Geoeconomia
Sommario: 1. Natura, origine e scopi della geoeconomia. 2. Geoeconomia, economia dello spazio e teoria dinamica del commercio internazionale. 3. Trasformazioni mondiali e nuovi problemi geoeconomici. 4. La crescita della produttività come fondamento della competizione geoeconomica. 5. I fattori che determinano la crescita della produttività. 6. L'Italia nella competizione geoeconomica. □ Bibliografia.
1. Natura, origine e scopi della geoeconomia
Nell'ultimo quarto di secolo hanno preso avvio tendenze economiche e si sono realizzati eventi politici di notevole portata. Tra le prime ricorderemo i processi di liberalizzazione dei mercati nazionali, di crescita del peso delle attività monetarie e finanziarie rispetto a quelle reali (la cosiddetta ‛finanziarizzazione' delle economie), di ampliamento delle conoscenze e del loro trattamento scientifico (indicata con il termine ‛informatizzazione') e di allargamento degli spazi di scelta delle imprese a livello globale. Tra i secondi, la cessazione della rivalità militare tra blocchi di paesi aventi una diversa impostazione ideologica e il fallimento dei regimi basati sulla pianificazione centralizzata, che hanno aperto la strada a politiche di distensione in molte aree del mondo e ad accordi ‛storici', come quello tra l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e lo Stato di Israele. Questi processi e avvenimenti hanno cambiato le condizioni di fondo della convivenza mondiale, con effetti di rilevante entità sulla produzione e sulla distribuzione del lavoro e della ricchezza. Sono già entrati in scena nuovi attori economici (si pensi alle Newly Industrialized Countries - NIC - asiatiche), con inevitabili riflessi politici, e altri si affacciano sospinti dalla sempre più ampia mobilità dei capitali, dall'integrazione delle conoscenze e dall'omogeneità dei comportamenti socio-economici.
Tutto ciò ha posto problemi nuovi alle scienze sociali e ha indotto la politica - e, più specificatamente, quella parte di essa avente contenuto economico - a riformulare i suoi obiettivi e a rimodulare gli strumenti per raggiungerli. Alla base di questo riesame della teoria dell'azione vi è la coscienza che le scelte pubbliche e private si realizzano in uno ‛spazio politico', inteso come combinazione delle diverse dimensioni in cui si manifesta l'organizzazione sociale: territoriale (interna ed esterna), demografica, ideologica, giuridica, sociologica, economica e strategica (v. geopolitica); ma vi è anche la consapevolezza che questo spazio politico non è più occupato, né più occupabile (semmai lo fosse stato), con la forza militare. Esistono infatti nuove fonti del potere e, quindi, della gerarchia tra Stati che trovano una sintesi nella loro diversa capacità di competere internazionalmente sul piano economico e finanziario, attraverso continue innovazioni di prodotto e di processo, assetti istituzionali e organizzativi adeguati e politiche funzionali all'obiettivo di essere ‛potenza economica', più che ‛potenza militare', che ciascun paese si prefigge. Un chiaro esempio delle nuove fonti che fissano il rango dei paesi nel potere mondiale è dato dai casi del Giappone e della Germania, i quali, non potendo affrontare con strumenti militari, a causa delle limitazioni imposte dalla sconfitta bellica, i problemi connessi al loro status internazionale, hanno provveduto a risolverli raggiungendo una posizione economica di primaria importanza, tale da consentire loro di sedere al tavolo dei ‛grandi' con sostanziale parità di diritti.
Alla prova dei fatti, i regimi di mercato dell'area occidentale si sono mostrati capaci di alimentare una competizione economica di successo e di permettere la diffusione del benessere tra le popolazioni del mondo più di quanto non siano riusciti a fare i regimi a pianificazione centralizzata (detti anche ‛di comando'). Da questa constatazione di fatto è derivata una rivalutazione della libera iniziativa, dopo il discredito in cui questa era caduta in conseguenza della grande depressione del 1929-1931 e in seguito alla spinta ideologica del marxismo.
Nella gestione delle risorse mondiali, l'estensione dell'area di mercato avrebbe potuto comportare una riduzione di ruolo per lo Stato, ma ciò non è accaduto, nonostante che, fin dalla seconda metà degli anni settanta, in quasi tutti i paesi industrializzati, la proposta di ‟meno Stato e più mercato" sia risultata vincente nelle competizioni elettorali e abbia trovato concreta espressione nella privatizzazione di imprese e di banche pubbliche - iniziata in Gran Bretagna dai governi conservatori della signora Thatcher - e nella deregolamentazione e detassazione dell'economia - attuate negli Stati Uniti durante la presidenza del repubblicano Reagan. In effetti, la domanda di intervento pubblico non si è mai attenuata: piuttosto, essa si è manifestata in forme diverse da quelle proprie del Welfare State (quali la creazione di una rete di servizi pubblici e di protezione sociale), che hanno dominato lo scenario politico dopo la seconda guerra mondiale. Si è infatti richiesto sempre più insistentemente che lo Stato si assumesse l'onere di creare condizioni di tutela sociale sul piano istituzionale (e non su quello della prestazione diretta dei servizi) a favore delle famiglie, e condizioni ‛di sistema' a favore delle imprese tali da permettere al sistema produttivo nazionale di rafforzare la sua capacità competitiva verso l'esterno. Sempre più insistentemente si sono richiesti una pubblica amministrazione efficiente, un sistema di istruzione e di formazione all'altezza dei tempi, un assetto giuridico-istituzionale capace di incentivare l'innovazione, una rete infrastrutturale di supporto dell'attività produttiva, una politica estera adeguata, servizi di informazione e di sicurezza orientati in senso economico e non più militare, un'efficace lotta alla criminalità organizzata negli aspetti che vincolano la libera espressione delle forze di mercato.
Da regimi giuridici e comportamenti pratici volti a proteggere le economie nazionali dalla competizione estera (prevalenti nell'arco di tempo compreso tra le due guerre mondiali) si è passati a regimi che presentano un minor grado di regolamentazione interna ed esterna dell'attività economica e a comportamenti che tengono volontariamente o forzatamente conto di questo mutamento. In particolare viene sollecitata una migliore ‛competizione tra sistemi regolativi', ovviamente in senso riduttivo: una deregolamentazione, cioè, dell'economia e della società e una riaffermazione del diritto a una completa libertà di movimento dei fattori produttivi (capitale e lavoro) e dei beni e servizi, accompagnata dalla semplificazione delle procedure richieste per la loro pratica realizzazione.
Ha avuto così fine l'epoca sia del protezionismo palese (barriere tariffarie o quantitative), sia di quello occulto (sussidi, regolamentazioni) delle economie nazionali. I paesi ricchi e quelli poveri sembrano aver raggiunto piena coscienza del fatto che la gestione geopolitica delle relazioni economiche internazionali basata su barriere protezionistiche riduce anziché accrescere, come si pensava in precedenza, il benessere delle popolazioni (v. Salvatore, 1993).
Una branca di questo ‟pensare nuovo in chiave globale" è stata chiamata ‛geoeconomia' dagli stessi cultori di geopolitica (v. Luttwak, 1990). In questa fase iniziale di elaborazione scientifica, la geoeconomia si è specializzata nell'esame dei modi in cui si svolge o dovrebbe svolgersi la competizione tra ‛sistemi-paese' nel nuovo scenario economico e politico globale brevemente delineato, ossia nello studio dell'insieme delle caratteristiche che rendono competitivo con l'estero un sistema economico o, più specificatamente, un apparato industriale nazionale o una parte di esso. L'oggetto di studio della geoeconomia non può, però, restare confinato all'esame delle politiche attuate dagli Stati, ma si deve spingere fino a considerare l'azione ‛globale' svolta da organizzazioni internazionali o da sottosistemi privati o ‛misti' (cioè privati e pubblici), come compagnie petrolifere, banche e società di assicurazioni, imprese di telecomunicazioni o, più in generale, società multinazionali (v. Besson e Possin, 1996). Le tendenze alla globalizzazione delle scelte economiche e la prevalente collocazione delle politiche entro confini domestici hanno infatti prodotto uno iato tra le necessità dello sviluppo imposte dalle tendenze economiche e dagli eventi politici ricordati e i vincoli posti dall'eredità del passato - soprattutto dall'esistenza degli Stati-nazione come si sono storicamente affermati - nonché dal rispetto dei metodi democratici nel determinare le scelte dei ‛sentieri evolutivi' nazionali.
