Gentile: Rinascimento, Risorgimento, fascismo
Esiste un’obiettiva continuità tra questi tre termini del discorso gentiliano, l’ultimo dei quali, peraltro, oltre che coincidere con una ben precisa dimensione teorica, o quantomeno ideale, del suo pensiero, ne segna anche l’esito finale sul piano della vicenda biografica? Se una tale domanda è legittima sul piano storiografico, essa lo è soltanto in relazione alla peculiare natura della presenza di Giovanni Gentile nella cultura italiana: al suo essere un ‘intellettuale’ (termine invero assai problematico) a trecentosessanta gradi, o, come forse allora si sarebbe detto, al suo essere, in modo non del tutto diverso da come lo fu Benedetto Croce, prima di tutto ‘scrittore’ e non soltanto ‘studioso’ o ‘professore’.
Più di vent’anni fa, nel cinquantesimo anniversario della morte di Gentile, esaminando caratteri e modi dell’interesse allora ridestatosi presso l’opinione pubblica nei confronti della sua figura – sulla scorta di studi quali quelli di Salvatore Natoli e, certo più rilevante, di quello di Augusto Del Noce, dell’edizione gariniana delle Opere filosofiche di Gentile presso Garzanti, di alcuni importanti interventi di Gennaro Sasso, della biografia di Sergio Romano (pubblicata qualche tempo prima), dell’avviarsi ai suoi termini conclusivi della stampa delle Opere complete di Gentile (per quanto riguardava sia gli scritti di argomento scolastico, sia quelli di carattere più strettamente politico) –, Gabriele Turi poneva opportunamente, alla vigilia della pubblicazione della sua imponente monografia su Gentile (Giovanni Gentile. Una biografia, 1995), il problema storiografico costituito dall’«intellettuale Giovanni Gentile».
Turi richiamava la necessità, anche muovendo da un intervento di Michele Ciliberto apparso sull’«Unità» il 2 aprile 1991 (nelle more della preparazione di un convegno che poi si svolse, a Orvieto, nel novembre di quell’anno, a cura dell’Istituto Gramsci), di
considerare “la politicità degli statuti filosofici di Croce e di Gentile” come uno dei loro tratti più originali, che “si situa[va] ben al di là della tradizionale, e riduttiva, opposizione tra fascismo e antifascismo”, e che occorre[va] individuare sul piano puramente teoretico («Belfagor», 1994, 49, 2, pp. 129-47; poi in Turi 2002, p. 52).
Ciliberto aveva in effetti insistito su come la «forte ripresa di interesse per il pensiero di Croce e di Gentile», e più in generale per il «neoidealismo italiano», che allora si manifestava, derivasse essenzialmente «dal superamento dell’orizzonte schiettamente “ideologico” che [aveva] lungamente connotato gran parte dei lavori pubblicati […] specialmente negli anni Cinquanta e nella prima metà degli anni Sessanta» (Ciliberto 1991, p. 16) sull’argomento. I riferimenti d’obbligo erano due, le Cronache di filosofia italiana (1955) di Eugenio Garin e Politica e cultura (1955) di Norberto Bobbio, opere che, «oltre che classici della storiografia filosofica, [erano] anche testi costitutivi dell’“autobiografia” intellettuale della “cultura dell’antifascismo” italiano»:
Nati nel pieno di una battaglia, non celano i segni dello scontro da cui sono germinati. Tutt’altro: qui è nel nodo dell’antifascismo che si intrecciano e si stringono “mondo storico” e “mondo storiografico” (Ciliberto 1991, p. 16).
Se, proseguiva Ciliberto, il nuovo interesse per Croce, per Gentile, per il neoidealismo italiano, nasceva
dalla consapevolezza, più o meno chiara, dell’esaurimento di [quella] stagione, della fine di un lungo ciclo della storia italiana, del venir meno di antichi modelli ideologici e culturali, dell’offuscarsi di tendenze che [avevano] lungamente connotato la nostra storiografia filosofica (p. 16),
l’opportunità che allora andava colta era quella di superare il «pregiudizio» relativo al «provincialismo» del nostro neoidealismo, per accedere finalmente al carattere «europeo» del pensiero di Croce e di Gentile, che avevano «trascritto nella loro filosofia, con varie originalità, problemi fondamentali del pensiero contemporaneo»:
Naturalmente sostenere che l’Europa è orizzonte essenziale del pensiero di Croce e di Gentile significa anche proporre una determinata concezione della storia italiana e, specificamente, degli intellettuali italiani lungo tutto il secolo (p. 16).
