Gentile giornalista
Giovanni Gentile iniziò a collaborare con continuità ad alcune testate giornalistiche durante la guerra, quando aveva ormai pubblicato molti dei suoi lavori più importanti e raggiunto la piena maturità filosofica e professionale. Il conflitto mondiale aveva suscitato la sua passione civile e politica, che si era espressa già in una conferenza su La filosofia della guerra, tenuta prima a Palermo nell’ottobre 1914 e poi a Pisa dopo il trasferimento nella nuova sede.
La dimensione politica costituisce il principale elemento di continuità degli articoli giornalistici di Gentile: entro questo quadro interpretativo possono essere letti gli scritti sulla guerra, sui rapporti con la Chiesa, sulla scuola e sul suo compito nello Stato, sulle istituzioni fasciste. Il carattere politico non nasce dalla guerra, ma è una struttura essenziale dell’intera riflessione gentiliana; con la guerra si sviluppa una più marcata attenzione alle masse, e il giornalismo rappresenta un modo privilegiato di relazionarsi con esse. Egli assumeva con consapevolezza il ruolo di intellettuale e maestro di un pubblico vasto.
Già sul numero straordinario del «Giornale d’Italia» del 1° gennaio 1915 egli aveva pubblicato un intervento dedicato alla Disciplina nazionale, dove sono presenti i principali elementi che caratterizzano la sua produzione giornalistica. Gentile invita i suoi lettori a un’assunzione di responsabilità di fronte al conflitto, che, pur non essendo voluto dall’Italia, le causa «dolorose conseguenze economiche»; il destino che l’attende non dipende però dalle potenze straniere, ma dalla sua forza «militare» e «morale», dove la seconda è senza dubbio il presupposto della prima. Gentile fa riferimento al volere della nazione, il quale non è riconducibile alla «nettezza d’idee» di individui e di partiti, ma è attività «soggetta a una legge» (Guerra e fede, a cura di H.A. Cavallera, 19893, p. 22). Istituisce un nesso organico tra cittadini, nazione e Stato, mediato dal volere: la personalità di una nazione non è separata o diversa da quella dei cittadini, «ma è la stessa coscienza d’ogni cittadino, che attua nel suo volere la volontà della nazione». Quanto maggiore è la concordia tra i cittadini, tanto più la nazione costituisce una realtà, vale a dire uno Stato, giacché quest’ultimo «con le sue leggi e la sua forza effettiva» è la «reale dimostrazione […] della individualità di una nazione». La legge dello Stato deve avere un valore spirituale: essa è in continua evoluzione grazie ai contrasti di concetti e tendenze, e quindi alla «lotta dei partiti»; tuttavia lo Stato esiste, e le sue leggi hanno vigore, solo «in quanto il conflitto dei partiti si riconcilia perennemente nella volontà comune, unica, in cui si attua l’individualità nazionale» (p. 23). Nel capodanno del 1915, quando la scelta tra neutralità e intervento non è ancora stata presa, Gentile sottolinea la necessità per i singoli e per i partiti di obbedire al governo.
Gentile non svolse attività giornalistica per tutto il 1915, ma il 27 dicembre scrisse al «Corriere della Sera» offrendosi di collaborare con qualche suo «articolo di questioni morali, filosofiche, scolastiche o letterarie, di largo interesse» (cit. in Turi 2009, p. 23). La richiesta apparve subito difficile da accogliere per la penuria di carta e di spazio, ma dal «Corriere» gli domandarono comunque delucidazioni sugli argomenti – rigorosamente di «attinenza diretta o indiretta col conflitto europeo» (p. 26) – che intendeva trattare. Gentile rispose di voler parlare di questioni «di contenuto filosofico», su cui la guerra aveva attirato l’attenzione del pubblico colto. Lo scopo era combattere la diffusione di «concetti troppo grossolani e inesatti», perché solo la «chiarezza delle idee» poteva «dar nuovo vigore alla nostra coscienza nazionale per farle vincere questa prova, che dovrebbe essere anche l’inizio di un rinnovamento interno» (pp. 26-27). La collaborazione con il «Corriere» non ebbe luogo, e solo dal 1917 egli avrebbe scritto con continuità su un grande quotidiano, «Il Resto del carlino». Un ruolo decisivo nella sua esperienza al «Carlino» fu svolto dal redattore Mario Missiroli (1886-1974), con il quale Gentile era da tempo in contatto. Dopo un primo articolo su Cultura e letteratura nazionale, in cui si muoveva ancora nell’ambito della storia letteraria senza riuscire ad assumere una forte dimensione politica, proprio Missiroli lo incoraggiò ad affrontare problemi di attualità, «distruzioni di luoghi comuni», magari in un articolo «sul nazionalismo» in cui battere in breccia «la tesi naturalistica della Nazione per riaffermare lo Stato e l’idea liberale» (Fondazione Giovanni Gentile, serie 1 Corrispondenze, sottoserie 2, Lettere inviate a Gentile, corrispondente Mario Missiroli [da ora in poi FGG, Missiroli-Gentile], 12 e 18 febbraio 1917).