Sia pure con il ritmo imposto dai meccanismi decisionali di tipo democratico, gli Stati-nazione cedono sempre più il passo all'iniziativa dei ‛poli regionali' (come quelli costituiti dai paesi dell'Unione Europea, UE, e del NAFTA, North America Free Trade Agreement), creati da accordi internazionali liberamente sottoscritti. L'esistenza di questi poli vincola inevitabilmente la sovranità economica e monetaria degli Stati-nazione attribuendola a consessi sovranazionali più ampi, come è il caso della Commissione di Bruxelles per la politica della concorrenza nell'Europa comunitaria, e della Corte di giustizia dell'Aia per i sistemi di libertà in generale; e come lo sarà in modo penetrante per la materia monetaria, una volta realizzato il Sistema di Banche Centrali Europee previsto dal Trattato di Maastricht del 1992 (v. Scharpf, 1996). La conseguenza logica è che i confini degli Stati coincidono sempre più con quelli dei mercati dei beni, dei servizi e dei capitali, come pure, in modo legale o illegale, con i confini dei mercati del lavoro nelle aree industrializzate. È stato osservato che contano sempre meno i confini dello ‛spazio territoriale' e sempre più quelli fissati dall'ampiezza dei flussi di attività economica mondiale (v. Jean, 1995).
Dove i governi si sono mostrati inadeguati o indisponibili ad assecondare i processi indicati, le grandi imprese nazionali ed estere hanno di loro iniziativa provveduto a colmare la lacuna, producendo in molti casi effetti non dissimili da quelli derivanti dall'azione dello Stato sul piano internazionale (v. Besson e Possin, 1996). Non va ignorato che, non di rado, le politiche dei governi sono espressione degli interessi dei grandi gruppi e non viceversa. Nei paesi sviluppati gli effetti di questo stato di cose si sono finora manifestati in forme che tendono a ridimensionare il livello di vita e di protezione sociale dei loro abitanti. Sono sempre più accentuate le pressioni salariali verso il basso e i tagli alla spesa pubblica finalizzata al benessere sociale, tendenze che vengono giustificate con la necessità di mantenere la competitività dei sistemi economici sviluppati. A causa del discredito in cui è caduto l'intervento pubblico che si esprime attraverso prestazioni sociali rese direttamente dall'amministrazione statale e programmi di assistenza allo sviluppo dei paesi arretrati - discredito dovuto alla pessima gestione politica di tali iniziative - questi compiti sono stati affidati per la gran parte alle forze spontanee del mercato, ossia alla competizione internazionale, e, in minor misura, al volontariato.
La conseguenza è che, per difendere o anche migliorare la loro posizione competitiva, i paesi ricchi riducono il livello di regolamentazione dei processi economici (cioè liberalizzano l'iniziativa individuale) e l'intervento dello Stato nel sociale, ma ottengono prevalentemente un abbassamento del livello di benessere delle rispettive popolazioni senza impedire il verificarsi di una nuova divisione internazionale del lavoro a favore dei paesi a basso salario, una bassa rete di protezione sociale e una modesta tutela dell'ambiente fisico (v. ancora Scharpf, 1996).
Il gioco economico internazionale si presenta attualmente a ‛somma negativa', in quanto ciò che guadagnano i paesi poveri in termini di posti di lavoro a basso costo è nettamente inferiore alla perdita degli stessi posti a elevato costo nei paesi ricchi, sia pure tenendo conto dei benefici di prezzo consentiti dalla competizione internazionale. Nel corso del processo descritto esiste un effetto di sostituzione (trade off) tra occupazione e benessere di cui soffrono i paesi ricchi, senza benefici per i paesi poveri. Ciò non esclude che il gioco economico internazionale si possa presentare a ‛somma positiva', ossia che la competizione internazionale addizioni risorse e non semplicemente le redistribuisca o le distrugga; esistono infatti forme cooperative tra Stati che non escludono la libera iniziativa, ma la integrano a beneficio di tutti. Le caratteristiche di queste forme cooperative e il modo in cui esse si realizzano sono parte integrante della materia di competenza della geoeconomia.
Se la motivazione che ha spinto a riformulare le strategie produttive e commerciali di un sistema economico è chiara, non lo è altrettanto l'oggetto di questi studi, anche perché intorno alla ‛scienza-madre' - l'economia - e alla sua ‛ancella' - la politica economica - non vi è ancora concordanza di vedute né sul metodo, né sul contenuto. In letteratura si contano ben diciassette scuole di pensiero che disputano se l'economia sia una scienza assiomatica - che studia, cioè, in astratto il calcolo razionale, ossia le regole per minimizzare i costi o massimizzare i rendimenti, da cui trarre norme di comportamento - o una disciplina sociale che analizza in concreto i comportamenti economici degli individui e degli Stati. Ne consegue che, se si intende dare a questi studi un contenuto normativo, la geoeconomia è lo studio delle regole che governano la competizione tra sistemi-paese o loro sottosistemi territoriali (come il Nord e il Sud d'Italia) e settoriali (ad esempio, l'agropastorizia o l'industria automobilistica); se, invece, si intende collocarli nell'ambito delle discipline sociali, la geoeconomia è lo studio di come si svolge in pratica la competizione tra sistemi-paese o sottosistemi degli stessi per trarre un'utile lezione che aiuti le scelte in materia.
Ciò che deve essere tenuto presente nell'affrontare i contenuti di questa disciplina è che essa si caratterizza come l'analisi della competizione tra Stati o ‛blocchi' di essi nel nuovo scenario globale, un'analisi che utilizza come punto di partenza gli strumenti della teoria economica per individuare i fattori critici di successo e le modalità con cui essi trovano attuazione. Come accade nella ricerca economica, entrambi i metodi - quello assiomatico e quello sociologico - pur avendo diverse finalità, concorrono a migliorare la conoscenza e l'usufruibilità pratica dei risultati. Con il primo si individuano in astratto quei comportamenti razionali che dovrebbero presiedere alle scelte politiche concernenti la competitività del sistema-paese per garantire il raggiungimento di obiettivi di espansione del sistema produttivo nazionale sul mercato globale o, più specificamente, su singole aree del globo o su determinati settori produttivi; con il secondo, si individuano i fondamenti dei comportamenti pratici dei sistemi o sottosistemi vincenti o perdenti nella competizione per trarne esperienze ‛ripetibili', cioè azioni da imitare o errori da evitare.
Sempre restando nell'analisi economica più tradizionale, la geoeconomia si è finora dedicata a definire strategie e non tattiche, ha posto cioè attenzione più alle strutture istituzionali (i confronti tra sistemi-paese) che ai movimenti ciclici delle grandezze economiche (quali il reddito, l'occupazione, i prezzi, le esportazioni). Ne consegue che, così come è stata finora trattata, la geoeconomia è assimilabile a una teoria dell'offerta elaborata in chiave ‛globale', piuttosto che a una teoria della domanda avente la stessa ampiezza. Questa seconda parte degli studi non è però esclusa a priori dall'area di competenza della geoeconomia, sia perché una buona programmazione dell'offerta non può prescindere dalle caratteristiche della domanda - ivi inclusi gli aspetti riguardanti le sue fluttuazioni cicliche - sia perché una strategia di espansione delle economie nazionali non può ignorare né i vincoli dei bilanci pubblici e privati (il cui rispetto grava sulla crescita reale), né le possibilità offerte ai mercati interni dall'esistenza di tre quarti degli abitanti del mondo che permangono su livelli di vita (e, perciò, di domanda) molto modesti, se non proprio drammaticamente bassi.
