BACCHER, Gennaro
Figlio di Vincenzo e di Cherubina Cinque, nacque a Napoli nel 1767. Il padre, ricco negoziante, si chiamava in realtà de Gasaro, essendo figlio di un Gerardo de Gasaro e di Orsola Romano, ma, essendo stato allevato dai fratelli uterini, aveva assunto il cognome del primo marito di sua madre Girolamo Baccher, di famiglia oriunda dell'Inghilterra o della Germania, trapiantatasi nel Mezzogiorno da più di un secolo.
Gennaro, che era ufficiale della Contadoria o tesoreria di marina, fu protagonista, insieme con i fratelli e con il padre, della congiura filoborbonica che da loro prende il nome. Dei fratelli, Gerardo, nato nel 1769, era tenente quartiermastro nel reggimento di cavalleria del principe di Moliterno; Giovanni, capitano nei Cacciatori reali; Camillo, nato a Napoli il 5 ag. 1778, dal 1792 addetto alla Scrittura di Marina con l'uso dell'uniforme di contadore; e Placido, nato a Napoli il 5 apr. 1781, impiegato nel commercio. Sembra che anche i fratelli Baccher combattessero a Capodichino e a Porta Capuana nelle tragiche giornate del gennaio 1799, quando la plebe napoletana con strenua resistenza cercò di impedire l'ingresso nella capitale alle truppe dello Championnet. Certamente, dopo la creazione della Repubblica, presero a militare nel partito borbonico, al quale aderì innanzi tutti il vecchio Vincenzo, che era ritenuto amico e protetto del ministro Acton.
I Baccher infatti compaiono alla testa di una delle più importanti Unioni realiste che allora sorsero nella capitale, formate da aristocratici e popolani, da impiegati e ufficiali, e che si prefiggevano di preparare la controrivoluzione facendo incetta di armi, diffondendo notizie allarmanti, lanciando manifesti sediziosi. Della congiura ordita dai Baccher abbiamo notizie piuttosto vaghe. Sembra che al movimento avrebbero dovuto partecipare un paio di centinaia di giovani comandati da un Vincenzo Vinaccia, capitano in un reggimento di artiglieria, e addestrati da un Michele Arturi, nonché un gruppo di realisti, fra i quali si ricordano, per la loro tragica fine, il tintore del Serraglio Natale D'Angelo, di circa quarantasei anni, e i fratelli Ferdinando e Giovanni La Rossa, impiegati presso il banco di S. Eligio, rispettivamente di 30 e 26 anni.
La rivolta sarebbe dovuta scoppiare il 10 aprile, avendo contribuito a rompere gli indugi la cattura di vari realisti ordinata dal governo; il primo obbiettivo avrebbe dovuto essere la conquista di Castel Sant'Elmo per liberare gli arrestati. Tuttavia l'accresciuta sorveglianza della polizia, il desiderio dei congiurati di perfezionare la propria organizzazione, e forse anche il mancato arrivo della flotta inglese, che avrebbe dovuto aiutare il movimento, consigliarono il rinvio dell'impresa all'8 dello stesso mese. Si affrettarono i preparativi; presero a distribuirsi numerosi "biglietti di riconoscimento", che avrebbero dovuto garantire la vita di quanti li detenevano perché attestavano la loro partecipazione alla congiura. Poi il 2 aprile giunse in vista di Napoli la flotta inglese che mise in allarme la città, le truppe francesi, le Unioni realiste. Ma nella notte dal 5 al 6 aprile furono perquisite le case di molti realisti e fra esse quella dei Baccher, nella quale vennero trovate "bandiere realiste e coppole rosse". Come riferisce un cronista, i Baccher furono "sorpresi da Pasquale Battistessa con una coccarda rossa ed un tamburo con le armi regie" e, come scrisse poi in una sua lettera il vecchio Vincenzo, vennero "carcerati in orridi e oscuri criminali". Ma ancora molti altri furono imprigionati e gli arresti continuarono nei giorni seguenti.