Sul «Carlino» del 2 marzo appare Critica dei luoghi comuni. Nazione e nazionalismo, in cui Gentile attacca la «concezione grettamente naturalistica» della nazione: non è detto che tutti i nazionalisti la facciano propria, «ma è certo che per esser veramente e seriamente nazionalisti converrebbe metter da parte il nazionalismo». Il concetto da cui muove il nazionalismo è «effettivamente naturalistico» non solo quando presuppone la nazione «come un fatto naturale, antropologico o etnografico», ma anche quando la considera una realtà storica «già esistente» e non in continua formazione: in entrambi i casi si va a minare la libertà dell’individuo, subordinato a un dato esterno, a un fatto bruto privo di valore. La nazione che ha valore non è «un fatto, ma una coscienza», come quella «realtà spirituale» che l’Italia sentì di essere «alla vigilia del suo risorgimento politico» (Guerra e fede, cit., pp. 35-36). Nell’articolo del 28 marzo per il centenario di Francesco De Sanctis, Gentile precisa il ruolo centrale della scienza e della scuola nella costruzione di questa «realtà spirituale». Non basta essere orgogliosi del nostro passato, ma bisogna fare la storia, e dunque «fare se stessi», «rifare la tempra, uccidere in noi l’antico uomo» (p. 31). Una scienza «assolutamente libera», ma che proprio perciò restauri «il limite nella libertà», e una scuola, in cui il maestro «cerchi e osservi» assieme ai discepoli, formando con essi «un solo essere organico, animato dallo stesso spirito», devono ricostruire una fede, essenziale per rinvigorire lo spirito di una nazione (pp. 32-33).
Nei mesi successivi Gentile non scrisse più sul «Carlino», nonostante Missiroli gli avesse chiesto un articolo su Giuseppe Mazzini, in cui avrebbe potuto affermare la «superiorità del pensiero di Marx», e uno «sul nuovo volume di Croce», ossia Teoria e storia della storiografia (cfr. FGG, Missiroli-Gentile, 10 marzo e 29 luglio 1917). Nel primo caso la linea del giornale non coincideva con quella di Gentile, il quale aveva mutato profondamente il suo giudizio su Mazzini rispetto alle posizioni del 1903 che Missiroli ancora gli attribuiva; avrebbe dovuto invece essere ben ponderata una recensione al volume di Benedetto Croce, da cui Gentile era ormai teoreticamente distante, perché avrebbe anche potuto portare a una rottura fra i due. La collaborazione con il «Carlino», e con alcuni giornali a esso collegati, riprese solo nel dicembre successivo, con il trasferimento di Gentile a Roma, e dopo la sconfitta di Caporetto e la resistenza del Piave.
Colta l’intenzione di Gentile di riprendere a scrivere sui quotidiani, Missiroli lo invita a essere «un maestro» per il giornale, sottolineando la «funzione educativa» della stampa quotidiana e il dovere dei professori di «prendere contatto con il grande pubblico» (FGG, Missiroli-Gentile, 8 dicembre 1917). Nel suo articolo del 15 dicembre, Gentile assume in pieno questa funzione, riaffermando, dopo la sconfitta di Caporetto e la riscossa del Piave, l’importanza dell’intervento italiano, e negando le ragioni di chi prima del conflitto aveva suggerito una prudente neutralità, dubitando dell’attitudine del popolo italiano ad affrontare una guerra così «lunga e difficile» (Guerra e fede, cit., p. 45). Gentile sembra contrapporsi a Croce che giorni prima gli aveva ricordato i suoi vecchi dubbi sul ruolo dell’Italia nel conflitto. In seguito Croce, pur dichiarandosi d’accordo con l’articolo «nei concetti», avrebbe preso le distanze dalla «quaestio facti» (Lettere a Giovanni Gentile, a cura di A. Croce, 1981, p. 549).
