e di affrontare in maniera sistematica lo studio della mappatura dei geni sui cromosomi dell'uomo.
Sindromi da aberrazione cromosomica. - Sono state isolate e caratterizzate una quindicina di sindromi da aberrazione autosomica (cioè da mutazioni a carico degli autosomi), legate alla trisomia completa o parziale o alla monosomia parziale di un cromosoma (revisione in A. Baserga e Coll., 1973). Per ordine di frequenza dev'essere ricordata la sindrome da trisomia 21 (sindrome di Down o mongolismo), che colpisce mediamente 1 bambino ogni 650 nati. È ben noto l'effetto dell'età materna sull'insorgenza dell'aberrazione: una donna al di sotto dei 20 anni ha la probabilità di 1/2300 gravidanze di avere un figlio affetto; tale probabilità sale a 1/100 fra i 40 e i 45 anni e 1/50 oltre i 45 anni. Nel 3-4% dei casi uno dei genitori è portatore di traslocazione bilanciata; in questi casi non esiste un effetto dell'età materna, e anzi la maggior parte di essi nasce da madri di età inferiore a 30 anni. Le altre principali sindromi da aberrazione cromosomica sono la trisomia 18 (o sindrome di Edwards) e la trisomia 13 (o sindrome di Patau) che colpiscono in media 1/5000 e 1/10.000 nati, rispettivamente. Comportano un quadro malformativo complesso che coinvolge i vari distretti e apparati; la gravità delle lesioni viscerali porta a morte i pazienti in un arco di tempo di poche settimane. Le nuove tecniche di studio hanno consentito d'isolare anche la sindrome da trisomia 8, che determina soprattutto alterazioni a carico dello scheletro e delle articolazioni e un ritardo mentale di gravità variabile.
I principali contributi conoscitivi portati dalle bande cromosomiche in questo campo riguardano però soprattutto l'individuazione e la caratterizzazione di nuove sindromi da trisomia parziale. Si tratta di un gruppo di quadri morbosi che associano ritardo mentale, dismorfismi e peculiari malformazioni che interessano quasi costantemente il viso dei pazienti e occasionalmente singoli distretti o apparati. In senso stretto nessuno dei segni clinicì che ricorrono nelle varie sindromi può venire considerato patognomonico di un determinato tipo di patologia cromosomica e fra le varie sindromi esiste una certa sovrapposizione di segni e sintomi: tuttavia, il diverso modo di associarsi delle stigmate cliniche contribuisce a caratterizzare precisi fenotipi, spesso facilmente isolabili sul piano nosologico. Le più note di queste trisomie parziali sono la trisomia del braccio corto del cromosoma 4 (o trisomia 4p) e la trisomia del braccio corto del cromosoma 9 (9p). Si sono peraltro già accumulati dati sufficienti a caratterizzare anche le trisomie 4q, 7q, 10p e 10q.
La monosomia completa di un autosoma non è compatibile con la vita nell'uomo; sono tuttavia note alcune sindromi da delezione autosomica, che comportano ritardo mentale e un quadro malformativo più grave rispetto a quello sostenuto dalla trisomia dello stesso segmento. La più nota di queste sindromi è la malattia del "cri du chat" (monosomia 5p−), che comporta alla nascita caratteristiche alterazioni del segmento cefalico e del viso, associate a una peculiare tonalità del pianto, che ricorda il miagolio di un gatto. Altrettanto caratteristici appaiono i fenotipi delle altre sindromi da monosomia sino a oggi identificate: 4p− (sindrome di Wolf), 139− (sindrome di Orbeli), le sindromi da delezione del 18 (18p− e 189−) e la sindrome da monosomia 21 o antimongolismo.
Le principali aberrazioni dei cromosomi sessuali associate a fenotipi femminili sono la sindrome di Turner e le polisomie X. La prima, nella forma tipica, si associa a un corredo 45, X e comporta ritardo nello sviluppo della statura, disgenesia gonadica con sterilità, assenza dei caratteri sessuali secondari, malformazioni somatiche e scheletriche. In forma frusta la sindrome può essere sostenuta da altri tipi di corredo cromosomico, in particolari aberrazioni morfostrutturali dell'X (isocromosoma, delezione, cromosoma ad anello). Spesso si ha la situazione detta "mosaico", in cui nello stesso individuo alcune cellule portano un'aberrazione, altre ne presentano un'altra, o sono normali. Il corredo 47,XXX non comporta un fenotipo caratteristico, ma è noto che una più elevata incidenza di questi casi è reperibile presso ospedali psichiatrici. I corredi 48,XXXX e 49,XXXXX comportano ritardo mentale e malformazioni somatiche e scheletriche caratteristiche.
Le principali aberrazioni dei cromosomi sessuali associate a fenotipi maschili sono la sindrome di Klinefelter (frequenza o,15%) e il corredo XYY (frequenza 0,10%). La forma più tipica della sindrome di Klinefelter è legata a un corredo 47,XXY. In molti casi l'aberrazione è presente in mosaico. La pubertà è ritardata, incompleta e anomala; i testicoli sono ipoplasici con riduzione o assenza della linea germinale; la ginecomastia è frequente. I corredi 48,XXXY e 49,XXXXY, che in senso stretto possono venire riguardati quali varianti più gravi della sindrome di Klinefelter condizionano in effetti quadri morbosi alquanto tipici, nei quali la compromissione dello sviluppo mentale e sessuale e l'associazione con alterazioni scheletriche sono relativamente costanti e spiccate.
Le ripercussioni fenotipiche del corredo 47,XYY sono invece incostanti. Numerosi di questi soggetti sono stati individuati fra delinquenti di alta statura, rilievo che ha creato attorno a questa situazione, e al cromosoma Y in particolare, la fama di cromosoma della criminalità. In effetti spesso questi individui sono normali e possono avere figli normali.
La mappatura dei geni sui cromosomi umani. - La localizzazione dei geni si affronta in due maniere fondamentali. Da un lato si tenta di stabilire l'esistenza di gruppi di associazione fra geni: vengono esaminati alberi genealogici e si tenta di verificare se due determinati geni si trasmettono insieme, oppure no, attraverso l'analisi della frequenza con la quale essi si ricombinano nella discendenza di un individuo (la ricombinazione è la conseguenza di un crossing-over). Si dice che c'è associazione fra due geni quando l'indice di ricombinazione è inferiore a 0,30. In pratica i dati desunti dall'analisi di incroci informativi (doppio eterozigote x omozigote recessivo) vengono espressi in lod scores, ovvero logaritmi del rapporto di probabilità di associazione. L'antilogaritmo della somma dei lod scores per i diversi valori della frazione di ricombinazione, che sono ricavabili da apposite tabelle, dà la probabilità relativa di associazione per ciascun valore.
La localizzazione di gruppi di associazione sui cromosomi può essere affrontata servendosi di approcci metodologici diversi. 1) si possono utilizzare le aberrazioni cromosomiche individuate nella popolazione generale. Per es.: lo studio di una delezione permette di verificare se un gene in esame è situato sul segmento cromosomico coinvolto nell'aberrazione. Altri tipi di aberrazione utili a essere esaminati da questo punto di vista sono le traslocazioni, le trisomie e i cromosomi markers. 2) Può essere impiegata l'ibridazione cellulare. La fusione delle cellule umane, per es. con le cellule di topo, produce eterocarioti, che perdono progressivamente i cromosomi umani. Si ottengono così dei cloni cellulari che contengono 40 cromosomi del topo e pochi (al limite anche uno solo) cromosomi umani. Entrambi i genomi sono funzionanti, entrambi gli assetti di geni sono espressi nello stesso tempo e codificano le rispettive proteine. I cromosomi umani e del topo sono distinguibili con le tecniche di bandeggio e gli enzimi (o le altre proteine) dell'uomo e del topo possono essere distinti elettroforeticamente per le loro diverse caratteristiche di migrazione. Si possono così ottenere informazioni relative all'assegnazione di geni a determinati cromosomi o addirittura a parti di cromosoma. Si possono inoltre mappare con opportune tecniche non solo geni costitutivi, cioè espressi durante tutta la vita, da tutte le cellule o dalla maggior parte di esse, ma anche geni espressi da tipi specializzati di cellule (per es. l'albumina che viene sintetizzata dalle cellule epatiche) o espressi solo quando la cellula è esposta a particolari stimoli esterni (per es. l'interferon). Lo studio degl'ibridi cellulari si sta così rivelando uno strumento di elezione nello studio della localizzazione dei geni nei cromosomi umani. 3) La terza tecnica impiegata è l'ibridazione in situ degli acidi nucleici. Consiste nell'estrarre del mRNA, marcarlo con isotopi radioattivi e ibridarlo con il DNA dei cromosomi umani. Il mRNA si fissa al DNA corrispondente e la sua fissazione, e perciò la sua mappatura, è rivelata attraverso a una normale autoradiografia. 4) Infine, l'analisi delle sequenze degli aminoacidi delle proteine ha potuto in qualche caso essere utilizzata per la mappatura dei geni. Per es., lo studio dell'emoglobina Lepore ha indicato l'esistenza di associazione fra i loci che codificano la sintesi delle catene delta e beta. Questi approcci metodologici hanno permesso di localizzare oltre 100 loci sugli autosomi e poco meno di 100 loci sul cromosoma X (v. A. McKusick, 1975).