Successivamente dal Monitore Napoletano (13 apr. 1799, n. 19), diretto dalla De Fonseca Pimentel, si apprese che la congiura era stata denunziata al governo da Vincenzo Cuoco, informato di tutto da Luisa de Molino, moglie di Andrea Sanfelice, la quale, a sua volta, ne aveva avuto notizia da Gerardo Baccher, suo amico; questi, preoccupato di proteggere la sua vita, le aveva dato uno dei biglietti di riconoscimento, perché potesse presentarlo al momento del pericolo; e la Sanfelice si era premurata di riferire tutto anche ad un altro suo amico, Ferdinando Ferri, che molti annì dopo sarebbe stato nominato ministro da Ferdinando II.
La rivoluzione fu così stroncata e cominciò invece l'istruzione del processo contro i suoi autori, resa laboriosa dal silenzio nel quale si chiusero i catturati. Ma alla fine venne anche la loro ora. Il 3 giugno una legge approvata dalla Commissione legislativa dichiarò che la patria era in pericolo e affermò che era necessaria "una spedita ed istantanea giustizia per punire coloro che l'avevano tradita", e ad una commissione rivoluzionaria di cinque membri attribuì l'incarico di giudicare "sull'istante a pluralità di voti e militarmente senza appello o altro gravame tutti i rei di Stato o che fossero cospiratori o che avessero avuta criminosa corrispondenza cogl'insurgenti e nemici della patria".
A questa commissione, formata da Domenico Pagano commissario del potere esecutivo, da Rocco Lentini, da Giuseppe Pinto Renti, da Timoleone Bianchi, da Francesco Rossi, da Giambattista Marithonè, sostituito poi da Clino Rosselli, venne dato l'incarico di giudicare i Baccher. Il cardinale Ruffa era ormai alle porte di Napoli. "La prudenza - il giudizio è del Cuoco - consigliava un perdono che non potea esser più dannoso". "Ma - come scrisse il Croce - la vendetta e la crudeltà presero la maschera di una necessaria misura di rigore, che avrebbe allontanato il pericolo di una sollevazione della plebe alle spalle delle milizie repubblicane, uscenti dalla città per tener testa alle orde del Ruffo".
Appena poche ore prima dell'ingresso nella città di tali orde, la commissione condannò a morte Gerardo e Gennaro B., Natale D'Angelo, Ferdinando e Giovanni La Rossa. Per l'alternarsi delle speranze e delle delusioni, tragiche furono le loro ultime ore.
Il maggiore storico della congiura così le ha riassunte efficacemente: "Cinque sventurati furono menati nella piazzetta di Castel Nuovo dove si doveva eseguire la sentenza. Ma giunsero contrordini; forse per un momento prevalsero consigli più miti e più sani. I condannati furono fatti rientrare, sennonché sopravvenne dopo un po' la conferma dell'ordine ed essi vennero ricondotti sulla piazza. Si ebbe ancora qualche altra incertezza e finalmente si procedette all'esecuzione. Ed essendo i soldati di linea tutti sui luoghi di combattimento, si adibirono alla fucilazione i militi della Guardia Nazionale. I cinque affrontarono intrepidi la morte" (Croce, Luisa Sanfelice, p. 144).
Dai calabresi entrati in Napoli Vincenzo Baccher e i suoi figli Camillo e Giovanni furono subito liberati dalle carceri della Vicaria, ove erano stati rinchiusi, e si misero alla testa del movimento reazionario. Un accenno alla ferocia di Camillo fece anche il Settembrini nelle sue Memorie, ripetendo quanto gli aveva raccontato il padre, che era stato testimone delle orribili scene che si susseguirono nel carcere dei Granili.
I Baccher furono ricompensati lautamente, ma si calmarono solo quando videro condotta al supplizio la Sanfelice.