La storia ci ha insegnato quali profondi mutamenti politici determini l'esistenza di crescenti divari nel reddito pro capite tra aree geografiche e tra paesi. Prima della rivoluzione industriale, le condizioni di vita della maggioranza dei cittadini di un qualsiasi paese erano grosso modo simili, in quanto riguardavano sostanzialmente il soddisfacimento dei bisogni primari; trascorso un secolo dall'inizio della rivoluzione industriale, cioè verso la metà dell'Ottocento, il rapporto di reddito tra i paesi ricchi e quelli poveri era ancora di 2 a 1, in quanto prevalentemente basato sull'attività agricola. Cento anni dopo, per effetto degli sviluppi registrati dalla produzione industriale, il rapporto era divenuto di 10 a 1, con gli Stati Uniti in posizione 40 volte superiore a quella dell'India (v. economia, voll. II e VIII). Questi divari sono all'origine, anche se non ne costituiscono la causa esclusiva, delle dure lotte sindacali dei secoli XIX e XX, dell'aspro conflitto tra i due blocchi cominciato con la prima guerra mondiale e di molte delle continue ‛minirivoluzioni' nei numerosi paesi tuttora poveri.
Il reddito pro capite viene sovente usato come indicatore di benessere, ma la sua misurazione non tiene conto delle molteplici componenti di una delle caratteristiche principali del vivere moderno, chiamata ‛qualità della vita'. L'esistenza di profonde diversità nel reddito pro capite tra le nazioni del mondo ha suggerito ai paesi sviluppati di creare istituzioni internazionali che si dedichino a studiare i problemi dello sviluppo delle aree arretrate e a intervenire per avviarli a soluzione o, più pragmaticamente, data la loro ampiezza, solamente per lenirli e per renderli più tollerabili agli occhi della pubblica opinione. Tra queste ricorderemo la FAO (Food and Agriculture Organization), la Banca Mondiale e l'IDA (International Development Association), create con l'accordo di Bretton Woods, e la Banca Interamericana per lo Sviluppo.
Vi è quindi una sezione degli studi di geoeconomia volta a riesaminare le prescrizioni della più tradizionale teoria del decollo dal sottosviluppo tenendo conto del quadro creato dal simultaneo operare delle quattro tendenze indicate (liberalizzazione, finanziarizzazione, informatizzazione e globalizzazione delle economie) e delle novità geopolitiche emerse (crollo dei regimi comunisti e ascesa di quelli liberisti), con lo scopo di trarne indicazioni utili alla propria azione. Questa sezione degli studi geoeconomici interessa le organizzazioni internazionali del tipo ricordato, ma anche le potenze mondiali interessate agli equilibri politici planetari.
Considerando l'origine e la natura dei problemi finora esaminati e le priorità assegnate a quella branca di studi che si è proposto di chiamare geoeconomia, sarebbe più appropriato parlare di ‛geopolitica economica', in quanto essa attinge all'insieme degli studi condotti sulle scelte politiche in materia economica, aventi afflato strategico, che si avvalgono delle conoscenze teoriche e pratiche per prendere decisioni tali da rafforzare la competitività di un sistema-paese o di sottosistemi. Poiché, però, il termine affermatosi è geoeconomia, il suo uso non presenta controindicazioni purché sia chiaro che essa si avvale delle teorie elaborate dall'economia e dalla politica economica per integrare le analisi più strettamente politiche e per effettuare scelte strategiche e tattiche inquadrate in un contesto globale in cui dominano i venti della liberalizzazione, finanziarizzazione e informatizzazione dei sistemi. Ciò premesso, non si vuole escludere che dagli studi indicati emerga una vera e propria disciplina economica autonoma - o individuabile autonomamente - che possa vantare la caratteristica d'essere geoeconomica e non esclusivamente economica o geopolitica. Tuttavia, gli strumenti finora usati e le ricerche condotte per analizzare le novità geopolitiche che interessano la comunità mondiale - in particolare la sostituzione della competizione militare con quella economica alla quale si è già fatto cenno (v. in particolare Luttwak, 1993) - confinano per ora la geoeconomia nel dominio proprio della geopolitica ritardando la sua affermazione come branca indipendente del sapere.
2. Geoeconomia, economia dello spazio e teoria dinamica del commercio internazionale
Il prefisso ‛geo' rimanda immediatamente alla parola geografia e, come già ricordato, il termine geoeconomia nasce nell'ambito delle analisi geopolitiche, ossia delle scelte politiche, collocate anche nella dimensione territoriale, considerate a livello globale. Occorre però chiarire che gli studi di questo tipo, pur avendo una base geografica, non hanno a che vedere né con la ‛politica degli spazi' tout court, né con la geografia economica, né tantomeno con la teoria economica spaziale (v. Isard, 1949): quest'ultima è una branca dell'economia alla quale gli studiosi hanno dedicato tempo ed energie ancor prima di prestare attenzione alla geoeconomia.
L'economia dello spazio analizza gli effetti della dimensione geografica sui comportamenti economici. Sebbene non molto diffusa e poco conosciuta, questa materia mantiene una sua importanza e una sua specificità rispetto ai contenuti propri della geoeconomia. Qualche affinità si riscontra con gli sviluppi successivi dell'economia spaziale che hanno dato vita alla ‛scienza regionale', intesa come tentativo di integrare le conoscenze maturate nell'ambito dell'economia con quelle della geografia economica, della demografia, della sociologia, della politica e delle istituzioni giuridico-amministrative (v. Isard, 1960). Tuttavia, anche in questa seconda fase, l'economia dello spazio ha sempre mantenuto l'obiettivo di studiare le regole di localizzazione dell'attività produttiva e non quelle, proprie della geoeconomia, della competizione tra sistemi-paese o tra i suoi sottosistemi. Una sintesi dell'una e dell'altra branca delle conoscenze economiche è stata tentata in epoca recente, pur senza perseguire questo specifico intento, da studiosi che non seguono un tracciato tradizionale, né sono attirati dalla ricchezza dei contenuti economici della moderna geopolitica, ma preferiscono approfondire il filone logico della teoria della localizzazione delle risorse nell'ambito di decisioni interdipendenti sul piano globale (v. Krugman, 1991).
Se si intende instaurare un parallelismo tra l'oggetto di studio della geoeconomia e gli spazi geografici si può farlo tutt'al più nell'ambito dei primi studi di geopolitica, cioè con le elaborazioni sviluppate dalla scuola tedesca sugli ‛spazi vitali' tanto esaltati dal nazionalismo, in particolare dal nazionalsocialismo (v. geopolitica; v. Massi, 1986). Nondimeno, l'economia dello spazio e la scienza regionale, come ogni altra branca del sapere economico, sono di utilità per la geoeconomia, quando questa si spinge ad analizzare la localizzazione territoriale delle imprese dopo aver fissato la strategia ‛di sistema' da seguire. Più in generale, tuttavia, per la geoeconomia, contrariamente all'economia dello spazio, il territorio non è un riferimento indispensabile, pur non essendo ovviamente assente; infatti, la sua problematica emerge dall'esame dei modi di funzionamento dell'economia moderna, i cui confini - date le caratteristiche immateriali e deterritorializzate che essa presenta - non vengono definiti, come si è detto, in termini di spazio, ma in funzione dell'ampiezza dei flussi economici.
