Croce, Gentile e la ‘scoperta’ di Hegel
Con il termine risurrezione, Gentile volle segnalare nel 1904 – sulla rivista allora a lui più familiare, «La Critica» (2, pp. 29-45) – la ripresa di interesse per la filosofia hegeliana in atto da qualche tempo in Europa. Di una renaissance de l’hegelianisme già aveva parlato in Francia Georges Noël (La logique de Hegel, 1897) a proposito di alcuni recenti lavori britannici dedicati al filosofo tedesco. Sede del giudizio di Gentile era la recensione al libro The origin and significance of Hegel’s logic: a general introduction to Hegel’s system (1901) dello scozzese James B. Baillie; tale recensione sarà inclusa più tardi, con il titolo Origine e significato della logica di Hegel, nella maggiore raccolta gentiliana sull’argomento, La riforma della dialettica hegeliana (1913, pp. 75-103).
Sulla medesima rivista, sempre nel 1904, Croce fece seguire una nota spiritosa, Siamo noi hegeliani? (pp. 261-64), che, mentre in parte prendeva le distanze da quel moto di «risurrezione» (per certi suoi aspetti metafisici, si leggeva, il sistema hegeliano ancora attendeva piuttosto una «sepoltura cristiana» [in corsivo nell’originale]; p. 264), costituiva di fatto il preannuncio della propria imminente occupazione con Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Frutto di quest’ultima, il celebre Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel (1907, corredato da un nutrito Saggio di bibliografia hegeliana) e la traduzione, nello stesso anno, dell’opera di Hegel Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1817, 18303). Scelta di avvio non casuale – scriverà il traduttore nella prefazione – poiché qui doveva essere riuscito a Hegel di assegnare un posto a tutti i problemi sollevati in passato dai filosofi e alle loro tentate soluzioni.
Gentile aveva anticipato questo sviluppo. Accanto agli studiosi anglosassoni rammentati da Noël – quali William Wallace, stimato anche da Croce come traduttore di parti dell’Enzyklopädie, John M.E. McTaggart, esperto di dialettica (ambedue ispirati da James H. Stirling con il suo The secret of Hegel: being the Hegelian system in origin, principle, form and matter, 1865), John G. Hibben (Hegel’s logic: an essay in interpretation, 1902; trad. it. 1910), Robert Mackintosh (Hegel and Hegelianism, 1903), Edward Caird (Hegel, 1883; trad. it. 1911) –, e accanto a Noël stesso e al tedesco Kuno Fischer (per la sua monumentale monografia Hegels Leben, Werke und Lehre, 2 voll., 1901), era normale attendersi contributi anche italiani a questa «risurrezione».
E certo Gentile pensava a se stesso e alla necessità di potenziare l’interpretazione hegeliana di Bertrando Spaventa, imparentato a Croce per via familiare e a lui per via spirituale, in quanto maestro di quel Donato Jaja suo professore a Pisa. L’opera di ripubblicazione del corpus spaventiano, patrocinata da Croce e realizzata da Gentile a partire dagli Scritti filosofici raccolti nel 1900 per l’editore Morano di Napoli, doveva costituire il primo passo in questa direzione. E con Siamo noi hegeliani? Croce sembrava, nel tenere a bada i numerosi critici prevenuti contro Hegel, altresì raccomandare ai suoi estimatori ispirati da Spaventa la moderazione, al punto di suggerire che il filosofo tedesco potesse farsi apprezzare magari anche solo come «saggista», e mettere in guardia dal pericolo che il concorso italiano al neohegelismo (termine da Croce poco amato, come il termine stesso neoidealismo) finisse per risolversi in qualche sorpassata fedeltà di scuola o limitarsi alla produzione di esercizi di parafrasi, come spesso a suo parere era accaduto anche agli studiosi stranieri, specie in Germania.
Questa la cornice della ‘scoperta’ crociana e gentiliana di Hegel, scoperta che per Croce, in parte anche per Gentile, doveva coincidere con il riconoscimento di quel che Hegel stesso avesse ‘scoperto’, vale a dire la dialettica, suo massimo contributo originale alla filosofia (oggetto di un «eureka» quasi archimedeo, amava notare Croce). Una cornice, tuttavia, che per essere meglio determinata esige almeno due precisazioni. La prima: che i contributi di Croce e Gentile a quel che la storiografia filosofica suol designare – anche in ossequio a loro – come Hegel-Renaissance, prescindono, per motivi solo in parte attinenti alla cronologia, dai due lavori che maggiormente concorsero, giuste le interpretazioni più diffuse, a segnare una svolta nella prima ricezione novecentesca di Hegel: Die Jugend-geschichte Hegels und andere Abhandlungen zur Geschichte des deutschen Idealismus (1905) di Wilhelm Dilthey, e le hegeliane Theologische Jugendschriften edite nel 1907 da Hermann Nohl, a Dilthey legato come allievo. La seconda: che alle spalle di Croce e Gentile stava una tradizione solo in parte equiparabile alla cosiddetta scuola formata in Germania dai discepoli diretti di Hegel, ossia l’hegelismo napoletano ottocentesco, che, soprattutto attraverso Francesco De Sanctis, Silvio Spaventa e il fratello Bertrando, si era sforzato di gettare le basi teoriche dello Stato nazionale unitario scaturito dal Risorgimento e poteva pertanto aspirare alla dignità di una corrente «rivoluzionaria» – almeno secondo il maturo giudizio di Antonio Labriola.