Il che significava «nuova periodizzazione», secondo Ciliberto, ma anche «riconsiderazione del ‘secolo’ nella sua complessità, al di là di vecchi schemi»:
È il Novecento, insomma, che sta ormai di fronte a noi come il vero oggetto storiografico e teorico da indagare secondo nuovi approcci, determinando sia nuove prospettive critiche, sia nuove distinzioni cronologiche. Non è, del resto, un problema che riguarda solo la filosofia. Concerne, al tempo stesso, sia la storia politica che la storia culturale, in senso generale. Un punto, però, risulta chiaro: esso non può non riguardare, in primo luogo, la filosofia «neoidealistica» per il ruolo che ha avuto lungo tutto il secolo, sia direttamente che indirettamente. Non per caso, naturalmente, si è detto filosofia. Il punto da mettere a fuoco risiede, appunto, nella riconsiderazione propriamente filosofica del pensiero di Croce e di Gentile. Il che, sul piano teorico, vuol dire sottolineare anzitutto la “politicità” degli statuti filosofici di una posizione come questa. Al di là delle differenze radicali che la distinguono sta qui, in effetti, uno dei suoi tratti di massima originalità e autonomia. A ben vedere, è qui che germina anche quel “programma” storiografico che ne costituisce un aspetto fondamentale e assai caratteristico, dalle ricerche di Gentile sul Rinascimento a quelle di Croce sulla decadenza, sul barocco, sul nesso Rinascimento-Risorgimento. Sono indagini strutturalmente connesse a una specifica interpretazione dei caratteri costituitivi della nostra storia nazionale e della genesi e della “forma” dello stato unitario italiano, e, più in generale, a una determinata visione della “modernità” entro cui si staglia, con rilievo centrale, il nesso tra filosofia e politica (p. 16).
Una «politica», a questo punto, da intendersi non più sul piano della «tradizionale, e riduttiva, opposizione tra fascismo e antifascismo, che, a sé presa, ha anzi deformato, semplificandoli, aspetti rilevanti tanto del pensiero di Croce quanto di quello di Gentile», quanto piuttosto – Ciliberto si riferiva esplicitamente a Croce, ma il discorso poteva valere allo stesso modo, e forse ancor più, per Gentile – «a un tema come quello della “politicizzazione”», una «“struttura” di lungo periodo» per tutto il Novecento, contro il cui «sfondo» andava «decifrata la “politicità” degli statuti teorici di Croce e di Gentile», entro un’indagine che doveva essere svolta «in direzioni di ordine schiettamente filosofico» (p. 16).
Cinque anni dopo, recensendo sulla «Rivista di storia della filosofia» proprio la biografia gentiliana di Turi, Ciliberto problematizzava ulteriormente la questione, insistendo su come «la “politicità” [fosse], in senso proprio, una forma, una struttura originaria – ma formale, appunto – d[el] neoidealismo»:
Non coincide, né s’identifica, immediatamente, con un contenuto specifico, con una scelta politica immediata. Si intreccia, sul terreno storico, a precise prese di posizione, a opzioni, a scelte concrete: ma senza risolversi, unilateralmente e di necessità, in una di esse. Dischiude, entro un ambito preciso, un campo di possibilità, di cui è parte integrante anche l’opzione fascista. Ma come mi guarderei dal sostenere – e qualcuno l’ha fatto – che tra fascismo e attualismo non c’è un rapporto profondo, così mi guarderei dal dire che tra fascismo e attualismo c’è un nesso organico, lineare. Il che non significa che l’attualismo sia una forma neutra, indifferente. Tutt’altro: voglio solo dire che quella che Gentile offre aderendo al fascismo è un’‘interpretazione’ dell’attualismo, che getta luce sull’attualismo, ma che non risolve di per sé il problema stesso dell’attualismo e di quella “politicità” che ne è il tratto costitutivo (Ciliberto 2001, pp. 291-92).
Il rimando di Ciliberto è al Gentile «maestro» di generazioni di intellettuali (sarebbe meglio dire, di ‘studiosi’) che di lui ritennero l’insegnamento senza ritenerne il fascismo: Cesare Luporini, Adolfo Omodeo, Guido Calogero, Luigi Russo, solamente per richiamarne alcuni. «L’uomo mi attira più che la pagina», aveva scritto una volta Renato Serra a Giuseppe De Robertis, e Ciliberto (sulla scorta di Garin), riprende lo spunto per sottolineare come Gentile non possa essere compiutamente inteso (il modello del Togliatti di Ernesto Ragionieri, del 1973, viene richiamato a qualificare l’impianto della monografia di Turi) entro lo schema dell’‘intellettuale organico’, ma come occorra piuttosto, e proprio «dal punto di vista della comprensione storica», porsi il «problema dell’uomo Gentile – oltre la pagina, oltre l’opera –, e proprio sul terreno schiettamente biografico» (p. 293).
In sintesi, i punti qualificanti di questa interpretazione – che è anche un programma di lavoro – sono due:
a) il fatto che il pensiero di Gentile (così come quello di Croce, e più in genere quello del neoidealismo italiano) vada ‘riconsiderato’ in primo luogo sul piano filosofico;
b) il fatto che il programma storiografico del neoidealismo (quello di Croce come quello di Gentile, in questo caso tratteremo del secondo) vada considerato in relazione ai «caratteri costitutivi della nostra storia nazionale e della genesi e della “forma” dello stato unitario italiano» (Ciliberto 1991, p. 16). In questa prospettiva va dunque collocata una disamina del nesso, in Gentile, tra Rinascimento, Risorgimento e fascismo.
