Genocidio
(App. III, i, p. 721; v. anche diritti umani, App. II, i, p. 786; minoranze nazionali, App. II, ii, p. 327)
Il termine genocidio è stato spesso utilizzato in modo generalizzante e semplificante dai mass media per indicare massacri messi in atto durante situazioni conflittuali di vario genere: dall'indecifrabile situazione algerina alla guerra che per anni ha insanguinato la Bosnia ed Erzegovina, alle violenze che periodicamente si abbattono sui Curdi, alla persecuzione dei popoli Chiapas, ai conflitti nel Kosovo. Tra questi esempi, i più vicini alla definizione ufficiale di 'genocidio' sembrano soprattutto i massacri perpetrati nei paesi della ex Iugoslavia. Risulta quindi necessario offrire una chiara disamina della valenza che tale termine ha assunto rispetto ai vari stermini verificatisi nel corso di tutto il Novecento.
Storia della parola
Verso la fine della Seconda guerra mondiale, in seguito alla diffusione delle notizie sui campi di sterminio nazisti, si avvertì nell'opinione pubblica internazionale la profonda sensazione di essere immersi in avvenimenti dal carattere inedito, per la cui comprensione difficilmente si poteva fare ricorso agli strumenti concettuali disponibili fino al conflitto bellico. La percezione della gravità dei crimini attuati dai regimi totalitari esigeva un rinnovamento delle categorie che permettesse di accostarsi a essi per comprenderli e impedire al tempo stesso la loro ripetizione in futuro, nella convinzione che, pur non avendo nulla di extraumano, essi costituissero comunque qualcosa di inedito nella storia mondiale. Il neologismo genocidio nacque in quel contesto, per la volontà e la necessità di definire la nuova, terribile realtà attraverso moduli esplicativi più adeguati. Il termine genocidio fu creato da R. Lemkin (Axis rule in occupied Europe, 1944), un giurista polacco di origine ebraica, trasferitosi negli Stati Uniti, dove insegnò diritto internazionale alla Yale University.
Nell'opera, che tratta delle politiche di occupazione dell'Europa da parte delle potenze dell'Asse, Lemkin dedicava il nono capitolo al Genocidio, termine che faceva così la sua comparsa nella letteratura scientifica. Etimologicamente, il termine scaturiva dall'accostamento del vocabolo greco γένοϚ (specie, stirpe) con il derivato dal verbo latino caedĕre (uccidere), utilizzato di solito nei casi individuali (parricidio, suicidio), e successivamente impiegato in altri composti per definire crimini collettivi (etnocidio, democidio). Nella sua opera, Lemkin ne definiva per la prima volta il significato: "Per genocidio intendiamo la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico". Più oltre, in maniera più analitica, lo definì come "un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, per annientare questi gruppi stessi. [...] Il genocidio è diretto contro il gruppo nazionale in quanto entità, e le azioni che esso provoca sono condotte contro individui, non a causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo nazionale" (Lemkin 1944, p. 79).
A partire da quel momento, il termine genocidio conobbe una lenta ma costante diffusione all'interno della cultura giuridica internazionale e iniziò a penetrare nella coscienza collettiva mondiale. Nel corso del processo di Norimberga (1945-46) contro i principali dirigenti nazisti, esso venne utilizzato per indicare alcuni degli omicidi collettivi più efferati. Alle tre imputazioni che furono loro rivolte (crimini di guerra, crimini contro la pace, crimini contro l'umanità), venne aggiunto il nuovo termine nell'atto di accusa, dove si affermava che i gerarchi nazionalsocialisti "si dedicarono al genocidio deliberato e sistematico, vale a dire allo sterminio di gruppi razziali e nazionali tra la popolazione civile di alcuni territori occupati, allo scopo di distruggere determinate razze o classi di popolazioni e di gruppi nazionali, razziali o religiosi, in particolare gli Ebrei, i Polacchi, gli Zingari". Anche le requisitorie dei procuratori francesi e britannici facevano ricorso al neologismo 'genocidio', che però non apparve nella sentenza emessa il 1° ott. 1946 dal Tribunale militare internazionale. La comparsa del termine in documenti ufficiali risale alla prima sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite (11 dic. 1946), dove lo si definiva "delitto contro il diritto delle genti" (risoluzione 96, i) e si affidava all'ECOSOC (Economic and Social Council) il compito di redigere un progetto di convenzione in materia. Tale progetto, successivamente discusso in Assemblea generale, sfociò nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, che costituisce ancora oggi un punto di riferimento per il diritto internazionale.
La Convenzione fu approvata il 9 dicembre 1948 con la risoluzione 260 A (iii), votata dai 56 membri dell'Assemblea. A essa aderivano 79 Stati nel 1975, saliti a 97 nell'ottobre 1988. L'Italia le ha dato un riconoscimento ufficiale nel 1952 (l. 153 dell'11 marzo); il parlamento ha in seguito emanato la legge costituzionale 21 giugno 1967 nr. 1 in tema di estradizione per i delitti di g. (non si applicano i divieti di estradizione per reati politici previsti dagli artt. 10 ultimo comma e 26 ultimo comma Cost.) e la l. 9 ott. 1967 nr. 962 per la prevenzione e la repressione del delitto di g., con la quale è stato introdotto anche il delitto di deportazione a fine di g. non previsto nella Convenzione. Gli Stati Uniti la ratificarono solo il 4 novembre 1988, quarant'anni dopo l'approvazione da parte dell'Assemblea dell'ONU. Sebbene si sentisse la necessità di un organismo al di sopra delle parti in grado di vigilare sull'applicazione delle norme sul g., la contrapposizione politica tra le potenze vincitrici della guerra giocò un ruolo nel rallentamento dell'adesione alla Convenzione. Nel testo, articolato in un preambolo e 19 articoli, sono contenuti i principi fondamentali del concetto di g., spesso frutto di compromessi tra i vari Stati, timorosi di rinunciare a parte della loro sovranità. I primi tre articoli, di seguito riprodotti, assumono gran rilievo per circoscrivere l'universo concettuale che ha generato la definizione di g. ancora vigente, mentre i successivi sono più specificamente relativi ai problemi giuridici nell'ambito del diritto internazionale.
