geodiritto
s. m. ‒ Lo studio delle relazioni tra norma giuridica e punti dello spazio. Entrato in uso in Italia nel 2001 (Irti, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto), la cultura tedesca conosce, già dai primi decenni del 20° sec., trattazioni di Geojurisprudenz. Lo svolgimento del tema congiunge insieme sia definizioni teoriche sia disegno storico. I due profili non possono essere separati: scoperte della scienza, applicazioni tecniche, nuove forme dell’economia concorrono nel disvelare la misura spaziale del diritto. Questa misura è propria della norma giuridica, la quale non è concepibile senza determinazioni di luogo e di tempo. La norma giuridica ha sempre bisogno di un dove e di un quando: essa vale e vige, si applica e si attua, nelle due dimensioni. La validità spaziale serve a raccogliere i molteplici fenomeni nell’unità di un luogo (e così la validità cronologica a raccoglierli in unità di tempo). Questo appoggiarsi della norma ai punti dello spazio, nei quali le statuizioni giuridiche possano applicarsi e attuarsi, costituisce propriamente il contenuto del geo-diritto.
Forma spaziale e territorialità. ‒ I problemi geo-giuridici non erano estranei né ignoti agli stati nazionali d’Occidente, ma vi si atteggiavano come mere questioni di territorio. La dottrina delle scuole insegna ancora che lo Stato risulta dalla sintesi di popolo territorio sovranità. Concetti e metafore, teorie e immagini, esprimono il rapporto fra Stato (e, dunque, potestà di prescrivere e di coercire) e superficie della Terra: lo Stato ha un territorio; lo Stato è un territorio; lo Stato abita in un luogo; il territorio è la casa dello Stato.
La s-confinatezza dell’economia globale. ‒ La forma spaziale dello Stato raccoglieva in sé politica e diritto. Identico l’ambito di vita: lotte ideologiche, competizione tra partiti, farsi e disfarsi di maggioranze parlamentari e di governi, da un lato; dall’altro, susseguirsi di leggi e codici, esercizio di poteri amministrativi e giurisdizionali, stipulazione di contratti privati. Le sfere coincidono, o tendono a coincidere; e sono, ambedue, determinate e individuate dai confini. Questo quadro, così racchiuso e serrato, è messo in pericolo dal capitalismo moderno: modo di economia che, applicando il criterio di divisione del lavoro e producendo in serie, esige mercati sempre più vasti e aperti. La volontà d’indefinito profitto, congiungendosi con le scoperte della scienza e le applicazioni della tecnica, non conosce confini. La sua natura sospinge a s-confinatezza e de-localizzazione. Il produrre e lo scambiare non richiedono identità né di luoghi né di soggetti: essi si fanno ovunque e con chiunque. Il capitalismo ha tale grado di oggettività e neutralità da considerare i territori degli stati come spazi di nessuno ‒ o, meglio, come spazi dell’impersonale produrre e scambiare ‒; e da spogliare gli individui dei loro caratteri (religiosi, linguistici, etnici) riducendoli a mere funzioni del mercato. Tutto ciò che presuppone confine, termine, limite viene minacciato e travolto: l’economia capitalistica varca ogni barriera; non distingue cittadini e stranieri (poiché tutti agguaglia nell’omogeneità dello scambio), si espande ovunque, negozia con chiunque, si configura, insomma, come potenza planetaria e globale (v. ).