Discutendo di «Gentile storico della filosofia italiana», qualche tempo fa, Alessandro Savorelli ne tracciava un sintetico bilancio storiografico:
La critica guarda in sostanza oggi a Gentile storico non più solo come a chi ha esasperato i canoni della storiografia idealistica di ascendenza spaventiana, ma vi ritrova semmai la confluenza di metodi e ispirazioni diverse, che raccolgono anche parte dell’eredità di altre correnti storiografiche: e più che a Spaventa, occorre dunque pensare al salto qualitativo rappresentato dai suoi scolari, Fiorentino e Tocco e alla lezione della scuola storica assimilata a Pisa sotto il magistero di D’Ancona: esattamente quella storiografia erudita cui Gentile non lesinò mai sarcasmi. Il rigore filologico, che non suona in lui come un appello rituale, sintetizzava con un’immagine bizzarra Piovani, circola nell’opera di Gentile se non “come un contravveleno, almeno come un antibiotico” che contrasta eccessi polemici e preoccupazioni sistematiche (Savorelli 2003, pp. 204-05).
Autonomia di metodo e «rigore filologico», dunque. Ma anche «sovrapposizione completa» tra le date dei lavori gentiliani su Umanesimo e Rinascimento e quelle «dell’edificazione teorica dell’attualismo»:
È sufficiente una lettura anche distratta delle opere storiche per rendersi conto che il delinearsi prepotente del sistema ne è il lievito […]. Il disegno speculativo si coglie sullo sfondo, ne alimenta le suggestioni. […] mai come in questi saggi [Gentile] raggiungerà una saldatura e un equilibrio tra ispirazioni teoriche e autosufficienza dell’indagine (p. 209).
Si va quindi dal 1907, anno in cui viene pubblicato, a Palermo, presso Sandron, il Giordano Bruno nella storia della cultura, al 1916, anno in cui esce nel «Giornale storico della letteratura italiana» il saggio su Il concetto dell’uomo nel Rinascimento, al 1918, anno in cui Gentile tiene all’Università di Roma il corso di lezioni poi pubblicato, con il titolo Umanesimo e Rinascimento, nel primo fascicolo della «Rivista di cultura», del 15 luglio 1920.
Questi ultimi due saggi costituiranno poi, rispettivamente, il primo e il secondo capitolo di Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, volume che, uscito in prima edizione nel 1920 nella collana Il pensiero moderno diretta da Ernesto Codignola per Vallecchi, era di fatto organizzato proprio intorno al Bruno del 1907.
Nel 1925 Gentile ne stampava, sempre presso la stessa collana vallecchiana, una seconda edizione «corretta e accresciuta»: nell’avvertenza Gentile dichiarava di aver
creduto opportuno riordinare tutta la materia per rendere più evidente il concetto da cui tutti gli studi qui raccolti sono animati e organicamente connessi, benché maturati via via in così lungo lasso di tempo (Il pensiero italiano del Rinascimento, 1940, 19553, p. IX).
L’altro volume ‘rinascimentale’ di Gentile furono gli Studi sul Rinascimento, «raccolti la prima volta nel 1923 – scriverà Gentile nel 1936, pubblicandone la seconda edizione – a cura di amici e mentre io ero preso da altri interessi», a costituire un volume che, «così com’è, messo insieme con brevi memorie, con note ed appunti, volle a suo tempo e vuol essere come un’appendice al precedente e maggiore» (Studi sul Rinascimento, 19683, p. V). Tali notazioni gentiliane illustrano bene la genesi di queste opere, nate muovendo da un nucleo iniziale di fatto desunto dal gran tema spaventiano della ‘circolazione’, unito però al progetto, che era crociano e gentiliano insieme, dei Classici della filosofia moderna, che appunto i Dialoghi metafisici di Giordano Bruno inaugurarono, assieme alla hegeliana Enciclopedia, curata da Croce, e alla kantiana Critica del giudizio, curata da Alfredo Gargiulo.
