GENTILE (Gentili), Antonio, detto Antonio da Faenza
Figlio dell'orafo Pietro e di Ginevra Armenini, nacque a Faenza nel 1519.
Riguardo al padre si hanno molte testimonianze documentarie; ma non rimane alcuna traccia del suo lavoro di orafo (Grigioni, pp. 84-86): nel 1537 a Faenza era priore della Società di S. Michele e nel 1541 risulta appartenere alla Confraternita faentina dei battuti rossi; sempre nel 1541 prese in affitto una bottega in città. Al 27 ott. 1551 risalgono gli accordi per il restauro di una croce d'argento e di altre suppellettili di proprietà del monastero di S. Mercuriale a Forlì. Morì tra l'agosto del 1557 e l'aprile dell'anno seguente.
Il G. è documentato a Roma fra il 1549 e il 1550; nel 1552 risulta essere a Faenza, e in un atto del 18 dicembre di quell'anno il suo nome compare per la prima volta accompagnato dalla qualifica di orefice (ibid., p. 87). Nel giugno del 1553 il G. si trovava nuovamente a Roma, dove il giorno 13 fu protagonista di una baruffa originata da motivi di gelosia nei confronti di una signora romana di nome Faustina.
Nel giugno del 1561 firmò il contratto nuziale che lo legò a Costanza Guidi; dal loro matrimonio nacquero Alessandro, Pietro e Ginevra. Nello stesso anno è attestata la sua attività di argentiere a Roma che, a partire almeno dal 1565, fu svolta in una bottega in via del Pellegrino. I suoi affari furono probabilmente floridi se nel 1567 poté acquistare un magazzino nella zona di Trastevere, vendutogli da un faentino per 500 scudi e subito dopo dato in affitto.
Ricoprì inoltre cariche di rilievo all'interno della Confraternita degli orefici, costituita sotto la protezione di s. Eligio: nel 1563 fu eletto console e tra il 1569 e il 1570 divenne primo console, quindi camerlengo (Bulgari).
Sempre nel 1570 il G., insieme con l'argentiere Pier Antonio di Benvenuto Tati, ricevette dal tesoriere di Pio V la commissione per dodici reliquiari d'argento - dieci a forma di busto, con petti e basamenti dorati, uno a forma di braccia, l'altro a forma di gamba - da eseguirsi su disegno di Guglielmo Della Porta.
Nello stesso anno prese parte con Girolamo Muziano e Lorenzo De Rosolis, miniatore romano, alla realizzazione di una serie di incisioni su rame raffiguranti i rilievi della colonna Traiana (Grigioni, p. 90): il lavoro confluì in un volume pubblicato nel 1576 in due diverse edizioni, l'una per l'editore Bonifacio Brecci, l'altra per Zanetti e Tosi con il commento di Alfonso Chacón; una nuova edizione uscì nel 1616 (Agosti - Farinella).
Nel 1575 il G. venne eletto terzo console degli orefici. Nel maggio del 1576 prese in locazione una casa con bottega, sempre in via del Pellegrino, per cinque anni e dietro il pagamento di un canone annuo di 50 scudi. Nello stesso anno costituì una società con gli orefici Orazio Marchesi e Gabriele Berardi, che venne sciolta nel dicembre del 1577; nello stesso mese il G. ne creò una nuova con Carlo Boni, faentino.
Il 17 maggio 1578 il G. consegnò a Pietro Fonseca, padre generale della Compagnia di Gesù, un reliquiario d'argento con cristalli (ubicazione ignota: Grigioni, p. 91). Nonostante non siano noti lavori precedenti quell'anno, è chiaro che a quella data il G. era un maestro affermato e apprezzato, certamente uno dei più noti orefici di Roma. Nello stesso 1578, infatti, egli ricevette il prestigioso incarico di completare gli arredi, comprendenti una croce e due candelieri, dell'altare maggiore della basilica Vaticana, commissionati dal cardinale Alessandro Farnese e oggi conservati nel Museo del Tesoro di S. Pietro. Il G. lavorò all'impresa per quattro anni ricevendo la somma di 18.000 scudi (Riebesell). Il 2 giugno 1582 il cardinale Farnese consegnò nelle mani del canonico Aurelio Coperchio i due candelieri e la croce, sul retro della quale appare il nome del committente e la firma del Gentile.