"1) Le parti contraenti confermano che il genocidio, sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra, è un crimine di diritto internazionale che esse si impegnano a prevenire e a punire. 2) Nella seguente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all'interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro. 3) Saranno puniti i seguenti atti: a) genocidio; b) l'intesa mirante a commettere genocidio; c) l'incitamento diretto e pubblico a commettere genocidi; d) il tentativo di genocidio; e) la complicità nel genocidio".
In linea generale si deve sottolineare l'importanza dell'emergere della figura normativa del g., in direzione di un superamento del diritto internazionale concepito come sistema pattizio di relazioni bilaterali tra Stati, verso un ordinamento giuridico sovrastatale, provvisto di norme generali valide universalmente. Nell'art. 1 si afferma che gli atti di g. non riguardano soltanto gli Stati all'interno dei quali essi si verificano, ma coinvolgono il complesso della comunità internazionale, che dovrà vigilare sia per impedire il verificarsi di nuovi g., sia per punire quelli che si verificheranno e che verranno riconosciuti come tali. La Convenzione si propone infatti espressamente il duplice scopo di prevenzione e di repressione dei genocidi.
Basandosi sull'art. 2 della Convenzione si possono individuare i vari elementi che contribuiscono alla definizione del g.: 1) un avvenimento, un fatto, precisato dai commi da a) a e): non soltanto l'uccisione collettiva (comma a), ma anche tutte quelle azioni volte a danneggiare fisicamente o psichicamente anche un solo individuo colpito perché considerato membro del gruppo-vittima; 2) un elemento decisionale, vale a dire l'intenzione di distruggere totalmente o parzialmente un gruppo: questa intenzione, questo progetto di massacro sarà un punto fondamentale nella caratterizzazione del delitto di g.; 3) una vittima particolare: il gruppo-vittima che viene definito come gruppo razziale, nazionale, etnico, religioso. In merito al soggetto responsabile del crimine, l'enunciazione non permette di definirlo con certezza, ma i lavori più autorevoli e recenti, come quello di Y. Ternon, tendono a identificarlo con uno Stato: "Il responsabile di un genocidio è sempre uno Stato [...]. Il genocidio è un crimine di Stato, l'esecuzione della volontà di uno Stato sovrano, ed è questo che lo distingue dal massacro che possono compiere bande o truppe non incaricate dal proprio governo" (Ternon 1995; trad. it. 1997, p. 59).
Tra i provvedimenti più importanti approvati successivamente, va segnalata la risoluzione 2391 (xxiii) del 26 nov. 1968, con la quale l'Assemblea generale dell'ONU adottò la Convenzione sull'imprescrittibilità dei crimini di guerra e dei crimini contro l'umanità che, nell'art. 1 comma b, individuava il crimine di g. così come era definito nella Convenzione del 1948.
Nel corso del tempo, varie proposte sono state avanzate per modificare e adeguare la Convenzione alle nuove sollecitazioni, ma tutti i tentativi per renderla operativamente vincolante sono falliti. Nonostante le critiche alle formulazioni proposte nella Convenzione, soprattutto decise a mettere in evidenza la mancata inclusione di altri gravi crimini nella definizione di g., si è ritenuto che la via praticabile, più che all'allargamento sconsiderato del concetto di g., dovesse mirare all'affiancamento a tale Convenzione di opportune convenzioni specifiche, che punissero esplicitamente gli altri crimini con l'introduzione di nuove figure criminose nel diritto internazionale. Inoltre, come ritiene opportunamente L. Ferrajoli, "è bene che resti una specifica norma contro il genocidio in senso stretto: per evitare che questo si appiattisca sulle altre forme di aggressione non dolosa alla vita e alla sopravvivenza, indiscutibilmente meno gravi; e perché è opportuno che il genocidio modellato sull'olocausto resti come una sorta di monumento giuridico nella memoria storica della comunità internazionale e che la Convenzione che lo condanna come il primo e più intollerabile dei crimini contro l'umanità resti come atto fondativo del diritto internazionale contemporaneo nato dalla Carta dell'ONU" (Genocidio/Genocidi, 1995, p. 62).
Definizione del genocidio
Il g., in quanto espressione della volontà politica di pianificazione dello sterminio di massa, rappresenta il lato più oscuro e tragico della storia del Novecento. Esso è infatti un delitto volontario e pianificato, commesso da uno Stato nell'intento di sterminare un gruppo che viene definito in termini naturalistici come un'entità data da cui non è possibile uscire. A caratterizzare la categoria di g. non sono l'enormità del crimine o le dimensioni del massacro, bensì il carattere volontario e pianificato dell'uccisione e le modalità con cui viene costruita l'identità delle vittime, intesa quest'ultima come il risultato di un marchio identitario imposto da un potere che, per questo fine, si appoggia alla complessa macchina degli apparati ideologici e repressivi di Stato. Non sono né il grado di barbarie delle pratiche di uccisione, né il numero delle vittime a far rientrare un omicidio collettivo nella categoria di g.; non è indispensabile che le singole vittime abbiano coscienza di appartenere a un gruppo, né che abbiano scelto di appartenervi, ma è il potere decisionale dei carnefici che stabilisce il legame del singolo col suo preteso gruppo di appartenenza, che le definisce in termini di identità incancellabili, fissate una volta per tutte e che le classifica come destinate a una potenziale eliminazione. Su questo processo, che naturalizza e sposta il terreno delle potenziali differenze e di un possibile conflitto dal piano sociopolitico al livello ontologico, si innesta la volontà di eliminare definitivamente il gruppo colpito, nel momento in cui uno Stato si riserva il diritto, come ha affermato H. Arendt, di "stabilire chi deve e chi non deve abitare la terra" (Arendt 1963; trad. it. 1964, p. 284), decidendo di sopprimere, come sostenevano i teorici del nazismo, le "vite indegne di essere vissute". Le vittime pertanto vengono uccise indipendentemente dai loro atti o comportamenti, e unicamente in base all'appartenenza a un gruppo in cui si trovano costrette.