Con il nuovo anno Gentile pubblica alcuni interventi in cui cerca di svolgere un’attività pacificatrice nel dibattito pubblico sulle responsabilità o le colpe che hanno condotto alla disfatta di Caporetto. In Responsabilità del 19 gennaio, egli liquida in poche battute la questione affrontata in precedenza della «partecipazione nostra alla guerra, voluta nel maggio 1915», giacché «quella era la via storicamente fatale» (Guerra e fede, cit., p. 52). La guerra è stata «voluta», non subita come un cataclisma che deve passare con meno danni possibili. Il problema è capire se la via scelta sia stata percorsa con la dovuta risolutezza, senza attribuire ad altri, ma solo a se stessi, le responsabilità di una sconfitta militare: trovare un colpevole servirebbe solo ad appagare le coscienze, mentre «un po’ di responsabilità pesa su tutti, uno per uno, senza eccezioni» (pp. 56-57). La storia non è fatta da individui empirici e disincarnati che agiscono ad arbitrio: dietro le persone ci sono le idee, che rappresentano delle forze reali. I liberali, in cui egli si riconosce, non dovranno incolpare i socialisti di aver voluto la sconfitta, per quanto possano aver ragione, perché essi pure hanno avuto un ruolo «nel fare che quel socialismo […] sia quello che è» (p. 55). I programmi socialisti, così come quelli cattolici, hanno una funzione propulsiva, ma unilaterale e potrebbero, se non contrastati sul piano teorico e pratico, arrivare a distruggere lo Stato liberale: spetta al partito liberale – scrive il 25 gennaio – difenderlo «dal doppio assalto, e giovarsene come di stimolo di progresso e di rinnovamento» (p. 62).
Il 25 dicembre 1917 compare sul «Carlino» Natale, un articolo in cui Gentile conferisce un forte significato religioso alla partecipazione al conflitto. Nel giorno di Natale sorge «una voce di speranza e di fede», che renderà meno dura «la lotta illuminata dalla certezza della vittoria»; non si tratta di una grazia o di una promessa ricevuta, ma di «un voto che si fa da chi ne intenda il divino significato». Gentile richiama la «tradizione cristiana» che parla la lingua degli «anni più teneri» per invitare alla lotta come dovere verso la patria, e quindi come dovere religioso. Il riferimento agli «anni più teneri» suggerisce l’intenzione di Gentile di parlare alle masse popolari – la religione rappresenta un momento inferiore dello spirito che la filosofia deve superare. L’articolo ebbe «un successo vero», e Missiroli gli chiese di intervenire sul papa, sul Vaticano e sui «cattolici rispetto alla guerra e all’Italia», senza contestare il «patriottismo dei cattolici», ma prendendo in considerazione la «posizione del Papa e del cattolicesimo in genere» (FGG, Missiroli-Gentile, 27 dicembre 1917). Sul «Carlino» del 3 gennaio 1918 compare La guerra del Papa, dove Gentile attacca «l’arcadica, anzi materialistica concezione della pace» espressa nell’Allocuzione natalizia di Benedetto XV. Le polemiche suscitate saranno molte, e lo stesso Croce gli avrebbe suggerito «di lasciare in pace il Papa, che fa il Papa e non può far altro» (Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 552). Aspirare alla pace, per Gentile, non significa preferire la «vita terrena» al dovere, ma ascoltare la coscienza che pone al di sopra di noi stessi «l’interesse della patria, che è poi l’interesse dell’umanità, cioè dello spirito, e, in altri termini, di Dio» (p. 97). Tra Dio, l’umanità e la patria non vi è soluzione di continuità, e Gentile appare assolutamente distante da una concezione trascendente di Dio. Lo Stato laico non è, come sembrerebbe pensare il papa, «ateismo eretto a sistema di pretesa civiltà»: esso non ha bisogno di una religione di fronte a sé, perché «ha in sé, nel suo spirito, la propria religione». La guerra ha avuto l’effetto di separare sempre più Stato e Chiesa: la grave accusa di Gentile al papa è, dunque, di promuovere un pacifismo non ispirato dalla «pura religiosità», ma da un «interesse politico ripugnante ai fini essenziali di quello Stato che è nella stessa coscienza del cittadino» (p. 110).
In seguito alle molte discussioni e polemiche suscitate, Gentile tornò nelle settimane successive a ribadire le proprie idee liberali sulla separazione fra Stato e Chiesa, e a confermare le critiche ai discorsi pacifisti di Benedetto XV; inoltre cercò di evidenziare la posizione ambigua dei movimenti cattolici italiani, resa acuta dal conflitto. L’11 gennaio sottolinea l’equivoco di un «partito cattolico» che intende essere italiano, e operare nello Stato, pur essendo «un’organizzazione delle forze, che prendono a norma suprema […] la volontà del Sommo Pontefice». Il principio direttivo del «partito cattolico» «non è solo diverso, ma opposto a quello dello Stato italiano»: il patriottismo dei militanti delle associazioni cattoliche non è messo in discussione, ma esso è possibile solo «in quanto il partito non si fonde perfettamente nella vita, onde il suo principio tende a investirlo» (p. 102). Gentile istituisce una polarità tra il cattolicesimo concretamente vissuto dalla maggioranza degli italiani, che è uno degli elementi fondamentali della coscienza nazionale, e le dichiarazioni del papa radicalmente opposte al moderno Stato laico. Non a caso, sul «Nuovo giornale» del 30 gennaio, Gentile difende l’importanza del sentimento religioso sostenendo che lo Stato debba promuoverlo, «anche nella forma, non scevra di pericoli, del cattolicismo» (p. 105).