Croce, lettore assai aggiornato (noti gli erano i manoscritti hegeliani di argomento etico-politico pubblicati nel 1893 da Georg Mollat, cui questi diede il titolo di Kritik der Verfassung Deutschlands; la sua traduzione dell’Enzyklopädie fu condotta sulla recentissima edizione a cura di Georg Lasson, 1905, investito di lì a breve del compito di rieditare tutte le opere di Hegel per l’editore Meiner), non mancò di ammettere, in età più avanzata, il carattere a tutta prima sorprendente di quel suo prolungato silenzio su Dilthey e volle spiegarlo in due modi: in parte sulla base di una sostanziale diversità di approccio al comune autore – eminentemente filosofico il proprio, più che altro filologico, biografico, fin quasi psicologico quello del collega tedesco (il quale già nel 1888 aveva dichiarato chiuso il tempo della «lotta» e aperto quello della historische Erkenntnis di Hegel) – e in parte sulla base della propria già posseduta nozione del carattere «teologico» di taluni elementi del pensiero hegeliano (lo sfondo creazionistico del controverso passaggio dall’idea alla natura, il profetismo insito nella filosofia della storia, l’esenzione di Dio dalla morale riproposta sotto le spoglie del primato dell’eticità ecc.), cui non molto di nuovo avrebbe aggiunto la pubblicazione dei manoscritti hegeliani giovanili da parte di Nohl (il solo Das Leben Jesu: Harmonie der Evangelien nach eigener Übersetzung fu oggetto di un fugace accenno nella crociana Filosofia della pratica, 1908, ma perché già pubblicato nel 1906 da Paul Roques).
Gentile, dal canto suo, tanto più si tenne lontano da quel coevo sviluppo tedesco (con un’apparente eccezione: l’accoglienza di Le origini e la formazione della dialettica hegeliana: Hegel romantico e mistico di Galvano Della Volpe nella collana «Studi filosofici» da lui diretta per l’editore Le Monnier, 1929), non fece cenno al giovane Hegel critico del cristianesimo positivo nella propria discussione del modernismo (così anche il gentiliano Adolfo Omodeo nella posteriore Storia delle origini cristiane, 3 voll., 1920-1923 – diversamente dalla contemporanea teologia «critica» sorta nei Paesi Bassi dal ceppo neohegeliano del pastore riformato Gerardus Bolland) e sempre ribadì la convinzione, funzionale al suo disegno di riscatto della tradizione filosofica nazionale, che nessuno come Bertrando Spaventa avesse ancora penetrato così a fondo in Europa il significato epocale di Hegel quale iniziatore di un idealismo tutto terreno, immanentistico. A partire dalla lunga introduzione premessa ai citati Scritti filosofici spaventiani, gli autori richiamati nella memoria di Spaventa su Le prime categorie della logica di Hegel («Atti della Reale Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», 1864, 1, pp. 123-85) – ossia Adolf Trendelenburg (Logische Untersuchungen, 2 voll., 1840, divenute subito una croce per gli hegeliani devoti), Karl Werder (Logik. Als Commentar und Ergänzung zur Hegels Wissenschaft der Logik, 1841, operetta assai meno nota, rimasta inaccessibile a Gentile, ma già raccomandata da Floriano Del Zio) e l’allora poco più che esordiente Fischer (Logik und Metaphysik, oder Wissenschaftslehre, 1852, 2a ed. con il titolo System der Logik und Metaphysik oder Wissenschaftslehre, 1865) – vennero così a costituire il termine di riferimento gentiliano, contemplato anche da Croce (con l’aggiunta di Aloys Schmidt, Entwicklungsgeschichte der hegelschen Logik, 1858), per una così perentoria affermazione circa l’originalità degli studi hegeliani in Italia.
La stessa inclinazione di certo coevo neokantismo, quello almeno più interessato alla dimensione storica, verso un recupero di Hegel – testimoniata da Die Erneue-rung des Hegelianismus, un’importante conferenza tenuta il 25 aprile 1910 presso la Heidelberger Akademie da Wilhelm Windelband (dove si parlò di un «rinnovamento» dell’hegelismo) –, non dovette esercitare un’influenza decisiva sui due pensatori italiani, sebbene da studi neokantiani e herbartiani almeno Croce provenisse, anzi forse in parte risentì, nel caso di Windelband, della fortuna arrisa frattanto al saggio crociano su Hegel, che fu presto tradotto nelle maggiori lingue europee e recensito da Julius Ebbinghaus (Benedetto Croces Hegel, «Kant-Studien», 1911, 16, pp. 54-84).
A vantare un ruolo più incisivo nell’incontro di Croce e Gentile con Hegel fu semmai un altro emergente filone di pensiero europeo: il marxismo, almeno così come divulgato in Italia grazie anche alla pubblicazione di tre importanti saggi di Labriola – promossa tra il 1895 e il 1897 proprio da Croce (In memoria del Manifesto dei comunisti, 1895; Del materialismo storico, 1896; Discorrendo di socialismo e di filosofia, 1897) – e alla prima circolazione dello scritto programmatico di Friedrich Engels su Ludwig Feuerbach und der Ausgang der Klassischen deutschen Philosophie («Die neue Zeit», 1886, 4, pp. 145-57, e 5, pp. 193-209).
Croce, beninteso, giunse dapprima alla conclusione che il giovanile hegelismo di Karl Marx fosse sopravvissuto nel maturo studioso dei rapporti capitalistici solo alla stregua di «precoltura», di una «fraseologia» ammiccante; mentre in vecchiaia, se pur riconobbe importante il debito di Marx verso Hegel, fu solo per sostenere che il primo avesse ereditato il lascito caduco, «morto», della filosofia del secondo. Nel mezzo, tuttavia, dal citato Siamo noi hegeliani? fino alla prefazione alla terza edizione (1917) di Materialismo storico ed economia marxistica: saggi critici (1900), il giudizio suonò un po’ diverso: Marx poteva essere citato con favore per il suo vezzo di aver «civettato» con Hegel, e Croce confessare di aver intuito in gioventù proprio grazie a Marx l’esistenza di un Hegel più «vivo», più «concreto», di quello venerato dagli hegeliani professi e soltanto così di essersi sentito mosso a studiarlo direttamente sui testi (tanto da aver l’impressione, frequentandoli, di immergersi dentro se stesso – dirà nel Contributo alla critica di me stesso, scritto nel 1915, ma pubblicato nel 1918).