Non solo il problema speculativo o storiografico, quindi (in Bertrando Spaventa, almeno per come lo leggeva Gentile, come vedremo, le due cose erano strettamente connesse), ma anche il progetto editoriale, che è quanto dire di politica culturale (e qui faceva fede Croce). Ma in Gentile c’era qualcosa di più, il tema scolastico, questo sì autenticamente gentiliano. Il saggio su Bruno era infatti uscito nel 1907 preceduto da questa avvertenza:
Questo scritto non vuol essere né una biografia, né un’esposizione del pensiero di G. Bruno; ma solo un saggio intorno al significato di lui nella storia della cultura: e quindi una illustrazione delle ragioni peculiari della sua condanna e della sua morte, mercé lo studio delle sue idee intorno al rapporto della filosofia con la religione, e del suo atteggiamento verso la Riforma e verso l’Inquisizione. Per giustificare la speciale determinazione dell’argomento e la forma dello scritto, dirò che questo nacque per una conferenza, tenuta in Palermo il 20 marzo di quest’anno, per invito della Sezione locale della Federazione nazionale degli Insegnanti medi. La quale volle in questo modo riparare all’omissione (non di certo approvabile) onde, sette anni fa, la gloriosa ricorrenza centenaria del rogo di Bruno parve opportuno non fosse in alcun modo ricordata nelle nostre scuole; dove pure ogni anno, a giorno fisso, tutti i maestri, da un capo all’altro d’Italia, sono invitati a interrompere il corso delle lezioni per commemorazioni improvvise, prive spesso d’ogni valore didattico ed educativo, di eroi grandi e piccoli della nostra storia civile e letteraria. E a me parve ottimo segno dei tempi, – da non lasciar passare senza richiamarvi sopra l’attenzione del paese, – che gl’insegnanti dei nostri ginnasi e licei si ricordassero essi del loro Bruno, come di nome che appartenga a loro, cioè alla scuola italiana, focolare della cultura nazionale; e non del Bruno ora da un paio di decenni noto alle moltitudini come vittima dell’intolleranza religiosa e segnacolo in vessillo alle rivendicazioni anticlericali; ma del Bruno che essi appresero a conoscere nella storia: il grande filosofo e martire della nostra Rinascenza. Tra tanto schiamazzo pro e contro Bruno, fatto nello scorso febbraio da tutti i politicastri rossi e neri d’Italia; i quali avranno forse tutte le loro buone ragioni di schiamazzare, ma non ne hanno certo nessuna di non dover risparmiare la pace dello sventurato scrittore né pur a tre secoli dalla sua morte. È veramente titolo d’onore pei professori di Palermo questa loro idea di stringersi a difesa intorno alla memoria del filosofo, segno D’inestinguibil odio – e d’indomito amor; di restituire al Bruno la sua dignità storica di filosofo e martire della filosofia; di sottrarre il suo nome alla mischia profanatrice dei partiti politici, che l’esaltano e lo combattono, esaltando o combattendo i loro fini e le loro passioni, a cui il Bruno fu ed è estraneo; di risollevarlo per gli spiriti in quell’aer sereno, a cui si elevò con la vigoria del suo pensiero, della sua stessa poetica fantasia e con l’ideale virilità del suo grande animo: in quell’aer sereno, dove tutte le passioni tacciono, i fini pratici e i contrasti, da essi generati, sono superati e sopravvive solo quello spirito di eterna verità, a cui tutti i partiti umani, perché umani, s’inchinano (Il pensiero italiano del Rinascimento, cit., pp. XI-XII).
Con estrema chiarezza qui Gentile individuava un programma, di carattere scientifico e pedagogico insieme, muovendo da una committenza, quella della sezione palermitana della federazione nazionale degli insegnanti medi: illustrare il significato di Bruno nella «storia della cultura», studiandone le «idee intorno al rapporto della filosofia con la religione», il «suo atteggiamento verso la Riforma e verso l’Inquisizione». «Sette anni» prima – nella «ricorrenza centenaria del rogo di Bruno» – «insegnante medio» era stato lui stesso, a Campobasso: già allora (del 1900 è L’insegnamento della filosofia ne’ licei) aveva posto al centro della sua riflessione i problemi della politica scolastica, e poteva quindi ora, a qualche anno di distanza (nel frattempo era salito in cattedra a Palermo) ben misurare il divario – proprio sul piano «didattico ed educativo» – tra le «commemorazioni improvvise» che «interrompono il corso delle lezioni», e il Bruno «filosofo», che «appartiene alla scuola italiana, focolare della cultura nazionale». «Restituire al Bruno la sua dignità storica di filosofo», contro il Bruno «da un paio di decenni noto alle moltitudini come vittima dell’intolleranza religiosa e segnacolo in vessillo alle rivendicazioni anticlericali». Contro i «politicastri», dunque, la scuola de «gl’insegnanti dei nostri ginnasi e licei»: il «loro Bruno», quello «che essi appresero a conoscere nella storia: il grande filosofo e martire della nostra Rinascenza».
È questo, con tutta evidenza, un programma politico, conforme peraltro a quello enunciato dalla «Critica»: sottrarre le «moltitudini» alla «mischia profanatrice dei partiti politici» attraverso la valorizzazione della «scuola» come luogo di formazione della «cultura nazionale», avendo di mira «quello spirito di eterna verità, a cui tutti i partiti umani, perché umani, s’inchinano». Forse anche per il carattere marcatamente ‘politico’ di questo programma (enunciato pubblicando la conferenza del 1907), poi Gentile – che dava il meglio di sé, con «raffinata aderenza ai testi e consapevolezza metodologica» (Savorelli 2003, p. 208), come storico del pensiero, e che in effetti i materiali per quella considerazione complessiva di Bruno aveva ricavato lavorando all’edizione dei suoi dialoghi italiani – non riuscì (ed ebbe modo di rammaricarsene) a «dar forma a un lavoro d’insieme sul Rinascimento» (p. 212; nel 1923, si è visto, erano stati gli «amici» a raccogliere i suoi scritti, mentre lui era impegnato, da ministro, nella riforma scolastica, e per stessa ammissione di Gentile si trattava di «scritti […] nati originariamente alla spicciolata e in diverse epoche», Studi sul Rinascimento, cit., p. V). Di più: nella stessa sua «ricostruzione sistematica della filosofia italiana» (quella avviata inizialmente con Vallardi) proprio il Rinascimento sembra aver costituito «un punto critico»:
Dal medioevo al Quattrocento e da Vico all’Ottocento, essa ha un assetto relativamente organico ed esauriente; il Cinque e Seicento sono invece solo adombrati per tagli e profili, come i saggi, brillantemente tendenziosi, su Bruno, Galilei o Campanella, che si esita a considerare, tuttavia, per penetranti che siano, come compiute monografie al pari di tanti altri capitoli gentiliani (Savorelli 2003, pp. 211-12).