Da un punto di vista terminologico, il riferimento a γένοϚ conserverebbe un residuo di ambiguità se lo si interpretasse in rapporto a un'entità concreta, una 'razza' realmente esistente, rischiando di porsi così sul piano dell'ideologia espressa dai carnefici. Rivela invece un profondo valore euristico di classificazione e di comprensione se lo si colloca sul piano di un'attività definita di 'razzizzazione'. Con questo termine si intende un processo attraverso il quale un gruppo umano è considerato una 'razza' e viene investito di un'identità che trova le proprie radici in un insieme di caratteri fisici e spirituali, trasmessi di generazione in generazione, che tutti gli individui del gruppo condividono. In tal modo, si supererebbero anche le aporie presenti nella stessa Convenzione del 1948, dove la necessità di moltiplicare le categorie dei gruppi-vittima (nazionale, etnico, razziale, religioso) produce un'enumerazione che forzatamente, per quanto analitica, è soggetta a omissioni, ed è sintomo di una inadeguata concettualizzazione. A ciò si deve aggiungere l'ambiguità dell'uso del termine 'razziale', per designare le caratteristiche di un possibile gruppo-vittima, tanto più sorprendente in quanto negli stessi anni un altro organismo delle Nazioni Unite, l'UNESCO, elaborò, dopo una serie di lavori preparatori iniziati nel 1949, una Dichiarazione sulla razza (luglio 1950). In essa si metteva in discussione il concetto stesso di 'razza' sconsigliando la sua utilizzazione, poiché "sarebbe auspicabile non ricorrere in alcun modo al termine [...] quando ci si vuole riferire alle razze umane ed usare in alternativa la definizione 'gruppi etnici'" (punto 6), riconoscendo che "allo stato dei fatti, quello di 'razza' non è tanto un fenomeno biologico quanto piuttosto un mito sociale" (punto 14). Anche in questo caso le ambiguità tendono ad attenuarsi se si riconosce che le categorie, in cui vengono suddivisi i gruppi colpiti dalla volontà genocida (gruppi nazionali, etnici, razziali, religiosi), non hanno niente di scontato o di naturale. Esse diventano pertinenti alla categoria 'genocidio' attraverso il processo di razzizzazione.
È necessario però distinguere due logiche di tale processo seguendo le riflessioni sui fenomeni del razzismo e dell'antirazzismo del filosofo e politologo francese P.-A. Taguieff. La prima si esprime attraverso la serie 'eterorazzizzazione/ineguaglianza/dominio/sfruttamento' e lascia intravedere un razzismo di dominio con lo scopo ultimo dello sfruttamento. Esso propone un'inferiorizzazione dei gruppi estranei e sostiene un'ineguaglianza di trattamento nei confronti del gruppo razzizzato; e in genere tende a conservare la relazione di subordinazione e sottomissione tra i gruppi. Nelle situazioni storiche esso trova un esempio nel razzismo coloniale. La seconda logica razzizzante si manifesta attraverso la serie 'autorazzizzazione/differenza/purificazione-epurazione/sterminio', vale a dire una convinta affermazione della propria identità razziale. Il razzismo di esclusione, che ne deriva, ha come scopo di emarginare il gruppo razzizzato e in casi estremi di espellerlo dalla società verso il risultato finale del g.: "Il genocidio si presenta così come un diritto, ma ancor più profondamente come un dovere. È la conclusione logica di un certo modo di costruire l'alterità". In questo processo sta il nucleo concettuale che definisce il g.: tutti i gruppi che vengono razzizzati, siano essi definiti come nazioni, etnie, religioni differenti, secondo questa logica sono destinati a essere pensati come eliminabili, in quanto "la logica genocida si impone a partire dalla non inscrivibilità dell'Altro su una scala gerarchica" (Taguieff 1987; trad. it. 1994, pp. 204-05). Evidenziare le due logiche e sottolinearne l'indipendenza concettuale non significa però affermare che esse funzionino necessariamente separate nella realtà concreta: storicamente esse si presentano aggrovigliate, mai divise interamente una dall'altra.
Il g. si realizza quando il razzismo di esclusione, fondato su una logica basata sulla differenza, diviene predominante, e non consente più la convivenza di gruppi diversi. A quel punto scatta il passaggio all'azione omicida, che generalmente si organizza e si struttura in vari momenti.
Fasi del genocidio
Dal punto di vista della sua realizzazione, si può pensare il g. come un processo che si articola in varie fasi. La presenza complessiva di tutte le fasi individuate costituisce una sorta di 'idealtipo' del g., una costruzione teorica che svolge il ruolo di schema interpretativo di una determinata realtà sociale, sottolineando che nel contesto storico dei singoli g., alcuni di questi elementi strutturali sono presenti solo in forma latente o non enfatizzati. Si può quindi schematizzare un idealtipo del g. distinto in sei fasi: 1) soppressione dell'identità (disumanizzazione); 2) definizione, selezione ed etichettatura; 3) soppressione dei diritti civili; 4) pianificazione; 5) esecuzione; 6) negazione.