L’atopia della rete telematica. ‒ Si è notato che la volontà di profitto non conosce frontiere, che il suo proprio luogo è dovunque si producano merci e si svolgano scambi. Già il dovunque è di per sé globale: esso, trascendendo le determinazioni storiche dei luoghi, copre terra, mare, aria. La globalizzazione nell’intrinseca logica del capitalismo; il produrre in serie per anonime masse di consumatori esige mercati sempre più vasti, e così converte il mondo in unico e immane mercato. Davvero illuminante che i trattati europei attribuiscano all’Unione lo scopo di creare uno spazio senza frontiere interne: ossia, di costituire uno spazio economico, un artificiale luogo di produzione e scambio, sciolto dalla storicità dei confini. L’interno è puro mercato. Globalizzazione è propriamente caduta dei confini. Se i confini generano l’identità dei luoghi, segnano l’appartenenza (linguistica, etnica, religiosa) degli uomini, raccolgono i dimoranti nell’unità di una terra e i tempi dell’unità di una storia; ebbene, la globalizzazione determina il declino di questo mondo. Il mercato globale riduce i luoghi a un dovunque, tutti quanti fungibili e sostituibili, tutti misurati dal grado di profitto. Distendendosi al di sopra dei confini, il mercato de-localizza e de-storicizza gli uomini, e li chiama a specifiche funzioni nel sistema del produrre e dello scambiare. I fenomeni globali, dei quali si è tracciato un rapido e scarno profilo, conservano, per così dire, la fisicità di terra, acqua, aria. Ma assumono un diverso e inaudito carattere nel congiungersi con la tecnologia elettronica. Qui la tecnica non soltanto ‒ come pure è seguito nel 20° sec. ‒ supera i confini, trascende le ideologie, raccorda e collega tutti i laboratori del mondo; ma genera un non-luogo, uno spazio astratto e artificiale, che non risiede nella fisicità di alcun punto terrestre. Il computer non è un mezzo per stare nel mondo: esso crea il suo proprio mondo, nel quale si può entrare o non entrare, navigare o non navigare. Parole, suoni, figure non sono né qui né lì, ma nel puro spazio telematico. La globalità del mercato ‒ o, meglio, dei mercati di singoli beni ‒ non indica soltanto la presa di possesso di terra, acqua, aria, ma pure l’occupazione dello spazio elettronico, ossia di un sopramondo, che, per sua propria natura, non conosce confini, e si dilata come e dove la tecnica permetta. Lo spazio europeo senza frontiere interne vi assume la modesta importanza di una scheggia, di un frammento ancora contaminato dalla fisicità territoriale. I fenomeni globali determinano una diversa concezione di tempo e spazio. Velocità di trasporti e rapidità di comunicazioni, come annullano la distanza e costruiscono un indistinto ovunque, così sopprimono la durata e la convertono in pura simultaneità. Né il succedersi delle simultaneità, ossia dei singoli istanti di tempo, in cui le parti decidono e attuano i negozi di scambio, genera una vera e propria durata. Qui non c’è propriamente nulla che duri, che si faccia nella memoria del passato e nella continuità tra l’ieri e l’oggi. Rimane soltanto l’ora, la registrazione meccanica del quadrante, che serve a misurare la quantità del produrre o dello scambiare in singole unità di tempo.
L’incapacità autoregolatrice dell’economia. ‒ Il problema giuridico del dove si presenta con terribile gravità. La sfera di politica e diritto rimane, appunto, una sfera: individuata dai confini, racchiusa in antiche mura. L’economia, sciogliendosi da ogni vincolo e alleandosi con la tecnologia elettronica, si espande in mondo e sopra-mondo, in spazi reali o virtuali, che sono pure stazioni del produrre e dello scambiare. Quale diritto la regge e governa? Sono in grado le norme di varcare i confini, e d’impossessarsi di fenomeni planetari? È forse possibile ricongiungere in unità economia, diritto, politica? La densità di questi interrogativi viene talora sciolta mercé la sbrigativa asserzione che il mercato globale esprime, di per sé, un suo proprio diritto. Si vuole in tal modo immaginare che, a modo d’esempio, gli autori di un negozio di scambio si trovino in una sorta di terreno neutrale, astorico e apolitico, dove convengano di trasferire la proprietà di un bene verso il corrispettivo di un prezzo. E che codesto accordo sia capace, fuori da ogni legge statale, di farsi, esso stesso, fonte di giuridica normatività, vincolante e obbligatorio per i paciscenti. Così, all’ordine giuridico del mercato subentra il mercato degli ordini giuridici: questi si offrono in concorrenza, lusingando e sollecitando la scelta delle imprese. Non più il diritto determina il luogo dell’economia; ma l’economia sceglie il luogo del diritto. Questo fenomeno ‒ argutamente ed efficacemente definito come classica corsa al ribasso ‒ esprime due caratteri di grande rilievo. Da un lato, che gli ordini giuridici si sono ormai sciolti da fondamenti storici, da nomoi terrestri, e tutti, o quasi tutti, si risolvono nell’artificialità del tecnicismo. L’altro carattere è in questo: che la concorrenza fra i diritti statali, l’offerta sul mercato degli ordini giuridici, risale (o non può non risalire) a decisioni politiche. Le lamentevoli analisi intorno a declino della politica, tramonto delle ideologie, riduzione delle sovranità nazionali, dimenticano che il rapporto tra Stato ed economia è tutto rimesso alla volontà di parlamenti e governi. Non c’è la necessità d’un destino, ma la responsabilità d’una scelta. Quando i mercati sono assunti a criteri regolativi dell’agire, e l’indefinito incremento del profitto a scopo degli scopi, allora la politica ha dichiarato la propria resa; e questa resa è, ancora e sempre, una decisione politica. I politici, che asseverano l’oggettività dei mercati o la neutralità delle tecnocrazie, si vocano politicamente al suicidio: «becchini di se stessi», diceva il vecchio K. Marx e oggi ripetono autorevoli descrittori del nostro tempo. È nella decisione della politica se ridurre l’ordine giuridico a merce, offerta in concorrenza alle grandi imprese e all’economia globale; o se stipulare accordi interstatuali, e stringere l’economia nei luoghi prescelti dal diritto. Poiché altri soggetti, provvisti di autorità coercitiva, non si scorgono all’orizzonte storico; e certuni, che in qualche modo si delineano, sempre dipendono dalla revocabile volontà degli stati; soltanto questi ultimi, mediante accordi di vario contenuto e larghezza, sono in grado di inseguire e disciplinare i fenomeni dell’economia globale.