Ancor più evidente riusciva poi questo nesso nel caso di Gentile, giacché questi aveva sostenuto in La filosofia di Marx (1899) che il pensiero di Hegel avesse agito sul Marx delle Thesen über Feuerbach (scritte nel 1845, ma pubblicate nel 1888 da Engels, con il titolo Karl Marx über Feuerbach vom Jahre 1845, in appendice all’edizione in volume del suo citato Ludwig Feuerbach) assai più che su Ludwig Andreas Feuerbach stesso, o perfino su Engels (la dialettica della natura nel saggio noto come Anti-Dühring, 1885, sempre materia di riprovazione per Croce e Gentile), per quanto l’interessato sempre avesse tentato di occultare la verità con il disconoscimento del carattere profondamente realistico, legato all’esperienza, del peculiare idealismo hegeliano. Un idealismo – lo scrivente dava a intendere – che fra gli interpreti il solo Spaventa sarebbe stato capace di apprezzare più a fondo.
Se questi sono caratteri comuni alle riletture hegeliane offerte da Croce e Gentile, diverso fu il primo loro impulso verso Hegel. Per Croce si trattò di un approdo faticoso, sempre instabile, dapprima mediato dal più giovane amico, dettato anche da un precipuo interesse per la teoria dell’arte (merito di Hegel l’aver trattato il carattere conoscitivo dell’arte, sia pur per dedurne a torto l’avvenuta morte della stessa: cfr. Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, 1902), e poi dall’assunzione dell’eredità spirituale di De Sanctis, hegeliano napoletano eterodosso – contrapposto come tale ad Augusto Vera, Angelo Camillo De Meis e allo stesso Spaventa con la sua progenie, in primis Sebastiano Maturi e Jaja.
Gentile, al contrario, poteva dirsi cresciuto nel grembo stesso dell’hegelismo italiano, addirittura essersi voluto più spaventiano degli allievi di Spaventa e toccato da Hegel, anziché attraverso l’estetica, a partire dalla propria precoce vocazione come storico della filosofia (retaggio anche del magistero pisano e fiorentino di Alessandro D’Ancona e Amedeo Crivellucci), che fin dagli studi giovanili lo condusse a esplorare l’antefatto dell’hegelismo nostrano attraverso il paragone fra Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti. E anche qui agiva su di lui la frequentazione di Spaventa, poiché il riadattamento del complesso impianto storico-filosofico di Hegel (un «castello incantato», per chi lo avesse fatto suo solo in maniera passiva) gli fu reso possibile dall’accettazione della tesi spaventiana della cosiddetta circolazione della filosofia europea, destinata in lui a tramutarsi nella tesi della circolazione della filosofia italiana in Europa (dai pensatori del Rinascimento, attraverso Giambattista Vico, fino agli eroi intellettuali del Risorgimento).
Le dichiarazioni contenute nei rispettivi scritti hegeliani, così come le confessioni diaristiche o epistolari (reciproche, a partire da una lunga missiva gentiliana del 31 maggio 1892, oppure rivolte a terzi, come nel caso delle lettere di Gentile a Maturi, 28 settembre 1908, e a Luigi Miranda, 8 novembre 1908), documentano l’immediata consapevolezza, nei due pensatori, di questa diversità dei rispettivi percorsi, che fino alla pubblica resa dei conti avviata da Croce (Intorno all’idealismo attuale, «La Voce», 13 novembre 1913, 5, 46, pp. 1195-97) l’uno e l’altro poterono sperare fosse destinata a sfociare in una più compiuta intesa.
E qualcosa vorrà pur dire la circostanza che Gentile mai abbia tenuto fede al suo proposito annunciato (né accondisceso ai ripetuti comandi dell’amico in quello stesso senso) di occuparsi più specificamente di Hegel, quasi che presagisse di non poter offrire quanto da lui ci si aspettava. Giacché La riforma della dialettica hegeliana del 1913 (una raccolta di saggi, solo nella prima parte dedicati a Hegel) certo non fu quella monografia «completa storico-critica» che Croce desiderava (Croce a Gentile, 23 luglio 1903 e maggio 1906, B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile (1896-1924), a cura di A. Croce, 1981, pp. 144 e 195); né miglior fortuna ebbero gli inviti a curare una versione antologica delle obiezioni di Hegel a Immanuel Kant nella Wissenschaft der Logik (2 voll., 3 tt., 1812-1816; trad. it. in 3 voll., 1924-1925) o ad aggiornare la hegeliana filosofia della religione alla luce del contemporaneo dibattito sul mito (Croce a Gentile, 6 luglio 1910 e 26 agosto 1912, Lettere a Giovanni Gentile, cit., pp. 378 e 427).
Di qui, pur nel velato dissenso (evidente a Gentile fin dalla lettura delle bozze di Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel), emergeva fra i due un’ulteriore affinità almeno in negativo. Poiché se Croce volle misurarsi con Hegel alla stregua di un filosofo con un altro filosofo, Gentile a sua volta mai si applicò al pensatore tedesco con l’abito mentale di un autentico storico della filosofia, ma sempre in quanto detentore di un puro canone interpretativo di matrice speculativa, che si pretendeva ricavato da Spaventa. Tale canone prevedeva che, per sfuggire alle contestazioni e al conseguente oblio dopo il 1848, il pensiero di Hegel avesse bisogno di una «riforma» (vocabolo già spaventiano): doveva essere possibile, a interpreti filosoficamente dotati, comprendere Hegel meglio di quanto costui avesse compreso se stesso. E la riforma, appena intravista dai citati Werder e Fischer, meglio delineata ma non ancora condotta a termine da Spaventa, doveva consistere nel superamento di quel platonismo residuo di Hegel per via del quale le categorie logiche e il loro movimento interno (la «dialettica» appunto) sarebbero rimaste in lui solo qualcosa di «pensato», indipendente dalla «riflessione» su di esse, laddove il movimento riconosciuto a ragione da Hegel stesso come frutto della contraddizione interna a tali categorie (anziché introdotta dall’esterno, come solevano i dialettici antichi) doveva prodursi secondo Gentile solo nell’atto stesso del loro pensamento da parte del filosofo – il filosofo, beninteso, considerato non in quanto individuo empirico, ma in quanto soggetto universale, modellato sulla nozione kantiana di Io trascendentale.
