Geodiritto
Prima nozione di geodiritto
Il termine designa lo studio delle relazioni tra norma giuridica e punti dello spazio. È stato introdotto in Italia, se non ci s'inganna, soltanto nel 2001 (Irti 2001), ma la cultura tedesca conosce, già dai primi decenni del 20° sec., trattazioni di Geojurisprudenz.
Lo svolgimento del tema congiunge insieme sia definizioni teoriche sia disegno storico. I due profili non possono essere separati: scoperte della scienza, applicazioni tecniche, nuove forme dell'economia concorrono nel disvelare la misura spaziale del diritto.
Questa misura è propria della norma giuridica, la quale non è concepibile senza determinazioni di luogo e di tempo. L'obbligo giuridico, al pari di ogni altra specie di dovere, riguarda la condotta di uno o più soggetti in un dato punto dello spazio e in un dato momento di tempo. La norma giuridica ha sempre bisogno di un dove e di un quando: essa vale e vige, si applica e si attua, nelle due dimensioni. Si direbbe kantianamente che spazio e tempo sono forme a priori del diritto, categorie ordinatrici e unificatrici dei fenomeni regolati.
La validità spaziale serve a raccogliere i molteplici fenomeni nell'unità di un luogo (e così la validità cronologica a raccoglierli in unità di tempo). Secolari dottrine assegnano alla norma giuridica i predicati di astrattezza e generalità, essa regolando classi di azioni e rivolgendosi a classi di soggetti. Ma l'indefinita apertura, che pur impedisce alla norma di esaurirsi nel singolo caso, finirebbe per dissolverla in cieca molteplicità: qui soccorrono i criteri unificanti di spazio e di tempo, onde la norma si circoscrive e determina. Questo appoggiarsi della norma ai punti dello spazio, nei quali le statuizioni giuridiche possano applicarsi e attuarsi, costituisce propriamente il contenuto del geo-diritto. La denominazione serve a tradurre, entro il quadro del nostro tempo, il problema - già individuato da F.K. von Savigny (System des heutigen römischen Rechts, 8° vol., 1849; trad. it. 1898, pp. 31, 119) - della 'sede' dei rapporti giuridici, del diritto a cui essi appartengono o sono sottoposti.
Forma spaziale e territorialità
I problemi geo-giuridici non erano estranei né ignoti agli Stati nazionali d'Occidente, ma vi si atteggiavano come mere questioni di territorio. Insegna ancora la dottrina delle scuole risultare lo Stato dalla sintesi di popolo territorio sovranità. Concetti e metafore, teorie e immagini, esprimono il rapporto fra Stato (e, dunque, potestà di prescrivere e di coercire) e superficie della Terra: lo Stato ha un territorio; lo Stato è un territorio; lo Stato abita in un luogo; il territorio è la casa dello Stato.
La s-confinatezza dell'economia globale
La forma spaziale dello Stato raccoglieva in sé politica e diritto. Identico l'ambito di vita: lotte ideologiche, competizione tra partiti, farsi e disfarsi di maggioranze parlamentari e di governi, da un lato; dall'altro, susseguirsi di leggi e codici, esercizio di poteri amministrativi e giurisdizionali, stipulazione di contratti privati. Le sfere coincidono, o tendono a coincidere; e sono, ambedue, determinate e individuate dai confini.