L'assetto economico odierno è stato connotato come ‛post-produttivo', in quanto il contenuto ‛fisico' del prodotto è una quota secondaria del suo valore, composto per la maggior parte da servizi definiti comunemente ‛avanzati' (meglio sarebbe dire ‛di qualità') che lo dematerializzano (know how tecnologico, design, pubblicità, conoscenze di mercato). L'economia post-produttiva non ha un preciso e stabile riferimento territoriale, sia per le sue caratteristiche di immaterialità (o non tangibilità) che travalicano le frontiere nazionali e si avvalgono dell'‛etere' e del ‛cavo' (Internet è il naturale riferimento), sia per la possibilità che il luogo del processo produttivo e, in certa misura, anche quello della distribuzione sia facilmente cambiato secondo le esigenze e le convenienze del momento. Ne consegue che la sua seconda caratteristica naturale, indotta dalla immaterialità e dalla deterritorialità, sia l'estrema rapidità con cui si realizzano le scelte in materia economica. Ciò è palese per le operazioni finanziarie, meno per le transazioni reali, le quali, tuttavia, incorporano sempre più ‛tempi brevi', com'è il caso delle produzioni e, soprattutto, degli approvvigionamenti just in time (ossia con tempi di attesa nulli). Per indicare questa ricerca spasmodica del risparmio di tempo nelle moderne economie - o, di converso, la velocità con cui si succedono i mutamenti - è entrato in uso, nel lessico corrente, il termine ‛turbocapitalismo'. Pertanto, la dimensione spazio-temporale delle economie moderne si è assottigliata e si è accresciuta invece quella immateriale dell'organizzazione dei sistemi - divenuti sempre più complessi, sia a livello di azienda che di paese - e dei flussi economici che essi generano.
Un teorema noto in letteratura come putty-clay (argilla-creta) e un principio manageriale noto come make or buy (fare o acquistare) sottolineano le due caratteristiche che differenziano l'economia produttiva del passato da quella post-produttiva dei nostri giorni. Il premio Nobel per l'economia Franco Modigliani ha segnalato le proprietà del primo con riferimento, appunto, al regime economico che abbiamo definito come post-produttivo. Le incertezze derivanti dalla complessità e dalla (conseguente?) mutevolezza sistemica del mondo degli affari vengono fronteggiate creando sistemi che hanno proprietà ‛autoliquidanti', che sono cioè capaci di restare argilla o di trasformarsi rapidamente in essa. Ne consegue che la principale caratteristica ricercata nell'investimento (la creta) è quella di tramutarsi rapidamente in liquidità (l'argilla). La finanziarizzazione dell'economia, ossia il tenere la ricchezza sotto forma finanziaria, è la forma naturale di questa ricerca costante della dematerializzazione e deterritorializzazione dell'attività produttiva e di scambio, ma non l'unica. Le multinazionali, ad esempio, scelgono la localizzazione territoriale degli impianti sulla base della rapidità con cui essi possono essere ammortizzati, usando non solo indicatori di profitto, ma anche altre ‛variabili di riferimento' (proxy), quali le ore annue lavorate da ciascun lavoratore impiegato. Un corollario naturale di questo teorema è il metodo suggerito dalle discipline gestionali di non impegnarsi in via permanente a produrre un bene o a svolgere un servizio all'interno di una stessa azienda (il make) o sempre con gli stessi fornitori. È opportuno lasciare liberi i responsabili di ciascuna produzione o ramo di attività aziendale di farsi guidare dalla pura convenienza, acquistando (il buy) dove si viene meglio serviti e si ottiene il miglior prezzo, senza escludere beni e servizi prodotti all'interno dell'azienda, ma anche senza riconoscere a essi un privilegio. Tutto ciò, ovviamente, nel quadro di una visione strategica dell'attività di impresa.
Nell'economia post-produttiva - dematerializzata, deterritorializzata e detemporalizzata - si programma sempre più indifferentemente in qualsiasi punto del globo, si trova il finanziamento ‛in rete', si produce dove e come conviene e si vende approvvigionandosi dove il prezzo è minimo e/o esiste pronta disponibilità del bene richiesto. Non a caso, i mercati, cioè l'ambito in cui si sviluppa la competizione, hanno perso la loro connotazione fisica - quella dell'ἀγορά, la ‛piazza' - per acquisirne una nuova, di tipo funzionale, quella di ‛rete informativa' dei comportamenti della domanda, dell'offerta e dei prezzi, per contribuire a formare le aspettative e a orientare le scelte. L'informazione è il faro che orienta la navigazione economica nel mare dei mercati di consumo, dei risparmi, degli investimenti, delle esportazioni, ecc. Tuttavia, se le ‛attrezzature del porto' non sono adeguate, la navigazione non si svolge in modo economico e in condizioni di sicurezza. L'efficienza del faro e la bontà delle attrezzature del porto simboleggiano le caratteristiche del sistema-paese al quale si è fatto finora costante riferimento. Resta quindi confermato che l'esame di queste caratteristiche e dei modi in cui possono essere rafforzate è il compito di studio assegnato alla geoeconomia.
La minore importanza del territorio e la ricerca di risparmi di tempo sono quindi componenti essenziali della dematerializzazione della produzione e dello scambio; di conseguenza, l'influenza del fattore spaziale sui comportamenti economici si è ridotta, mentre si è accresciuta quella dei beni immateriali ‛di pronto uso', come la preparazione scientifica e tecnologica, la conoscenza dei canali finanziari e dei gusti dei consumatori, le tecniche per attirare l'attenzione degli acquirenti (non solo di quelli dei beni di consumo) e per stimolare il loro bisogno, nonché - last but not least - l'insieme delle condizioni ‛di ambiente' che agevolano lo sviluppo dell'attività produttiva in chiave globale, creando quelle che vengono chiamate in letteratura ‛economie esterne' alle imprese.
Per questi stessi motivi, la figura dell'imprenditore si è profondamente modificata: dalla sua primitiva natura di proprietario, si è trasformato in inventore di macchine nella prima fase della rivoluzione industriale e in esperto di combinazioni produttive di capitale e di lavoro nella seconda, in utilizzatore di benefici pubblici nello Stato del benessere, fino a divenire, ai nostri giorni, un broker di conoscenze, ossia quell'‛innovatore deviante' ipotizzato da Schumpeter, capace di ben utilizzare le informazioni a fini produttivi o semplicemente di smercio.
Nel prendere atto che, in questa fase storica, la geopolitica non è più la disciplina che tiene in quasi esclusivo conto il fattore geografico nelle scelte pubbliche e che non mira più al dominio fisico degli spazi ma a quello economico, si deve constatare che il suo oggetto di studio coincide sempre maggiormente con quello della geoeconomia, pur mantenendo una sua specificità nel quadro delle discipline sociali. Infatti, la geopolitica è interessata alle conseguenze dello sviluppo tecnologico nei rapporti di forza tra paesi e agli agenti che lo controllano, agli effetti della crescita demografica sulla stabilità sociale interna e internazionale, alle caratteristiche dell'espansione monetaria e finanziaria mondiale e a quelle della criminalità, al ruolo dei ‛paradisi fiscali' negli equilibri dei portafogli nazionali, per ricordare solo alcune componenti di grande rilievo nell'attuale competizione mondiale (v. Savona e Jean, 1995). In breve, l'analisi dei fatti economici condotta dalla geopolitica spazia dalla mera verifica dei risultati attesi dal calcolo razionale nelle sue applicazioni a livello macroeconomico internazionale, fino alla considerazione degli effetti sulle diverse dimensioni del sociale e, per questa via, sul potere economico reale e su quello finanziario (quest'ultimo ancor più dematerializzato, deterritorializzato e detemporalizzato) degli Stati moderni. Tutto ciò nell'intento di mettere a fuoco i termini dell'azione politica globale. La geopolitica, quindi, abbandonato l'obiettivo di raggiungere il dominio territoriale, si avvale dei principî elaborati dalla geoeconomia o, come si è specificato, dalla geopolitica economica, per pervenire a una competizione di sistema intesa come principale strumento per elevare il rango del paese (o dell'impresa, se di questa si parla) nella gerarchia del potere mondiale. In tal senso si può parlare dell'esistenza di una ‛neo-geopolitica', in cui si fondono taluni contenuti tradizionali della geopolitica con quelli nuovi della geoeconomia.