Tra febbraio e marzo del 1918 un posto importante nel dibattito pubblico era occupato dalle trattative fra la Russia rivoluzionaria e le potenze centrali, conclusesi il 3 marzo con la Pace di Brest-Litovsk. L’interesse di Gentile è attirato soprattutto dalla capacità dei socialisti italiani – decisiva in tempo di guerra – di influenzare le masse popolari. La sua tesi, come scrive il 10 marzo sul «Carlino», è che il primo effetto di una disfatta italiana sarebbe la rovina «della grande industria», cui è legata «non solo la sorte immediata dell’operaio, ma anche quell’organizzazione della classe, in cui dal punto di vista del socialismo è riposto il suo avvenire» (p. 74). Vi è «identità d’interessi tra capitalisti e lavoratori», e questi ultimi hanno la necessità «di volere la guerra e la guerra vittoriosa» (p. 160). A questa formulazione così nitida Gentile arriva attraverso una serie di articoli in cui adotta toni sempre più duri per polemizzare contro i socialisti, facendone emergere le ambiguità. Nel primo, del 28 febbraio, critica il socialista Antonio Graziadei per la scarsa risolutezza rispetto al conflitto, ma lo definisce un «uomo retto», di «colta intelligenza» e «spirito arguto» (p. 154); il 10 marzo attacca invece con molta più asprezza «la cecità d’una disciplina di partito grettamente egoistica» per cui si è potuto dire che «in seguito al crollo della potenza politica e militare russa la Russia sta male, ma stanno bene i russi» (p. 73). Appena quattro giorni dopo Gentile pubblica La crisi del marxismo, dove già nell’incipit si legge che «guardando alla Russia, bisognerebbe dire piuttosto fallimento». La «disgregazione della potenza e della vita russa» non è stata colpa della sola fazione leniniana, ma di tutto il movimento socialista, che ne aveva preparate le condizioni. Obiettivo di Gentile non sono però i socialisti russi, ma gli italiani: questi ultimi, pur avendo «combattuto certi metodi leninisti», si sono presi lealmente le loro responsabilità. L’incoerenza non è dei singoli socialisti, ma vi è un «principio intrinseco di contraddizione, immanente al movimento marxista». Essi possono affermare con sincerità che la «loro patria è sul Monte Grappa», ma restano vuote parole se non indirizzano con coerenza la loro opera alla causa italiana, come ha il dovere di fare «ogni cittadino che parli alle masse popolari e sappia di essere ascoltato» (pp. 158-59).
Gentile torna a parlare del socialismo il 16 maggio sul «Nuovo giornale», a proposito dell’Unione socialista italiana, che raccoglie i socialisti riformisti e i sindacalisti contrari al leninismo e convinti della necessità di cooperare con le altre forze nazionali per la vittoria. La conciliazione tra l’idea interventista e quella socialista non è stata tuttavia posta con sufficiente rigore, ma è stata semplicemente asserita; oppure è stata fondata su idee deboli come l’appello «alle astratte idealità democratiche», già superate da quella «cruda forma di realismo politico» che è il materialismo storico (p. 163).
Sul «Nuovo giornale» del 26 febbraio 1918 Gentile dedica un articolo al problema dello Stato, mentre altri ne sarebbero seguiti solo dopo la metà di marzo, con l’affievolirsi dello slancio polemico antisocialista suscitato dalla resa della Russia. Egli critica l’astratta distinzione tra l’ideale dello Stato, cui esso dovrebbe essere conforme, e lo Stato fattualmente esistente di fronte a noi con le sue imperfezioni, e attacca chi non riconosce in quest’ultimo la santità della patria. Non si rivolge ai socialisti, che considerano lo Stato espressione degli interessi di una classe, ma ai liberali che nello Stato vedono «la forza del diritto, che disciplina e governa tutta la vita di un popolo» (pp. 120-21). Il liberale non potrà, però, far suo «il sofisma dello Stato-forza», di cui Gentile parla sul «Carlino» del 19 aprile, che sia «al di qua o al di là del bene e del male», e la cui norma sia da ricercare «nel successo e nella vittoria al di fuori, e […] nella disciplina e coesione all’interno» (p. 134). Lo Stato – leggiamo in una recensione alla Politica di Heinrich von Treitschke sul «Carlino» del 10 aprile – è forza, ma forza spirituale, «meccanismo che suppone la libertà e termina nella finalità etica, a cui […] lo Stato non può non subordinarsi» (p. 132). Esso non può «essere forza del diritto senza essere volontà, persona, gruppo di persone, rappresentanti un certo modo di concepire la funzione generale e l’immediato interesse dello Stato». La sua forza e la sua potenza sono indirizzate da una certa idea di ciò che esso debba essere. Gentile non invita i lettori ad accettare passivamente la realtà data, ma ad agire per trasformarla in maniera concreta e in Tra Hegel e Lenin, del 29 maggio, ribadisce che lo Stato è «quella realtà, che non esiste già, ma noi lavoriamo continuamente a realizzare, e che è via via quello che noi tutti facciamo essere» (p. 140).