Era qui il nucleo teorico dell’attualismo, che dall’idealismo assoluto hegeliano doveva distinguersi proprio per il completo superamento di quella separazione fra pensiero e riflessione (in tedesco: fra Denken e Nachdenken) che Hegel avrebbe perseguito per tutta la vita, salvo ricadervi suo malgrado. Al centro rimaneva il confronto con le categorie iniziali della logica (essere, nulla, divenire), criticate da Trendelenburg e variamente rivisitate dai loro difensori (così Spaventa in Italia, il quale forzando Werder intendeva il nulla come «accorgimento» dell’essere, dal tedesco Besinnung: il nulla quale primitivo sapere dell’essere intorno a se stesso, finché pensato come separato dal pensiero). Una rilettura autonoma doveva permettere di distinguere negli scritti stessi di Hegel gradi diversi di chiarificazione di questo primo fondamentale processo dialettico (nella Wissenschaft der Logik meglio che nella corrispondente sezione dell’Enzyklopädie, dove il filosofo più sarebbe soggiaciuto all’errore dei suoi critici e discepoli di presumere l’anteriorità logica o metafisica di essere e nulla rispetto al divenire).
Sullo sfondo stava l’idea che, a partire da Kant (massimo suo acquisto il concetto del vero come qualcosa di inseparabile dall’attività della mente: la sintesi a priori) fino a Hegel, la filosofia moderna, ovvero cristiana, si fosse sbarazzata una volta per tutte del retaggio greco, vale a dire oggettivistico, realistico, della scolastica medioevale e della metafisica razionalistica (la «vecchia» metafisica di hegeliana memoria) e che ora si trattasse, giusta la preoccupazione di Johann Gottlieb Fichte, di offrire una deduzione trascendentale delle categorie più autentica di quella nei fatti solo empirica di Kant e di seguire Hegel, a tale scopo, solo fin dove costui fosse davvero riuscito nell’impresa. Bisognava dunque accogliere l’impianto della logica hegeliana, con la sua nozione di un’interna generazione delle categorie l’una dall’altra, ma tener fermo che tale generazione Hegel avesse solo analizzato, senza afferrarne fino in fondo il principio motore: il pensiero pensante. Quest’ultimo, secondo Gentile, non ammetteva la sopravvivenza di alcuna realtà oggettiva passibile di analisi, fosse pur la realtà di ciò che Hegel aveva chiamato «Idea». Di qui il filosofo attualista poteva concludere che Hegel andasse accolto o rigettato nella sua interezza (secondo una più tarda formula: «Tutto Hegel è vivo, ma tutto Hegel è morto»; Hegel e il pensiero italiano, «Leonardo», 1933, 4, 5, p. 186), a seconda che l’accento cadesse in positivo sulla riformabilità della sua dialettica oppure in negativo sull’incompiutezza di essa.
La differenza rispetto a Croce, spia di un dissenso più vasto, stava già in questa radicalità dell’approccio, cui il filosofo napoletano opponeva il proprio diritto di setacciare in Hegel il grano dal loglio. Non a caso Gentile nella loro corrispondenza dichiarò di aver trovato splendidi i capitoli dedicati nel saggio dell’amico al contenuto «vivo» della speculazione hegeliana, ma di riservarsi il giudizio su quelli relativi al contenuto «morto». L’acquisto di quel che Croce chiamava, sulla scia di Hegel, il concetto universale concreto (comprensivo di tutte le determinazioni negative implicite in ciascuna determinazione positiva) formava il gran merito della logica hegeliana, inseparabile dalla messa a punto della dialettica. Il difetto di quest’ultima, anziché consistere in un insufficiente afferramento del suo principio (come asserito da Gentile), stava piuttosto in un’applicazione inappropriata. Hegel a torto avrebbe esteso a concetti distinti, quando non addirittura a fatti individuali e concetti empirici, quel processo di negazione e superamento (dal tedesco Aufhebung) da lui per primo scoperto come valido per i concetti opposti. In tal modo, da un lato, avrebbe finito per conferire una relativa indipendenza a categorie fra loro inseparabili in quanto opposte (quali l’essere e il nulla), dall’altro sarebbe andato in cerca di una contraddizione e superiore conciliazione nel caso di categorie implicantisi bensì fra di loro (quali il diritto e la moralità), ma irriducibili e collegate non già mediante un processo ascensionale di fondazione dell’una nell’altra (alla maniera di una cuspide, secondo il modello schellinghiano di una successione di differenti gradi di realtà), ma piuttosto in una sorta di circolarità. Proprio in conseguenza di ciò Hegel avrebbe trattato come parziali verità alcuni principi filosofici semplicemente errati (così l’essere dei filosofi eleatici) oppure avrebbe degradato a errori verità autentiche, sebbene parziali. Ne era venuta, specie ai discepoli, la convinzione fallace che la sua dialettica consistesse nella dimostrazione di una sorta di trasmutazione di una primitiva verità in errore, oppure nel riconoscimento della piena verità come reso possibile solo tramite l’errore.