È la stessa «categoria» di Rinascimento, dunque, a costituire un elemento problematico in Gentile, in ragione sia della sua «complessità» sia della sua «genericità». Gentile infatti – in contrasto con la fonte spaventiana – sposta «all’indietro, nell’Umanesimo, [l]’archetipo del mondo moderno», e ciò in ragione del fatto che i «motivi che servono da filo conduttore della ricerca» sono al contempo – e ciò chiama appunto in causa il fatto che proprio in quegli anni (tra il 1907 e il 1917, grosso modo) Gentile veniva elaborando il suo sistema filosofico – «auto interpretazioni ed esemplificazioni di strati profondi dell’attualismo» (p. 210). L’«antintellettualismo» (di cui Gentile sottolinea «l’elemento socratico» e l’«idea critica della cultura», nella coincidenza di «filosofia» e «filologia»), da un lato, e il «tema […] della dignitas hominis», dall’altro, costituiscono i due «motivi» – originali e non desunti da Spaventa – «che servono da filo conduttore della ricerca» (p. 210), «nel mosso panorama di una storia di culture e di mentalità» entro il quale la «filosofia» (sono parole di Gentile, pronunciate rispetto a Leonardo) «non è sistema, ma è complesso d’atteggiamenti mentali e di idee, la cornice del quadro» entro il quale Gentile stesso individua le «idee portanti di un’età» (p. 209).
A ragione si è affermato – ha scritto ancora Savorelli – che sarebbe da valutare come e quanto questo Gentile storico, così ricco di umori, e così poco – o meno – attualista, abbia contribuito al successo dell’attualismo nella cultura italiana (Savorelli 2003, p. 211).
A cui però si potrebbe aggiungere che, letto in questi termini, lo stesso attualismo si configura come indirizzo filosofico non tanto caratterizzato da un impianto sistematico, quanto come più generale indirizzo di «cultura», facente leva su alcuni «motivi» – frutto di un’interpretazione che Gentile dava e aveva dato (e con lui Croce) della storia nazionale – di fondo, e che proprio a partire da qui si spiega la sua fortuna, anche, ma non soltanto, sul terreno del lavoro storiografico.
Savorelli individua una cesura nel Gentile storico, o interprete, della filosofia italiana: la guerra, che induce in Gentile un tono ‘militante’ e la ricerca di un «carattere» (dal titolo della sua prolusione romana del 1918, Il carattere storico della filosofia italiana) della filosofia italiana, all’ombra del quale le singole personalità storiche perdono la loro fisionomia in ragione di un approccio ormai irrimediabilmente condizionato da un’urgenza strettamente politica e ideologica. La stessa cesura è stata individuata – in sede storiografica – per quanto attiene al Gentile storico, o interprete, del Risorgimento. Assumendo come riferimento la sua interpretazione di Giuseppe Mazzini, Roberto Pertici ha documentato come questa, inizialmente sensibile alle ragioni del liberalismo moderato, si sia poi, già intorno al 1915, fatta meno «professorale ed estrinseca» e più attenta, invece, alla «dimensione religiosa entro cui [andava] collocata, e quindi giudicata, la personalità mazziniana» (Pertici 1999, p. 117). Peraltro lo stesso Gentile, nel raccogliere e annotare nel 1923 gli scritti che andavano a costituire il volume sugli Albori della nuova Italia, insisteva su come egli si fosse via via andato formando «un più largo concetto della personalità del Mazzini, perché rivolto più agli elementi positivi di essa», e rimandava al suo «più ampio saggio» del 1919, edito inizialmente su «Politica», indi stampato a parte su sollecitazione di Russo e poi raccolto in I profeti del Risorgimento italiano nel 1923 (Albori della nuova Italia, 1° vol., a cura di V.A. Bellezza, 19692, p. 215). In esso – scrive ancora Pertici – «la polemica culturale e l’approfondimento storiografico sono sopravanzati da scopi che ormai sono più immediatamente politici» (Pertici 1999, p. 118), sostenuti da un insieme di convincimenti, o da un vero e proprio pensiero politico, che in Gentile si fa strada negli anni della guerra, attraverso «canali nuovi» di tipo giornalistico e, soprattutto, in vista di un nuovo pubblico. È di fatto il tema delle «due Italie», concepito entro una politica, appunto, intesa «come una “grande pedagogia”, una formazione e un’educazione permanente» (p. 124).