Per l'insieme dei motivi indicati, l'assimilazione della geoeconomia a una moderna teoria del commercio internazionale o dello sviluppo export-led (‛trainato dalle esportazioni') - pur comprensibile per la larga coincidenza dell'oggetto di analisi - sottrae identità a questa nascente branca della scienza economica. La geoeconomia si avvale delle conoscenze raggiunte dalla teoria economica del commercio e dello sviluppo internazionali, come di altre parti dell'economia, ma si prefigge obiettivi più ampi: reinterpretare i paradigmi classici dello sviluppo economico alla luce delle nuove tendenze economiche mondiali ripetutamente indicate e adattare le politiche nazionali alla nuova realtà socio-economica creata dal superamento delle frontiere tradizionali, dalla perdita di importanza della forza militare nel fissare il rango degli Stati-nazione, dal prevalere della immaterialità nel contenuto dei beni e dal tentativo di azzerare i tempi decisionali e di realizzazione delle scelte. Chiusa la fase del laissez faire individuale, che ha prevalso dopo la rivoluzione industriale del XVIII secolo, ed esaurita la spinta dell'intervento pubblico nell'economia, propria del Welfare State, la cui costruzione è stata tentata in questo secolo, si apre una fase nuova - che possiamo definire geoeconomica - in cui l'individuo viene responsabilizzato nel costruire le proprie sorti e lo Stato si dedica alla costruzione di una rete di protezione sociale indiretta, creando condizioni di ambiente per lo sviluppo, cioè un sistema-paese competitivo con l'estero.
Per l'insieme delle ragioni anzidette si può concludere che la geoeconomia ha una sua logica autonoma rispetto alla teoria dinamica del commercio internazionale, delle cui conoscenze tuttavia - come di quelle dell'economia spaziale, dell'economia politica e della politica economica in generale - si avvale per le sue analisi aventi, come si è indicato, finalità più ampie di quelle delle discipline da cui promana.
3. Trasformazioni mondiali e nuovi problemi geoeconomici
Le tendenze verso la liberalizzazione, la finanziarizzazione, l'informatizzazione e la globalizzazione delle economie nazionali hanno cambiato le regole che sono alla base della competizione internazionale. Douglass C. North, premio Nobel per l'economia, distingue le ‟istituzioni economiche", cioè le regole del gioco (che sono anche opportunità offerte dalle normative nazionali o dagli accordi internazionali), dalle ‟organizzazioni", ossia dai giocatori che, cogliendo le opportunità offerte, si avvalgono di quelle regole (v. North, 1990). La geoeconomia deve saper tenere distinti questi due aspetti dello stesso problema per suggerire alle autorità dove e come intervenire per migliorare la competizione del proprio sistema-paese o dei suoi sottosistemi. Nell'ultimo quarto di secolo sono accaduti eventi che hanno mutato il regime di operatività dei mercati dei beni reali, della moneta, dei cambi e della finanza, ossia delle istituzioni che presiedono alla competizione internazionale; ma le organizzazioni, almeno quelle ufficiali, sono rimaste sostanzialmente quelle ideate nell'ambito delle vecchie regole: ad esempio, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) è nata per gestire l'assistenza allo sviluppo dei paesi europei (il Piano Marshall) e tuttora sopravvive come centro d'analisi economica e politica; il Fondo Monetario Internazionale (FMI), creato per gestire i cambi fissi stabiliti con l'accordo di Bretton Woods, continua a svolgere un ruolo di vigilanza in un regime diffuso di cambi flessibili; la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI), ispirata dalla necessità di creare un sistema di pagamenti multilaterali ora esteso a quasi tutto il mondo, continua a svolgere un ruolo di centro della consultazione monetaria e finanziaria internazionale; la NATO (o Patto Atlantico), istituita per garantire la difesa dei paesi occidentali dall'URSS e dai paesi del blocco sovietico, continua a operare anche dopo la dissoluzione del blocco militare creato da quest'ultimo. L'unica eccezione può essere individuata nel GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), divenuta un'organizzazione permanente (WTO, World Trade Organization) che sollecita i processi di liberalizzazione degli scambi e vigila sulla loro attuazione.
Il primo cambiamento significativo, una vera e propria ‛scossa tellurica' di natura monetaria, fu la declaratoria di non convertibilità del dollaro in oro decisa da Nixon nel 1971, che decretò la fine dell'accordo di Bretton Woods e, con esso, del regime di cambi fissi che aveva fino a quel momento presidiato e stimolato gli scambi internazionali. Il secondo fu il raggiungimento nel 1973 di un accordo ‛di cartello' sui prezzi dei prodotti petroliferi nell'ambito dell'OPEC (Organization of Petroleum Exporting Countries), istituita nel 1960, che scosse le fondamenta economiche (tecnicamente le ‛ragioni di scambio', ossia i rapporti di prezzo tra fonti di energia e prodotti finiti) dei paesi sviluppati consumatori di petrolio, con conseguenze di rilievo sull'intera economia mondiale. Il terzo è consistito nel mutamento di regime monetario (centrato sul controllo dell'offerta di moneta e non più sul tasso dell'interesse) disposto verso la fine del 1979 da Paul Volcker in qualità di chairman del Board of governors del Federal Reserve System, ratificato e rafforzato l'anno successivo dal repubblicano Reagan, allorché giunse alla presidenza degli Stati Uniti. Il quarto è stato determinato dalla già ricordata caduta del muro di Berlino nel 1989, che aveva avuto pochi anni prima in Polonia - con la ‛rivoluzione di Danzica' - i suoi prodromi e che ha abbattuto l'ultima grossa barriera alla globalizzazione dei mercati.
Questi eventi sono stati ovviamente determinati da più cause che hanno agito in modo concomitante e che sono insieme origine ed effetto delle quattro tendenze internazionali indicate. Il collasso dell'accordo di Bretton Woods può essere attribuito al fatto che i paesi industrializzati hanno sottovalutato le conseguenze della loro scarsa volontà politica di regolare i flussi monetari internazionali, come avevano invece fatto alle soglie del secolo con la creazione monetaria interna. Questo stato di cose è solo in parte dovuto, come si sente ripetere a livello ufficiale, alle difficoltà tecniche di porre sotto controllo la creazione monetaria internazionale; in realtà, molto ha influito il desiderio di mantenere aperto un canale di rafforzamento dell'egemonia economica da parte dei paesi creatori di liquidità internazionale (principalmente gli Stati Uniti, ma anche il Regno Unito, prima, e la Germania e il Giappone, poi). La denuncia dell'accordo monetario del 1946 è stata insieme effetto e causa della finanziarizzazione dell'economia mondiale e, per questa via, delle economie nazionali; questa evoluzione è stata infatti propiziata ed esaltata dalla crescente liberalizzazione degli scambi reali e monetari e dalla globalizzazione delle scelte economiche, ed è stata resa possibile dai metodi di trattamento scientifico delle conoscenze messi a punto dall'informatica. Ha contato, in particolare, la politica definita di benign neglect (benevola disattenzione) seguita dalle autorità dei paesi più sviluppati nei confronti della formazione di ingenti volumi di moneta internazionale tenuta nei sistemi bancari nazionali da non residenti (inizialmente denominati eurodollari, poi eurovalute e di seguito ancora xenovalute, valute off-shore o cross-border currency; v. Fratianni e Savona, 1972).