Sebbene la disamina si concentrasse su questioni di «logica della filosofia», Croce confermava il proprio scontento per l’intero impianto sistematico della filosofia hegeliana, rigettato invero anche da Gentile, ma sulla base della riduzione di esso alla sola logica. A Hegel andava riconosciuto il merito di aver dissolto, grazie al procedimento negativo della sua dialettica, le principali coppie concettuali (essenza e apparenza, molteplice e uno, fenomeno e forza ecc.) intorno alle quali i suoi predecessori si erano invano affaticati, incapaci di riconoscerle come categorie evanescenti. Ma il dualismo fra idea e natura, composto in unità mediante l’ulteriore sdoppiamento fra idea e spirito, ancora tradiva nel pensiero hegeliano un retaggio metafisico e importava un’altra conseguenza inaccettabile, ossia l’attribuzione di un valore conoscitivo, in senso filosofico, anche al sapere definito da Hegel come «intellettualistico», tipico delle scienze naturali, o empiriche. Quest’ultimo, secondo Croce, avrebbe dovuto essere inteso solamente alla stregua di uno strumento volto alla modificazione fattiva di una realtà descritta solo in via ipotetica – pena la recrudescenza di quel contrasto fra scienze della natura e scienze dello spirito che Hegel si era sforzato di prevenire grazie alla sua Naturphilosophie, ma che, dopo l’insuccesso di quest’ultima, aveva assunto nel positivismo ottocentesco le sembianze di un tentativo mai prima così sofisticato di ridurre lo spirito alla natura.
Un errore non meno grave riguardava però le scienze dello spirito, poiché il pensatore svevo aveva preteso di elevare sopra il sapere da lui dichiarato empirico della storiografia l’edificio arbitrario della propria filosofia della storia e altresì aveva guastato la propria teoria del Bello mediante la subordinazione dell’arte alla filosofia, intese quali momenti dello spirito assoluto. Come già nel caso della dialettica, anche per questi altri aspetti la gravità della perdita era tuttavia compensata dalla mole del guadagno. Grazie a Hegel la centralità della storia per la filosofia era stata riconosciuta una volta per tutte e si era appurato come la filosofia non potesse oltrepassare il proprio orizzonte storico, né attingere chissà quale trascendenza. Al di là delle singole sue profonde intuizioni in materia, da rammentare agli storici di professione, Hegel aveva consacrato la storia come sola dimensione e supremo oggetto della filosofia, ancor più che attraverso la sua riflessione sulla storia universale (un genere storiografico in sé inviso a Croce, il quale vi sarebbe ritornato sopra nel 1912-13, in una serie di saggi poi raccolti nel volume Teoria e storia della storiografia, pubblicato in Germania nel 1915 con il titolo Zur Theorie und Geschichte der Historiographie e in Italia, in edizione ampliata, nel 1917) grazie alla sua penetrazione della storia stessa della filosofia, da lui praticata come da nessun altro filosofo nel passato e forse anche nella posterità.
E qui di nuovo Croce e Gentile si incontravano, salvo subito dividersi, poiché ambedue professavano l’immanentismo, ambedue asserivano una sostanziale coincidenza di filosofia e storiografia (impensabile per loro la storia fuori della storiografia), ma Gentile con due tratti almeno apparenti di maggiore fedeltà a Hegel e come tali contestati dall’amico: la tendenziale riduzione di tutta quanta la storia alla sola storia della filosofia e la congiunta tentazione di sottrarre almeno in parte la propria filosofia al processo storico. Una sorta di extratemporalità attribuita al puro atto, onde il filosofo ripercorrerebbe nel pensiero le filosofie dei suoi predecessori, finiva infatti per rimandare al sapere assoluto della Phänomenologie des Geistes (1807) – un testo, non a caso, celebrato da Spaventa come principale documento della problematica kantiana accolta da Hegel nel suo idealismo, decisiva per tutta la filosofia fino al presente.
La discussione su Hegel occupò i due filosofi fino alla citata crisi del 1913, ed ebbe molto a che fare con l’acquisto di una più chiara consapevolezza circa le rispettive posizioni e circa il debito reciprocamente contratto – riconosciuto soprattutto da Croce, laddove in Gentile l’accento cadeva piuttosto sulla speranza che l’altro finisse per abbracciare le sue idee. Il crociano Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel fu ripubblicato nel 1913 con il titolo Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia, alcuni dei quali volti ad approfondire questioni sollevate nello scritto precedente e apparsi poco prima su «La Critica». In quello stesso anno uscì il libro di Gentile La riforma della dialettica hegeliana (ripubblicato nel 1923, con il titolo La riforma della dialettica hegeliana e altri scritti e con l’aggiunta della prolusione pisana del 1914 su L’esperienza pura e la realtà storica), nel quale egli raccolse suoi scritti e interventi pubblicati a partire dal 1904, con l’aggiunta di tre inediti: il saggio che dava il titolo alla raccolta, del 1912; Il metodo dell’immanenza (conferenza tenuta il 16 dicembre 1912 alla Biblioteca filosofica di Palermo; il metodo di Hegel vi era accuratamente distinto dal metodo dell’attualismo); un Frammento inedito di Bertrando Spaventa, a proposito del quale l’editore affermava che il confronto serrato con il pensiero hegeliano aveva condotto il predecessore fin quasi sulle soglie della propria filosofia stessa.
Su Hegel, inteso come antesignano ma bisognoso di «riforma», Gentile ancora ritornò nella Teoria generale dello spirito come atto puro (1916, 19244), poi nel Sistema di logica come teoria del conoscere (2 voll., 1917-1923, 1940-19423), soltanto però per ribadire le conclusioni già raggiunte: Hegel avrebbe mancato di afferrare fino in fondo la decisiva distinzione fra logo astratto e logo concreto, fra pensiero pensato e pensiero compreso nell’atto stesso di pensare, con conseguente ricaduta negli errori tradizionali di certa metafisica – deprecati anche da Croce –, in primis quello di voler dedurre la natura dall’idea, il contingente dall’assoluto. Nel 1921 seguì la voce Hegel per la statunitense Encyclopaedia and dictionary of education (2° vol., Edi-Mak, pp. 791-92), a conferma della riconosciuta autorità di Gentile come filosofo hegeliano e studioso di pedagogia. Nel 1931, invitato a Berlino al secondo congresso dell’Internationaler Hegelbund, organo istituzionale del neohegelismo (il terzo congresso sarebbe stato inaugurato a Roma nel 1933 proprio da Gentile), il filosofo – approdato nel frattempo al fascismo – salutò in Hegel lo scopritore del moderno concetto dello Stato inteso come fine, anziché come mezzo (secondo quel che volevano il liberalismo individualistico e il cattolicesimo tradizionale), salvo anche qui lamentare come frutto di una dialettica ancora imperfetta la separazione hegeliana dello Stato dalla famiglia, dalla società civile e dalla regione dello spirito assoluto.