Indagare i caratteri di questa ‘politica’ introduce necessariamente il tema di quello che sarà, di lì a qualche anno, il fascismo di Gentile, e che coinvolge più piani, quello teorico, quello biografico, quello operativo, ossia legato alla riforma della scuola e ai vari incarichi pubblici poi ricoperti da Gentile fino alla sua morte: un tema complesso, che non può essere certo esaurito in questa sede. È tuttavia possibile qui problematizzare – assecondando in qualche misura lo spunto interpretativo offerto da Del Noce – la «categoria» di Risorgimento, non tanto in quanto tale (il discorso ci porterebbe lontano), quanto come problema storiografico alla luce del quale verificare una possibile continuità nella visione politica di Gentile tra la stagione giovanile e la matura adesione al fascismo, e proprio in ragione della mutua interazione prima ravvisata – discutendo del suo operato come storico della filosofia italiana – tra indagine storica e riflessione speculativa. Questa continuità può essere individuata già a partire dal tema originario al quale si venne dedicando, ancora negli anni normalistici, il Gentile che, dal primissimo apprendistato d’anconiano, si era fatto filosofo alla scuola di Donato Jaja. Del Rosmini e Gioberti (1898) – cui Gentile nel 1943, approntandone la seconda edizione, apporrà come sottotitolo Saggio storico sulla filosofia italiana del Risorgimento – fu lo stesso Croce, recensendolo nel 1899 nella «Rassegna critica della letteratura italiana», a valorizzare il legame con Spaventa e con il «suo modo di considerare e studiare i filosofi italiani dal Rinascimento al Risorgimento, da Bruno a Gioberti»:
Convinti, come siamo, che all’Italia giovi il ritemprarsi nelle correnti ideali del suo risorgimento nazionale, e che si faccia ottimamente, nel campo degli studi, a risalire a pensatori, quali il De Sanctis e lo Spaventa (come si farebbe bene, in politica, a prendere consiglio dal Conte di Cavour!), noi non possiamo non applaudire al […] fatto e ai […] propositi [del Gentile] (B. Croce, recensione a G. Gentile, Rosmini e Gioberti, 1898, «Rassegna critica della letteratura italiana», IV, 1899, p. 79).
Fin dalla prefazione il giovane Gentile richiamava esplicitamente «quel gran fatto della circolazione del pensiero europeo». Esso era stato fino allora o «assolutamente negato, per non essersi capito, o non [aveva] più attirato l’attenzione degli studiosi e non [aveva] dato loro un orientamento, per non essersi capito abbastanza» (G. Gentile, Rosmini e Gioberti. Saggio storico sulla filosofia italiana del Risorgimento, 3ª ed. accresciuta, 1958, pp. X-XI). Conveniva ora, una volta «risorti a nuova vita con la nuova Italia, [preso] parte a quel movimento scientifico di studi storici, in cui le altre nazioni ci avevan lasciati addietro di tanto», ripercorrere «con intento schiettamente scientifico la via che già pur noi, e speditamente, [avevamo] percorsa attraverso il campo più difficile del sapere» (p. XIII):
Ripercorrimento, che non sia soltanto semplice lavoro erudito, ma elaborazione d’una piena coscienza di noi stessi, ossia condizione e principio di nuova vita speculativa. Giacché lo spirito è storia, e negare comunque questa, è un dimezzar quello. Ed oggi, chi guardi allo stato della filosofia in Italia, non pure come produzione dello spirito distinta da tutte le altre e avente un oggetto e un fine proprio, ma anche e piuttosto come consapevolezza immanente in ogni ordine di studi (in che consiste la vera vita della filosofia), non può non accorgersi dell’intima relazione tra l’assoluto difetto di essa e la quasi assoluta mancanza d’una piena coscienza della storia del nostro pensiero (p. XIII).
In queste pagine, in cui dichiara «la ragione e il metodo […] di tutto il [suo] lavoro», Gentile è molto chiaro, nell’affermare il carattere superiore della filosofia rispetto a tutte le altre «scienze particolari»: essa è «forma della vita universale e quasi spirito che penetra e riscalda dell’alito suo tutto il sapere e tutte le manifestazioni dell’attività superiore dell’uomo»; non è esclusivo «patrimonio dei dotti»; non è da «modellarsi sullo schema delle cosiddette scienze positive» (p. XIV):
La filosofia è forma non contenuto mentale; e se essa ha pure un suo contenuto – come certamente lo ha – questo è l’ipostasi trascendentale della forma, secondo un concetto della forma o categoria kantiana, sul quale abbiamo insistito nel corso di questo libro. E però a chi pretende dalla filosofia la quantità delle cognizioni concrete, noi diciamo che ignora che cosa ella sia, e quale bisogno dello spirito sia chiamata a soddisfare. Ma questa forma del sapere, questa coscienza è essa stessa formazione, e quindi vita storica, nella quale ogni grado riassume in sé tutti i precedenti; o essa è affatto inconcepibile. Perciò filosofia e storia della filosofia sono una stessa cosa; e la ricerca puramente erudita perde ogni suo valore e pare opera oziosa sulle fantasticherie trapassate; e d’altra parte un tentativo di speculazione, che non si fondi nella storia, rimane del tutto estrinseco alla vita generale dello spirito e si perde per l’aria inascoltato e come voce solitaria e insignificante (p. XIV).