La crescita dei prezzi dei prodotti petroliferi è stata indotta da due elementi le cui implicazioni geoeconomiche sono state sottovalutate dai governanti: da un lato la grave perdita di potere d'acquisto dei paesi produttori di petrolio, subita nel corso dei decenni seguenti la seconda guerra mondiale a causa della maggiore inflazione registrata dai prodotti finiti e della svalutazione del dollaro conseguente al suo sganciamento dall'oro; e dall'altro la coscienza del potere contrattuale nascente dalla cartellizzazione della produzione e dello smercio. Pensare di poter basare permanentemente il funzionamento di un sistema di relazioni economiche internazionali su un costante, sia pur lieve, deterioramento delle ragioni di scambio (attraverso un'inflazione non registrata dalle parità dei poteri d'acquisto del dollaro) a sfavore dei paesi poveri deve essere considerata un'impostazione errata sia di politica estera, sia di politica economica o, più appropriatamente, geoeconomica. Una tale linea d'azione crea sistemi produttivi e regimi di benessere nazionali sulla base di artifici monetari e non di miglioramenti acquisiti nelle grandezze ‛fondamentali' (i fundamentals) dell'economia.
Una ricerca promossa dalla Banca Mondiale ha sottolineato che, nel mezzo secolo antecedente la cartellizzazione dei prodotti petroliferi, la perdita di potere d'acquisto dei paesi produttori di materie prime può essere stimata nell'ordine di mezzo punto percentuale annuo in termini reali, pari a una perdita di un quarto del potere d'acquisto originario delle materie prime internazionali (v. Savona e Grilli, 1990). Va detto per inciso che un'analoga sottovalutazione delle implicazioni dello sviluppo economico sugli equilibri politici fu fatta dallo shāh di Persia Riẓa Pahlavī, ispiratore dell'attivazione del cartello petrolifero. Egli, infatti, perseguì l'elevazione materiale del suo paese senza provvedere alla sua structure d'accueil, cioè all'elevazione della base culturale dei suoi sudditi, i quali sono perciò diventati una facile preda per il fondamentalismo islamico, contrario per motivi religiosi e per calcolo politico alla modernizzazione dell'Iran.
Alle soglie degli anni ottanta, il duo Volcker-Reagan ha disposto un mutamento del regime monetario ed economico nazionale e, per questa via, mondiale; ossia, ha cambiato il sistema di regole che presiedono al funzionamento dei mercati reali e finanziari e, in tal modo, al formarsi delle aspettative. Questa decisione fu il risultato di una corretta valutazione, e cioè del fatto che le regole di condotta basate su bassi tassi di interesse e crescita della spesa pubblica, disposte per propiziare lo sviluppo mondiale, avrebbero avuto implicazioni geoeconomiche svantaggiose per il sistema produttivo americano; tale politica non solo aveva redistribuito il potere economico innalzando il rango politico e allargando la cerchia di influenza dei paesi sconfitti nella seconda guerra mondiale (soprattutto Giappone e Germania), ma era anche stata all'origine dell'inefficienza economica e dell'inflazione monetaria degli anni settanta, che avevano fatto vacillare l'economia internazionale, con inevitabili conseguenze su quella statunitense. Nel periodo intercorso tra la seconda guerra mondiale e il ritorno dei repubblicani al potere negli Stati Uniti, nei paesi industrializzati era prevalso, sotto la spinta delle idee keynesiane e della popolarità delle politiche di stimolo allo sviluppo, un regime monetario interno di tipo ‛accomodante' che si sommava e in certa misura veniva condizionato dalla crescita monetaria internazionale incontrollata di cui si è detto. Questo regime era centrato sull'obiettivo di mantenere bassi i tassi dell'interesse per stimolare gli investimenti e l'attività economica. Il risultato di questa gestione monetaria fu che i tassi reali dell'interesse, ossia i tassi nominali al netto dell'inflazione, divennero negativi: negli anni sessanta, la media fu negativa nell'ordine di 2 punti percentuali. Fu così possibile che attraverso l'indebitamento gli Stati industrializzati realizzassero politiche sociali molto generose, i paesi in via di sviluppo stimolassero esogenamente il saggio di crescita, e le imprese realizzassero iniziative aventi anche un tasso di profitto negativo (distruggendo così ricchezza invece di produrla). Il costo di questa politica accomodante fu appunto l'estensione dell'influenza dello Stato nell'economia, l'inflazione degli anni settanta e un abbassamento del saggio di sviluppo reale, ai quali il duo Volcker-Reagan pose rimedio con un mutamento di regime monetario e fiscale. Il cambiamento del regime monetario interno agli Stati Uniti e, di riflesso, di quello esterno, attraverso l'estensione dell'uso del dollaro quale standard internazionale scelto volontariamente dalla comunità degli affari (cioè dotato di caratteristiche proprie della fiat money), ha avuto due implicazioni geoeconomiche ancora da studiare nei loro riflessi empirici.
La prima implicazione è quella che riguarda l'effetto sulla distribuzione del reddito, che andò a favore del capitale; tale effetto era dovuto alla volontà e alla possibilità pratica dei gruppi dirigenti americani e internazionali di tenere i tassi dell'interesse reali positivi e più elevati rispetto al passato e di far funzionare i mercati secondo i crismi della maggiore competitività. In questo quadro va anche interpretata la scelta di Nixon di abbandonare il controllo ufficiale dei cambi e, di seguito, quella di liberalizzare i movimenti con l'estero di capitali e monetari, assegnando agli operatori di mercato il compito di ricercare l'‛equilibrio' desiderato. L'effetto redistributivo a favore del capitale conseguente a questo stato di cose era già stato intuito vent'anni prima da Piero Sraffa.
La seconda implicazione riguarda l'effetto sulla struttura industriale americana derivante dalla rivalutazione del cambio del dollaro intercorsa tra il 1980 e il 1982. Tale manovra avrebbe dovuto scoraggiare le produzioni tradizionali trasferendole all'estero e indurre l'imprenditoria americana a concentrarsi sull'obiettivo di sviluppare innovazioni tecnologiche, in particolare quelle ottiche, sia a fini militari (lo ‛scudo strategico' o SDI, Strategic Defense Initiative), sia civili: in tal modo gli Stati Uniti avrebbero potuto non solo raggiungere una superiorità permanente sulla frontiera della tecnologia più avanzata (quella fotonica), ma inoltre, attraverso la convenienza nel cambio, avrebbero potuto ‛fissare' le energie imprenditoriali del resto del mondo sulle frontiere arretrate, dato l'interesse che la svalutazione delle altre monete avrebbe suscitato per le esportazioni ‛tradizionali'. Il disegno geoeconomico non riuscì a causa sia delle reazioni dell'industria ‛tradizionale' americana alla politica del cambio forte e degli interessi elevati, sia degli sviluppi politici internazionali che avevano avuto inizio con l'‛accordo missilistico' tra gli Stati Uniti e l'URSS e si erano conclusi con la cessazione delle ostilità tra blocchi (compresa la Cina).
La caduta del muro di Berlino ha sancito la fine di tutte queste ‛rivoluzioni'. Essa fu conseguenza prima della sottovalutazione, e in seguito della presa d'atto del fatto che un sistema di pianificazione centralizzato presenta minori capacità di innovazione, e quindi di sviluppo reale, rispetto all'economia di mercato, con riflessi negativi anche sul piano della supremazia militare e su quello del controllo sociale. I prodromi di questa caduta in Polonia ed Ungheria sottolineano come l'aver preso coscienza della perdita del controllo sociale, oltreché della spinta al mantenimento dei necessari contatti con la frontiera della tecnologia più avanzata, abbia svolto un ruolo determinante. L'esame dell'origine di ciascuno di questi ‛shock di regime' che hanno mutato le regole del gioco internazionale conferma la sottovalutazione fatta in passato degli effetti geoeconomici delle scelte puramente ideologiche (come fu la pianificazione sovietica e la creazione dello Stato del benessere à la Beveridge), o di quelle fatte sulla base di conoscenze tradizionali (come fu la cartellizzazione del prezzo del petrolio), o di quelle realizzate sulla base di compromessi eccessivi (come nel caso dell'accordo di Bretton Woods che lasciò in vita il gold-exchange standard invece di creare una moneta sotto il controllo della comunità internazionale). L'esperienza fatta suggerisce la necessità di una seria riconsiderazione delle politiche secondo un'ottica globale, in un mondo sempre più libero di muovere capitali e persone, sempre più informatizzato e finanziarizzato.