1) La prima fase si compie attraverso la preparazione dell'opinione pubblica, la mobilitazione delle masse, ovvero la cattura del consenso o dell'indifferenza, attraverso un processo di disumanizzazione nei confronti degli appartenenti al gruppo-vittima, ottenuta facendo ricorso a un patrimonio metaforico proveniente soprattutto dal campo animale e dal campo biomedico. Le strategie argomentative in questi contesti mirano, attraverso l'uso spregiudicato di immagini, a definire un gruppo in termini negativi, in modo da respingerlo oltre i confini dell'umanità. I soggetti da colpire sono espulsi dall'ordine non solo della società, ma anche della specie umana. Il fenomeno ha radici lontane, e trova esemplificazione nelle parole del teologo e orientalista del 19° secolo P. de Lagarde che, riferendosi agli Ebrei, affermava che "non si discute con la trichina o con il bacillo, non si educa la trichina o il bacillo, li si stermina il più rapidamente e il più radicalmente possibile". La rappresentazione biomedica del nemico istituisce il paragone della sanità contro la malattia, impiegando termini come virus, bacilli, germi per indicare l'avversario da eliminare. Le metafore animali assumono alcune specie particolari (piovre, ratti, pidocchi, parassiti, serpi) per comunicare disgusto e repulsione, proiettando questi sentimenti sul gruppo colpito. A confermare la permanenza di certi modelli psicologici, attraverso l'uso particolare di metafore animali per caratterizzare il nemico da sterminare, si può notare come nel g. più recente, avvenuto in Ruanda nel 1994 (v. oltre), i Tutsi, appartenenti al gruppo perseguitato, sono stati definiti dagli organi governativi di propaganda come inyenzi (scarafaggi), da annientare e da distruggere senza tanti scrupoli di coscienza.
2) Alla fase preparatoria di disumanizzazione delle vittime, segue poi il momento in cui è necessario identificare con precisione gli appartenenti al gruppo da eliminare. Infatti, la logica genocida non colpisce mai a caso, ma funziona in base a categorie imposte dai detentori del potere, per mezzo delle quali alcuni soggetti vengono identificati e separati dal resto della popolazione. Va messo in risalto il carattere intenzionale e selettivo di un processo volto a distruggere un gruppo definito in termini razziali, in quanto, anche se non fosse esplicito il riferimento al termine 'razza' rispetto alla vittima, il campo concettuale è quello definito dai processi di razzizzazione. I criteri per selezionare le vittime oscillano tra motivazioni culturali e pretese scientifiche, in cui spesso si adopera anche una biologia ideologizzata per la classificazione e la collocazione degli individui all'interno del gruppo-vittima.
3) Nella terza fase è l'apparato del diritto che viene mobilitato allo scopo di escludere dalla comunità politica gli appartenenti al gruppo razzizzato. In primo luogo si nega o si limita la personalità giuridica dell'individuo identificato, si sospendono i suoi diritti fondamentali creando così settori differenziati all'interno della popolazione. La macchina giudiziaria è mobilitata per l'esclusione dalla comunità di una categoria particolare di persone e si introduce così un modo diverso di considerare gli esclusi. Spesso si abitua lo sguardo della maggioranza a considerare come 'diversi' alcuni componenti della società, rinforzando la coesione interna, e si rende visibile una minoranza come responsabile delle cause del disordine e delle disfunzioni dell'intera società. La discriminazione costituisce, in genere, solo una tappa del processo e prepara la persecuzione vera e propria.
4) Nei g. del Novecento, risalta in maniera evidente che i mandanti agiscono in un clima di fredda determinazione e programmazione, anche se il fattore emotivo è diffuso negli esecutori. La pianificazione e l'organizzazione costituiscono un elemento determinante nel distinguere i g. dai massacri 'ordinari'. La distruzione dell'avversario, l'eliminazione del gruppo razzizzato sono presentati come misure necessarie, quasi terapeutiche, che vanno preparate con attenzione e con vigore.
5) Al fine dell'eliminazione del gruppo-vittima, tutti i mezzi disponibili vengono mobilitati, in una "lucida combinazione di ingegno tecnologico, di fanatismo e di crudeltà" (Levi 1986, p. 12). L'utilizzo sistematico della tecnologia ha un duplice effetto: da una parte amplifica la potenza distruttiva, dall'altra crea una distanza fisica ed emotiva tra il carnefice e le sue vittime.
6) Nei g. contemporanei si è registrata una costante: come 'ultimo atto' della propria esistenza, ogni autore di un g. si è dimostrato interessato a cancellare le tracce dei suoi crimini. La rete delle complicità, il coinvolgimento spesso massiccio di settori importanti della popolazione, favoriscono un processo di cancellazione collettiva che professionisti della rimozione alimentano e producono incessantemente.
I genocidi del Novecento
I g. costituiscono quindi una categoria a sé, che va distinta dagli omicidi collettivi, dai massacri e dai crimini di guerra. Nel corso del 20° sec., definito da E. Hobsbawm e I. Berend 'il secolo breve', numerosi sono stati i massacri, ma tra questi vanno individuati ed evidenziati esclusivamente quei casi che presentano le caratteristiche del g., così come è stato definito; mentre per altri fenomeni, pur non meno efferati sul piano etico e significativi sul piano politico - dallo sterminio dei kulaki in URSS, alla fine degli anni Venti, alle uccisioni di massa in Cambogia, Bangla Desh, Indonesia e recentemente nei paesi della ex Iugoslavia - la denominazione di g. è ancora materia di discussione per la controversa fisionomia delle caratteristiche loro attribuite.
