FEDERICO, Gennaro Antonio (Gennarantonio)
Nacque a Napoli, tra la fine del sec. XVII e i primi anni del XVIII. Non si posseggono su di lui notizie biografiche rilevanti. I suoi primi interessi artistici furono rivolti, a partire dalla metà degli anni Venti, alle commedie in prosa. Nel 1726 pubblicò a Napoli Lo curatore, con dedica ad Anna Francesca Pinelli, principessa di Belmonte, cui fecero seguito, due anni dopo, Li bbirbe e La Zeza di Casoreja, ambedue pubblicate a Napoli.
Si tratta di commedie "d'intreccio e di carattere", come osserva P. Napoli Signorelli, alle quali l'autore "diede una veste tutta moderna e singolarmente napoletana", "piacevole sì nelle dipinture de' costumi che nel linguaggio, nel quale potrà essere da' posteri qualche volta pareggiato, ma non vinto" (Vicendedella coltura nelle Due Sicilie, Napoli 1811, VI, p. 316).
Realistica la rappresentazione dei personaggi: cosi quella dell'avido curatore, "che traffica sul matrimonio di una fanciulla che ha in cura, con un tagliacantone che la pretende", e più ancora quella di Tenza, appunto l'altro protagonista de Lo curatore, "giovanetta che prende spoglie virili per ricondurre al suo amore un amante infedele", la cui passione "ha un colorito vivacissimo, interessante, e proprio talmente di questa favola e di questo personaggio, che, ad onta del rancido cambiamento di abiti, si rende affatto nuova"; o, infine, quella dei due scrocconi ne Li bbirbe, "scorritori di botteghe da caffè, e cicisbei affamati, che vanno amoreggiando per ispiumar le semplici", spacciandosi per personaggi "di civil condizione" (Scherillo, p. 210).
Ma è al teatro musicale che il F. dovette dedicarsi a partire dal 1730 e per quasi quindici anni, durante i quali scrisse, per il teatro dei Fiorentini e per il teatro Nuovo, circa venti libretti, alcuni dei quali riscossero - grazie anche, e talvolta soprattutto, alla bontà della parte musicale - una fortuna straordinaria, che fece di lui il migliore fra gli scrittori di opere buffe a Napoli negli anni Trenta, così come "Nicola Corvo aveva dominato il campo prima di lui per vent'anni e come Pietro Trinchera lo dominò poi fin oltre la metà del secolo" (Folena, p. 288).
Sono soprattutto i libretti del primo periodo a rappresentare le sue opere migliori e ad occupare un posto di rilievo nell'ambito della produzione del teatro musicale dialettale del tempo. Il F. portò anzitutto a compimento l'emancipazione dell'opera buffa, che da intermezzo comico, generalmente in due scene brevi collocate alla fine del primo e del secondo atto dei drammi, legate all'azione drammatica, sarebbe divenuta genere compiuto ed autonomo, ben distinta dall'opera seria. È ciò che può essere notato già in una delle prime commedie, La Zita, rappresentata al teatro dei Fiorentini nel 1731, con musica di C. Ruberto, nella quale un soggetto comico tradizionale, quello della vedova invaghita di un giovane, "è elevato a protagonista, e una situazione eminentemente buffa è messa alla base dell'azione": dove, insomma, dalla commedia si passa. alla "farsa in tre atti, la vera opera buffa come la intendiamo adesso" (Scherillo, p. 210).
Ma i libretti del F. testimoniano anche di quel lavoro di "affinamento" delle inflessioni popolari e buffonesche proprie del genere comico, che fece sì che esso fosse ormai accolto anche entro gli ambienti di corte: un processo, è stato osservato, che non riguardò tanto gli intrecci, "tagliati sulla tradizione napoletana", quanto "la conduzione e la tipeggiatura", con una progressiva "emarginazione dello scurrile e della grossolana mimesi della vita popolare, per sostituirvi l'attenzione e la cura verso tipi che sembrano staccati dal contemporaneo mondo borghese" (Zanetti, p. 429).
Singolare da questo punto di vista è il caso di una delle sue ultime commedie, La locandiera, lungo intermezzo con balli e musica di P. Auletta, commissionata nel 1738 da Carlo di Borbone e portata in scena al teatro S. Carlo, in occasione dell'arrivo a Napoli di Maria Amalia di Sassonia, sposa del re: scritta prevalentemente in toscano, fu, insieme con Cosa rara di V. Martin y Soler, del 1789, una delle due sole opere buffe rappresentate al S. Carlo nel corso del secolo.