Il dibattito sulla «statolatria» costituiva lo sfondo di queste affermazioni, che dalla filosofia conducevano al giudizio sul regime mussoliniano e alla controversa nozione di Stato «etico», collegata in Italia alla figura stessa di Gentile (di «equivoca statolatria», a proposito della cecità spaventiana e gentiliana davanti alle aporie della teoria statale del filosofo tedesco, Croce aveva parlato nel paragrafo su Hegel degli Elementi di politica, 1925, poi raccolti in Etica e politica, 1931). Forse anche per questo risvolto politico, divenuta ormai insanabile la rottura fra i due durante il fascismo, il filosofo siciliano arrivò a scrivere in una nota della Filosofia dell’arte (1931) che il crociano Saggio sullo Hegel, già per lui occasione di tanto discutere, fosse in realtà solo un lavoro immaturo e pretenzioso, contenente a mala pena alcune scintille di verità, poiché condotto senza una «adeguata e seria preparazione storica» (p. 181). Ostracismo irato e sconfessione aperta, venata di amarezza, che segnarono la fine della comune partecipazione dei due pensatori italiani al fenomeno europeo della «risurrezione» di Hegel.
Croce, dal canto suo, non rimase inoperoso, e continuò a riflettere sul filosofo svevo nell’ambito del proprio ormai sviluppato sistema di pensiero. Prevalenti gli accenti positivi nella Filosofia della pratica (1909), per merito della separazione mantenuta da Hegel tra sfera teoretica e pratica (grazie anche al ruolo riconosciuto alle passioni e all’utile, contro le ricorrenti tentazioni di una morale intellettualistica) o per merito della superata antitesi fra determinismo e libero arbitrio, nonché dei veri e propri «saggi storico-politici» nascosti nell’impianto delle hegeliane Grundlinien der Philosophie des Rechts (1820; trad. it. 1912). Prevalenti le riserve nella Logica come scienza del concetto puro (1909, nuova ed. «interamente rifatta» dei Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro, 1905) e nella già citata Teoria e storia della storiografia, secondo le linee già tracciate in Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, pur se la prima recava in nota un apprezzamento di Spaventa a paragone dei maggiori critici di Hegel (Johann Friedrich Herbart, Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher, Arthur Schopenhauer, il tardo Friedrich Wilhelm Joseph Schelling), indizio dell’influenza di Gentile, ancora viva a quel tempo.
Anche negli scritti posteriori, via via pubblicati in varie raccolte fino alla morte, Hegel confermò di essere per Croce un punto fermo nello sviluppo storico della filosofia, se non addirittura un interlocutore privilegiato, pur senza che ciò autorizzasse l’istituzione di una continuità fra idealismo assoluto e storicismo assoluto. Le principali manifestazioni del neohegelismo in Germania prima dell’ascesa di Adolf Hitler al potere – il lancio, nel 1927, dell’edizione delle opere complete curata da Hermann Glockner (Sämtliche Werke: Jubiläumsausgabe in zwanzig Bänden) e il primo volume, nel 1929, di Hegel, sein Wollen und sein Werk di Theodor Haering – furono accolte con il dovuto, sia pur distaccato, rispetto. Il centenario della morte del filosofo di Stoccarda (1931) – che, come prima accennato, vide Gentile partecipare a Berlino al secondo congresso dell’Internationaler Hegelbund – fu onorato da Croce con il saggio Un cercle vicieux dans la critique de la philosophie hégelienne, contributo inaugurale a un fascicolo monografico della «Revue de métaphysique et de morale» (38, 3, pp. 277-84; solo autore italiano, in mezzo a cinque francesi e a un tedesco, Nicolai Hartmann, non propriamente un neohegeliano), ma solo per riaffermare le posizioni espresse nel saggio giovanile. L’occasione celebrativa soltanto gli suggerì la formula che bisognasse essere più hegeliani di Hegel (diversamente dai suoi studiosi di taglio filologico) e liberarlo dalle scorie metafisiche e teologiche (con il titolo Circolo vizioso nella critica della filosofia hegeliana, l’articolo apparve in italiano prima su «La Critica», 1932, 30, pp. 434-40, e poi nella raccolta Ultimi saggi, 1935, pp. 231-40). Un cambiamento, tuttavia, si preparava, e a farlo precipitare fu la crisi europea sfociata nella Seconda guerra mondiale. Al pari di tutti i temi della meditazione crociana, anche la figura di Hegel non poteva uscire immutata da quell’esperienza terribile.