L'opera era stata commissionata originariamente a Manno Sbarri, orafo fiorentino, che morì nel 1576 senza aver portato a termine il lavoro (Lotz). Il passaggio della commissione era avvenuto quasi naturalmente dal momento che ambedue gli artisti avevano gravitato entrambi nell'orbita della bottega di Guglielmo Della Porta e che insieme avevano realizzato fusioni da modelli del maestro (Gramberg). Il disegno preparatorio per l'apparato d'altare era stato fornito molti anni prima, forse intorno al 1548, da Francesco Salviati (Dillon). Il disegno fu poi aggiornato dallo Sbarri allo spirito e alle esigenze della Controriforma (Riebesell). Il corredo farnesiano fu completato da Giovanni Bernardi da Castelbolognese e dal suo allievo Muzio i quali, su disegno di Perin del Vaga, realizzarono i cristalli incastonati nella croce e nei candelabri raffiguranti i Miracoli di Cristo, la Trasfigurazione ed Episodi della Passione. Successivamente, fra il 1670 e il 1672, furono aggiunti all'apparato d'altare altri quattro candelabri per volere del cardinal Francesco Barberini che commissionò il lavoro all'argentiere Carlo Spagna (Chadour, p. 134); in quella circostanza nei lavori eseguiti nel Cinquecento furono inseriti degli anelli con le api dello stemma barberiniano (Colasanti).
La critica ha affrontato il problema attributivo delle varie parti che compongono l'opera. Nella croce, più raffinata dal punto di vista dell'esecuzione, sembra sia riconoscibile la mano dei due maestri, Sbarri e il G., mentre i candelabri spetterebbero a collaboratori, cui Chadour attribuisce nomi convenzionali. Grazie al confronto con la Cassetta Farnese (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte) dello Sbarri, Lotz attribuisce allo stesso artista le figure delle Sibille e dei Profeti presenti sulla croce e allogate nelle edicole con semicalotta a conchiglia, in cui sarebbe evidente un rigore architettonico tipico di questo maestro fiorentino. Di Sbarri sarebbero anche le Vittoriealate, che avvolgono la parte superiore del fusto, e gli Atlanti dello zoccolo della croce. Diversamente Chadour attribuisce alla mano del G. le medesime figure, stabilendo precise corrispondenze con alcune sculture di Michelangelo Buonarroti, Andrea Sansovino, Guglielmo Della Porta, e con altri modelli tipici della cultura manierista, cui l'orefice faentino attinse con spirito eclettico e grazie alla sua straordinaria maestria.
Al G. si deve infine l'invenzione dello zoccolo della croce con le grandi volute, testimoniato anche da un suo disegno (conservato a New York, presso il Cooper-Hewitt, National Museum of Design).
Il 7 apr. 1584 il G. ottenne la patente di assaggiatore della Zecca, titolo che detenne fino al 1594. Nel 1586 prese in affitto da Tommaso Castellani, che agiva in qualità di procuratore di Orazio Segni, una casa situata in via Giulia divenuta poi la sua nuova bottega. Nel 1589 terminò un reliquiario a forma di busto destinato a contenere la reliquia della testa di s. Petronilla (Bulgari, p. 510). Di questo lavoro, un tempo nel Tesoro di S. Pietro, si sono perse le tracce, ma se ne conserva un'immagine in uno dei disegni del G. conservati presso la Biblioteca apostolica Vaticana (Chadour, pp. 182-192, n. 184).