Peraltro, proprio l'attenzione eccessiva per l'intreccio, rigidamente e quasi "geometricamente" strutturato, finì per guastare la fisionomia delle parti, siano quelle comiche o sentimentali: ancora nei primi libretti, come è il caso de Ilfinto fratello - rappresentata al teatro Nuovo nell'autunno 1730, con musica di G. Fischetti, autentica "commedia d'intrigo", vero e proprio "guazzabuglio di amori e di rivalità amorose" (Scherillo) - si finisce per eccedere ora nel "grottesco" ora nel "tragico", e insomma i singoli personaggi risultano "viziati", "talvolta trivialmente goffi, talaltra eccessivamente drammatici" (Della Corte).Gli stessi difetti si riscontrano anche in quella che può essere considerata la più fortunata delle prime commedie, Lo frate nnammorato, rappresentata nel 1732 con grande successo al teatro dei Fiorentini con musiche di G. B. Pergolesi, e più volte replicata, nello stesso teatro e nel teatro Nuovo, commedia nella quale il pubblico cominciò ad intravvedere l'arte del giovane Pergolesi.
Anche qui l'esasperazione dell'intreccio - la vicenda è quella, piuttosto logora e convenzionale, del giovane che ama una donna, senza sapere che ella in realtà è sua sorella (in questo caso la situazione è complicata dalla presenza di due sorelle), e che solo dopo innumerevoli prove e complicazioni riesce a scoprire la sua vera identità - solo in parte riesce a far emergere in modo persuasivo quella vivacità e autenticità di situazioni psicologiche e sentimentali cui l'autore vorrebbe dare vita.
L'anno seguente il F. adattò un nuovolibretto alla musica di Pergolesi: il soggetto, quello della serva che si fa sposare dalpadrone, era, ancora una volta, ampiamente sfruttato; i risultati, tuttavia, furono diversi che per il passato. Concepitocome intermezzo in due parti per Il prigionier superbo dello stesso Pergolesi, La serva padrona, che aveva avuto una messa in musica già nel 1732 ad opera di L. A. Predieri, andò in scena la sera del 28 ag. 1733 nel napoletano teatro S. Bartolomeo, in occasione delle celebrazioni per il compleanno dell'imperatrice e regina Elisabetta Cristina; primi cantanti erano G.Corrado e Laura Monti.
Il successo dell'opera, è noto, fu assai rilevante, per quanto non immediato, con un numero straordinario di repliche, sia in Italia (le prime furono a Roma, teatro Valle, 1738, Parma, 1738; San Giovanni in Persiceto, 1739; Venezia, teatro S. Angelo, 1740 e 1742, teatro S. Samuele, 1741, teatro S. Moisè, 1745, ecc.), sia in Europa (Graz, 1739; Dresda e Monaco, 1740; Amburgo, 1743-46; Praga, 1744; Augusta, Vienna e Parigi, 1746, e ancora Parigi fra il 1752 e il 1755, con oltre duecento repliche, e ancora in Inghilterra e in Russia). Diverse furono le traduzioni, in francese (N. Baurans, con il titolo La servante maitresse), tedesco (1740, 1749, 1755), olandese (1793), nonché le nuove versioni musicali (quella ad opera di G. Abos nel 1744, quella di G. Paisiello, con la quale fu mandata in scena a San Pietroburgo nel 1781, e infine quella di P. A. Guglielmi, nel 1790, con testo modificato da anonimo).
"Per quanto concerne il soggetto, il modello della Serva padrona è stato ricercato in una omonima commedia in prosa di Pier Jacopo Nelli (1732); tuttavia nel libretto di Federico i singoli elementi dell'azione non presentano niente che non si riscontri già negli intermezzi precedenti. Riguardo al contenuto egli poté imparare quasi tutto da Pariati, Salvi e Saddumene; ma pare essere tutto suo il piglio drammatico col quale dal tema stereotipo di base e dalla comicità di situazione egli crea una commedia di carattere ... Nelle arie, Federico ha rinunciato alla citazione e alla parodia di modelli dell'opera seria, così come alla danza e alla musica in scena. Anche in questo caso egli è di un pizzico più rigoroso e concentrato dei suoi predecessori ... In quasi nessun dramma per musica dell'epoca l'unità aristotelica di luogo, tempo e azione è realizzata un modo così rigoroso. La funzione drammaturgica delle arie e dei duetti corrisponde a questa "univocità": tutti rappresentano l'espressione necessaria e vera della situazione, non divagano, non istruiscono né intrattengono" (Strohm, p. 129 s.).