Immunogenetica. - Nel 6° cromosoma è localizzata un'area genetica in cui risiede il sistema maggiore della istocompatibilità, area che viene chiamata "HLA" perché è la sede del controllo del primo gruppo di antigeni leucocitari scoperti (Human Leucocyte - A). La sua identificazione, l'analisi genetica che ne ha permesso la descrizione particolareggiata, e la scoperta delle varie funzioni da essa controllate costituiscono senza dubbio uno dei più importanti progressi degli ultimi anni in biologia e in g. umana.
Cenni storici. - La storia della scoperta di questo sistema immunogenetico è proseguita contemporaneamente nell'uomo e negli animali (soprattutto nel topo). Negli anni Cinquanta si dimostrò che trasfusioni di sangue nell'uomo inducevano la formazione di anticorpi agglutinanti che reagivano con antigeni presenti nei leucociti solo di qualche individuo della popolazione. La natura "alloimmune" di questi anticorpi venne successivamente confermata da tre tipi di dati: 1) questi anticorpi dimostravano l'esistenza di un polimorfismo antigenico; 2) davano risultati "concordanti" nei gemelli monozigotici e "discordanti" nei dizigotici; 3) non avevano mai un effetto anticorpale. Tuttavia i sieri dei politrasfusi non erano utilizzabili per tipizzare e il successivo grande progresso fu rappresentato dalla scoperta che la gravidanza era efficace nello stimolare la produzione di anticorpi anti-leucociti; i sieri delle poligravide si rivelarono inoltre una fonte di anti-sieri "tipizzanti".
Il successivo progresso, determinante per il rapido sviluppo della ricerca, fu l'utilizzazione da parte di Van Rood di metodi d'analisi statistica per mezzo del computer che permisero di superare e compensare le difficoltà interpretative dovute all'imperfetta sierologia: fu così possibile dimostrare il dialellismo del primo gruppo di antigeni (4a 4b).
Di particolare importanza è stata l'evoluzione delle tecniche usate. Agglutinazione e assorbimento hanno permesso la dimostrazione che questi antigeni sono presenti praticamente in tutti i tessuti. Seguì la dimostrazione che era utilizzabile la fissazione del complemento su piastrine, e infine di fondamentale importanza è stata la messa a punto da parte di P. Terasaki e J. McClelland della tecnica di microlinfocito-tossicità che con modificazioni varie rimane la metodica fondamentale nella sierologia dei leucoantigeni.
Il primo antigene leucocitario fu scoperto da J. Dausset nel 1954 e chiamato MAC (ora noto come HLA2 + HLA28).
Il numero di antigeni leucocitari è cresciuto progressivamente, e durante il terzo Workshop internazionale del 1967 a Torino, e con lo studio di un gruppo di famiglie eseguito contemporaneamente da 16 gruppi di ricercatori venne raggiunta la prova che appartenevano tutti allo stesso sistema genetico e venne fissato il termine HLA (Human Leucocyte "A") successivamente approvato da un comitato per la nomenclatura dell'Organizzazione mondiale della sanità.
Il sistema HLA. - il più noto complesso sistema genetico conosciuto nell'uomo. Oltre al controllo di antigeni leucocitari, la stessa zona genetica controlla altri fattori importanti per la risposta immunitaria. Alla scoperta di questa diversità di funzioni si è accompagnata una diversità di nomenclature per cui ci si riferisce talvolta come Complesso Maggiore dell'Istocompatibilità (MHC, Major Histocompatibility Complex) o Sistema Maggiore di Istocompatibilità (MHS, Major Histocompatibility System). Altri considerano conveniente utilizzare il termine HLA.
Questa area che corrisponde a circa 1/1000 di tutto il genoma comprende numerosi geni strettamente associati entro circa il 2% di ricombinazione. Si distinguono geni che controllano antigeni della membrana cellulare, fattori del complemento e gruppi sanguigni.
Gli antigeni di membrana possono essere riuniti in quattro gruppi: I) Antigeni HLA classici definibili sierologicamente (Serum Defined "SI"); II) Antigeni definibili attraverso le culture miste linfocitarie, per la capacità di questì antigeni di stimolare una risposta proliferativa in vitro (Mixed Lymphocytes Cultures "MLC"); III) Antigeni associati alla cosiddetta zona I (I associated "Ia") che si manifestano solo nei linfociti "B"; IV) Gruppi sanguigni. Sebbene questa distinzione abbia forse un significato contingente, in quanto è sperabile che si possa giungere in breve tempo all'identificazione sierologica di tutti questi antigeni, essa rimane importante per comprendere la struttura e le funzioni del sistema HLA.
Gli antigeni HLA "classici" sono riuniti in tre serie segreganti HLA-A; HLA-B; HLA-C. La terminologia qui usata è quella adottata dopo il VI Work: shop; sono riportati anche i vari termini usati in passato per definire queste serie di antigeni. Si conoscono ormai circa 17 alleli della serie A e 19 della serie B e 5 della serie C (tabella1). Gli antigeni MLC o D sono stati riconosciuti attraverso le culture miste. La definizione degli alleli di "D" è stata eseguita attraverso un complicato metodo di stimolazione in vitro da parte di linfociti da soggetti figli di primi cugini i quali portavano in doppia dose lo stesso 6° cromosoma derivato dal nonno comune. La capacità di rispondere a queste cellule indicava l'assenza dell'allele presente in doppia dose in questi soggetti, mentre la non risposta indicava la presenza dello stesso allele anche nelle cellule in esame.
Un metodo più recente è il Primed Lymphocytes Test (PLT) che utilizza cellule precedentemente stimolate in coltura mista e che dànno una reazione molto intensa del tipo secondario quando sono esposte di nuovo all'antigene stimolante specifico. Da tempo, tuttavia, si ricercano e si applicano metodi per la definizione sierologica degli antigeni "D" e dei cosiddetti antigeni associati a I (Ia).
A differenza degli antigeni SD, che si manifestano in tutti i tessuti, le reazioni di citotossicità possono mettere in evidenza antigeni che si manifestano solo su linfociti "B" e non su quelli "T". Per lo meno due polimorfismi di questo tipo sono stati descritti: "Ly" da J. Dausset e "Ag" da J. J. van Rood.
Molti sieri che identificano queste strutture sono sieri che tipizzano anche per "D". Certamente non tutti gli antisieri anti Ia sono anti D, ma certamente i sieri anti D sono anti Ia. Questi antigeni Ia non si esprimono in tutti i tessuti, e sono stati recentemente messi in relazione alla differenziazione cellulare.
L'organizzazione genetica dei loci HLA è rappresentata nella fig.1. Si riconoscono tre loci che controllano gli antigeni SD. A, B distano 0,87 ± 0,14 centimorgans mentre B e C distano 0,2 e A da C 0,7; D è all'esterno di B, e in analogia al topo è stato posto dal lato del centromero a circa 0,5% di ricombinazione da B. Non è nota la posizione dei loci Ia. "Ag" e "Ly" che probabilmente marcano la stessa specifità sono in prossimità di D, mentre D stesso è considerato un gene Ia. In questa zona comunque, per analogia al topo, si ammette siano contenuti i geni che controllerebbero la specificità della risposta Immune (Immune response "Ir"). La stretta associazione tra HLA, A, B e C caratterizza il meccanismo di trasmissione ereditaria del sistema HLA. Infatti nel 99% e più dei casi HLA A e B verranno trasmessi insieme e la combinazione dei geni A e B che sono su uno dei cromosomi omologhi, è stata definita da R. Ceppellini "aplotipo". Ne deriva che i quattro aplotipi parentali a, b, c, d (ogni matrimonio è usualmente definito ab x cd) possono ricombinarsi in quattro modi ac, ad, bc, bd. Il 25% dei fratelli sono HLA identici, il 50% aploidentici, e il 25% differenti.
Tuttavia talvolta il crossing-over separa la combinazione aplotipica parentale, creandone una nuova. Questo sistema dovrebbe garantire che tutte le combinazioni aplotipiche tra alleli delle serie A e B siano dimostrabili nella popolazione in "equilibrio", cioè con una frequenza pari al prodotto delle singole frequenze geniche.
Questo però non è il caso, e alcune combinazioni sono più frequenti di quanto non sia atteso, indicando con ciò una "associazione" non casuale. Così per es. l'aplotipo Al/B8 è 5 volte più frequente di quanto atteso casualmente. Numerosi altri esempi sono noti e coinvolgono tutti i fattori HLA. Questo fenomeno noto come linkage disequilibrium è la prova più significativa che il sistema HLA dev'essere considerato un sistema genetico d'interazione epistatica tra geni che l'evoluzione tiene strettamente associati.