Il 22 febbraio Gentile pubblica sul «Nuovo giornale» il primo di una serie di interventi dedicati alla riforma della scuola normale promossa dal ministro Agostino Berenini e più in generale alle questioni scolastiche. Il problema della riforma scolastica appare strettamente connesso con la guerra, poiché quest’ultima ha reso il Paese consapevole del problema nazionale «come problema essenzialmente di cultura, di elevazione intellettuale e morale e di riforma interiore» (p. 270). Il 4 maggio, in una lettera aperta a Berenini, Gentile sottolinea «la vitale importanza del problema scolastico rispetto a quella nuova Italia» che deve uscire dalla guerra (La nuova scuola media, a cura di H.A. Cavallera, 19882, p. 273), e anche in seguito, dopo la fine del conflitto, avrebbe ribadito che «soltanto la scuola assicura il frutto della vittoria» (Dopo la vittoria, a cura di H.A. Cavallera, 19892, p. 25).
Pur entrando nel merito di questioni specifiche, Gentile ha sempre ben presente un punto di vista complessivo filosofico e morale: egli sostiene la necessità di migliorare le condizioni materiali dei maestri, giacché lo Stato deve assicurare l’istruzione elementare obbligatoria di buon livello a tutti; diverso il caso dei gradi superiori, che non sono estranei agli interessi dello Stato, ma, come scriverà qualche mese dopo sul «Messaggero della domenica», «la cultura superiore […] non è, e non dev’essere di tutti» (La nuova scuola media, cit., p. 300). Le scuole medie pubbliche – e in primo luogo quelle classiche – devono avere insegnanti ben pagati, e pochi allievi selezionati per concorso, e a parità di risultato sarebbe dovuto entrare quello in condizioni economiche più disagiate; gli altri sarebbero andati alle scuole private, dove avrebbero dovuto insegnare solo i laureati in università statali.
La proposta di Gentile suscitò subito interesse e discussioni: innanzitutto Berenini ne criticò il carattere troppo elitario, molto attento agli studi, e poco alla questione sociale. Essa invece fu ben accolta dai cattolici, sensibili alla libertà di insegnamento nella scuola privata; Gentile decise, però, di precisare su «L’idea nazionale» che «la libertà d’insegnamento è sempre governata dall’azione dello Stato», dunque non può essere assoluta (p. 291). Il giovanissimo Piero Gobetti, ispirato dall’ampio seguito degli interventi giornalistici di Gentile, lo propose come ministro della Pubblica Istruzione già nel 1919 (cfr. P. Gobetti, Il problema della scuola media. Il liceo, «Energie Nove», 1-15 marzo 1919, 9, pp. 121-27, in partic. p. 122).
Dopo questa data gli articoli giornalistici di Gentile si diradano e non hanno più il carattere propulsivo di quelli degli anni Dieci, essendo legati o al suo ruolo di ministro o a quello di autore della «più fascista delle riforme».
Fino all’estate del 1918 Gentile aveva parlato della guerra come di una necessità per l’Italia, senza concentrarsi troppo sulle colpe dei nemici stranieri: il suo obiettivo era invitare alla coesione e alla disciplina, contrastando «la sfiducia nelle nostre forze» (Guerra e fede, cit., p. 85). Dalle fasi finali del conflitto egli si dedica anche alla politica estera perché, in vista del dopoguerra, occorre rivendicare i «diritti conquistati a prezzo di tanti sacrifici» (p. 215). Sul «Nuovo Giornale» del 31 luglio Gentile distingue la «Germania […] dei grandi filosofi» da quella che si sta combattendo, ispirata dalla «detestata Kultur, simbolo […] d’ogni più proterva tendenza di brutale sopraffazione» (p. 147) – una distinzione analoga sarebbe stata alla base della difesa di Croce dall’accusa di germanofilia. A guerra ormai conclusa, Gentile parla della «responsabilità generale di tutta la nazione tedesca», che aveva commesso «atti della più odiosa brutalità»; sarebbe, infatti, antistorico considerarla vittima o strumento di un inganno dell’imperatore, perdendo così ogni diritto a colpire la Germania «con espropriazioni», o a richiederle «compensi» (Dopo la vittoria, cit., pp. 169-70).