Il progresso, rispetto ai libretti precedenti, è evidente: si tratta di "un modellino di commedia", "una minuscola trama bene ordita, coerentemente compiuta"; non più, dunque, "un indifferente bisticcio", quanto piuttosto un credibile "conflitto d'amore e di interessi". Il linguaggio non "si sforza più di diventar popolaresco", ma si anima piuttosto in "un dialogo veristico e colorito". Il risultato è quello di una commedia nella quale "libretto e musica sono compiuti in assoluta unità", e la cui bellezza, per quanto fortemente debitrice della parte musicale, è pur sempre quella, alla fine, di "una perfetta opera comica, minuscola quanto si vuole, ma opera comica" (Della Corte, pp. 55 e 635; per la posizione storica dei libretto e l'analisi dei linguaggio, cfr. Folena [p. 288], che insiste sull'importanza per la creazione di un "italiano colloquiale, un registro parlato", quello che sarà "uno degli obiettivi più problematici di Goldoni").
I due protagonisti, la servetta Serpina e il vecchio Uberto, che parlano "un italiano imborghesito", si muovono "nello spazio di poche scene", dando vita a "un succedersi incalzante di bisticci, di scontri e di rifiuti", "attentamente studiati e rappresentati nel mutevole passaggio dai più diversi e contrapposti stati d'animo". Così, proprio "la naturalezza del dialogo, l'intensità dei recitativi, la vivacità delle scene e la congruenza degli espedienti usati giustificano appieno la fama conquistata da questa splendida operina" (Lanfranchi; per il testo dell'opera, si v. B. Croce, I teatri di Napoli, Bari 1947, App. VI, pp. 305-319; per l'edizione in partitura, G. B. Pergolesi, La serva padrona. Poesia di G. A. Federico, a cura di K. Geiringer, Wien s. d.).
Il peso che quest'opera ebbe sulla storia musicale di quegli anni, non solo in ambito italiano, è ben noto. In Francia, in particolare, il successo che fece seguito alla sua rappresentazione all'Opéra-Comique di Parigi del 1752, per l'allestimento della compagnia comica diretta da E. Bambini, fu all'origine della famosa "querelle des bouffons" della quale, di lì ad un anno, riferiva J.-J. Rousseau nella sua Lettre sur la musique française, in quegli stessi termini in cui, ancora alcuni decenni più tardi, l'avrebbe ricordata F. Algarotti nel suo Saggiosopra l'opera in musica (Venezia 1791).
Nel 1735, nuovamente a Napoli, ancora Pergolesi richiese la collaborazione del F. per una nuova opera, Il Flaminio, rappresentata con un buon successo al teatro Nuovo in quello stesso anno.
Con questa commedia, e con quelle che immediatamente la precedono, L'Ottavio, rappresentata al teatro dei Fiorentini nell'invemo del 1733, con musica di G. Latilla (replicato negli anni seguenti, e ancora, nel 1760, con la musica di P. A. Guglielmi), L'Ippolita (ibid., primavera 1733, musica di N. Conti) e Gli ingannati (ibid., 1734, G. Latilla), nelle quali la parte dialettale è notevolmente ridotta, il F. cercò, senza fortuna, di cimentarsi vieppiù con le parti serie, ottenendo tuttavia risultati spesso "caricaturali e grotteschi" (Lanfranchi).
Nella produzione ulteriore del F., a cominciare dall'opera IlFilippo, che fu mandata in scena nell'estate 1735 al teatro Nuovo con musica di C. Ruberto (e ancora più tardi, nel 1759, con modifiche e il nuovo titolo Il copista burlato per la musica di A. Sacchini), e in cui pure è presente una parte comica di un certo rilievo - che sarà ripresa più tardi da G. B. Lorenzi per La scuffiara -, "predomina la volontà di far ridere senza alcuna complicazione o sottinteso, ricorrendo a tipi della letteratura o del teatro ma svuotati dei significati che possedevano, trasformati in marionettistiche figure, in protagonisti incredibili di paradossali avventure. In questo caso - che inciderà profondamente su tutto l'avvenire del comico napoletano - quel che conta è il ritmo, è l'impiego della deformazione o il ricorso alla meccanicità dell'espressione: talora al Federico riescono soluzioni felici, le quali però si perdono in un contesto dove casualità e approssimazione sono dominanti" (Zanetti, p. 429).