Importanza in medicina. - Il ruolo di questo sistema immunogenetico in medicina è crescente. Esso va considerato da due importanti punti di vista: 1) importanza per trasfusioni e trapianti di organo o tessuti; 2) associazione antigeni HLA e malattie.
I) Trapianti: La ragione fondamentale del grande impulso ricevuto dallo studio del sistema HLA è stata l'importanza di questo sistema nella sopravvivenza dei trapianti. La caduta del trapianto è dovuta a una risposta immunitaria del ricevente diretta contro il tessuto trapiantato. Gli antigeni importanti nel provocare la reazione di rigetto sono numerosi e sotto il controllo di sistemi geneticamente indipendenti. Nel topo è stato stimato che questi siano una ventina. Anche nell'uomo il loro numero è considerevole e tra questi è importante il sistema AB0. R. Ceppellini (1969) studiando la sopravvivenza di trapianti di cute in volontari in varie combinazioni di compatibilità HLA ha dimostrato l'importanza di questo sistema come il "maggiore" dei sistemi di istocompatibilità.
Trapianti renali: le curve attuariali di sopravvivenza dei trapianti renali in base al numero di antigeni compatibili tra donatore e ricevente confermano l'importanza del sistema HLA per la durata del trapianto. Il trapianto è usualmente preceduto da una prova di compatibilità indispensabile per evitare di trapiantare pazienti con anticorpi anti HLA diretti contro antigeni del donatore; in queste condizioni è frequente la caduta acuta del trapianto. In alcuni centri la negatività della prova crociata e la compatibilità AB0 sono considerati sufficienti per l'esecuzione del trapianto, venendo da alcuni contestata la correlazione tra grado di compatibilità HLA e sopravvivenza del trapianto. Questi dati contrastanti devono tuttavia ritenersi largamente dovuti a difettosi sistemi di analisi dei risultati.
Trapianti di midollo: il trapianto di sangue midollare pone problemi particolari. Clinicamente sono sate riconosciute tre indicazioni: a) pazienti con immunodeficienze combinate gravi; b) pazienti affetti da anemia aplastica; c) leucemia.
Tecnicamente è abbastanza semplice: ottenuto il midollo dal donatore in anestesia totale attraverso vari puntati delle creste iliache, sterno e altre sedi, si somministra il sangue prelevato per via endovenosa.
Immunologicamente, mentre nei trapianti di organi non immunocompetenti (rene) si pone il problema di evitare la risposta immunitaria dell'ospite contro il trapianto, in questo caso bisogna evitare anche la risposta immunitaria del tessuto trapiantato contro l'ospite (graft versus host = g.v.h.).
I donatori più frequentemente usati sono fratelli HLA identici che condividono pertanto tutti gli antigeni controllati dalla zona HLA. Nel 75% di questi casi tuttavia si sviluppa un g.v.h. d'intensità variabile. Recentemente sono stati attivati programmi di selezione di donatori anche non consanguinei che però siano MLC compatibili da utilizzare nei casi di immunodeficienze complesse.
II) Trasfusioni: è generalmente ritenuto che le reazioni trasfusionali febbrili dovute ad anticorpi anti HLA non siano nocive al paziente. Un ruolo fondamentale ha invece tale sistema nelle trasfusioni di piastrine in pazienti trombocitopenici. Quando anticorpi di questo tipo si sviluppano cessa generalmente ogni effetto benefico dell'infusione piastrinica da donatori occasionali non selezionati. In questi casi è necessaria la selezione di donatori HLA compatibili. Nel caso di trasfusioni di granulociti questa circostanza non sì realizza.
III) Associazione HLA e malattie: questo è senza dubbio il campo di ricerca sul sistema HLA più studiato negli ultimi anni. Contrariamente a quanto era stato osservato nel caso dei gruppi sanguigni eritrocitari è stato dimostrato che l'associazione HLA e malattie può essere molto forte. Nel caso della spondilite anchilosante la tipizzazione dell'antigene HLA - B27 che è stato trovato nel 90-95% di malati in alcune zone, ha acquistato un significato diagnostico. L'associazione può essere studiata con due metodi fondamentali.
1) Come studio di popolazione. La distribuzione dei tipi HLA nella popolazione generale di controllo si confronta con quella di un gruppo di malati provenienti dalla stessa popolazione. Si osserva così l'aumento o la diminuzione della frequenza degli antigeni e si può calcolare un rischio relativo di malattia dovuto all'antigene stesso (tab. 2). Nel caso che la frequenza dell'antigene sia aumentata nella popolazione di malati si parla di "predisposizione" alla malattia. Nel caso che essa sia diminuita si parla di "resistenza" alla malattia.
2) Come studio familiare, in cui è possibile dimostrare come nelle singole famiglie la malattia segreghi sempre assieme allo stesso aplotipo.
Le malattie studiate sono numerose. A scopo illustrativo è presentato il gruppo di malattie associate a B27. Praticamente nessuna malattia è associata al 100% con un antigene, e nessun antigene è presente nel 100% dei malati. Questo particolare comportamento è molto importante per la comprensione della g. di queste malattie e del meccanismo d'associazione. Una delle caratteristiche comuni alle malattie associate ad HLA è l'eziologia oscura. Negli ultimi anni, si sono venuti raccogliendo dati che indicano fortemente come possibile causa le infezioni virali del cosiddetto tipo di "virus lenti". Tra le malattie più studiate da questo punto di vista sono: la sclerosi multipla, il lupus eritematosus, il diabete giovanile, ecc.
L'ereditarietà delle malattie associate ad HLA è ampiamente confermata dalla concentrazione familiare dei casi e dal test gemellare. Tuttavia il meccanismo ereditario non è semplice. Queste malattie vengono inquadrate nel gruppo delle malattie multifattoriali caratterizzate appunto da un tipo di ereditarietà irregolare. All'opposto gli antigeni HLA che marcano la predisposizione (o la resistenza) alla malattia vengono ereditati come caratteri mendeliani dominanti a penetranza completa.
Il rapporto tra il marcatore (cioè il gene HLA) e la malattia, il primo con penetranza = 1 e il secondo con penetranza ridotta è il problema chiave per la comprensione della g. di queste malattie e porta direttamente alla discussione dei possibili meccanismi attraverso cui gli antigeni HLA agiscono come fattori predisponenti il processo morboso.
Vari meccanismi sono stati discussi. Il più accreditato al momento è che il gene HLA marca il gene predisponente la malattia che gli è strettamente associato. L'associazione stretta tra il gene della malattia e quello HLA è più frequente di quella casuale (linkage disequilibrium). I geni che controllano la risposta immune (Ir) sono i migliori candidati per agire come geni predisponenti la malattia. Alternativamente a questo modello è stato suggerito che l'antigene HLA stesso sia il gene della malattia. Questa ipotesi è stata prospettata per l'associazione HLA-B27 e la spondilite anchilosante dove l'antigene è stato osservato, in certe serie, fino al 95% dei malati. La dimostrazione di questo antigene nei malati ha assunto preciso significato diagnostico ed è stato inoltre dimostrato in varie popolazioni umane, anche molto distanti fra loro. È stato perciò indicata come improbabile la "casuale" associazione tra B27 e il gene predisponente la spondilite. In un modello come questo lo stesso gene HLA-B27 avrebbe un effetto pleiotropico, con penetranza = 1 come antigene e penetranza 〈 1 come gene della malattia. La possibilità di una somiglianza strutturale tra antigeni HLA e virus e altri agenti patogeni (mimicry) è stata anche suggerita.
Ovviamente la comprensione finale di questi problemi procederà di pari passo con la comprensione del significato del sistema HLA. È questo l'aspetto più affascinante del problema, e sebbene la maggior parte di quanto è noto provenga da lavoro sugli animali, è giustificato pensare che nell'uomo il sistema HLA svolga le stesse funzioni che in quelli. Accanto ai geni HLA della serie ABCD, Ia e Ir, la zona controlla i componenti del complemento (C2, C4, C8), fondamentali per la risposta immune di difesa contro microrganismi. Il locus H2 nel topo sembra controllare inoltre altre funzioni non direttamente interessate alla risposta immune come il peso dei testicoli e del timo, la concentrazione di testosterone e la quantità di AMP ciclico nelle cellule epatiche. Il problema centrale sembra però essere quello di comprendere il meccanismo e il significato di un polimorfismo così esteso.
Due recenti serie di ricerche sembrano offrire nuove prospettive al problema. Nel topo vari geni Ir della zona HLA sono ritenuti responsabili di specifiche risposte d'immunità cellulare e umorale, e dell'interazione tra linfociti T e B. Tutte le malattie associate ad HLA sono caratterizzate da una profonda alterazione dei rapporti tra immunità cellulare e umorale.