Dopo il 1589 il G. realizzò la preziosa coperta in argento del manoscritto miniato, le Ore della Vergine (New York, Pierpont Morgan Library) appartenuto al cardinal Alessandro Farnese: il nome del G. quale autore della coperta si rintraccia nell'inventario dei beni di palazzo Farnese a Roma, datato 1653 (Harrsen); la custodia è costituita da due placche che presentano, l'una, l'angelo annunziante e, l'altra, la Vergine; entrambe le figure sono all'interno di una cornice di cherubini.
Nel novembre 1593 venne commissionata al G. e a suo figlio Pietro la realizzazione di una croce (perduta) per il monastero di S. Martino di Napoli, che fruttò loro 1700 scudi; secondo una descrizione seicentesca (Celano) la croce era notevolmente alta e lavorata con numerose statuette e bassorilievi.
Nel 1600 il G. venne confermato assaggiatore della Zecca e realizzò in occasione del giubileo una teca argentea con il capo di s. Menna che andò a far parte del Tesoro di S. Pietro (Bulgari, 1958, p. 510). Nel 1602 il figlio Pietro gli succedette nella carica di assaggiatore della Zecca.
Il G. morì a Roma il 29 ott. 1609 e venne sepolto nella chiesa di S. Biagio in via Giulia.
Fra le opere oggi non più esistenti, viene riferita al G. (Grigioni) una preziosa croce argentea che il cardinale N. Perelli donò al titolo di S. Lorenzo in Damaso: tale ipotesi è formulata in base alla similitudine esistente tra alcuni particolari di questa croce, desunti dalla descrizione, e quelli della croce farnesiana del Tesoro di S. Pietro.
Gli si assegnano inoltre una scultura bronzea raffigurante Venere e Adone, nella collezione Augusto Lederer di Vienna; tre posate d'argento del Metropolitan Museum di New York, con figure di satiri sui manici del cucchiaio e del coltello, e una ninfa che decora l'impugnatura della forchetta (Volbach, p. 282). Secondo le fonti, il G. eseguì un getto d'argento da un modello di Guglielmo Della Porta raffigurante la Discesa dalla Croce (Sangiorgi, p. 228). Suo è, inoltre, un busto in argento dorato, base per una testa di Augusto, realizzato intorno al 1580 e conservato a Firenze nel Museo degli argenti di Palazzo Pitti (Chadour, p. 175).
Il figlio Pietro, nato a Roma nel 1563, continuò a esercitare l'arte paterna. Nei documenti d'archivio sono registrati molti conti intestati a Pietro per opere oggi non facilmente rintracciabili (Fornari). Egli era già un apprezzato argentiere nel 1602, quando gli venne conferita la carica di assaggiatore della Zecca, riconfermatagli ancora nel 1608. La sua prima opera certa è il reliquiario di s. Bibiana, realizzato fra il 1609 e il 1610, per un compenso di 223 scudi. Si tratta del più antico argento legato al cospicuo lascito del canonico Girolamo Manlili, destinato a realizzare degni e preziosi tabernacoli per le reliquie della basilica di S. Maria Maggiore. Il reliquiario a busto è un pezzo di notevole qualità, caratterizzato dal trattamento sintetico ed elegante del modellato e dalla mancanza di elementi esornativi, mentre il volto della santa trae origine dai modelli ritrattistici del mondo classico.
Nel 1614 venivano affidati a Pietro i perduti busti di S. Florenzo e di S. Eutimia, destinati alla cappella papale di S. Maria Maggiore, per i quali ricevette un compenso di 770 scudi (Bulgari, p. 510). Dal 1614 al 1621 lavorò ad altri tre reliquiari, anch'essi dispersi, sempre per la medesima basilica romana: la cassetta per la pianeta di s. Girolamo, il busto di s. Marcellino, il reliquiario di s. Anatolia. Dal 1621 eseguì per il magistrato di Roma, come dono alla basilica di S. Pietro, quattro calici d'argento al prezzo di 60 scudi l'uno (Vasco Rocca).
Pietro morì a Roma nel 1623.