Questo quadro, così racchiuso e serrato, è messo in pericolo dal capitalismo moderno: modo di economia che, applicando il criterio di divisione del lavoro e producendo in serie, esige mercati sempre più vasti e aperti. La volontà d'indefinito profitto, congiungendosi con le scoperte della scienza e le applicazioni della tecnica, non conosce confini. La sua natura sospinge a s-confinatezza e de-localizzazione. Il produrre e lo scambiare non richiedono identità né di luoghi né di soggetti: essi si fanno ovunque e con chiunque. Il capitalismo ha tale grado di oggettività e neutralità da considerare i territori degli Stati come spazi di nessuno - o, meglio, come spazi dell'impersonale produrre e scambiare -; e da spogliare gli individui dei loro caratteri (religiosi, linguistici, etnici) riducendoli a mere funzioni del mercato. Tutto ciò che presuppone confine termine limite viene minacciato e travolto: il capitalismo, nell'indefinito perseguimento di profitto, ignora la misura, capace di definire ambiti e soggetti, sfere e luoghi. E così, mentre politica e diritto si attardano entro la misura dei confini, e restano fedeli alle vecchie forme spaziali, l'economia capitalistica varca ogni barriera; non distingue cittadini e stranieri (poiché tutti agguaglia nell'omogeneità dello scambio), si espande ovunque, negozia con chiunque, si configura, insomma, come potenza planetaria e globale (v. confine).
Donde segue che gli uomini, non cessando di appartenere ai luoghi storici e pure entrando nella sconfinata dimensione dell'economia, si avvertono quasi divisi, scissi nella loro originaria unità. Non più individui, ma dividui: una duplicità, che lacera e turba, e mette in forse l'elementare e stabile certezza del 'dove siamo'. Su quest'intrinseca dis-misura dell'economia torneremo più innanzi; ne bastino ora un accenno e un preannuncio.
La concezione monistica di J.G. Fichte
Fra i pensatori, che primi colsero il dissociarsi di sfera politico-giuridica e ambito economico, un posto d'onore spetta, per rigore di analisi e per ardimento di soluzioni, a J.G. Fichte. Lo 'Stato commerciale chiuso', Der geschlossene Handelsstaat, risalente al 1800, s'industria di ricondurre politica diritto economia entro una ferma e definita unità. Il carattere di esclusività, che vedemmo dominare gli istituti giuridici, è anche applicato al sistema economico: "Ogni uomo è cittadino di uno Stato o non è tale: parimenti, ogni prodotto d'un'attività umana appartiene alla sfera commerciale di esso o no; non si dà un terzo caso" (trad. it. Lo stato secondo ragione o lo stato commerciale chiuso, 1909, p. 35). Libero commercio e moneta comune potevano ben concepirsi nell'Europa cristiana, ma, questa frantumatasi nella molteplicità degli Stati nazionali, ormai a ciascuno di essi devono corrispondere una sfera economica e una moneta territoriale. La chiusura del territorio, determinando unità e identità dello Stato, è altresì chiusura del commercio. Insomma, la ragione esige che "lo Stato si chiuda completamente ad ogni commercio all'estero, formi d'ora in poi un corpo commerciale così separato, come finora ha formato un separato corpo giuridico e politico" (p. 116).
Il luogo come fondamento (Schmitt)
Per elevarsi da così vario intreccio di ragioni, e politiche ed economiche e giuridiche, al piano della teoria generale, i problemi di g. dovranno attendere due discordi autori del 20° sec.: C. Schmitt e H. Kelsen. Qui la relazione fra norma e spazio assume l'importanza di un criterio decisivo.
Ha la data del 1950 il grande libro Der Nomos der Erde, tuttavia preannunci e anticipazioni si colgono già in pagine schmittiane degli anni Trenta del Novecento. Il diritto ha fondamento negli atti primordiali di occupazione e ripartizione della terra. L'occupazione di terra "costituisce per noi all'esterno (nei confronti di altri popoli) e all'interno (con riguardo all'ordinamento del suolo e della proprietà entro un territorio), l'archetipo di un processo giuridico costitutivo" (trad. it. 1991, p. 25). Questo atto originario viene profilato da Schmitt come evento storico e come categoria logica: esso determina una forma spaziale, da cui discende ogni altro istituto e criterio di diritto. Ordinamento e localizzazione, Ordnung e Ortung, coincidono appieno: la superficie terrestre - occupata, resa 'individua' dai confini, unita verso l'esterno e l'interno - si fa così luogo, spazio costitutivo e principio di ogni diritto. Il nomos (che nella propria radice ha il 'dividere' e il 'pascolare') è perciò "la forma immediata nella quale si rende spazialmente visibile l'ordinamento politico e sociale di un popolo" (p. 59).