È questo, in particolare, il caso dell'ultima commedia, Il fantastico, rappresentata in occasione del carnevale del 1743 al teatro Nuovo, con musica di L. Leo (ripetuta nell'autunno del 1748, morto l'autore, al teatro dei Fiorentini, con il titolo di Ilnuovo don Chisciotte, con modifiche e aggiunte di A. Palomba), cui idealmente può essere ficondotta la linea, artisticamente assai poco feconda, dei librettisti comici dei decenni seguenti.
Una parziale eccezione deve essere fatta forse per La Rosausa (rappresentata nel 1736 al teatro dei Fiorentini con musica di D. Sarro, il cui intreccio è giocato tutto sulla opposta tendenza dei due fratelli protagonisti nel loro atteggiamento verso l'altro sesso) e Amor vuol sofferenza (rappresentata a Napoli, al teatro Nuovo, nell'autunno del 1739, con un buon successo, soprattutto grazie alla musica del Leo, e ancora, più tardi, con il titolo La finta frascatana, a Roma e Venezia, rispettivamente nel 1744 e 1748).
Il F. morì a Napoli, probabilmente nel 1743.
Scrisse inoltre i seguenti libretti: Li due baroni, estate 1736, teatro dei Fiorentini, musica di G. Sellitti; Da un disordine nasce un ordine, anche come Da un ordine nasce un disordine, autunno 1737, ibid., musica di V. Ciampi; Il Gismondo, 1737, musica di G. Latilla; L'Amelia, opera sacra (1737, monastero di S. Chiara, musicista ignoto; ed. Napoli 1755); Inganno per inganno, autunno 1738, teatro dei Fiorentini, musica di N. Logroscino; L'Ortensio, carnevale 1739, ibid., musica di G. B. Brunetti; La Beatrice, carnevale 1740, teatro Nuovo, musica di V. Ciampi; L'Alidoro, estate 1740, teatro dei Fiorentini, musica di L. Leo (trasformato nel 1748 in Aurelio da P. Trinchera, musica di M. Capranica); L'Alessandro, 1741, ibid., musica di L. Leo; La Lionora, inverno 1742, ibid., musica di N. Logroscino (per la parte comica) e V. Ciampi (per la parte seria).
Bibl.: P. Napoli Signorelli, Storia critica de' teatri antichi e moderni, VI, Napoli 1790, p. 316; B. Croce, I teatri di Napoli, Napoli 1891, pp. 298-304, 363, 366, 368, 443 e n.; N. D'Arienzo, origini dell'opera comica, in Riv. music. Ital., VI (1898), 3, pp. 491-495; VII (1900), 1, pp. 1-14; M. Scherillo, L'opera buffa napoletana, Napoli 1916, pp. 207-229 passim; A. Della Corte, L'opera comica ital. nel' 700. Studi ed appunti, I, Bari 1923, pp. 50 ss., 55 ss., 73; M. Apollonio, Storia del teatro ital., II, Firenze 1954, pp. 236-242; E. Baffisti, in Enc. d. spett., V, Firenze-Roma 1958, coll. 118 s.; U. Prota Giurleo, Breve storia del teatro di corte e della musica a Napoli nei secc. XVII-XVIII, in F. De Filippis-U. Prota Giurleo, Il teatro di corte nel palazzo reale di Napoli, Napoli 1962, pp. 112 ss.; A. Lanfranchi, La librettistica ital. del Settecento, in Storia dell'opera, III, 2, Torino 1977, pp. 98 ss.; R. Zanetti, La musica italiana nel Settecento, Milano 1978, ad Indicem; G. Folena, Il linguaggio della Serva padrona, in L'italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Torino 1983, pp. 283-306; M. F. Robinson, L'opera napoletana. Storia egeografia di un'idea musicale settecentesca, a cura di G. Morelli, Venezia 1984, pp. 31, 48, 218 ss.; R. Strohm, L'opera ital. nel Settecento, Venezia 1991, pp. 126-138, 160-168.