Nel loro complesso le ricerche sulla funzione biologica degli antigeni della istocompatibilità indicano la loro partecipazione a un sistema di riconoscimento del self e del non self altrettanto importante di quello delle immunoglobuline. Prova indiretta che questa fondamentale funzione, che ha un importantissimo significato evolutivo, sia in effetti legata al sistema della istocompatibilità deriva anche dai dati di Miggiano che indicano come già nei Teleostei (oltre 380 milioni di anni dall'uomo) si osservi rigetto acuto dei trapianti, e il Sistema dell'istocompatibilità sia già consolidato in un modello genetico del tutto simile a quello dell'uomo.
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Genetica di popolazioni.
Questa branca della g. analizza a livello popolazionistico le conseguenze del mendelismo ed è interessata particolarmente alle variazioni della composizione genetica da una generazione all'altra e alle cause che la determinano. Per tale motivo essa è strettamente connessa con lo studio dell'evoluzione. Ha una forte base matematica, fondata principalmente sull'opera di S. Wright, R. Fisher e J. B. S. Haldane che si svolse tra il 1920 e il 1940. Questi autori si basarono sul teorema formulato, indipendentemente, da G. H. Hardy e W. Weinberg nel 1908 e ne analizzarono le conseguenze.
Il principio di Hardy e Weinberc. - Questo principio occupa una posizione centrale nella teoria matematica della g. di popolazioni. Esso stabilisce importanti relazioni tra frequenze geniche e frequenze genotipiche, le condizioni necessarie affinché tali relazioni sussistano e inoltre le condizioni affinché le frequenze geniche rimangano costanti nel corso delle generazioni.
1. Frequenze geniche e genotipiche. - Riferendoci classicamente a una specie diploide con riproduzione sessuata, consideriamo un locus autosomico con due alleli codominanti A1 e A2. In tali circostanze i genotipi possibili sono tre: A1/A1, A1/A2 e A2/A2 e ad essi corrispondono tre fenotipi distinti. Definiamo la frequenza del gene A1 nella popolazione come il rapporto tra il numero di loci da esso occupati e il numero totale dei loci a disposizione per A1 e A2. Per eseguire il calcolo consideriamo ogni individuo corrispondente allo zigote originario: in altre parole, a ogni individuo verranno assegnati due loci (uno di provenienza materna e l'altro paterna). Il numero totale dei loci sarà uguale quindi a 2 volte il numero degl'individui (2 N). Un individuo A1/A1 ha ambedue i loci a disposizione occupati dall'allele A1, mentre un individuo A1/A2 ne avrà uno solo occupato da questo allele. La frequenza dell'allele A1 nella popolazione in esame sarà quindi uguale a
È evidente che questo calcolo può essere eseguito solo per alleli codominanti, ossia solo nel caso che vi sia una corrispondenza biunivoca tra genotipo e fenotipo. Nel caso di alleli legati da una relazione di dominanza, come vedremo in seguito, si può procedere a una stima delle frequenze geniche solo se si assume valido il principio di Hardy-Weinberg relativamente al locus in esame.
Classicamente le frequenze di due alleli A1 e A2 vengono indicate con p e q. È evidente che si tratta di numeri positivi compresi tra 0 e1, legati dalla relazione p + q = 1.
2. Esposizione del principio di Hardy-Weinberg. - Il principio stabilisce che se sono rispettate le seguenti condizioni: (1) popolazione di effettivo infinito, (2) panmixia e pangamia, ossia incontro a caso degl'individui per l'accoppiamento e dei gameti per la formazione degli zigoti, (3) assenza di migrazione, (4) assenza di mutazioni, (5) assenza di selezione, allora sussistono queste relazioni:
(a) f (A1/A1) = p2; f (A1/A2) = 2pq; f (A2/A2) = q2
(b) le frequenze di A1 e A2 rimangono costanti nel corso delle generazioni.
Affinché sussistano le relazioni (a) è necessario che tutte le cinque condizioni prima enunciate siano verificate simultaneamente. Le frequenze geniche invece, rimangono costanti anche se viene meno la condizione (2), ossia se la popolazione non è panmittica.
Il processo biologico in esame può essere cosi schematizzato:
Ammettendo che le generazioni siano separate e che gl'individui che compongono la popolazione arrivino simultaneamente alla maturità sessuale, l'aspetto rilevante del processo biologico, sotto il profilo che stiamo trattando, equivale formalmente a un processo costituito dall'estrazione di palline (che possono essere per es. di due diversi colori) da due urne (uova e spermatozoi) per formare un gran numero di coppie, dalla successiva divisione delle coppie in due gruppi (maschi e femmine), dalla separazione degli elementi delle singole coppie e così via:
La condizione (2) (panmixia e pangamia) equivale alla seguente: la formazione di una coppia è un evento costituito dal verificarsi simultaneo di due eventi elementari tra loro indipendenti. Dalla teoria elementare del calcolo delle probabilità, si deduce che la probabilità di ottenere la coppia A1/A2 è data dalla probabilità di estrarre un uovo di tipo A1 dall'urna delle uova, moltiplicata la probabilità di estrarre uno spermatozoo A1 dall'urna degli spermatozoi. Se si ammette che la proporzione delle uova di tipo A1 nell'insieme delle uova è uguale alla proporzione degli spermatozoi dello stesso tipo nell'insieme degli spermatozoi si può costruire la seguente tabella
p2, 2pq e q2 sono i termini che si ottengono elevando al quadrato il binomio p + q. Si può in generale ritenere che l'insieme delle uova e degli spermatozoi sia in ogni caso sufficientemente grande per cui l'estrazione di un elemento non modifica le probabilità relative alle estrazioni successive. Tuttavia se il numero delle coppie formate (ossia il numero degl'individui di quella generazione e quindi, nel nostro modello, l'effettivo della popolazione) non è sufficientemente grande, possono determinarsi, per effetto del campionamento associato all'estrazione di gameti, sensibili differenze tra frequenze dell'allele A1 nell'insieme delle uova (e spermatozoi) e frequenze dello stesso allele nella popolazione degli zigoti. La condizione (1) dev'essere perciò necessariamente verificata. Le condizioni (3), (4) e (5) garantiscono che dalla formazione degli zigoti sino al momento in cui gl'individui maturi si riproducono (cioè sino al momento dell'accoppiamento dei gameti), non si verificano cambiamenti di frequenze dei genotipi e inoltre che le frequenze geniche nell'insieme delle uova e in quello degli spermatozoi siano esattamente uguali a quelle della popolazione degli zigoti di partenza.
3. Utilizzazione del principio di Hardy-Weinberg. - Nel caso di un locus con uno dei due alleli dominante sull'altro, se si hanno validi motivi per ritenere che tra frequenze geniche e genotipiche sussista la relazione prevista dal principio di H-W, si può procedere alla stima delle frequenze geniche calcolando la radice quadrata della frequenza dell'omozigote recessivo secondo lo schema seguente
4. Valutazione dello stato di equilibrio e fattori di disturbo. - Se in una popolazione sono verificate le relazioni (a) tra frequenze geniche e genotipiche si dice che essa è in equilibrio secondo Hardy-Weinberg per quel locus. Per la verifica dello stato di equilibrio si procede alle seguenti operazioni: (1) su un campione della popolazione si determinano le frequenze p e q degli alleli A1 e A2; (2) si calcolano le frequenze attese dei tre genotipi A1/A1, A1/A2 e A2/A2 assumendo che la popolazione sia in equilibrio secondo H-W (esse dovrebbero quindi essere uguali a p2, 2pq e q2), (3) si paragonano le frequenze assolute osservate con quelle attese valutando gli scostamenti mediante opportuna tecnica statistica (test del χ2).
Se una o più delle cinque condizioni necessarie per lo stato di equilibrio non sono rispettate, si possono avere scostamenti dalle proporzioni genotipiche previste dal principio di Hardy-Weinberg e variazioni di frequenze geniche da una generazione all'altra.
Esaminiamo succintamente gli effetti prevedibili in seguito al venir meno di una sola delle cinque condizioni, essendo rispettate ogni volta le rimanenti quattro.
a) Consanguineità e omogamia. - Quando la scelta per l'accoppiamento avviene in base a somiglianze genotipiche si parla di omogamia: positiva se gl'individui che si accoppiano sono sistematicamente simili e negativa se dissimili. Se la scelta avviene in base al grado di parentela, ossia se si accoppiano di preferenza individui che hanno progenitori in comune, si ha la consanguineità.
Sia nell'omogamia positiva che nella consanguineità si ha un aumento della frequenza degli omozigoti a scapito degli eterozigoti. La formazione dello zigote in questi casi, infatti, non può essere considerata come la risultante di due eventi indipendenti: gameti simili tenderanno ad associarsi in proporzioni maggiori di quelle previste. Nell'omogamia positiva le deviazioni delle frequenze attese riguardano solo il locus che controlla il carattere che determina la preferenza per l'accoppiamento. Nella consanguineità invece le deviazioni riguardano tutti i loci.