Fonti e Bibl.: G. Baglione, Vite de' pittori, scultori et architetti…, Roma 1662, p. 109; C. Celano, Notizie… della città di Napoli, Napoli 1758, p. 31; F. Cancellieri, Sagrestia vaticana eretta dal regnante pontefice Pio VI, Roma 1783, p. 107; A. Bertolotti, Artisti belgi ed olandesi a Roma nei secoli XVI e XVII, Firenze 1880, p. 56; Id., Artisti subalpini in Roma…, Mantova 1884, pp. 115 s.; Id., Artisti veneti in Roma…, Venezia 1884, pp. 34, 71; Id., Artisti bolognesi ferraresi… in Roma…, in Studi e ricerche negli archivi romani, Bologna 1886, pp. 84, 103 s., 107, 185 s., 191, 204-206, 242 s.; A. Colasanti, Il Tesoro della basilica Vaticana, in Emporium, XXX (1909), pp. 405, 409, 412-414; G. Sangiorgi, Opere d'A. G. orefice faentino, in Bollettino d'arte, XXVI (1932-33), pp. 220-229; W.F. Volbach, A. G. da Faenza and the large candelsticks in the Treasury of St. Peter's, in The Burlington Magazine, LXXXVI (1948), pp. 281-286; R. Berliner, Two contributions to the criticism of drawings related to decorative art, in The Art Bulletin, XXXIII (1951), pp. 51-55; W. Lotz, A. Gentili or Manno Sbarri?, ibid., pp. 260-262; M. Harrsen, Italian manuscripts in the Pierpont Morgan Library, New York 1953, p. 58; F. Rossi, Capolavori di oreficeria italiana dall'XI al XVIII secolo, Milano 1957, p. 43; C.G. Bulgari, Argentieri, gemmari e orafi d'Italia, I, Roma 1958, p. 509 s.; G. Werner, Guglielmo della Porta, Coppe fiammingo und A. G. da Faenza, in Jahrbuch der Hamburger Kunstammlungen, V (1960), pp. 31 s.; S. Fornari, Gli argenti romani, Roma 1968, p. 76; J. Hayward, Roman drawings for goldsmiths, in The Burlington Magazine, CXIX (1977), pp. 412-420; M. Heimburger Ravalli, Supplementary information concerning the Spada chapel in St. Gerolamo della Carità in Rome, in Paragone, XXVIII (1977), 329, p. 41; W. Gramberg, Notizen zu den Kruzifixen des Guglielmo della Porta und zur Entstehungsgeschichte des Hochaltarkreuzes in S. Pietro in Vaticano, in Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst, XXXII (1981), pp. 105-114; A.B. Chadour, Der Altarsatz des A. Gentili in St. Peter zu Rom, in Wallraf-Richartz Jahrbuch, XLIII (1982), pp. 133-193 (con bibl.); S. Vasco Rocca, Gli argenti di S. Maria Maggiore: reliquiari di Pietro Gentili, Benedetto Cacciatore, Santi Lotti e della bottega di Vincenzo I Belli, in Storia dell'arte, 1983, n. 47, pp. 117-125; G. Agosti - V. Farinella, Il fregio della colonna Traiana…, in Annali della Scuola normale superiore di Pisa, s. 3, XV (1985), p. 1109; A. Bulgari Calissoni, Maestri argentieri, gemmari e orafi di Roma, Roma 1987, p. 226; C. Grigioni, A. G. detto Antonio da Faenza, in Romagna arte e storia, XXIV (1988), pp. 83-118 (con bibl.); G. Dillon, Novità su F. Salviati disegnatore per orafi, in Antichità viva, XXVIII (1989), 2-3, p. 48; F. Faranda, Argentieri e argenteria sacra in Romagna dal Medioevo al XVIII secolo, Rimini 1990, p. 12; C. Riebesell, in F. Salviati (1510-1563)… (catal., Roma), a cura di C. Monbeig Goguel, Milano 1998, pp. 256-258.