GIULIA, GENTE
È il nome di una delle più famose genti patrizie romane, che poi, a partire dal sec. I a. C., vediamo diffuso anche fra i plebei. Dai fasti consolari risulta che la gente patrizia fu molto in fiore nel sec. I della repubblica, ma poi, press'a poco, non se ne sente più parlare sino alla fine del sec. III a. C., alla quale appartiene un Sesto Giulio Cesare, pretore in Sicilia nel 208 a. C. Il padre di lui forse fu quegli che primo assunse quel cognome di Cesare, che diventò il più famoso di tutta la storia romana, e del quale varie spiegazioni furono tentate da antichi e da moderni, tutte egualmente malsicure. Tra il pretore del 208 e il dittatore vi furono parecchi membri della famiglia che salirono in onore, e qualcuno anche autore di gesta notevoli, più di ogni altro L. Giulio Cesare console nel 90 a. C.; parecchi di loro ebbero anche posti nei collegi sacerdotali più importanti.
Non vi ha dubbio che la gente Giulia del tempo delle guerre puniche si ricollega con quella del sec. V a. C., il che è confermato dal fatto che i prenomi di Gaio, Lucio e Sesto che furono usati dai Giulî più recenti, appartengono pure ai più antichi, da cui vediamo però usati anche quelli di Vopisco e di Gneo. Non si vuol negare che nei fasti del sec. V sia stata introdotta qualche falsificazione in onore dei Giulî posteriori, come probabilmente l'iterazione della coppia Giulio e Verginio del 435 a. C. all'anno successivo, ma nell'insieme le registrazioni sono autentiche (v. fasti) ed è certo che la gente Giulia ebbe un posto assai onorevole nei primi tempi della repubblica. I Giulî si ritenevano di origine albana, appartenevano, cioè a quel numero di famiglie albane che, secondo la tradizione, sarebbero state trasferite a Roma da Tullo Ostilio; ma la storicità di una simile origine è assai dubbia. A ogni modo con quegta tradizione si riconnette il fatto che la sede del culto gentilizio dei G. era in Boville, il cui municipio era considerato come erede di Alba. Qui fu scoperto un altare, dedicato dai genteiles Iuliei a Veiovis non più tardi dei tempi sillani (Corp. Inscr. Lat., I, 2ª ed., n. 1439); e sappiamo che nei primi tempi dell'impero furono rivolte particolari cure a questo santuario bovillense (Tac., Ann., II, 41, e XV, 23). Affermata la propria origine albana, la gente Giulia pose ogni studio per inserirsi nella leggenda delle origini troiane di Roma. Già intorno al 100 a. C., in denari di un Lucio e di un Sesto Giulio Cesare appare l'immagine di Venere come arma di famiglia, e Cesare nel 68 a. C. proclamava: Paternum genus cum diis immortalibus coniunctum est. Nam... sunt... a Venere Iulii, cuius gentis familia est nostra (Suet., Caes., 6,1). A questa origine si riattaccò con particolare fervore Augusto, e la celebrarono eruditi, storici e poeti della sua epoca, come simbolo e augurio della grandezza di Roma.
La famiglia Giulia-Claudia. - Augusto era figlio di C. Ottavio e di Atia, figlia a sua volta di Giulia, sorella di Cesare, e fu adottato da questo per testamento. Dalla prima moglie Clodia, figliastra di Antonio, divorziò nel 41 a. C., e sposò Scribonia, dalla quale ebbe una figlia, Giulia. Separatosi da lei nel 38 a. C., sposò Livia Drusilla, già moglie di Tiberio Claudio Nerone, che gli recò due figli di primo letto: Tiberio (Claudio Nerone, cioè il futuro imperatore Tiberio, v.) e (Nerone Claudio) Druso (v.). Non avendo così Augusto avuto proprî figli maschi, destinò alla successione, per primo, M. Claudio Marcello, figlio di primo letto della propria sorella Ottavia, ma quando questi morì nel 23 a. C., subentrò al suo posto M. Vipsanio Agrippa, che nel 21 a. C. sposò Giulia, e ne ebbe cinque figli, dei quali Gaio e Lucio, adottati, poco dopo la nascita, da Augusto, furono, alla morte di Agrippa, avvenuta nel 12 a. C., destinati a succedere, ma essendo entrambi morti, Lucio nel 2 e Gaio nel 4 d. C., Augusto adottò il 27 giugno di quell'anno il figliastro Tiberio, che aveva dovuto sposare Giulia (v.), alla morte di Agrippa, ma se ne era presto allontanato per l'immoralità di lei. Nello stesso tempo Tiberio adottò Germanico, fratello di Claudio (il futuro imperatore), figlio, come questo, del fratello Druso, morto sino dal 9 a. C. Per tal guisa Augusto diveniva il capostipite della gente Giulia-Claudia. Germanico sposò Agrippina, figlia di Agrippa e di Giulia, e ne ebbe otto figli, uno dei quali fu Gaio, il futuro imperatore Caligola (v.). Alla morte di Augusto, gli successe Tiberio, il cui unico figlio, Druso, morì nel 23 a. C.; onde, quando Tiberio morì nel 37 a. C., gli successe il nipote adottivo Gaio, soprannominato Caligola, poiché i fratelli maggiori di questo, Nerone e Druso, erano già morti, l'uno in esilio con la madre nel 33 d. C., l'altro in prigionia. Tiberio Gemello, figlio di Druso (figlio di Tiberio) fu eliminato dalla successione che Tiberio gli aveva lasciato aperta alla pari di Caligola, per opera del Senato, e fu poco dopo assassinato da Caligola. Quando Caligola fu ucciso nel gennaio del 41, i pretoriani acclamarono imperatore lo zio di lui Claudio (Tiberio Claudio Germanico), il quale, fatta uccidere nel 48 per la sua immoralità la sua terza moglie Valeria Messalina, sposò nel 50 Giulia Agrippina, l'ultima figlia di Germanico, la quale in prime nozze aveva sposato un Cn. Domizio Enobarbo (figlio a sua volta di un L. Domizio Enobarbo, e di Antonia maggiore, figlia della sorella di Augusto), e ne aveva avuto un figlio, L. Domizio, che fece subito adottare e destinare alla successione da Claudio, col nome di Nerone Claudio Cesare. Era Nerone l'unico discendente maschio di Germanico, che nel 53 d. C. sposò Ottavia, figlia di Claudio, e quando questi nel 54 d. C. cadde vittima dell'ambizione di Agrippina, fu riconosciuto senza contrasto imperatore, e nell'anno successivo fece toglier di mezzo col veleno Britannico, figlio di Claudio e Messalina. Con Nerone sparì il 9 giugno del 68 d. C. l'ultimo regnante della famiglia Giulia-Claudia.
Bibl.: F. Münzer, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., X, col. 106 seg., 275 seg.; Drumann-Groebe, Geschichte Roms, III, Lipsia 1906, p. 111, cfr. 693; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, Torino 1907, pp. 8, 201, 385.