Se le altre condizioni sono rispettate le frequenze alleliche non cambiano da una generazione all'altra.
b) Mutazione e migrazione. - Ambedue i fenomeni determinano in generale variazioni delle frequenze geniche. Essi possono anche provocare sensibili scostamenti delle proporzioni genotipiche (per es. se determinate subito dopo l'avvenuta migrazione) da quelle previste dal principio di Hardy-Weinberg.
c) Selezione. - Un sistema genetico è considerato sottoposto a selezione quando le varie classi genotipiche contribuiscono alla generazione successiva con un numero medio di figli differente. Selezione si può avere perché i genotipi hanno differenti probabilità di sopravvivere o differenti capacità di accoppiamento o differente fertilità.
Le frequenze geniche variano da una generazione all'altra in conseguenza della selezione, tuttavia in alcuni casi questo non accade. Nei polimorfismi bilanciati infatti i vari genotipi hanno coefficienti selettivi differenti, ma per alcuni valori delle frequenze geniche il sistema è in equilibrio: in tali punti le differenze selettive tra i genotipi si equilibrano perfettamente e non si hanno variazioni di frequenze geniche da una generazione all'altra.
Le frequenze genotipiche possono discostarsi notevolmente da quelle previste dal principio di Hardy-Weinberg in dipendenza delle modalità di azione della selezione e della fase del ciclo vitale. Considerando per es. nell'uomo il caso di un gene autosomico letale recessivo che inizi ad agire dal secondo anno di vita e completi la sua azione prima della pubertà, qualora si esamini la popolazione entro il primo anno di vita non si osserverà alcuno scostamento dalle proporzioni previste dal principio di Hardy-Weinberg, questo sarà invece evidente e sempre più marcato nelle età successive; nella popolazione sessualmente matura manca addirittura un'intera classe genotipica, quella degli omozigoti per il letale recessivo.
d) Deriva genetica. - Quando la popolazione è costituita da un piccolo numero d'individui si verificano fluttuazioni delle frequenze geniche da una generazione all'altra in conseguenza dell'estrazione dal pool dei gameti della generazione precedente di un numero limitato di uova e spermatozoi per la generazione successiva. Il fenomeno viene indicato come drift o "deriva genetica". Le variazioni delle frequenze geniche sono tanto più grandi quanto più piccola è la popolazione e il risultato finale della deriva è la scomparsa di uno dei due alleli originariamente presenti in un qualsiasi locus. Le proporzioni genotipiche possono scostarsi sensibilmente da quelle previste dal principio di Hardy-Weinberg.
Struttura genetica della popolazione. - I fattori di disturbo discussi nel precedente paragrafo, modificando una situazione che rimarrebbe altrimenti immutata col passare delle generazioni, costituiscono gli agenti fondamentali dell'evoluzione. In teoria, se si potesse valutare il contributo relativo dei vari agenti (tipo di accoppiamento, dimensione della popolazione, migrazione, mutazione, selezione), l'evoluzione della popolazione potrebbe essere predetta con soddisfacente esattezza. In pratica è verosimile che più di un fattore sia operante allo stesso tempo e questo rende la trattazione teorica in genere complessa. Inoltre, poiché gli effetti, riferiti a una singola generazione, sono di regola deboli, il loro accertamento presenta di solito notevoli difficoltà.
Il quadro d'insieme dei fattori che limitano la validità dei modelli teorici che prevedono accoppiamento casuale e popolazione di dimensione infinita viene in genere indicato come "struttura della popolazione". Sui modelli matematici per lo studio della struttura di popolazioni umane e le metodiche d'analisi dei dati che di solito si hanno a disposizione, v. C. Cannings e L. L. Cavalli-Sforza (1973).
Tra i problemi che possono essere affrontati con l'analisi della struttura della popolazione quello di maggior interesse riguarda il contributo relativo della selezione e del drift alla variabilità genetica e quindi più in generale all'evoluzione. Quando per le popolazioni in esame si abbiano adeguate conoscenze demografiche si può stimare la variabilità attesa per effetto del drift e paragonarla con quella osservata. La presenza di selezione stabilizzatrice tende a ridurre la variabilità al di sotto dei livelli attesi per drift, mentre se esiste selezione divergente la variabilità si porta a valori superiori a quelli attesi per drift. I due tipi di selezione possono tuttavia coesistere ed equilibrarsi.
Una corretta analisi richiederebbe però uno studio a livello globale e non su popolazioni selezionate. Le difficoltà sono quindi notevoli ma il problema di fondo è d'interesse centrale e di grande attualità per la g. di popolazioni: è su di esso infatti che da vari anni è in atto una battaglia che vede schierati da una parte i "panselezionisti", cioè coloro che affermano che la maggior parte dei geni hanno un preciso valore selettivo, e sono quindi al vaglio della selezione naturale, e dall'altro i "panneutralisti", cioè coloro che seguendo le considerazioni di M. Kimura, ritengono che molti geni siano "neutrali", ossia privi di valore selettivo; perciò la loro distribuzione nelle varie popolazioni è affidata alla deriva genetica, al caso.
Variabilità genetica ed evoluzione. - Una popolazione è da considerare polimorfica per un carattere genetico se coesistono più varietà distinte con frequenza sufficientemente alta: per es. nel caso di un sistema con due alleli quello più raro deve avere una frequenza superiore all'i %. Le ricerche condotte negli ultimi dieci anni specie dai gruppi di Harris e di Lewontin indicano che circa il 30% dei geni che controllano la sintesi di enzimi sono polimorfici per quanto riguarda la mobilità elettroforetica. Si pensa inoltre che in tal modo la proporzione dei loci polimorfici venga sensibilmente sottostimata.
L'interpretazione di questa enorme variabilità è attualmente oggetto di notevoli contrasti tra neutralisti e selezionisti. I primi, di formazione prevalentemente matematica, sostengono che la maggior parte delle varianti sono selettivamente neutre e si sono diffuse nella popolazione mediante processi stocastici. I secondi, di formazione prevalentemente ecologica e biochimica, sostengono che la presenza delle varianti è in massima parte conseguenza della selezione. Esistono esempi, sia nell'uomo che in altre specie, di sistemi polimorfici sottoposti a selezione: il polimorfismo del colore della conchiglia nella chiocciola, quello per il colore delle ali in alcune specie di farfalle, il polimorfismo dell'enzima glucoso-6-fosfato deidrogenasi (G6PD), dell'emoglobina S e della talassemia nell'uomo e diversi altri. Per quanto concerne i polimorfismi enzimatici l'esistenza di differenze in attività tra le varianti, la relazione tra entità del polimorfismo e variabilità di substrati nell'ambiente e il fatto che il polimorfismo è spesso associato con reazioni enzimatiche di tipo regolatore nel metabolismo, sono tutti contro l'ipotesi neutralista.
Assumendo sostanzialmente valida la congettura selezionista è necessario riesaminare le teorie dell'evoluzione alla luce dei fatti più recenti. L'evoluzione per selezione naturale secondo Darwin richiede come condizione necessaria l'esistenza di una variabilità determinata geneticamente; per molti interpreti della teoria tale variabilità dovrebbe essere piuttosto rara e transitoria. Gl'individui di una popolazione, in un determinato momento, in quanto perfettamente adattati al loro ambiente, dovrebbero essere infatti molto simili geneticamente.
L'esistenza di alcuni polimorfismi stabili è dovuta a vantaggio dell'eterozigote. Tipico è il caso dell'emoglobina S in cui il portatore βAβS in ambiente malarico ha un valore selettivo superiore ai due omozigoti βAβA e βSβS: le frequenze dei due geni rimangono stabili intorno a certi valori e ambedue persistono nella popolazione. È stato però giustamente osservato che tale meccanismo di mantenimento dei polimorfismi non può essere molto frequente a causa del suo "costo evoluzionistico" (genetic load), per cui bisogna pensare ad altri meccanismi. Casi di selezione con coefficienti non costanti ma dipendenti dalle frequenze geniche sono ben documentati: per es. vari predatori prediligono il tipo più comune di preda trascurando la variante rara. Interazioni tra sistemi genetici sono anche ben documentate e molti genetisti ritengono che modelli che tengono conto di questi fenomeni sono più realistici di quelli che considerano i sistemi genetici separatamente.
Alla luce delle più recenti acquisizioni riguardanti l'entità della variabilità genetica, l'evoluzione non può essere vista come una progressione ordinata di eventi costituita semplicemente dalla sostituzione entro certi intervalli di tempo di un tipo genetico con un altro più adatto. Appare più realistico considerare la maggior parte dei sistemi genetici in equilibrio dinamico e reciprocamente interagenti. Gli scostamenti evolutivi modificano situazioni di equilibrio che richiedono quindi aggiustamenti di tutto il complesso interagente.