Non tanto quindi, o non soltanto, una potente interpretazione delle origini del nostro Risorgimento – nella contrapposizione, che è assiale nella ricostruzione di Gentile, tra il sensismo d’Oltralpe (di cui in fondo erano ancora intrisi i Melchiorre Gioia e i Gian Domenico Romagnosi) e il «nuovo spiritualismo» di Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti, filosofia materialista la prima, filosofia carica d’ideale la seconda –, ma anche un robusto concetto della filosofia, e dei suoi termini ‘speculativi’ in quanto saldamente legati alla «coscienza» e alla sua «formazione». A ben vedere, la saldatura – che in Gentile è tipica – di filosofia e pedagogia è già qui implicitamente formulata, ed è una saldatura tutta legata al problema ‘nazionale’, come problema dipendente da quel «rinnovamento degli studi» («storici») che finalmente anche da noi, con la raggiunta unità, possono assurgere al rango «scientifico».
Sull’«elaborazione di una piena coscienza di noi stessi» Gentile tornerà di lì a poco, nel saggio biografico da lui premesso all’edizione da lui curata degli Scritti filosofici di Spaventa, editi da Morano nel 1900. Il capitolo quarto di quel saggio è dedicato alla “Circolazione del pensiero italiano”. Nella Scienza nuova (1744) Giambattista Vico («in un secolo in cui l’astratto razionalismo e il materialismo francese tenevano le menti ben lontane da un tal concetto») aveva dimostrato che «lo spirito» è «essenzialmente storia» (G. Gentile, Bertrando Spaventa, a cura di V.A. Bellezza, rivisto da H.A. Cavallera, 2001, p. 60). «Ma esso fu poi una conseguenza della speculazione di Hegel, e il nostro Spaventa, a differenza di altri nostri hegeliani, l’intese profondamente» (p. 61). «[I]l principio fondamentale della filosofia moderna […] da Kant in qua, consiste nella soggettiva produzione del sapere» (p. 61). Spaventa
pensava che a un patto potesse sollevarsi la mente degl’Italiani fino a quel segno: acquistando cioè la coscienza storica della propria filosofia, che infatti conteneva tutti i germi del nuovo idealismo, maturatosi da ultimo in Germania; e dimostrando poi come questo idealismo, per la forza stessa del vero, si fosse già infiltrato e covasse inavvertito nella filosofia de’ nostri più recenti pensatori; talché appigliarsi ad esso non significasse altro che continuare naturalmente la tradizione del pensiero nazionale (p. 61).
Dei due temi obiettivamente circolanti in queste pagine, quello storico-storiografico (che è il tema spaventiano della «circolazione») e quello ‘speculativo’, mette conto considerare il secondo. Gentile insiste su come Spaventa avesse, nei suoi Frammenti di studi sulla filosofia italiana del sec. XVI («Monitore bibliografico», 1852, 32-33, pp. 48-54), argomentato che
dei due elementi costitutivi della nazionalità di un popolo, il naturale o immediato (razza, clima, lingua, tradizioni) e lo storico (sviluppo riflesso e libero della coscienza del popolo), da tre secoli in Italia era stato pressoché distrutto il secondo, per le aspre lotte che il pensiero aveva dovuto affrontare. Sicché a reintegrare la nostra nazionalità, quest’opera d’arte in cui si conciliano e contemperano la natura e l’idea, occorresse soprattutto combattere per l’autonomia assoluta della ragione, compiere una riforma, anzi una “rivoluzione intellettuale”, senza la quale “la rivoluzione politica affidata alla sola forza materiale o all’aiuto degli stranieri non sarebbe stata duratura”: tornare al punto, in cui la nostra nazionalità vide spezzato il suo naturale sviluppo, rifarsi dalla filosofia del Rinascimento, e per essa e con essa assorgere al grado più alto cui il pensiero pervenne già sotto più libero cielo (Bertrando Spaventa, cit., pp. 63-64).
Se, fin dal 1834, Terenzio Mamiani aveva «propugnato» un «rinnovamento della filosofia antica italiana» (dal titolo dell’opera omonima), ma si era limitato a cercare di «restaurare alcuni canoni metodici di un empirismo gretto e stantio», con i suoi lavori su Bruno e su Tommaso Campanella Spaventa aveva, negli anni Cinquanta, rinnovato «veramente la nostra critica storica della filosofia». «Con questi scritti comincia in Italia lo studio serio della storia della filosofia»:
Lo Spaventa aveva ragione in uno di questi suoi saggi di richiamare gl’italiani allo studio della storia della filosofia, ricordando che la vita della filosofia è la sua storia, e tracciando l’ufficio del vero storico: “Io credo”, egli dichiarava, “che oramai noi italiani abbiamo il diritto di stimare una dottrina per quel che vale in se stessa e non giudicarla con una parola. Il tempo di frate Cromaziano deve finire”. E il suo monito non rimase senza efficacia. I nostri migliori cultori di storia filosofica, per la cui opera l’Italia ha partecipato nella seconda metà del secolo al largo movimento di studi storici europeo, sono usciti quasi tutti dalla scuola dello Spaventa (p. 65).
La stessa perizia messa nello studiare il pensiero di Bruno, Spaventa l’aveva poi messa – e confutando lo stesso Rosmini – nello studiare Georg Wilhelm Friedrich Hegel:
Con i testi alla mano, lo Spaventa provava che il Rosmini ha frainteso, storpiato e letto sbadatamente Hegel. Ha confuso l’introduzione o l’anticipazione della scienza con la scienza stessa (p. 73).