Rientrano nella categoria di 'genocidio' quattro stermini avvenuti nel corso del secolo nei confronti di quattro gruppi-vittima: gli Armeni (1915-16), gli Ebrei (1941-45), gli Zingari (1941-45), i Tutsi (1994).
Armeni. - A inaugurare la catena dei g. novecenteschi è stato lo sterminio della minoranza armena nella Turchia del 1915. Per la prima volta si mise all'opera una volontà sistematica e pianificata da parte di un'organizzazione statale decisa a eliminare un gruppo, realizzata attraverso massacri che culminarono con le stragi del 1915-16. Il g. era stato avviato nel 1894 dal sultano ‚Abd ul-Ḥamīd ii, e tra il 1894 e il 1896 vennero uccisi tra i due e i trecentomila Armeni. Il particolare carattere sistematico e selettivo conferisce a questi massacri una forma genocida. La motivazione del crimine è da ricercare in un'ideologia fondata su due miti: da un lato la credenza in una missione di nazionalismo irredentista, ovvero un panturchismo, deciso a riunire tutti i popoli turchi in un unico complesso, dal Bosforo all'Asia orientale, e dall'altro il mito di restaurazione di una pretesa originaria purezza razziale dei popoli turanici. Questa miscela fece esplodere una situazione già instabile. Un ulteriore massacro fu compiuto nell'aprile del 1909: promosso dai Giovani Turchi, nome occidentale del comitato Unione e progresso (Ittiḥād we Taraqqī), che nel 1908 avevano preso il potere, ebbe come risultato circa trentamila vittime.
Nel corso della Prima guerra mondiale, in cui i Turchi si presentavano come alleati degli Imperi centrali, il 24 aprile 1915 iniziò il processo per l'eliminazione totale degli Armeni dall'Impero ottomano. La determinazione del g. si fonda in particolare su fonti turche, e sui documenti prodotti per il processo agli autori dei massacri svoltosi nel 1919. A questi vanno aggiunti le testimonianze e i rapporti dei diplomatici stranieri di grande ausilio per far luce sulle motivazioni del g. e sugli avvenimenti: tra i più significativi, che fanno risaltare le esplicite intenzioni genocide dei dirigenti turchi, si annovera la testimonianza dell'ambasciatore tedesco H. Wangenheim al suo cancelliere, in data 7 luglio 1915: "Il modo in cui viene effettuata la deportazione dimostra che il governo persegue realmente lo scopo di sterminare la razza armena nell'impero ottomano". Anche il console americano L. Davis in un rapporto all'ambasciatore H. Morgenthau (11 luglio 1915), dichiarava esplicitamente: "Li hanno semplicemente arrestati e uccisi nell'ambito di un piano generale di sterminio della razza armena"; e ribadiva alcuni giorni dopo (24 luglio): "Non è un segreto che il piano previsto consisteva nel distruggere la razza armena in quanto razza" (Mutafian 1995; trad. it. 1995, pp. 44 e 47). Attraverso deportazioni, fucilazioni, morti per inedia, l'intera popolazione armena in Turchia venne coinvolta nel primo progetto di pulizia etnica e di g. del 20° secolo. Il numero delle vittime, in realtà piuttosto complesso da determinare, poiché varia a seconda della stima demografica della presenza armena in Turchia prima della guerra, è da calcolarsi, secondo gli studi più recenti, tra il milione e il milione e mezzo di Armeni.
I riconoscimenti internazionali della realtà del g. armeno hanno tardato fino alla sentenza del Tribunale permanente dei popoli nel 1984; questa e, successivamente, l'approvazione nel 1986 del rapporto Whitaker da parte della Sottocommissione dell'ONU 'per la lotta contro le misure discriminatorie e per la protezione delle minoranze' e infine la decisione del Parlamento europeo (18 giugno 1987) diedero il legittimo rilievo al massacro.
Ebrei. - Il g. degli Ebrei operato dal regime nazista è il caso più eclatante di un omicidio di massa, freddamente programmato, organizzato da uno Stato totalitario, applicato in modo industriale, attraverso una mobilitazione burocratica e anonima, inflitto senza altra ragione che la pretesa appartenenza a una razza. Da un punto di vista cronologico e tipologico, è l'evento che ha generato materialmente la necessità del neologismo genocidio. Esso si presenta in una prospettiva sintetica come esemplare e costituisce il paradigma, finora inavvicinato da altri massacri, delle violenze e degli omicidi di massa compiuti dall'uomo nel 20° secolo. In questo caso la motivazione ideologica connessa a un razzismo eliminazionista è esplicita, come emerge anche dalle parole di A. Hitler: "La scoperta del virus ebraico è una delle più grandi rivoluzioni che siano mai avvenute al mondo. La battaglia in cui ci impegnamo oggi è dello stesso tipo di quella ingaggiata, il secolo scorso, da Pasteur e da Koch. Dal virus ebraico hanno origine numerose malattie [...]. Riguadagneremo la nostra salute soltanto eliminando gli ebrei" (Hitler, Conversazione del 22 febbraio 1942, in Hitlers Tischgespräche, 1951; trad. it. 1980², p. 290).