Per quanto concerne i meccanismi evoluzionistici è da tenere tuttavia presente che se si cerca d'interpretare le modificazioni morfologiche che intervengono durante l'evoluzione solo in termini di mutazioni di geni strutturali s'incontrano difficoltà piuttosto serie. Per tale motivo secondo vari genetisti il metodo di paragonare proteine di differenti specie non può più essere considerato d'importanza primaria nella ricerca dei meccanismi dell'evoluzione e notevole interesse si va polarizzando nei meccanismi di regolazione come mutazioni di tratti di DNA regolatore e modificazioni dell'organizzazione dei geni sui cromosomi. Per es. l'analisi di oltre 40 differenti proteine nell'uomo e nello scimpanzé, specie talmente differenti da essere incluse in famiglie diverse, ha messo in risalto un'identità media del 99%. Un tale grado di somiglianza si osserva in specie strettamente affini (sibling) praticamente identiche morfologicamente. Recentemente a tale riguardo è stata riproposta una teoria già suggerita nel 1920 (teoria della fetalizzazione): modificazioni nella regolazione genica avrebbero rallentato lo sviluppo, ritardando la sequenza dell'espressione dei geni in modo più marcato nell'uomo rispetto allo scimpanzé. In tal modo, pur senza modificazioni sostanziali nei geni strutturali si sarebbe potuta realizzare l'evoluzione delle due specie da un progenitore comune.
Bibl.: C. C. Li, Population genetics, Chicago 1955; G. Montalenti, Genetica di popolazioni umane, in Problemi attuali di scienza e di cultura, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1967, Quaderno 94; L. L. Cavalli-Sforza, Studi sulla struttura genetica di una popolazione italiana, in Le Scienze, 1968, vol. I, n. 4, pp. 7-19; W. J. Ewens, Population genetics, Londra 1969; J. F. Crow, M. Kimura, An introduction to population genetics theory, New York 1970; L. L. Cavalli-Sforza, W.F. Bodmer, The genetics of human popolations, San Francisco 1971; G. Montalenti, Introduzione alla genetica, Torino 1971; C. Cannings, L. L. Cavalli-Sforza, Human population structure, in Advances in human genetics, New York 1973, p. 105; K. Mather, Genetical structure of populations, Londra 1973; G. Bari Kolata, Population genetics: reevaluation of genetic variation, in Science, 1974, vol. 184 pp. 452-54; G. B. Johnson, Enzyme polymorphism and metabolism, in Science, 1974, vol. 184, pp. 28-37; L. E. Mettler, T. G. Gregg, Genetica di popolazioni ed evoluzione, Bologna 1974; G. Bari Kolata, Evolution of DNA: changes in gene regulation, in Science, 1975, vol. 189, pp. 446-47; B. Clarke, The causes of biological diversity, in Scientific American, 1975, vol. 232, pp. 50-60.
Ingegneria genetica.
Con questo termine s'intende il complesso di tecnologie che permettono la produzione in laboratorio di nuove combinazioni di geni e la loro introduzione in un organismo vivente. A questa definizione si può dare un'interpretazione ampia, e vi si comprendono allora anche le procedure per la produzione di nuovi mutanti e per la selezione di particolari caratteristiche ereditarie considerate utili, fino a comprendere l'allevamento e la selezione artificiale di specie animali e vegetali. Val la pena ricordare che l'uomo sta utilizzando queste tecniche d'allevamento e selezione da alcuni millenni. Si può anche intendere il termine in un'accezione più ristretta, e considerare soprattutto le tecnologie a carattere batteriologico, genetico e biochimico che hanno permesso negli ultimi anni di manipolare in modo relativamente controllato il genoma di diversi organismi, con la formazione di combinazioni geniche nuove e preordinate.
In questa voce intendiamo il termine solo nell'accezione più ristretta e specifica; lo sviluppo recente delle tecnologie e delle conoscenze che hanno indotto a far nascere il nuovo termine (coniato probabilmente dal microbiologo americano R. Hotchkiss) mette a fuoco soprattutto questa definizione più ristretta, anche se il limite rispetto alle tecnologie più tradizionali non è facilmente tracciabile. Questa definizione più limitata concentra l'interesse sulle tecnologie che sembrano permettere oggi un salto qualitativo, rispetto al passato, nella possibilità di preordinare nuove combinazioni geniche utili, e nella probabilità di ottenerle con successo.
Ricordiamo qui brevemente che tutta l'informazione ereditaria di un organismo vivente (il suo "genoma", composto di un numero variabile di "geni") è localizzata nei cromosomi; ogni cromosoma consiste essenzialmente di un'unica molecola lineare o circolare di acido deossiribonucleico (o DNA) formata da due eliche complementari avvolte una sull'altra. L'informazione ereditaria è scritta in forma di sequenze delle quattro basi che formano il DNA (adenina, guanina, citosina e timina, abbreviate in A, G, C e T); le due eliche del DNA sono complementari nel senso che a un'A su un'elica corrisponde una T sull'altra e a una G corrisponde una C. Il monomero fondamentale del DNA è quindi la coppia di basi; il genoma dei virus e dei batteri consiste di un unico cromosoma, e quindi di un'unica molecola di DNA, della lunghezza variabile tra 5000 coppie di basi (per alcuni virus) a 3 × 106 coppie di basi (per Escherichia coli); negli organismi superiori il genoma è diviso in molti cromosomi (nell'uomo 46), ognuno formato da un'unica molecola, che, nel cromosoma umano medio, è formata da circa 1 × 108 coppie di basi.
L'ingegneria genetica ha elaborato tecnologie che permettono di: 1) isolare specifici tratti di DNA che portano particolari geni; 2) ottenere che questi tratti di DNA presentino particolari estremità attaccabili a quelle di altri DNA isolati indipendentemente; 3) saldare tra di loro i DNA di diversa provenienza, in modo da ottenere combinazioni geniche nuove; 4) introdurre queste strutture ricombinate di nuovo entro un organismo e farne esprimere le funzioni. La fig. 2 mostra uno schema riassuntivo di queste tecnologie.
Passiamo ora in rassegna i passaggi fondamentali di queste procedure.
Isolamento dei geni. - Sono state elaborate diverse tecnologie: 1) isolamento per densità di diversi tratti del DNA. Questa tecnica sfrutta il fatto che, per es., il DNA che porta l'informazione per l'RNA ribosomico in certi organismi è presente in un numero molto alto di copie (che in certi casi possono essere fisicamente separate dal resto del genoma) e ha una densità (in soluzioni di cloruro di cesio) distinta dal resto del DNA, per riflesso di una composizione in basi diversa da quella media del DNA. Così in un gradiente di densità nell'ultracentrifuga, si può separare questo DNA e ottenere i geni dell'RNA ribosomico di questo organismo in forma pura. La limitazione di questa procedura è che la presenza di un numero alto di copie dello stesso gene, associata a diversa densità dei geni ripetuti rispetto al DNA totale, si riscontra in pochissimi casi. Questa tecnica è stata utilizzata per la prima volta nella purificazione dei geni dell'RNA ribosomico del rospo Xenopus laevis da M. Birnstiel e collaboratori nel 1974; 2) utilizzazione di enzimi degradanti il DNA. Si possono distinguere qui due approcci: a) nel primo si creano condizioni in cui solo un certo tratto di DNA è a doppia elica ed è quindi possibile eliminare il DNA a singola elica con enzimi specifici nella degradazione di questa specie molecolare. Questa procedura è stata utilizzata per la prima volta da V. Sgaramella, V. S. Spadari e A. Falaschi nel 1968 che hanno ottenuto in forma pura l'ibrido tra RNA ribosomico e DNA di Bacillus subtilis in condizioni in cui quasi tutto il resto del DNA era a singola elica e veniva perciò degradato da enzimi specifici: quello che si è così isolato in f0rma pura è il filamento che codifica il gene per l'RNA ribosomico di Bacillus subtilis. Una tecnica analoga (in cui si aveva a che fare con un unico tratto di DNA a doppia elica corrispondente ai geni per l'utilizzazione del lattosio in Escherichia coli, mentre tutto il resto del DNA era a singola elica) è stata utilizzata dal J. Beckwith e collaboratori nel 1969, che hanno così ottenuto quei geni in forma pura; b) l'altro approccio consiste nella degradazione del DNA con le cosiddette "deossiribonucleasi (DNasi) di restrizione"; si tratta di enzimi che introducono rotture in punti specifici del DNA, secondo lo schema riportato in fig. 3. Come si vede, gli enzimi di restrizione riconoscono delle sequenze specifiche piuttosto brevi (quattro-sei coppie di basi) per lo più di tipo palindromico (ossia che si leggono allo stesso modo nei due sensi). Queste sequenze si trovano sul DNA con distribuzione pressoché casuale. Un cromosoma piccolo contiene un numero limitato di queste particolari sequenze: le rotture introdotte dalle DNasi di restrizione producono quindi pochi frammenti, ognuno in genere con peso molecolare diverso, e sulla base del peso molecolare è possibile separarli. Si sarà così ottenuto un tratto di DNA specifico o, nel caso meno fortunato (per cromosomi a più alto peso molecolare) un DNA arricchito in certi geni, dal momento che frammenti diversi possono risultare a pesi molecolari simili; 3) copia di RNA messaggero. Si può utilizzare ancora l'RNA ottenibile in qualche caso in forma unica allo stato puro (come certi RNA messaggeri di organismi superiori, per es. quello della globina, degl'istoni o delle gamma-globuline) e farlo copiare dalla DNA polimerasi - RNA dipendente (detta anche trascrittasi inversa). Questo enzima è capace di sintetizzare un DNA a doppia elica che è identico al gene che ha prodotto l'RNA messaggero di partenza. Questa tecnica è stata usata per la prima volta da diversi ricercatori nel 1974 per il gene della globina di coniglio (T. Maniatis e altri; T. H. Rabbitts; F. Rougeon e altri); 4) sintesi chimica. Si può infine ottenere un frammento di DNA che porta la sequenza corrispondente a un certo gene, mediante sintesi chimica totale della sequenza in questione. Questa operazione di straordinaria complessità e ingegnosità è stata compiuta dal gruppo di Khorana per i geni degli RNA transfer dell'alanina in lievito e della tirosina, in E. coli. La fig. 4 mostra la struttura di quest'ultimo gene.