E poi ancora, confutando Niccolò Tommaseo che si era cimentato nella difesa degli errori di Rosmini e di Gioberti, Spaventa, «con la citazione di testi espliciti e chiarissimi», aveva dato in Italia «le prime lezioni […] contro chi si faceva a combattere Hegel senza conoscerlo» (p. 75). Molte pagine dopo, dopo aver dato conto della lettura spaventiana di Rosmini e di Gioberti, Gentile concludeva che «i libri dello Spaventa aspettano ancora di essere studiati e meditati con la necessaria diligenza» (p. 85).
Gentile ripubblicò il suo saggio nel 1924 (sempre in una collana diretta da Codignola presso Vallecchi, Uomini e Idee), ma con prefazione datata Roma, 2 maggio 1920: se nel Rinascimento gli italiani avevano «sveglia[to] nel mondo il pensiero moderno», il Risorgimento poneva il problema delle «virtù» che erano mancate negl’«italiani d’allora», e «che si possono compendiare in un termine solo: nel concetto religioso, voglio dire in un solido concetto morale della vita», al cui «bisogno risponde soltanto un concetto filosofico della vita, positivo, e che sia insieme filosofia e religione» (pp. 8-9). A quel concetto aveva lavorato sempre Spaventa, ma esso era anche al fondo – Gentile lo aveva scritto un anno prima – del pensiero di Mazzini, capace di legare la politica a una fede religiosa, e quindi di giungere al «popolo». Il sentimento religioso dei popoli a cui si appellava Mazzini discutendo con Sismondi era
il Cristianesimo, contenente esso stesso il germe di quel principio di libertà e di eguaglianza, di cui bisogna promuovere il trionfo. Si trattava bensì di svestire il Cristianesimo del suo simbolismo materialistico, sottrarlo all’estrinsecismo cattolico, ricondurlo alle sue idealità originarie. Ciò che più di una volta gli fece assumere più tardi l’aria d’apostolo di una nuova religione, e diede luogo nel suo stesso pensiero a parecchie occasionali oscillazioni intorno al rapporto tra la dottrina religiosa da lui propugnata e i dommi della Chiesa cattolica. Atteggiamenti contingenti a cui non si deve dare eccessiva importanza se si vuol penetrare lo spirito animatore della dottrina mazziniana (I profeti del Risorgimento italiano, 19443, p. 37).
Una religiosità immanente, questa di Mazzini, anima «giansenisticamente educata» al pari di quella di Gioberti:
Anche il Gioberti è un’anima profondamente religiosa, d’ispirazione ed educazione mistico-giansenistica, quali che siano state più tardi nel Primato e nel Gesuita le sue critiche contro il giansenismo. Anche il Gioberti fu nei primi anni sotto l’influsso del Rousseau e del Sansimonismo, e simpatizzò più tardi vivamente col Lamennais […]. Anch’egli andava in traccia d’una sorta di Cristianesimo, che consacrasse l’uomo e la vita, accogliendo i motivi d’una filosofia, che egli allora ardentemente amava e studiava, e di cui conservò sempre molto nel suo pensiero: la filosofia di Bruno, di Campanella, di Spinoza (p. 71).
E la «religione» è davvero il tema forte del Gentile di questi anni, dai Discorsi di religione (1920) – che non a caso si aprivano con un capitolo dedicato a “Il problema politico” – al Manifesto degli intellettuali italiani fascisti agli intellettuali di tutte le nazioni (1925), che dichiarava senza mezzi termini «il carattere religioso del Fascismo», come esito tuttavia di un percorso che deve essere seguito passo passo onde evitare facili caratterizzazioni ideologiche o, peggio, sociologiche. Esso al contrario terrà conto – per definire il personale «fascismo» di Gentile – di elementi complessi:
a) la sua riforma della scuola, sia nel suo impianto progettuale (maturato sin dai primi anni del secolo) sia nella sua traduzione legislativa, e delle particolari dinamiche con il governo – non sempre simpatetico con gli indirizzi gentiliani – che in quella circostanza si instaurarono;
b) i rapporti di Gentile con il governo prima e dopo il 1929, considerando sia la ‘politica dei ritocchi’ alla riforma scolastica sia, ancor più, i Patti lateranensi, che colpirono Gentile come un fulmine a ciel sereno, e rispetto ai quali egli si sforzò di fare buon viso a cattivo gioco;
c) la direzione gentiliana dell’Enciclopedia Italiana e della Scuola Normale di Pisa, con le autonome politiche lì seguite e da intendersi alla luce del più generale contegno in sede pubblica del Gentile degli anni Trenta;
d) la sostanziale avversione nutrita da ampi settori del fascismo ‘militante’ nei confronti di Gentile, in ragione del suo fascismo nazionale e sostanzialmente inclusivo, accompagnato dalla esplicita sua polemica nei confronti del fascismo ‘di tessera’ – che era poi, di fatto, una polemica nei confronti del partito;
e) il magistero intellettuale e morale di Gentile, da leggersi sia rispetto a chi ebbe la ventura di formarsi a contatto con lui, sia rispetto alle sue più complessive ricadute sulla cultura italiana successiva, forse a tutt’oggi non ancora compiutamente indagate.
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