Preceduta dai provvedimenti antisemiti del 1933 e dalle leggi razziali, note come leggi di Norimberga (1935), che miravano all'esclusione degli Ebrei dalla vita pubblica della Germania, la persecuzione antiebraica nella fase successiva ebbe come finalità l'emigrazione forzata di tutta la popolazione di origine ebraica. La deportazione e l'uccisione sistematica degli individui considerati di 'razza ebraica' si sviluppò nel corso del conflitto bellico e, a partire dal 1941, venne avviata 'la soluzione finale del problema ebraico', ovvero la distruzione completa di tutti gli individui considerati ebrei. Il dibattito sulle cifre delle vittime ha impegnato la ricerca storiografica fin dall'immediato dopoguerra e allo stato attuale si presenta nei seguenti termini: 5.721.800, atto di accusa (nov. 1945) del processo di Norimberga contro i criminali di guerra; 5.100.000, secondo le cifre prudenti, in difetto per la cautela dell'autore, proposte da R. Hilberg (1961); 6.000.000 secondo le ultime ricerche coordinate da W. Benz (1991), che sottolinea: "Dal bilancio complessivo si ricava un minimo di 5,29 milioni ed un massimo di poco superiore ai 6 milioni" (Dimension des Völkermords, 1991; trad. it. 1993, p. 24), cifre che confermano sostanzialmente quelle stimate nell'immediato dopoguerra.
Le uccisioni avvennero secondo tre modalità: 1) attraverso le Einsatzgruppen, unità speciali della polizia di sicurezza, operanti soprattutto nei territori dell'Unione Sovietica conquistati dalle truppe hitleriane; 2) la concentrazione forzata nei grandi ghetti urbani della Polonia, dove migliaia di persone persero la vita a causa della fame, del sovraffollamento e dei lavori forzati; 3) i campi di sterminio, di cui va sottolineata la particolarità e la differenza dai campi di concentramento, con cui spesso sono confusi: la loro unica finalità era l'eliminazione del maggior numero di persone con il minor dispendio di energie. Ai fini dell'eliminazione totale della 'razza ebraica' vennero costruiti e attivati quattro campi di sterminio e due di concentramento e sterminio, situati in territorio polacco, nei quali trovarono la morte più di 3.000.000 di persone. Nei campi di sterminio di Chelmno furono eliminate 152.000 persone; a Belzec 600.000; a Sobibor 250.000; a Treblinka 800.000; nei campi di concentramento e sterminio di Auschwitz 1.000.000; a Majdanek 80.000 persone.
Per rimarcare la volontà dei nazisti di annientamento della 'razza ebraica', va ricordata l'uccisione di circa 1.800.000 ragazzi sotto i 14 anni. Se la responsabilità del g. ebraico è certamente da addebitarsi in primo luogo al regime nazista, non è da dimenticare la rete di complicità che permise la realizzazione pratica del genocidio. Senza il collaborazionismo di Ucraini, Lituani, Francesi del regime di Vichy, ecc., difficilmente l'uccisione di massa avrebbe raggiunto dimensioni così imponenti. Nel caso italiano, le ricerche di L. Picciotto Fargion (1991) hanno fatto emergere le complicità degli esponenti della Repubblica sociale italiana. Tra il 9 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 sono documentati i casi di almeno 7013 Ebrei arrestati e avviati alla deportazione. Dei 4699 casi di cui sono noti gli autori dell'arresto, 1898 furono eseguiti da soli Italiani, 312 videro agire insieme Italiani e Tedeschi, per un totale di 2210 Ebrei fermati. Le cifre dimostrano quindi che in almeno il 30% degli episodi vi fu una partecipazione attiva da parte dei collaborazionisti italiani.
Recenti polemiche, in seguito alla pubblicazione (1996) degli studi dello storico americano D.J. Goldhagen, hanno riaperto la questione sulla responsabilità collettiva del popolo tedesco nell'esecuzione del g. ebraico. Al centro dell'opera dello studioso americano vi è la convinzione che il consenso di massa e la partecipazione dei 'Tedeschi comuni' ai crimini contro gli Ebrei durante il periodo nazista non sia da ricercare nelle crisi economiche, nei poteri coercitivi dello Stato totalitario o nei tratti indelebili del 'carattere nazionale', ma sia riconducibile piuttosto alla specifica forma di antisemitismo, definito da Goldhagen 'eliminazionista', che da oltre un secolo pervadeva la società tedesca.
Zingari. - A lungo trascurato anche per la difficoltà delle vittime di far riconoscere i loro diritti, il g. degli Zingari perpetrato dal regime nazista si è consumato nell'indifferenza e nel disinteresse quasi totale, anche nell'ambito degli studi, fino a tempi recentissimi. L'uccisione di massa si era svolta parallelamente al g. ebraico, ma a differenza di questo, di cui era risaltato immediatamente il carattere razziale della persecuzione, solo a distanza di tempo gli storici hanno superato le versioni ufficiali che parlavano di provvedimenti contro gli Zingari fondati esclusivamente sulla difesa dell'ordine pubblico e della sicurezza sociale. Considerati una minaccia per la pretesa purezza del sangue tedesco, gli Zingari furono sottoposti dai funzionari del regime hitleriano inizialmente a misure che intensificavano i regolamenti repressivi già in vigore, concentrando l'attenzione sugli Zingari nomadi, definiti asozialen e quindi pericolosi per la stabilità sociale. Ma gli obiettivi erano molto più radicali.
La persecuzione conobbe varie tappe, a partire dal consueto programma di individuazione e classificazione degli appartenenti al gruppo denominato razza zingara. Un'équipe di antropologi, psichiatri e genetisti, sotto la guida del medico e psicologo R. Ritter (1901-1951), cominciò dalla metà degli anni Trenta a realizzare ricerche genealogiche e classificazioni razziali sulla popolazione zingara della Germania, valutabile sulle trentamila unità. I ricercatori pervennero alle conclusioni che gli Zingari in quanto gruppo erano degenerati, criminali e asozialen e che questa loro natura era ereditaria. Furono quindi predisposti dei campi per Zingari, il primo dei quali, a Colonia, venne aperto all'inizio del 1935. Nel 1936, in occasione delle Olimpiadi di Berlino, venne costruito il più grande campo zingaro a Marzahn, in una ex discarica nei pressi di Berlino. Tra le prime ipotesi sui provvedimenti da prendere, nel 1937 fu proposta la sterilizzazione coatta per l'intera popolazione zingara, che negli anni successivi fu progressivamente messa in pratica negli ospedali e in seguito nei campi di concentramento.