Artificialità normativa e accordi fra stati. ‒ I problemi geo-giuridici ormai si delineano con sufficiente chiarezza. Mercato globale e comunicazione telematica hanno varcato ogni confine, e così determinato il divario tra sfera politico-giuridica e spazio economico. Codesta scissione, che anche lacera l’uomo e lo rompe in un dividuus (l’uno, legato ai luoghi; navigante, l’altro, nella rete telematica), investe il diritto. Il quale, mentre provvede a tutelare il godimento di beni materiali e la quotidianità dei negozi, pure è chiamato a inseguire e raggiungere i fenomeni globali (donde, è da credere, la rinascente antitesi tra diritto civile e diritto commerciale). Al fine di sottomettere gli s-confinati spazi del produrre e dello scambiare, il diritto deve farsi, anch’esso, s-confinato, e dunque sciogliersi dai nomoi terrestri e protendersi oltre la storica singolarità dei luoghi. C’è una profonda fraternità tra spazialità normativa, sciolta da radici telluriche, ed espansione planetaria della tecnoeconomia: ambedue, artificiali, prodotte dal volere umano; ambedue, indifferenti ai contenuti e, dunque, dominate dal nichilismo di pure forme. Come il negozio di scambio può riguardare qualsiasi bene, e tutto riduce a merce e tutto calcola in quantità di danaro; così la norma, sradicata e de-storicizzata, accoglie qualsiasi contenuto, e tratta spazio e tempo come semplici modalità del proprio vigore. E poiché il mercato globale né è capace di esprimere un suo proprio diritto (e come potrebbe, se esso si dissolve nella solipsistica e indefinita molteplicità degli accordi?), né è munito di garanzie coercitive, spetta agli stati, mercé trattati internazionali, di instaurare l’ordine giuridico dell’economia. Quando trattati non siano conclusi, gli stati più forti, sotto veste d’interpretare il corso della storia e di difendere gli universali diritti dell’uomo, assumeranno, essi, il dominio del mondo, e cureranno di volgere in loro vantaggio i fenomeni della globalità. Nulla c’è di più proprio e favorevole per il rinsaldarsi dell’imperium che l’enfatica lode dell’autoregolazione del mercato o l’appello agli universali diritti dell’uomo: l’impotenza di ambedue (e per indefinita dispersione dei negozi e per disarmata genericità della norma) apre la strada all’unica e vera potenza degli stati egemoni. Il g. si trova, dunque, all’interno d’una scissione dolorosa. Da un lato, gli antichi luoghi, stretti a difesa di storicità e identità; dall’altro, il dilatarsi dell’economia, che abbatte confini e prende propria dimora nel dovunque del profitto (basti pensare a quello che pur segue in Italia, dove, erosa la sovranità statale, la polarità corre tra i nomoi delle Regioni e l’artificiale spazio del mercato europeo). Da un lato, insomma, g. ancora congiunto a geo-grafia, ossia a determinazioni spaziali dei gruppi; dall’altro, g. proteso a impossessarsi della geo-economia, e dunque contrastante o secondante la planetaria volontà di profitto. I due rami o volti del g. si incontrano, o dovrebbero incontrarsi, nel punto comune della decisione politica, a cui sempre spetta di dar risposta ai problemi dell’umano convivere. È in sua responsabilità di scegliere uno o altro assetto dell’economia, di orientarne i modi di sviluppo, e di stabilire quelle connessioni con i luoghi che la dispongano alla disciplina del diritto.