In quegli stessi mesi Gentile si dedica inoltre alla questione dell’Istria e della Dalmazia. Il 2 ottobre egli sottolinea, in accordo con il governo italiano, che «i modi e i limiti della politica delle nazionalità» non devono pregiudicare «i diritti dell’Italia, in relazione ai fini generali della guerra» (Guerra e fede, cit., p. 194). Il diritto alla nazionalità non appartiene a «qualsiasi collettività naturale e di fatto esistente», prescindendo dalle condizioni storiche, ma a «una collettività dotata di un valore, che costituisca un titolo legittimo della sua personalità politica» (Dopo la vittoria, cit., p. 73). L’astrattezza degli ideali della Società delle Nazioni è additata il 16 aprile 1919, poco dopo che Thomas Woodrow Wilson – suo principale promotore – aveva proposto l’attribuzione della Dalmazia e di parte dell’Istria alla Jugoslavia: il presidente americano è infatti «l’assertore della dottrina Monroe, che è la negazione radicale di ogni principio di Società delle Nazioni» (Dopo la vittoria, cit., p. 196).
Nei primi mesi del 1919 Gentile e Missiroli furono protagonisti di una polemica sul liberalismo filosofico e politico che ebbe una vasta eco: anche Gobetti avrebbe discusso le loro posizioni, criticandone la «passione dialettica e metafisica» che impediva loro di tener conto del terreno storico su cui devono nascere i partiti. In particolare, Gentile era accusato di confondere «liberalismo con arte di governo», riducendolo a mera «risultante di forze opposte» (P. Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, 1924, a cura di E. Alessandrone Perona, 20084, pp. 48-49). Alla fine di febbraio Missiroli aveva pubblicato sul «Tempo» – il nuovo giornale da lui diretto – una serie di interventi in cui sosteneva che la «funzione liberale» era ormai svolta dai socialisti e non dal «partito liberale» troppo vicino ai conservatori (cfr. M. Missiroli, Polemica liberale, 1919, pp. 169 e segg.). Il liberalismo è per Missiroli «il principio individualista e rivoluzionario», e liberali sono coloro che «assumono posizioni di opposizione» e «negano uno stato di fatto», ma anche coloro che «nella mischia sociale» si sentono in parte d’accordo con i loro avversari perché dalla lotta nascerà una «nuova e comune creatura» (pp. 172-74). Gentile non poteva approvare il giudizio politico sui socialisti né tantomeno questo concetto di liberalismo, non tenuto «dentro i suoi esatti confini» (Dopo la vittoria, cit., p. 121). Nei mesi precedenti egli aveva richiamato alla «concordia sociale di tutte le classi» (p. 29) e alla «reciproca fiducia di governo e governati, di classe dirigente e proletaria, di capitale e lavoro» (pp. 33-34); la valorizzazione delle «posizioni di opposizione» andava invece in una strada differente. Soprattutto, Gentile contestava il nesso storicamente superato tra liberalismo e individualismo giacché lo Stato non è «esterno all’individuo» né l’individuo è «concepibile come astratta particolarità, fuori dall’immanente comunità etica dello Stato, in cui egli realizza la sua effettiva libertà». Lo Stato costituisce il presupposto degli individui e delle classi «e non può essere il prodotto né della loro somma, né della loro lotta» (pp. 129-30): esso «come spirito o idea» nel graduale processo della storia realizza tutte le possibilità, compreso il socialismo, «forza viva e sana e salutare» (p. 126) – chiaramente a patto che rinunci al postulato della soppressione dello Stato. I socialisti possono partecipare al governo, purché i conservatori e i liberali – come gli stessi Gentile e Missiroli – non perdano la loro identità e gli si oppongano, seguendo la loro «missione storica» (p. 134).
Gentile intervenne l’ultima volta nella polemica con Missiroli il 6 aprile; dopo non molto quest’ultimo avrebbe lasciato «Il Tempo» per assumere la direzione del «Carlino». Gentile continuò ancora per qualche mese a scrivere sulla testata, ma a settembre la collaborazione con il «Carlino» si sarebbe conclusa perché i suoi rapporti con Missiroli si erano guastati, e il suo giornale gli pareva «incanaglirsi» (cfr. Turi 1995, 20062, p. 278).