Il diritto - questo il profilo che più tocca il nostro discorso - non si proietta sullo spazio; non discende per così dire dalla volontà prescrittiva verso uno o altro punto della Terra, scelto in modo affatto arbitrario e casuale, ma è tutt'uno con la determinazione spaziale di un popolo. Il suo essere, la sua storica concretezza e comprensibilità logica, è nel radicamento terrestre.
Sul quale incombe la minaccia del moderno capitalismo, quel produrre e scambiare che non conosce né luoghi né confini. Schmitt ne ha dolorosa consapevolezza: "Proprio qui, nel campo dell'economia, l'antico ordinamento spaziale della terra perse evidentemente la sua struttura" (p. 302). Che ne è dunque del diritto? È concepibile un ordine giuridico, che si sciolga dai luoghi, dal suo essere terrestre? A questi interrogativi Schmitt proverà a dare risposta o con l'ambigua dottrina del Grossraum o, negli anni del dopoguerra, mercé una sorta di moltiplicazione di nomoi, onde si trascorre dalla presa di possesso terrestre a quella industriale e aerea dell'oggi. La concretezza esistenziale del nomos sembra cedere alla descrizione tecnico-economica di sfere di dominio: il nomos non è in grado, per le sue proprie radici terrestri, di conquistare gli spazi mercantili.
Lo spazio come dimensione (Kelsen)
Il rapporto tra diritto e spazio, che vedemmo ragionato da Fichte nella teoria dello 'Stato commerciale chiuso', e poi innalzato in Schmitt a principio originario e costitutivo, viene nettamente invertito nella dottrina kelseniana (Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, 1920; trad. it. 1989). Qui lo spazio è ridotto a pura dimensione, a misura arbitraria della validità normativa. Non c'è alcun legame intrinseco e genetico, ma soltanto l'opportunità di determinare un campo di vigenza, di circoscrivere spazialmente il dover essere della norma. Il 'dove' applicativo non sta all'origine, non è fondamento, ma ambito voluto e deliberato dalla norma. La quale, dispiegando la propria validità nello spazio e nel tempo, ha pur bisogno di modalità cronologiche e topografiche. La modalità topografica della norma designa uno spazio a-storico, indipendente dalle origini della comunità e dalla divisione primeva. La norma è sradicata dai luoghi. Essa ha solo una dimensione spaziale, in cui si proietta con arbitraria artificialità.
Il carattere di artificialità va messo nella luce più chiara. Dove Schmitt scorge un rapporto primordiale, un diritto che è insieme concreto ordine e spazio storicamente determinato, Kelsen agisce con meri contenuti normativi. Non più confini della Terra, da cui provengono tutti gli istituti giuridici, ma ambiti di vigenza, artifici spaziali, disegnati dalla volontà normativa. La quale non è certo capricciosa e fortuita, ma sì slegata da radici terrestri, e capace di darsi la dimensione spaziale, che venga considerata, di volta in volta, più utile e opportuna. Si direbbe: dimensione costituita, e non fondamento costitutivo.
L'atopia della rete telematica
Si è notato che la volontà di profitto non conosce frontiere, che il suo proprio luogo è dovunque si producano merci e si svolgano scambi. Già il 'dovunque' è di per sé globale: esso, trascendendo le determinazioni storiche dei luoghi, copre terra mare aria. La globalizzazione è nell'intrinseca logica del capitalismo; il produrre in serie per anonime masse di consumatori esige mercati sempre più vasti, e così converte il mondo in unico e immane mercato. Davvero illuminante che i trattati europei attribuiscano all'Unione lo scopo di creare uno "spazio senza frontiere interne": cioè, di costituire uno spazio economico, un artificiale luogo di produzione e scambio, sciolto dalla storicità dei confini. Lo 'interno' è puro mercato.