Gli articoli delle leggi razziali di Norimberga non menzionano esplicitamente gli Zingari, ma essi vennero inseriti tra i possessori di "sangue misto e degenerato" nei commentari alle disposizioni legislative. Il primo provvedimento contro gli Zingari in quanto tali fu emanato l'8 dicembre 1938 da H. Himmler: in esso si affermava che la 'questione zingara' doveva essere considerata una 'questione di razza'. I vari provvedimenti restrittivi che seguirono rappresentarono soltanto un primo passo, delle premesse alle deportazioni, che iniziarono nel maggio del 1940. Furono "perseguitati, imprigionati, seviziati, sterilizzati, utilizzati per esperimenti medici, eliminati nelle camere a gas dei campi di sterminio, perché Zingari e, secondo l'ideologia nazista, 'razza inferiore', indegna di esistere" (Boursier 1995, p. 363). Le cifre attualmente disponibili stimano in oltre 500.000 gli Zingari uccisi nel corso della Seconda guerra mondiale, in gran parte provenienti dall'Europa orientale occupata dalle truppe naziste.
Tutsi. - Presentato dai mezzi di comunicazione occidentali come se fosse la conseguenza di qualche atavico conflitto inter-etnico, sfociato improvvisamente in un'esplosione di violenza irrazionale, tra l'aprile e il luglio del 1994 si verificò nel Ruanda, nella zona dei Grandi laghi africani, il più spaventoso g. avvenuto dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Le cifre parlano di oltre 800.000 vittime, in gran parte appartenenti alla minoranza tutsi, massacrate selvaggiamente.
Non si trattava, però, di una violenza incomprensibile, legata a odi ancestrali, a guerre tribali, a presunte caratteristiche di un'Africa ridotta a un luogo di manifestazione di un'umanità selvaggia e sfrenata, ma di un g. vero e proprio: un piano politico abilmente orchestrato - come dimostra la modernità dei processi messi in atto - che ha prodotto uno dei più grandi orrori del 20° secolo. La pianificazione dell'eliminazione dei Tutsi, definiti dai carnefici come inyenzi (scarafaggi), e dei loro 'complici' (ibytso), vale a dire degli Hutu all'opposizione o che rifiutavano la logica della razzizzazione, si svolse con la complicità dell'apparato statale, delle amministrazioni locali e dei quadri tecnici, che vennero mobilitati per la riuscita di un g. 'decentrato', in quanto nel paese, per la maggior parte rurale, la popolazione era dispersa sulle 'mille colline' che configurano il territorio del Ruanda.
L'implicazione e il coinvolgimento dell'apparato politico-amministrativo e militare, saldamente in mano alla maggioranza hutu, e il carattere metodico e quasi burocratico dell'epurazione costituiscono il tratto che desta maggior stupore dell'intera vicenda. I prigionieri, convogliati verso supposti rifugi (chiese, ospedali ecc.), sono attaccati con gas lacrimogeni e granate e infine uccisi con machete, bastoni, lance. Tale g. si fonda su un mito razzista, la pretesa estraneità della 'razza' tutsi alle vicende del paese, costruito e stratificatosi nel corso del tempo. Inizialmente prodotto dagli antropologi e funzionari tedeschi, il mito venne poi rafforzato dopo la Prima guerra mondiale dai missionari e dagli amministratori coloniali belgi.
Le decisioni amministrative fondanti i privilegi tutsi, le ipotesi etno-bibliche dei missionari e la razziologia africanista dell'epoca costituiscono le basi di una sorta di bioetnismo scientifico ufficiale, nella tradizione razzista e nello spirito del tempo agli inizi del 20° secolo. Il risultato fu la polarizzazione in senso etnico e razziale e la cristallizzazione dei fluidi rapporti etnico-sociali dell'epoca precoloniale in una rigida e immodificabile gerarchia razziale, che non consentiva alcun terreno di confronto o di mediazione nella concreta prassi sociale. La fissazione delle categorie 'hutu' e 'tutsi', frutto delle politiche coloniali, venne sancita nel 1933 con l'introduzione delle carte di identità in cui si fissava una volta per tutte l'identità immodificabile degli individui, classificati con modi spesso arbitrari ora come hutu ora come tutsi. La minoranza tutsi, cui fu affidato il ruolo di classe dirigente al servizio dei colonialisti, attirò ben presto su di sé l'odio della maggioranza hutu, esclusa da ogni contatto con il potere. La rivalità tra i due gruppi, definiti a torto come etnie diverse, causò violenze reciproche nel corso degli anni e sfociò nel grande massacro del 1994. I gravi fatti vennero preparati dai giornali che seminavano l'odio razziale e dagli slogan diffusi nell'etere da Radio-télévision libre des milles collines, creata nel 1993, di cui si segnalano i più significativi: "Muovetevi, datevi da fare, le tombe sono piene soltanto a metà, non basta, bisogna finire il lavoro"; "Uccidete i bambini, altrimenti torneranno a vendicarsi"; "Tutti i Tutsi devono essere sterminati per concludere e vendicare secoli di dominazione". Il 'lavoro' (akazi) di sterminio (gutsembatsemba) era giustificato in termini di autodifesa, ed eseguito materialmente dalla cosiddetta interahamwe, la milizia composta da integralisti hutu.