Negli ultimi anni Gentile aveva assunto sempre più il ruolo di intellettuale di riferimento, anche per forze politiche differenti da quelle in cui egli si riconosceva: il 1° maggio 1919 era apparsa sull’«Ordine nuovo» una recensione di Palmiro Togliatti (1893-1964) a Guerra e fede, la raccolta degli scritti pubblicati da Gentile durante il conflitto. Togliatti definisce Gentile «il maestro più insigne e ascoltato della scuola filosofica italiana» e sottolinea il nesso organico da lui posto tra Stato e cittadini; esso ha però il difetto di far cadere «le distinzioni tra morale e politica perché urtano […] nella contraddizione di porre la comunità politica, che fuori delle coscienze individuali non esiste, al di sopra della legge etica che ha valore per queste coscienze». Questo è il difetto di ogni conservatorismo che impedisce anche a Gentile di «scorgere il valore dei profondi moti di rinnovamento», i quali investono «la base stessa degli istituti attualmente esistenti» e sono dunque irriducibili a contrasti di partito o di tendenze. Gentile tuttavia «ci è guida» nel respingere l’«interpretazione naturalistica» che danno i nazionalisti della nazione; ma naturalismo è anche «ogni conservatorismo» che escluda «un’azione politica» fuori «dagli attuali istituti», perché andrebbe a considerarli come dati acquisiti e non come attività. Per quanto riguarda la crisi del socialismo, accusato da Gentile di non inserirsi con sufficiente consapevolezza nella storia, Togliatti assume in positivo questo invito alla concretezza, ma senza piegarsi «alla corrente dei tempi», per dominare «la realtà coi nostri fermi propositi, con la nostra fede» (P. Togliatti, “Guerra e fede” e “Politica e filosofia” di Giovanni Gentile, in Id., La politica nel pensiero e nell’azione. Scritti e discorsi 1917-1964, a cura di M. Ciliberto, G. Vacca, 2014, pp. 1884-86).
Con la fine dell’esperienza al «Carlino» l’attività giornalistica di Gentile si fa più occasionale: nella prima metà degli anni Venti la maggior parte dei suoi interventi su quotidiani è costituita da interviste o riproposizioni di discorsi pubblici, spesso dedicati alla riforma scolastica, per quanto non manchino scritti a carattere culturale o politico, volti, questi ultimi, al consolidamento del regime fascista di cui stava assumendo il ruolo di filosofo ufficiale. Solo nel 1927 Gentile avrebbe iniziato a collaborare al «Corriere della Sera», prima con testi su Baruch Spinoza e Tommaso Campanella, per poi entrare nel vivo della lotta politica trattando la questione romana. Già nel 1918, a proposito della partecipazione della Santa Sede alle trattative per la pace, aveva sottolineato che la legge delle guarentigie non ammette che essa abbia «una sovranità vera e propria» (Guerra e fede, cit., p. 112), mentre l’anno successivo avrebbe ribadito che «lo Stato italiano è sorto dalla negazione d’ogni sovranità che voglia esercitarsi sul suo territorio», e non può quindi riconoscere «un Papato politico» (Dopo la vittoria, cit., pp. 100-01). Nell’autunno del 1927, quando ormai il regime fascista si è pienamente affermato, Gentile ritorna sulla questione romana, ponendo maggiormente l’accento sul carattere utopico della conciliazione – un’utopia non bella perché «mai nel corso dei secoli della sua sovranità temporale il Pontefice fu libero come dal 1870 a oggi» (Politica e cultura, a cura di H.A. Cavallera, 1° vol., 1990, p. 352). Si può comprendere la delusione che deve aver suscitato in Gentile la firma dei Patti lateranensi l’11 febbraio 1929: sul «Corriere della Sera» del 4 settembre egli avrebbe cercato almeno di non far «passare in giudicato il carattere confessionale dello Stato italiano» (Scritti per il «Corriere» 1927-1944, a cura di G. Turi, 2009, p. 88). Lo «Stato fascista» per Gentile non rinuncia a essere «Stato etico». A Gentile risposero dall’«Osservatore romano» negando l’identificazione tra Stato etico e Stato fascista, e ironizzando sul carattere utopico della conciliazione sostenuto appena due anni prima; egli tuttavia non ebbe la possibilità di controbattere, perché la polemica con il Vaticano non era politicamente apprezzata (cfr. Turi 1995, 20062, p. 430).