Globalizzazione è propriamente caduta dei confini. Se i confini - come sopra vedemmo - generano l'identità dei luoghi, segnano l'appartenenza (linguistica etnica religiosa) degli uomini, raccolgono i dimoranti nell'unità di una terra e i tempi dell'unità di una storia; ebbene la globalizzazione determina il declino di questo mondo. Il mercato globale riduce i luoghi a un 'dovunque', tutti quanti fungibili e sostituibili, tutti misurati dal grado di profitto. Distendendosi al di sopra dei confini, il mercato de-localizza e de-storicizza gli uomini, e li chiama a specifiche funzioni nel sistema del produrre e dello scambiare.
I fenomeni globali, di che si è tracciato un rapido e scarno profilo, conservano, per così dire, la fisicità di terra acqua aria. Ma assumono un diverso e inaudito carattere nel congiungersi con la tecnologia elettronica. Qui la tecnica non soltanto - come pure è seguito nel 20° sec. - supera i confini, trascende le ideologie, raccorda e collega tutti i laboratori del mondo; ma genera un non-luogo, uno spazio astratto e artificiale, che non risiede nella fisicità di alcun punto terrestre. Il computer non è un mezzo per stare nel mondo: esso crea il suo proprio mondo, nel quale si può entrare o non entrare, navigare o non navigare. Parole suoni figure non sono né qui né lì, ma nel puro spazio telematico.
La globalità del mercato - o, meglio, dei mercati di singoli beni - non indica soltanto, a usare formula schmittiana, la presa di possesso di terra acqua aria, ma pare l'occupazione dello spazio elettronico, ossia di un sopra-mondo, che, per sua propria natura, non conosce confini, e si dilata come e dove la tecnica permetta. Lo spazio europeo senza frontiere interne vi assume la modesta importanza di una scheggia, di un frammento ancora contaminato dalla fisicità territoriale.
I fenomeni globali determinano una diversa concezione di tempo e spazio. Velocità di trasporti e rapidità di comunicazioni, come annullano la distanza e costruiscono un indistinto 'ovunque', così sopprimono la durata e la convertono in pura simultaneità. Né il succedersi delle 'simultaneità', cioè dei singoli istanti di tempo, in cui le parti decidono e attuano i negozi di scambio, genera una vera e propria durata. Qui non c'è propriamente nulla che duri, che si faccia nella memoria del passato e nella continuità tra l'ieri e l'oggi. Rimane soltanto l'ora, la registrazione meccanica del quadrante, che serve a misurare la quantità del produrre o dello scambiare in singole unità di tempo.
L'incapacità autoregolatrice dell'economia
Il problema giuridico del 'dove' si presenta con terribile gravità. La sfera di politica e diritto rimane, appunto, una sfera: individuata dai confini, racchiusa in antiche mura. L'economia, sciogliendosi da ogni vincolo e alleandosi con la tecnologia elettronica, si espande in mondo e sopra-mondo, in spazi reali o virtuali, che sono pure stazioni del produrre e dello scambiare.
Quale diritto la regge e governa? Sono in grado le norme di varcare i confini, e d'impossessarsi di fenomeni planetari? È forse possibile di ricongiungere in unità economia diritto politica? La densità di questi interrogativi viene talora sciolta mercé la sbrigativa asserzione esprimere il mercato globale, di per sé, un suo proprio diritto. Si vuole in tal modo immaginare che, a modo d'esempio, gli autori di un negozio di scambio si trovino in una sorta di terreno neutrale, astorico e apolitico, dove convengano di trasferire la proprietà di un bene verso il corrispettivo di un prezzo. E che codesto accordo sia capace, fuori da ogni legge statale, di farsi, esso stesso, fonte di giuridica normatività, vincolante e obbligatorio per i paciscenti.