Le uccisioni di massa cessarono nel luglio del 1994 con la fuga dei dirigenti responsabili del g., sconfitti militarmente dal Fronte patriottico ruandese, attualmente al governo. Il Tribunale penale internazionale delle Nazioni Unite per i crimini nel Ruanda, con sede ad Arusha, in Tanzania, venne istituito con risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU nr. 955 dell'8 novembre 1994, con il compito di processare persone sospettate di g. e altri crimini contro l'umanità, commessi nel territorio del Ruanda, e i ruandesi che li avessero commessi sul territorio dei paesi vicini tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 1994.
Usi impropri del concetto di genocidio
Il g. costituisce un nodo irrisolto al centro delle controversie e del dibattito storiografico sulla natura dei regimi totalitari del Novecento, e a partire dalla definizione che di esso viene offerta mutano e si ridefiniscono le valutazioni sui singoli regimi. L'uso del concetto di g. in chiave storiografica riveste ancora una notevole forza esplicativa, fatte salve alcune precauzioni metodologiche. Da un lato, è necessario evitare l'estensione indefinita del campo di applicazione della parola per il rischio di impoverire il termine genocidio attraverso la sua generalizzazione abusiva, tanto da fargli perdere la sua specificità e la sua forza esplicativa. Dall'altro, una sua restrizione eccessiva priverebbe di incisività un concetto indispensabile alla comprensione della storia contemporanea.
Un campo esemplificativo, in cui i pericoli connessi all'uso più o meno rigoroso del concetto di g. si presentano particolarmente insidiosi, riguarda il dibattito sull'unicità o la comparabilità del g. ebraico, in quanto, oltre alle diverse valutazioni storiografiche, vengono inevitabilmente coinvolti sentimenti ed emozioni. Nel suo svolgersi, l'approccio al g. ebraico ha spesso generato controversie infruttuose, di cui è un sintomo la varietà di significanti adottati. A partire dai tardi anni Cinquanta si diffuse negli ambienti teologici ebraici il termine olocausto, implicante il carattere unico e quasi sacro di eventi terribili da personificazione del male assoluto, che faceva intravedere un destino specificamente ebraico, collocato fuori del normale processo storico. A partire dagli anni Settanta, esso è stato quasi completamente sostituito dal termine ebraico Shoah (lett. "disastro", "distruzione"), rivelatosi più adatto perché privo di connotazioni teologiche. Permane però un residuo di soggettività, per cui Shoah è da ritenersi pienamente legittimo nell'ambito dei processi di salvaguardia della memoria, ma a esso è da preferirsi in sede storiografica la locuzione meno connotata emotivamente, ma più chiara sul piano descrittivo, di genocidio ebraico.
I pericoli di sconfinamento nella riflessione di tipo teologico e, all'altro estremo, i rischi di una banalizzazione, che spesso lo riducono ad appiattirsi su una dimensione puramente quantitativa e contabile delle vittime, pongono problemi di ordine epistemologico e coinvolgono altresì fattori etici. Davanti al g. ebraico, non è da considerarsi la sua unicità, bensì la esemplarità, il suo coincidere quasi esattamente con l'idealtipo di g. che si è sopra delineato. Esso è, a tutti gli effetti, il 'caso limite', che pone continuamente una sfida alle categorie cognitive di cui si dispone, e che non si può relegare in una metastoria all'insegna della sua inconoscibile e insondabile oscurità.
In linea generale, gli usi impropri della parola e del concetto di g. si possono ricondurre a due filoni. In primo luogo, a un uso distorto (spesso per fini strumentali e ideologici), estensivo, che va a scapito della sua comprensibilità e della possibilità di utilizzazione in chiave storiografica. Tra le improprie generalizzazioni del concetto di g., oltre a quella derivata da categorie inadeguate, si segnala per la sua insidiosità l'uso improprio e strumentale mediante il quale si innesca un processo di vittimizzazione consapevole e arbitrario di un gruppo sottoposto a violenze, in modo da sfruttare la carica simbolica che la parola reca in sé, decontestualizzando l'evento al fine di reimmetterlo nel dibattito politico dell'attualità. L'esempio più macroscopico è costituito dai massacri della Vandea del 1793-94, analizzati come modello di 'genocidio franco-francese' e utilizzati come strumento per mettere in discussione l'intero processo rivoluzionario, giocando sulla carica emotiva insita nel termine, in quanto una condanna per g. assume un forte valore simbolico. Storici come P. Chaunu e R. Secher indicano nei fatti accaduti in Vandea nel Settecento l'archetipo di tutti i g. moderni, giungendo, in particolare il secondo, ad accostamenti arbitrari tra i massacri vandeani e il g. ebraico.
Il secondo filone aggrega i tentativi di negazione dei g., e si presenta sotto una forma di revisione storiografica con varie sfumature: riduzionismo, relativismo, revisionismo, negazionismo. Nei confronti del g. ebraico, attraverso l'uso spregiudicato di uno scetticismo storiografico portato all'estremo, un piccolo gruppo di pretesi ricercatori (R. Faurisson, A. Butz, W. Stäglich) ha tentato negli ultimi anni di seminare dubbi sull'effettiva realtà dei crimini, appigliandosi a pretesti formali per negare l'attendibilità delle testimonianze e addirittura l'esistenza stessa dei campi di sterminio, cercando di utilizzare le tecniche manipolatorie dei mass media per impedire la memoria dei crimini commessi. In tal modo il passato viene ridotto a un ammasso informe in cui vero e falso sono posti sullo stesso piano. Di fronte a tali operazioni, solo la documentata verità storica dei g. può fissare nella coscienza collettiva la distinzione tra i carnefici e le loro vittime.
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