Ciò avvenne dapprima nella forma di un’accresciuta simpatia per un autore al quale, proprio per aver saldato con lui i conti in gioventù, sembrava lecito far ricorso contro avversari comuni e che andasse sottratto a deformazioni ispirate a una congiuntura epocale carica di insidie per la cultura tedesca. In La storia come pensiero e come azione (1938, una meditazione sullo storicismo, riproposto da Friedrich Meinecke nel suo Die Entstehung des Historismus, 2 voll., 1936, in una prospettiva tendente a esaltarne le radici romantiche, senza molto spazio per la filosofia idealistica), Croce abbozzò perfino una timida difesa delle opere di filosofia della storia («libri proibiti», istruttivi già per la loro aperta esposizione di fallaci teorie spesso abbandonate solo in apparenza dalla storiografia più matura) e volle quasi esentare Hegel dal generale giudizio di condanna pronunciato dagli storici, in quanto profondo rinnovatore della filosofia dello spirito e pur nei suoi limiti ravvivatore non solo della storiografia filosofica, ma ricco di «pensiero storico effettivo» (p. 141-42). Il saggio Il posto di Hegel nella storia della filosofia («La Critica», 1939, 37, pp. 190-200, poi in Il carattere della filosofia moderna, 1941, pp. 36-51), nel ribadire la fedeltà all’interpretazione data in Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, diede agio a Croce di rammentare il marchio indelebile impresso da Hegel sull’intero Ottocento e di specificare il senso della propria asserita immedesimazione nel filosofo tedesco, affrontato a quel modo nel quale Hegel stesso si era misurato con i suoi predecessori, vale a dire mediante una comprensione attiva e a partire da un dialogo e un dissenso dichiarati indispensabili anche ai fini di una corretta collocazione storica. Una frequentazione – scriverà più tardi per celia il filosofo napoletano nell’autobiografico Intorno al mio lavoro filosofico (in Filosofia e storiografia, 1945, pp. 53-65) – paragonabile a quella di Catullo con Lesbia. Tanto sarebbe riuscito impossibile a Croce vivere sia con Hegel sia senza Hegel, a differenza vuoi degli hegeliani ortodossi (fra i quali Croce annoverava da tempo anche Gentile), vuoi degli antihegeliani di ogni sorta, per i quali il pensatore svevo sarebbe sempre rimasto un «libro chiuso».
Dei risultati di questo incessante ritornare su Hegel (dal magistero crociano era lecito far discendere anche le traduzioni hegeliane avviate per La nuova Italia rispettivamente nel 1930 da Ernesto Codignola con Giovanni Sanna – Lezioni sulla storia della filosofia, 3 voll., 4 tt., 1930-1944 – e nel 1941 da Guido Calogero con Corrado Fatta – Lezioni sulla filosofia della storia, 4 voll., 1941-1963 – la prima accompagnata da una prefazione intesa a far di Hegel il banditore di una «intuizione laica e razionale della vita», rivendicato come tale al campo antifascista) fu testimonianza nel periodo postbellico la seconda raccolta di Croce dal titolo hegeliano, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici (1952), destinata a far risaltare il nesso di tanto studio con l’estrema evoluzione intellettuale dello scrivente. Qui, a parte l’apologo Una pagina sconosciuta degli ultimi mesi della vita di Hegel (pp. 3-27; già in «Quaderni della “Critica”», 1949, 13, 5, pp. 1-19; notevole, in ogni caso, per la descrizione del protagonista alla stregua di un filosofo irrisolto ancora sul finire della propria esistenza, come Croce stesso si sentiva in vecchiaia), la novità consisteva nell’affermare che la ricerca hegeliana intorno alla dialettica avesse avuto a che fare con l’etica ancor più che con la logica, con il problema del male ancor più che con quello del falso. Massima scoperta di Hegel doveva stimarsi la nozione della razionalità del reale e realtà del razionale (un tema quasi provocatorio dopo gli orrori della guerra), suo difetto l’aver annacquato tale audace pensiero con la cauta distinzione fra realtà accidentale e realtà necessaria (il riferimento era soprattutto al § 6 dell’Enzyklopädie, per il quale Croce aveva solo da rifarsi alle proprie ripetute spiegazioni, a partire da Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel). Si trattava di una sottile diversità di accento (le antiche cause di dissenso rimanevano intatte), ma legata al contemporaneo accrescimento, nel sistema di Croce, dello spazio assegnato alla categoria della «vita», intesa come compiuta espressione della sfera dell’utile. Il perdurante fascino della filosofia hegeliana – così la seconda parte, intitolata “Hegel e l’origine della dialettica”, delle Indagini – stava nella penetrazione dialettica della vita compresa nella sua contrarietà e unità (si riaffacciava qui il dualismo fra i contrari e i distinti), nonché nella compattezza da lui conferita allo svolgimento della storia umana. Croce declinava così attraverso Hegel questioni a lui sempre presenti di molta filosofia contemporanea, intrisa di vitalismo e storicismo, rispetto alle quali il marxismo, frattanto divenuto la dottrina ufficiale di una superpotenza planetaria e di un grande partito politico in Italia, gli sembrava offrire una risposta insoddisfacente e una rilettura sbagliata di Hegel stesso (“Hegel e Marx”, suonava il titolo della quinta parte delle Indagini – un rapporto tematizzato allora da Carlo Antoni in una prospettiva non dissimile).