Si disse sopra che la tesi qui discussa non si raccorda ad alcuna filosofia o teoria generale del diritto. Come pur dovrebbe, poiché l'assunzione dell'accordo a fonte originaria di diritto conduce al più rigido solipsismo negoziale: la sovranità è trasferita dallo Stato al singolo accordo, e questo si fa vincolante in forza del pactum est servandum, o di altra Grundnorm. L'indefinita moltiplicazione delle sovranità non è solo anti-statalistica, ma anche radicalmente anti-democratica, non appena si consideri che titolare della sovranità, nei moderni Stati democratici, è il popolo; e che le volontà individuali vi sono sottomesse alla volontà generale. La collocazione degli accordi in un immaginario stato di natura giova a sottrarli al principio costitutivo di ogni democrazia, e finisce per riaprire l'antagonismo - d'altronde, mai sedato - tra volontà popolare e libertà dell'homo oeconomicus. E qui si mostra che, almeno sul terreno politico-giuridico, la globalizzazione è una categoria essenzialmente negativa: si risolve, cioè, in una serie di rifiuti e di estraneità: nei confronti di politica Stato autorità, e, dunque, dei principi fondativi degli stessi regimi democratici.
Ordine giuridico del mercato o mercato degli ordini giuridici
Il problema è piuttosto che gli Stati, gli ordinamenti giuridici degli Stati, si offrono alla scelta dell'economia: la quale, distendendosi sull'intero globo e potendo impiantare produzione e scambio qui e lì, calcola costi e benefici dei singoli diritti, e preferisce l'uno all'altro. Così, all'ordine giuridico del mercato subentra il mercato degli ordini giuridici: questi si offrono in concorrenza, lusingando e sollecitando la scelta delle imprese (Irti 1998). Non più il diritto determina il luogo dell'economia; ma l'economia sceglie il luogo del diritto. Questo fenomeno - argutamente ed efficacemente definito come classica corsa al ribasso - esprime due caratteri di grande rilievo. Da un lato, che gli ordini giuridici si sono ormai sciolti da fondamenti storici, da nomoi terrestri, e tutti, o quasi tutti, si risolvono nell'artificialità del tecnicismo.
L'altro carattere è in ciò: che la concorrenza fra i diritti statali, l'offerta sul mercato degli ordini giuridici, risale (o non può non risalire) a decisioni politiche. Le lamentevoli analisi intorno al declino della politica, tramonto delle ideologie, riduzione delle sovranità nazionali, dimenticano che il rapporto tra Stato ed economia è tutto rimesso alla volontà di parlamenti e governi. Non c'è la necessità d'un destino, ma la responsabilità d'una scelta. Quando i mercati sono assunti a criteri regolativi dell'agire, e l'indefinito incremento del profitto a scopo degli scopi, allora la politica ha dichiarato la propria resa; e questa resa è, ancora e sempre, una decisione politica. I politici, che asseverano l'oggettività dei mercati o la neutralità delle tecnocrazie, si vocano politicamente al suicidio: "becchini di se stessi", diceva il vecchio K. Marx e oggi ripetono autorevoli descrittori del nostro tempo (Cacciari 1994, p. 125). È nella decisione della politica se ridurre l'ordine giuridico a merce, offerta in concorrenza alle grandi imprese e all'economia globale; o se stipulare accordi inter-statuali, e stringere l'economia nei luoghi prescelti dal diritto.
Poiché altri soggetti, provvisti di autorità coercitiva, non si scorgono all'orizzonte storico; e certuni, che in qualche modo si delineano, sempre dipendono dalla revocabile volontà degli Stati; soltanto questi ultimi, mediante accordi di vario contenuto e larghezza, sono in grado di inseguire e disciplinare i fenomeni dell'economia globale. La necessità di appoggiarsi alla protezione degli Stati, così nella tutela della proprietà come per l'osservanza dei negozi e la difesa coercitiva dei diritti, attribuisce o restituisce agli ordini giuridici statali un immenso potere. A ben vedere, il difetto o l'inefficienza di accordi interstatali, che pur sembrano lasciare l'economia alla lotta selvaggia e piratesca delle imprese, determinano in realtà il dominio degli Stati più forti: non c'è mai un vuoto, ma sempre l'imperium di potenze egemoni.