Dopo i tentativi di riforma del sistema monetario internazionale e gli sforzi compiuti per innalzare lo sviluppo delle aree arretrate, la reazione prevalente agli shock di regime economico e monetario precedentemente ricordati è stata la costituzione di ‛poli regionali' - come l'ASEAN (Association of South-East Asian Nations) e il MERCOSUR (Mercado Común del Sur), tra Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay - o l'allargamento e il rafforzamento di quelli esistenti - come l'UEME (Unione Economica e Monetaria Europea) e il già ricordato NAFTA. Questi poli di Stati sono sostanzialmente aree di libero scambio, nonostante taluni tra essi, com'è il caso dell'Unione Europea, abbiano progetti politici più ampi e ambiziosi. La caratteristica dominante, anche se non esclusiva, dello sviluppo ‛polare' è quella che un gruppo di paesi ricchi ingloba riserve di mano d'opera a basso costo dai paesi più poveri. Altre caratterizzazioni si individuano nella ricerca di protezioni su frontiere più ampie, così da ridurre i rischi derivanti dal formarsi di sacche di rendita e inefficienza, e nel tentativo di riguadagnare e di gestire, in tutto o in parte, la sovranità economica e monetaria a livello sovranazionale (con o senza l'egemonia di un solo paese).
La realtà operativa che ha prevalso nei poli regionali esistenti è del tipo definito da Carlo Jean ‟colbertismo hi-tech" (v. Savona e Jean, 1995), ossia un'attività politica volta ad attrezzare i paesi aderenti rispetto ai bisogni propri della ‛guerra geoeconomica', creando condizioni competitive di ambiente istituzionale (leggi e regolamenti) e fisico (infrastrutture economiche e capitale umano); in breve, non per fare la guerra, ma per prepararsi adeguatamente a farla. Va ricordato che non sono mancati i supporti tradizionali alla guerra geoeconomica, sia pure decisi a livello sovranazionale. Si sono avuti, infatti, interventi militari dei ‛caschi blu' dell'ONU - come nella ‛crisi del Golfo' seguita all'invasione del Kuwait a opera dell'Iraq e nella ‛crisi iugoslava' - e interventi economici, come embarghi e sanzioni. Categorie particolari catalogabili tra gli interventi geoeconomici sono gli ‛embarghi strategici', soprattutto quelli di materiali nucleari, e la collaborazione tra Stati nella lotta alla criminalità organizzata. Una deviazione dallo schema dei poli è rappresentata dal localismo di tipo iugoslavo o da quello, latente, italiano. Esso corrisponde a un tentativo di difendersi dagli effetti dei mutamenti di ambiente economico e politico internazionale attraverso l'arroccamento intorno alle posizioni raggiunte, equivalente alle strategie ‛di nicchia' proprie delle piccole imprese in un mondo sempre più aperto alla competizione globale promossa dagli Stati e dalle grandi imprese.
4. La crescita della produttività come fondamento della competizione geoeconomica
Dall'esame dei fondamenti teorici e pratici degli eventi descritti - esame condotto in chiave moderna e su scala globale - emerge con più chiarezza l'oggetto di analisi della nuova disciplina: la geoeconomia studia le regole e la pratica della competizione dinamica su mercati globali tra sistemi-paese, o singole aree geografiche e/o specifici settori produttivi, seguite dagli Stati o da grossi raggruppamenti di interessi. Con l'espressione ‛competizione dinamica' non si intende riferirsi solo a tecniche che minimizzano i tempi di decisione e di realizzazione, ma anche allo studio delle prospettive di sviluppo di un paese o di un insieme di imprese nel lungo periodo, tenendo conto di tutti i fattori in gioco, ivi inclusi gli andamenti congiunturali studiati dall'economia ‛tradizionale'.
Come si è già avuta occasione di sottolineare, gli indicatori ‛tradizionali' - quali gli andamenti del prodotto interno lordo, degli investimenti e delle esportazioni - non sono più rappresentativi del successo di questa competizione dinamica. Nonostante ciò, essi continuano a essere usati estensivamente nella documentazione ufficiale dei governi nazionali e delle organizzazioni internazionali per indicare gli obiettivi che l'azione politica si prefigge di raggiungere. Il caso dei ‛parametri di Maastricht' è il più significativo tra quelli oggetto di analisi corrente. La loro obsolescenza è dovuta principalmente alla ‛perdita di esogeneità', cioè di controllabilità politica, derivante dalle quattro tendenze indicate (liberalizzazione, finanziarizzazione, informatizzazione e globalizzazione). Risulta sempre più difficile imprimere alle grandezze macroeconomiche tradizionali la spinta per raggiungere la misura desiderata, che viene invece fissata prevalentemente dalle forze spontanee del mercato mondiale. Nel contesto, quindi, gli Stati-nazione vanno perdendo la loro sovranità economica e monetaria.
Ancor prima dell'emergere della geoeconomia come disciplina potenzialmente autonoma, l'analisi economica aveva individuato nella produttività l'unica variabile significativamente influenzabile dalle singole aziende (attraverso innovazioni di prodotto e di processo) e dai sistemi-paese (attraverso la creazione di economie esterne indotte da migliori condizioni di ambiente; v. Savona, 1989). Questa variabile è divenuta perciò centrale nella competizione internazionale. Sul piano teorico non esistono difficoltà a definire i contenuti della produttività: essa corrisponde all'incremento del prodotto (output) ottenibile a parità di fattori usati (input) o, secondo la definizione consueta di calcolo razionale, il risparmio di input ottenibile a parità di output (v. Lo Cascio, 1994). Sul piano pratico, invece, essa è di difficile identificazione, essendo figlia di molti padri: il lavoro, il capitale, i servizi aziendali di corredo e quelli esterni, ‛di ambiente', sui quali ci siamo lungamente soffermati. L'esame della produttività può riguardare la strategia di sviluppo globale di un sistema-paese o di un'area geografica o di un sistema di imprese, cioè l'insieme delle opportunità esistenti in un paese, in un'area geografica o in un settore dell'economia che, incrociandosi con la volontà di iniziativa e con l'abilità degli operatori, concorre a determinare il livello di competitività dei beni e dei servizi di un dato sistema-paese o sottosistema.
Alcuni studiosi hanno messo in dubbio che alla base della competizione dinamica tra paesi vi siano le condizioni di ambiente, ossia che prevalga la forza dei sistemi-paese (v. Solow, 1994); altri, pur non contestando gli argomenti avanzati dalla geoeconomia, sconsigliano il ricorso a geopolitiche basate sulle sue conoscenze per gli stessi motivi che sconsigliano il ricorso alla politica economica: scarsa conoscenza dell'ambiente in cui si calano le scelte delle autorità e creazione di nuove incertezze che si sommano a quelle già gravi indotte dalla mutevolezza dei mercati (v. Krugman, 1986). Queste posizioni sono necessarie per non dimenticare l'esperienza acquisita nelle precedenti fasi del capitalismo, per evitare cioè gli estremismi in entrambe le direzioni, il laissez faire e il Welfare State.