Preparazione di terminazioni adesive. - Le terminazioni del DNA che permettono la saldatura fra segmenti diversi vengono dette adesive. Queste possono essere ottenute in due modi essenziali: uno consiste nel trattamento con enzimi di restrizione, già citato. È chiaro che le terminazioni così ottenute ne permetteranno la saldatura a frammenti di DNA di altra fonte purché prodotti con lo stesso enzima. L'altro modo consiste nell'uso di un enzima detto "transferasi terminale" estratto dal timo dei mammiferi giovani; questo enzima può aggiungere sequenze di nucleotidi alle estremità 3'OH delle molecole di DNA. Così, se a un DNA purificato si aggiunge alle due estremità una sequenza di poli T, e a un altro DNA isolato da altra fonte una sequenza di poli A, come si vede nello schema della fig. 5, si possono far appaiare due tipi di molecole grazie a questa complementarità ottenuta artificialmente. Come vedremo più avanti, non è sempre indispensabile ottenere terminazioni adesive per produrre molecole "ricombinanti" in vitro.
Ricongiunzione delle molecole. - Le molecole con terminazioni adesive ottenute come descritto sopra possono essere "ricombinate" incubando insieme due molecole con terminazioni complementari. Affinché la ricombinazione sia solida e permanente è necessario riformare la continuità della sequenza di legami covalenti. A questo scopo, se le terminazioni non sono perfettamente combaciate (come succede invece con i prodotti di uno stesso enzima di restrizione), è necessario completare i tratti rimasti a singola elica; questo si ottiene con l'uso di un enzima detto DNA polimerasi, che sintetizza eliche di DNA seguendo l'informazione complementare di un'altra elica che funge da stampo. Infine, le interruzioni a singola elica che restano comunque dopo questo trattamento, sono chiuse da enzimi detti DNA ligasi. In determinate condizioni, una di queste ligasi può reagire anche con terminazioni non appaiate ma che portano rotture a doppia elica. Con questo sistema si perde la specificità di "riassociazione" delle molecole, ma si acquista la possibilità di legare tra loro molecole di qualsiasi provenienza, purché le loro terminazioni siano a doppia elica.
Reintroduzione nell'organismo. - Il DNA ricombinante così ottenuto deve venire reintrodotto nella cellula. Questo è possibile in diversi microrganismi come E. coli, in cui si riesce a far penetrare del DNA dall'esterno; se questo è attaccato al DNA di un appropriato "vettore" (per es. un plasmide: v. didascalia alla fig. 2) s'impianterà come entità autonoma nelle cellule; alternativamente nel caso si usino come vettori DNA di virus lisogeni, il DNA ricombinato s'integrerà nel DNA del batterio, e potrà riprodursi all'interno della cellula ospite.
Mentre l'introduzione di DNA dall'esterno è relativamente facile nei batteri, le tecniche per l'introduzione di DNA nelle cellule degli organismi superiori sono molto più aleatorie o non ancora disponibili. Nel caso del DNA di virus tumorigeni, questi possono essere introdotti come tali nelle cellule e quindi s'integrano nel genoma dell'ospite. Si può quindi pensare di utilizzare questi geni come "vettori", ma con tutte le limitazioni e i possibili pericoli che questo comporterebbe, e che rendono attualmente improponibile ogni tipo di sperimentazione nell'uomo. Non vi è buona evidenza d'integrazione di DNA estraneo (non virale) in cellule di mammifero o di altri organismi superiori. Anche nelle piante non esiste ancora modo di assicurare l'integrazione di DNA aggiunto dall'esterno nell'organismo. Questa limitazione potrà forse essere risolta in futuro con nuovi approcci: utilizzazione di virus (non ancora conosciuti) il cui DNA s'integri ma non sia dannoso all'ospite? Manipolazione di cromosomi interi (cioè "impaccati" per l'interazione con molte proteine specifiche), che, invece, sembra siano già incorporabili stabilmente nelle cellule di mammifero coltivate in vitro? Utilizzazione del DNA degli organelli cellulari (mitocondri e cloroplasti) che ha molte proprietà analoghe a quelle dei plasmidi batterici e si replica pure allo stesso ritmo del DNA nucleare? Microiniezione di DNA all'interno dei nuclei di cellule embrionali? Su queste possibilità si appunteranno certamente molte ricerche nei prossimi anni; attualmente questo rappresenta il più grosso ostacolo all'applicazione dell'ingegneria genetica agli organismi superiori.
Risultati ottenuti e possibili applicazioni future. - Le metodologie descritte fin qui rendono possibili essenzialmente due tipi di esperimenti. Il primo si prefigge finalità prevalentemente analitiche, il secondò sintetiche.
Una volta che la molecola ricombinante vettore-gene estraneo sia stata trasferita entro un appropriato sistema ospite, essa verrà copiata più e più volte dall'apparato cellulare responsabile della replicazione del DNA: in questo modo ogni cellula entro la quale sia penetrata anche una sola molecola ricombinante, per successive divisioni darà origine a una popolazione di cellule identiche, o clone: ciascuna di queste cellule conterrà copie della molecola ricombinante insieme con il proprio DNA. Da queste cellule è quindi possibile ricuperare le copie del segmento di DNA originariamente attaccato al vettore: da una piccola quantità, si è così passati a quantità sino a migliaia di volte più abbondanti, tali da rendere possibili numerosi studi per es. sulla struttura organizzativa del gene in esame, anche quando questo sia presente nel genoma originale in una sola copia. Questo processo, detto appunto clonaggio o amplificazione, recentemente ha in effetti permesso di approfondire l'analisi dell'organizzazione dei geni presenti in molte copie per gli RNA ribosomici e delle sequenze spaziatrici interposte tra questi geni nel DNA dell'anfibio africano Xenopus laevis, e del moscerino dell'aceto Drosophila melanogaster. In ambedue i casi, i geni in questione sono stati isolati dall'organismo originale, inseriti in vitro in un DNA appropriato (un plasmide di E. coli) reinseriti nel batterio e replicati indefinitamente come parte integrale del plasmide. Grazie a queste tecniche diversi ricercatori hanno anche chiarito l'organizzazione dei geni per gl'istoni del riccio di mare; risultati pure assai istruttivi sono stati ottenuti per la struttura dei geni delle globine.
Anche se i risultati di questo tipo di analisi sono di grande valore scientifico, interesse ben maggiore è rivolto alla seconda possibilità di questa tecnologia, che abbiamo definita sintetica. L'interesse nei suoi confronti è di duplice natura: teorico e pratico. Da una parte infatti essa può concorrere a risolvere il problema delle differenze evolutive tra i "segnali" genetici propri degli eucarioti e quelli dei procarioti. Per "segnali" s'intendono delle sequenze di DNA che regolano il funzionamento dei geni cosiddetti "strutturali" (in quanto preposti alla sintesi di componenti strutturali delle cellule, proteine e RNA stabili). La chiarificazione di questo problema non potrà non portare contributi essenziali anche allo sviluppo dell'aspetto pratico dell'ingegneria genetica: l'utilizzazione di appropriati sistemi cellulari per la produzione di speciali proteine di difficile purificazione e di grande importanza biomedica. Le manipolazioni di cellule batteriche, tendenti a trasformarle in produttrici specializzate di determinate proteine, sono molto semplici, almeno in linea di principio: basta infatti attaccare a un apposito vettore tanto il gene strutturale per questa proteina quanto un "promotore" (ossia una particolare sequenza che determina l'inizio delle reazioni necessarie all'espressione del gene) che venga riconosciuto come tale dall'apparato trascrittore della cellula ospite, e che ne permetta quindi la trascrizione in RNA messaggero. Per un'efficiente "traduzione" di questo messaggio genetico in una sequenza proteica sarà necessario che esso contenga l'appropriato sito di legame dei ribosomi, le sequenze d'inizio e di terminazione della traduzione e tutti i vari "segnali" richiesti per questa funzione. Siccome è possibile far replicare il sistema vettore-gene all'interno della cellula in modo che rappresenti una cospicua frazione del suo DNA totale (sino a un migliaio di copie per certi vettori plasmidici presenti in cellule batteriche trattate con cloramfenicolo, che arresta la replicazione del DNA cellulare ma non di quello plasmidico) (fig. 6), le proteine da loro codificate possono rappresentare una grossa frazione delle proteine totali. A questo riguardo degno di menzione è il caso dell'enzima triptofan-sintetasi di E. coli: il suo gene è stato isolato dal DNA di un fago trasduttore, attaccato a un plasmide Col E1, e quindi trasferito entro cellule di E. coli. Le cellule batteriche hanno replicato la molecola ricombinante e ne hanno "espresso" il contenuto genico al punto che circa il 40% delle proteine totali solubili erano composte dall'enzima triptofan-sintetasi.