Sul «Corriere» Gentile non si dedicò ulteriormente ai rapporti tra Stato e Chiesa, ma intervenne più volte su problemi scolastici e universitari, così come sull’Enciclopedia Italiana o su questioni politiche. L’11 marzo 1931 pubblica Beati possidentes? dove afferma che «tutti gl’Italiani sono fascisti» indipendentemente dall’iscrizione al Partito, formalmente impossibile fino al 1932. In un regime totalitario il Partito non può essere «una parte o una fazione», ma «il Partito dello Stato, il Partito degl’Italiani»: una volta che il fascismo «è diventato Stato», tutti i cittadini devono avere pari diritti rispetto a esso (Politica e cultura, a cura di H.A. Cavallera, 2° vol., 1991, pp. 504 e 507). Il 1° aprile Gentile pubblica un nuovo articolo politico, in cui invita i fascisti a «non mormorare», a «tacere quando il silenzio è imposto dalla disciplina», ma a «parlare da uomini […] quando la coscienza lo imponga» (p. 71). L’intervento suscitò critiche nel governo, dal cui ufficio stampa si consigliò di limitare alle questioni scolastiche la «collaborazione politica» di Gentile al «Corriere» (cfr. Turi 1995, 20062, p. 439); in seguito vi avrebbe scritto in maniera molto sporadica, intervenendo solo con articoli culturali o per celebrare Benito Mussolini e il regime fascista, fino ad arrivare alla Repubblica sociale.
Durante la Seconda guerra mondiale Gentile tenne una posizione defilata, limitando i suoi interventi pubblici sull’argomento; quando, tuttavia, il conflitto entrò in una fase critica, egli non esitò a pronunciare il famoso Discorso del 24 giugno 1943 in cui si rivolgeva agli italiani, «tutti virtualmente fascisti» (Politica e cultura, 2° vol., cit., p. 190), invitandoli alla concordia e ad avere fede nella vittoria. Dopo alcuni giorni il direttore del «Corriere» Aldo Borelli gli chiese qualche articolo sulle ragioni del conflitto, ma con il 25 luglio quest’ultimo sarebbe stato allontanato dal suo incarico. Gentile si appartò dalla vita pubblica, amareggiato dalle polemiche sorte con la divulgazione da parte di Leonardo Severi, suo antico collaboratore e ora ministro del governo Badoglio, del contenuto – ampiamente strumentalizzato – di alcune lettere inviategli proprio da Gentile; ciononostante, dopo l’armistizio accettò la nomina a presidente dell’Accademia d’Italia, assumendo così un ruolo di primo piano nella Repubblica sociale. Il nuovo direttore del «Corriere» gli rinnovò prontamente la richiesta di collaborare al giornale, e il 28 dicembre uscì Ricostruire. Gentile si appellava al sentimento della patria e alla necessità di cessare le lotte interne – salvo quella contro «sobillatori» e «traditori» – e di combattere il nemico senza riconoscere la legittimità della resa «per riaffermare il diritto dell’Italia ad esistere» (pp. 210-11). L’articolo fu da alcuni duramente criticato perché giudicato troppo conciliante: Gentile rispose con una lettera aperta al «Corriere» in cui affermava di non aver «invocato una pacificazione agnostica e negativa», ma di aver chiesto che si evitassero «le lotte non necessarie» (p. 216). Sono i suoi ultimi controversi interventi su giornali, pochi mesi prima dell’uccisione: egli cercò fino alla fine di richiamare il popolo italiano ai valori della patria mettendo da parte le discussioni fra «anglofili e germanofili, antifascisti e fascisti» (p. 209); allo stesso tempo, però, compiva un salto logico identificando senza riserve la patria, da difendere di là dai dissidi interni, con la Repubblica sociale (cfr. Sasso 2000).
M.L. Cicalese, La formazione del pensiero politico di Giovanni Gentile (1896-1919), Milano 1972, pp. 175-234.
D. Faucci, La filosofia politica di Croce e di Gentile, Firenze 1974, pp. 163-95.
M. di Lalla, Vita di Giovanni Gentile, Firenze 1975, pp. 211-86 e 449-57.
M. Bellucci, M. Ciliberto, La scuola e la pedagogia del fascismo, Torino 1978, pp. 9-44.
S. Romano, Giovanni Gentile: la filosofia al potere, Milano 1984.
G. Galasso, Il debutto politico di Gentile. Introduzione agli scritti sulla Prima guerra mondiale, «Giornale critico della filosofia italiana», 1994, 2-3, pp. 401-13.
G. Sasso, Gentile Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 53° vol., Roma 2000, ad vocem.
G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze 1995, Torino 20062, pp. 213-332 e 392-463.
M. Ciliberto, Una biografia di Giovanni Gentile, «Rivista di storia della filosofia», 1996, 1, pp. 155-63.
G. Turi, Gentile al «Corriere»: storia di una collaborazione, introduzione a G. Gentile, Scritti per il «Corriere» 1927-1944, a cura di G. Turi, Milano 2009, pp. 7-58.