Nel 1806, alla venuta di Giuseppe Bonaparte, Vincenzo, per il suo passato, fu arrestato dai Francesi per misura di polizia; confinato nel forte di Fenestrelle, poté ritornare a Napoli soltanto nel 1815, per morirvi il 10 apr. 1818.
Nulla sappiamo delle ulteriori vicende di suo figlio Giovanni.
Camillo, nominato primo tenente dei Cacciatori Reali il 1° luglio 1799, seguì il re in Sicilia durante il decennio, ritornò poi a Napoli alla fine del regime murattiano e fu successivamente capitano (18 ag. 1815), maggiore (28 maggio 1820), tenente colonnello (7 ott. 1823) dei Pionieri reali, colonnello tenente di Re della piazza di Capua (13 ag. 1827), e andò in pensione il 18 marzo 1834 come colonnello "graduato brigadiere per semplice onorificenza", per morire nel 1866. Placido, scosso dai tragici avvenimenti del 1799, preferì farsi prete (1803) e, borbonico convinto, restò in Napoli anche durante la dominazione francese. Rettore della chiesa del Gesù Vecchio, godette di grande prestigio presso il popolo; ma non fu egualmente amato dai liberali, fra i quali il Settembrini, che nella sua Protesta fece di lui un ritratto tutt'altro che lusinghiero, chiamandolo "focoso agitatore delle donnicciuole e dei più feccioso popolazzo". Ancor oggi il suo nome è in Napoli popolarissimo, tra l'altro affidato ad un presepe con personaggi di grandezza naturale noto come "il presepe di don Placido". Morì in Napoli il 19 ott. 1851 in fama di santità.
Delle due sorelle Baccher, Rosa andò sposa ad un Ghio, nonno dell'omonimo generale borbonico.
Camillo avviò verso la carriera militare suo figlio Vincenzo: uscito ufficiale di artiglieria dal collegio militare della Nunziatella, questi raggiunse nell'esercito borbonico il grado di tenente colonnello nel Reggimento Re di artiglieria; e si distinse tanto nel 1848 al comando di una sezione di artiglieria di montagna durante lo sbarco delle truppe napoletane a Messina, quanto nel 1860, allorché il 29 ottobre comandò una batteria al ponte del Garigliano. Dopo la resa di Gaeta preferì darsi alla professione di ingegnere.
Fonti e Bibl.: Per i B. cfr. in genere B. Croce, Luisa Sanfelice e la congiura dei Baccher, in La Rivoluzione napoletana del 1799, Bari 1948, pp. 117-195. Per la loro congiura, cfr. C. Crispo Moncada, Nuovi documenti sulle cospirazioni realiste durante la repubblica del 1799, in Arch. stor. per le prov. napol., XXV(1900), pp. 468 ss.; A.Sansone, Gli avven. del 1799 nelle Due Sicilie, Palermo 1901, pp. CXVIII ss.; A. Geremicca, Un cospiratore realista affiliato ai Baccher, in Boll. dell'arch. stor. del Banco di Napoli, I(1950), pp. 37-44. Per Camillo, cfr. Arch. di Stato di Napoli, Min. Guerra, f.261, inc. 3842. Per Placido, cfr. Raccolta contenente la descrizione de' solenni funerali eseguiti in morte del rev. sacerdote don Placido B. rettore della Chiesa del Gesù Vecchio nei giorni 20 a 22 ottobre 1851, Napoli 1851; Vita del Servo di Dio sac. Placido B., Napoli 1882; Vita popolare del Servo di Dio don Placido B., Napoli 1901; M. del Gaizo, L'apostolato di don Placido B., Napoli 1906; G. Petrone, Il Venerabile don Placido B., Pozzuoli 1924. Per Vincenzo di Camillo, cfr. Ruoli de' generali ed uffiziali del R. Esercito e dell'Armata di Mare del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1860; G. Ferrarelli, Memorie militari del Mezzogiorno d'Italia, Bari 1911, p. 75; B. Croce, Uomini e cose della vecchia Italia, Bari 1927, II, p. 394.