Artificialità normativa e accordi fra Stati
I problemi geo-giuridici ormai si delineano con sufficiente chiarezza. Mercato globale e comunicazione telematica hanno varcato ogni confine, e così determinato il divario tra sfera politico-giuridica e spazio economico. Codesta scissione, che anche lacera l'uomo e lo rompe in un dividuus (l'uno, legato ai luoghi; navigante, l'altro, nella rete telematica), investe il diritto. Il quale, mentre provvede a tutelare il godimento di beni materiali e la quotidianità dei negozi, pure è chiamato a inseguire e raggiungere i fenomeni globali (donde, è da credere, la rinascente antitesi tra diritto civile e diritto commerciale). Al fine di sottomettere gli s-confinati spazi del produrre e dello scambiare, il diritto deve farsi, anch'esso, s-confinato, e dunque sciogliersi dai nomoi terrestri e protendersi oltre la storica singolarità dei luoghi.
C'è - come in vari luoghi si è avvertito - una profonda fraternità tra spazialità normativa, sciolta da radici telluriche, ed espansione planetaria della tecno-economia: ambedue, artificiali, prodotti dal volere umano; ambedue, indifferenti ai contenuti, e, dunque, dominate dal nichilismo di pure forme. Come il negozio di scambio può riguardare qualsiasi bene, e tutto riduce a merce e tutto calcola in quantità di danaro; così la norma, sradicata e de-storicizzata, accoglie qualsiasi contenuto, e tratta spazio e tempo come semplici modalità del proprio vigore. Soltanto questa fraternità permette di adeguare la misura della regola alla misura del regolato.
E, poiché il mercato globale né è capace di esprimere un suo proprio diritto (e come potrebbe, se esso si dissolve nella solipsistica e indefinita molteplicità degli accordi?), né è munito di garanzie coercitive, spetta agli Stati, mercé trattati internazionali, di instaurare l'ordine giuridico dell'economia. Quando trattati non siano conclusi, gli Stati più forti, sotto veste d'interpretare il corso della storia e di difendere gli universali diritti dell'uomo, assumeranno, essi, il dominio del mondo, e cureranno di volgere in loro vantaggio i fenomeni della globalità. Nulla c'è di più proprio e favorevole per il rinsaldarsi dell'imperium che l'enfatica lode dell'autoregolazione del mercato o l'appello agli universali diritti dell'uomo: l'impotenza di ambedue (e per indefinita dispersione dei negozi e per disarmata genericità della norma) apre la strada all'unica e vera potenza degli Stati egemoni.
Il g. si trova, dunque, all'interno d'una scissione dolorosa. Da un lato, gli antichi luoghi, stretti a difesa di storicità e identità; dall'altro, il dilatarsi dell'economia, che abbatte confini e prende propria dimora nel 'dovunque' del profitto (basti pensare a ciò che pur segue in Italia, dove, erosa la sovranità statale, la polarità corre tra i nomoi delle Regioni e l'artificiale spazio del mercato europeo). Da un lato, insomma, g. ancora congiunto a geo-grafia, cioè a determinazioni spaziali dei gruppi; dall'altro, g. proteso a impossessarsi della geo-economia, e dunque contrastante o secondante la planetaria volontà di profitto. I due rami o volti del g. si incontrano, o dovrebbero incontrarsi, nel punto comune della decisione politica, a cui sempre spetta di dar risposta ai problemi dell'umano convivere. È in sua responsabilità di scegliere uno o altro assetto dell'economia, di orientarne i modi di sviluppo, e di stabilire quelle connessioni con i luoghi che la dispongano alla disciplina del diritto.
bibliografia
M. Cacciari, Geo-filosofia dell'Europa, Milano 1994; N. Irti, L'ordine giuridico del mercato, Roma-Bari 1998; N. Irti, Norma e luoghi: problemi di geo-diritto, Roma-Bari 2001.