Ma accanto a ciò un breve scritto spiccava, nelle Indagini, quale documento dei mutamenti in atto nelle interpretazioni postbelliche di Hegel e quale espressione della riluttanza ad accettarle da parte di un protagonista del «risorgimento» hegeliano (così Croce) d’inizio Novecento. La recensione (L’odierno “rinascimento esistenzialistico” di Hegel, «Quaderni della “Critica”, 1949, 5, 15, pp. 14-20) al secondo fascicolo (1949, curato da Miguel Ángel Virasoro) della rivista argentina «Cuadernos de filosofía», fu l’occasione per prendere le distanze da quegli autori che, quasi per l’intera generazione a venire – Croce doveva presagirlo –, avrebbero dominato gli studi hegeliani e archiviato il neohegelismo: gli interpreti marxisti dichiarati – il loro campione György Lukács (Der junge Hegel und die Probleme der kapitalistischen Gesellschaft, 1948; trad. it. 1960), liquidato con un cenno alle sue «elucubrazioni» in materia di lotta di classe e in campo estetico, ma soprattutto gli interpreti esistenzialisti di scuola francese, i vari Jean Wahl (un richiamo indiretto al suo Le malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel, 1929, trad. it. 1972, si trovava già nel citato Il posto di Hegel nella storia della filosofia: «Quei tormenti della ‘coscienza infelice’ che Hegel conobbe e così drammaticamente e tragicamente ritrasse»; «La Critica», 1939, 37, p. 195), Jean Hyppolite, Henri Niel, Alexandre Kojève, tutti disinteressati a Hegel in quanto filosofo sistematico, ma invaghiti dei suoi frammenti giovanili e soprattutto della Phänomenologie des Geistes. Si trattava di studiosi tutt’altro che guidati da preoccupazioni filologiche, ma attraverso i quali, per la loro insistenza sul periodo di formazione del pensiero hegeliano, Dilthey e Nohl (evocati, non a caso, proprio in questa recensione) sembravano sul punto di prendersi una postuma rivincita nei confronti del pensatore italiano, legato all’immagine di Hegel offerta dai suoi continuatori ottocenteschi più o meno ortodossi (come tali in fondo potevano valere perfino gli interpreti inglesi sul tipo di Robin Collingwood), forzato a rinfacciare ai novatori l’inconsistenza del loro beneamato Søren Kierkegaard (il solo Martin Heidegger, in parte, trovava indulgenza, insieme a Karl Löwith per il suo Von Hegel zu Nietzsche, 1938; trad. it. 1949, ma in quanto «storia di una decadenza filosofica») e persuaso che Hegel avesse bensì precorso certe tematiche esistenzialistiche, ma per superarle una volta per tutte.
Una certa asprezza verso questi interpreti poté essere dettata a Croce dal fatto che, nel citato secondo fascicolo dei «Cuadernos de filosofía», Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel avesse ricevuto un brusco congedo (nel saggio Vitalidad de la “Fenomenología del espíritu”, pp. 33-37) da parte del direttore della rivista, Carlos Astrada, annoiato da quella trattazione ferma in apparenza a questioni di logica. Ma il dissidio era profondo: rimesso a nuovo grazie a quelle riletture esistenzialistiche, o marxiste, Hegel sembrava voler sopravvivere, sia pur trasfigurato, alla dissezione operata su di lui fra quanto potesse dirsi vivo oppure morto nel suo pensiero. In Italia le cose non andavano troppo diversamente: le recenti monografie hegeliane di Piero Martinetti (Hegel, 1943) e Guido De Ruggiero (G. G. F. Hegel, 1948), ambedue insoddisfacenti per Croce, oltre a un paio di articoli di Andrea Vasa sulla «Rivista critica di storia della filosofia» (De Ruggiero e l’interpretazione neo-idealistica italiana della dialettica di Hegel, 1948, 2, pp. 275-89; La riforma logica dell’hegelismo nel pensiero di B. Croce, 1950, 1, pp. 81-102), dedicati proprio alla prima discussione crociana di Hegel e polemici verso di essa, mostravano che il clima era cambiato. Croce lo avvertì, in parte ne fu influenzato, ma certo non volle né poté accomodarvisi. Da Spaventa egli ammetteva di esser stato tratto a sopravvalutare l’importanza delle prime categorie della logica hegeliana; ma tale rettifica risaliva in fondo già alle lettere scambiate con Gentile (Croce a Gentile, 28 dicembre 1914, Lettere a Giocanni Gentile, cit., p. 484), era risuonata in pubblico già nel Contributo alla critica di me stesso, e anziché costituire una parziale palinodia imposta da quel recente mutamento del gusto filosofico sempre di nuovo mirava a colpire in Italia la deriva misticheggiante di certo neohegelismo nostrano. Questo aveva, in realtà, poco a che fare con il miglior lascito del pensatore svevo, ma molto con il bisogno di aver fede che una gioventù frattanto fattasi adulta aveva sperato ieri di soddisfare in Gentile (misticismo e attualismo da tempo valevano come sinonimi per Croce), oggi sembrava incerta se saziare attraverso l’adesione al comunismo, o attraverso il più marcato recupero religioso se non addirittura confessionale di qualche forma di trascendenza, oppure se accettare di lasciar filosoficamente inappagato (la scelta forse più interessante dal punto di vista crociano, come stava a testimoniare fin dal 1941 l’interlocuzione avviata con Enzo Paci).
Qualunque fosse il destino delle nuove voghe filosofiche, una stagione era terminata. Gentile non era più fra i viventi, e il suo ricordo quale interprete di Hegel sembrava sbiadire all’ombra della sua fatale scelta politica, non più corroborato da rinnovati studi dopo i saggi del 1913. Croce dal canto suo, volutamente lontano nel proprio approccio a Hegel dai canoni della storiografia filosofica corrente e forse ancor più di quella a venire, non poté sottrarsi alla sorte di vedere il successo dell’interpretazione hegeliana da lui offerta strettamente correlato al successo dell’interprete, considerato come filosofo a sua volta. Egli stesso ne diede un’ammissione malinconica nelle Indagini (nel saggio Identità della realtà e della razionalità, già pubblicato in «Quaderni della “Critica”», 1950, 6, 17-18, pp. 91-96), ma corrispondente in tutto ai principi della sua filosofia: il ritratto da lui dato di Hegel poteva anche essere infedele, ma non perciò abusivo, giacché, proprio grazie alla lettura delle pagine hegeliane, doveva essergli riuscito di sviluppare certi suoi pensieri originali. Era una rivendicazione del superiore diritto del presente sul passato, anche in materia di filosofia, il passato essendo null’altro che un eterno presente nella prospettiva crociana. Ma ciò significava anche riconoscere che la propria titolarità di quel diritto fosse ormai esaurita e che presto ad altri sarebbe toccato esercitare la medesima funzione nei confronti di Croce stesso. Di Croce in quanto filosofo, messo a paragone di quello Hegel da lui lungamente rivisitato e forse infine amato.
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