Molti tentativi sono in atto in più laboratori per estendere questa tecnica alla produzione di numerosi altri enzimi o proteine d'interesse economico. Batteri "addomesticati" in questo modo potrebbero rappresentare sorgenti molto ricche di enzimi di grande utilità pratica, quali per es. l'asparaginasi e la glutaminasi, impiegate diffusamente nel trattamento di forme leucemiche e attualmente purificate attraverso laboriosi processi estrattivi. In linea di principio queste procedure possono essere applicate anche alla sintesi di proteine umane quali le immunoglobuline, i fattori di crescita, i fattori antiemofiliaci, gli ormoni proteici tipo l'insulina e l'adenocorticotropo: basterebbe attaccare i loro geni (sia quelli originali, sia quelli prodotti tramite la trascrittasi inversa, o addirittura per via chimico-enzimatica) a un apposito vettore procariotico, e ottenerne la corretta espressione entro cellule batteriche, dalle quali tali proteine potrebbero venire estratte con procedure molto semplificate rispetto a quelle utilizzabili con i sistemi naturali. Pare comunque che l'espressione di geni eucariotici in cellule batteriche sia un processo molto poco efficiente, ed è stato per ora dimostrato solo in pochi casi. Per ovviare a questo problema, si pensa di attaccare a geni strutturali eucariotici appropriate sequenze di controllo procariotiche, in grado d'interagire produttivamente con l'apparato sintetico di ospiti procariotici. Per fortuna sequenze procariotiche di controllo sono facilmente isolabili e anche sintetizzabili con procedure di tipo chimico-enzimatico, per cui è probabile che almeno particolari geni eucariotici potranno presto venire espressi in sistemi procariotici, in modo funzionale.
Brillanti dimostrazioni della versatilità derivante dall'impiego di DNA sintetico unito a DNA naturale sono state di recente fornite da diversi ricercatori: Khorana e collaboratori hanno attaccato al DNA del virus batterico "lambda" il gene sintetico per un transfer RNA di E. coli, mentre altri ricercatori americani hanno attaccato a un plasmide la breve sequenza sintetica dell'operatore del gene "lattosio" pure di E. coli. Entrambi i DNA sintetici si sono rivelati perfettamente funzionali una volta introdotti in cellule di E. coli. Essi infatti sono stati ripetutamente replicati (e così hanno fornito maggiori quantità di materiale sintetico per ulteriori studi) e hanno svolto con fedeltà le funzioni proprie dei DNA naturali. Con questi metodi, negli ultimi mesi del 1977 ricercatori americani sono riusciti a inserire in cellule di E. coli il gene sintetico per l'ormone somatostatina. È stato così possibile ottenere per fermentazione batterica la produzione di quantità molto elevate di questo ormone, così da renderne più agevole lo studio e forse lo sfruttamento industriale. È probabile che nel prossimo futuro si potrà produrre in egual modo anche l'insulina.
La tecnologia dell'ingegneria genetica qual è stata qui rapidamente descritta pare offrire mezzi molto potenti per la manipolazione controllata delle proprietà genetiche di alcuni sistemi cellulari. Occorre però ricordare che la produzione in vitro di molecole ricombinanti di DNA non è la sola tecnologia che permette di ottenere nuove combinazioni di geni. Altre procedure sono a questo scopo disponibili: ricorderemo qui la fusione di cellule diverse mediata dal virus di Sendai inattivato, oppure dal trattamento con polietilenglicol. Anche se la natura del meccanismo che porta alla fusione delle cellule trattate non è del tutto nota (è probabile che danni alle membrane cellulari portino alla fusione dei citoplasmi), questo metodo ha permesso la fusione sia di cellule appartenenti al regno animale sia di cellule del regno vegetale, nonché la fusione di cellule umane con cellule di tabacco. L'ibridazione che ne risulta è detta somatica per distinguerla da quella germinale che avviene naturalmente tra i gameti: essa può portare a interessanti risultati per quel che riguarda la regolazione citoplasmatica delle attività nucleari, e forse anche alla produzione di specie cellulari vegetali o animali dotate di combinazioni insolite delle proprietà delle cellule parentali.
In ogni modo, per quanto riguarda le possibili applicazioni pratiche, forse il campo più promettente nel vicino futuro è quello agricolo; l'utilizzazione di alcune delle tecnologie descritte sopra (tra cui quelle più "tradizionali" di fusione in vitro di cellule provenienti da varietà o specie vegetali diverse per ottenere piante con nuove combinazioni di proprietà ereditarie) è attualmente oggetto d'intensa sperimentazione. Pur con le limitazioni tecniche dette prima, è concepibile che si possa riuscire a introdurre dei tratti di DNA ben definiti nelle piante, utilizzando geni provenienti da organismi filogeneticamente lontani, o addirittura sintetizzati allo scopo. Il numero di possibili applicazioni trova limite quasi solo nella fantasia dei ricercatori: si può pensare, come obbiettivi ovvi, all'ottenimento di piante con maggiore contenuto proteico, o comunque con proteine più adatte all'alimentazione umana; oppure alla possibilità d'introdurre direttamente nel genoma delle piante i geni per fissare l'azoto atmosferico (che sono presenti attualmente solo in certi microrganismi); questo darebbe evidenti vantaggi alla produzione agricola, riducendo o abolendo la necessità dei concimi azotati. Ricorderemo però che l'introduzione di DNA estraneo nelle piante non è ancora stata dimostrata in modo rigoroso.
Per quanto riguarda le possibili applicazioni all'uomo, è opportuno non dimenticare le difficoltà tecniche e le incognite elencate sopra; qui, l'obiettivo più evidente sarebbe la cura a livello delle cellule somatiche di certe affezioni ereditarie in cui è carente un prodotto genico che deve agire dentro la cellula (mentre per quelli che agiscono nel sangue circolante, come per es. i fattori antiemofiliaci, può bastare la somministrazione periodica al paziente del prodotto genico). Per quanto riguarda invece l'intervento sulla linea cellulare germinale (e cioè sui gameti di persone portatrici di affezioni ereditarie) non è assolutamente in vista alcuna possibilità metodologica realistica.
Possibili rischi e loro controllo. - I possibili rischi delle tecnologie qui descritte sono prevedibili a diversi livelli; innanzitutto alcuni dei microrganismi prodotti con nuove combinazioni geniche potrebbero rivelarsi patogeni per l'uomo; per es. l'introduzione di geni dei virus tumorigeni in un batterio come E. coli, che è ospite abituale dell'intestino umano, potrebbe diffondere in futuro questi virus in modo imprevedibile. Così pure l'introduzione di sequenze di DNA umano in genomi batterici, coi segnali adeguati all'efficiente espressione del gene entro il batterio stesso, potrebbe avere conseguenze non prevedibili per l'uomo, se il batterio è appunto un suo ospite abituale. Oppure, la produzione di nuove combinazioni geniche nei virus tumorigeni potrebbe produrre forme particolarmente virulente, ecc. Allo scopo di assicurare il controllo di questi rischi, si sono proposte due diverse impostazioni: 1) contenimento fisico, per cui tutte le procedure prevedibilmente più pericolose devono essere svolte in ambienti controllati in modo rigoroso analogamente a quanto succede per i lavori su microrganismi altamente patogeni e diffusivi; 2) contenimento biologico, per cui l'introduzione di geni esterni dev'essere fatta su microrganismi che non siano abituali ospiti dell'uomo, e comunque incapaci di diffusione fuori dal laboratorio per particolari ed esigenti richieste di coltura (terreni molto complessi, particolari temperature, ecc.). L'applicazione di queste tecniche di contenimento dovrà con ogni probabilità essere codificata a livello delle singole nazioni e, auspicabilmente, anche a livello internazionale.
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