Nella realtà i fatti economici non si presentano con tutte le caratteristiche previste dai modelli teorici, né con una costanza nel tempo che giustifichi il ricorso alle ipotesi e alle spiegazioni di questa o di quella scuola di pensiero. La competizione internazionale si svolge secondo caratteristiche simili a quelle indicate da David Ricardo (le differenze nei costi o nei vantaggi comparati), ma anche secondo quelle individuate da Eli F. Heckscher e Bertil Ohlin, precursori della teoria della competizione basata sulle condizioni di ambiente (anche se su basi molto più ristrette di quelle indicate dalla geoeconomia); essa, inoltre, si presenta con le complicazioni proprie dello sviluppo oligopolistico imposto dalle innovazioni tecnologiche, sottolineate da Paolo Sylos Labini. Come insegna la moderna teoria economica, la concomitante esistenza di molti fattori nella determinazione delle grandezze economiche induce a rifiutare le spiegazioni semplici (o semplicistiche) e a impegnarsi nell'accertare i meccanismi di trasmissione degli impulsi del mercato o della policy, per individuare tra essi quelli dominanti e stimare il loro effetto sulle variabili finali. La modellistica economica e le simulazioni econometriche di modelli pluriequazionali, pur con le limitazioni logiche che le accompagnano, rappresentano il metodo migliore per cogliere le complessità nascenti dall'interazione tra le centinaia di variabili in azione nei sistemi economici nazionali e internazionali. Il meccanismo di trasmissione degli impulsi positivi del sistema-paese (o quello di aree o di imprese) sulla crescita della produttività è centrato nelle ‛ragioni di scambio' del paese (o dell'area o del settore, che da questo punto in poi non verranno più menzionati per semplicità di riferimento), ossia nel rapporto tra prezzi dei beni e dei servizi interni e prezzi dei beni e dei servizi esteri. È stato evidenziato (v. Kregel e altri, 1982) che, almeno in Italia, il ciclo delle ragioni di scambio ‛industriali', ossia le variazioni del rapporto tra prezzi dei soli prodotti industriali, si presenta altamente correlato con quello dei profitti; e poiché questi ultimi governano il tasso di accumulazione capitalistica di un qualsiasi paese - cioè il principale veicolo di miglioramento della produttività - risultano governati dalle ragioni di scambio la competitività e, quindi, lo sviluppo. Ciò è tanto più valido, quanto più il modello di sviluppo di un paese, come quello italiano, è di tipo export-led, trainato dalle esportazioni, in quanto, in una economia aperta, investita dalle quattro tendenze alle quali si è fatto frequente riferimento, le ragioni di scambio governano non solo la competizione all'estero, ma anche quella sui mercati interni.
Le ragioni di scambio di un paese sintetizzano il comportamento di molte variabili ‛strutturali', quelle, cioè, che determinano le condizioni di ambiente che rendono competitivo un sistema-paese. In estrema sintesi, queste condizioni possono essere individuate in quattro categorie.
1) La prima consiste nell'esistenza di fattori che sollecitano la crescita della produttività all'interno di un paese, quali la natura di ‛società aperta' à la Popper - ossia quel tipo di società in cui l'uomo è governato da leggi, e non dall'arbitrio di altri uomini - che si caratterizza per l'elevatezza della base culturale o ‛cultura civica' (v. Putnam, 1993) e delle sue conoscenze tecnologiche, per la disponibilità di infrastrutture economiche e sociali, per la funzionalità delle istituzioni (cioè la rispondenza delle regole del gioco economico alle necessità della competizione internazionale), per l'abilità degli operatori (cioè i modi in cui le organizzazioni colgono le opportunità offerte dalle regole), e per la quantità e la qualità della spesa destinata alla ricerca e allo sviluppo di nuove tecnologie.
2) La seconda categoria può essere individuata nella pronta ed effettiva attivazione degli strumenti disponibili per muovere attacchi competitivi sui mercati esterni, quali l'assistenza finanziaria, assicurativa o commerciale all'attività di esportazione e di investimento, la libertà di movimento dei capitali verso l'esterno, una politica estera ‛finalizzata', ivi inclusa la copertura militare, ove necessaria, et similia (v. Porter, 1990; v. Cazes, 1994).
3) La terza consiste nella capacità di difendersi dagli attacchi competitivi mossi dall'estero, ivi inclusi efficienti sistemi informativi e di sicurezza contro lo spionaggio industriale e altre forme di unfair competition (v. Commissariat Général du Plan, 1994; v. Besson e Possin, 1996).
4) La quarta, infine, è ravvisabile nella partecipazione ad accordi internazionali di cooperazione o di integrazione e nell'attitudine a rispettarli. Essi possono limitarsi a prevedere un forum di mera consultazione (come è il caso dell'OCSE e della BRI, dopo che si siano esauriti i compiti originari) oppure stabilire una sede propositiva per i problemi di comune interesse, come è il caso dell'IME (Istituto Monetario Europeo), previsto dal Trattato di Maastricht per aprire la strada alla creazione di un ‛Sistema di Banche Centrali Europee' coerente con l'intento di dare vita a una moneta unica.
Seguendo le due impostazioni metodologiche ricordate, la geoeconomia ha il compito di studiare l'essere e il dover essere di questi fondamenti della competitività dinamica al fine di fornire suggerimenti utili per le scelte politiche in materia.
5. I fattori che determinano la crescita della produttività
L'individuazione della produttività come fattore critico di successo nella competizione internazionale fa parte da molto tempo del patrimonio di conoscenze della dottrina economica. Essa era già presente in Antonio Serra, ma ha avuto il suo battesimo illustre nei lavori di David Ricardo e nella sua teoria dei ‛costi comparati' che ha influenzato per secoli e tuttora influenza il pensiero economico. Secondo questa interpretazione, un paese raggiunge la superiorità di prodotto o di settore o di sistema quando riesce a produrre a costi minori degli altri. Ricardo non fornisce una teoria esplicativa del perché un paese abbia ‛vantaggi comparati' rispetto a un altro, ossia produca a costi minori. Altri economisti, in particolare i già ricordati Heckscher e Ohlin, hanno provveduto a fornire una esplicitazione puntuale, incentrando la loro analisi sulle dotazioni di risorse, una parte di quelle condizioni che abbiamo qui definito ‛di ambiente'. Per molti secoli queste condizioni di ambiente erano confinate alla dotazione di risorse naturali e alla disponibilità di forza lavoro. Con la rivoluzione industriale del XVIII secolo si aggiunsero, prima lentamente, poi in un crescendo vertiginoso, le invenzioni e le innovazioni tecnologiche. Nella stessa epoca cominciò a crescere anche il ruolo delle istituzioni nel garantire condizioni di libertà, nell'introdurre protezionismi e nel creare meccanismi giuridici - come la tutela dei brevetti all'interno e all'estero e la sostituzione dell'imposta sulla ricchezza con quella sul reddito - aventi lo scopo di incentivare l'iniziativa imprenditoriale. Ben presto apparve chiaro che l'assetto normativo sarebbe stato un fattore importante della divisione internazionale del lavoro.
In seguito sono emersi altri elementi di rilievo per il miglioramento delle condizioni di ambiente e lo sviluppo della produttività quali: a) la dimensione dell'impresa, utile per sfruttare le economie di scala; b) la forma proprietaria privata, che stimola l'uso efficiente delle risorse in quanto, secondo un detto popolare, ‟l'occhio del padrone ingrassa il cavallo"; c) un mercato finanziario (credito e assicurazioni) efficiente, ossia capace di anticipare le risorse necessarie all'iniziativa imprenditoriale a costi minimi e di coprire taluni rischi tramutando in costi fissi gli oneri aleatori delle imprese; d) regole del gioco favorevoli alla libera iniziativa e, soprattutto, all'innovazione; e) un settore pubblico in grado di assecondare e di stimolare l'attività reale invece di ‛spiazzarla' (effetto crowding out); f) un settore fiscale non opprimente; g) infine, e soprattutto, un sistema educativo e formativo che innalzi il valore del capitale umano a livelli coerenti con le esigenze della competizione geoeconomica.
Ciascuna di queste variabili rappresenta un campo di studio per la geoeconomia e di azione per la geopolitica. L'esame dei documenti ufficiali e le analisi della stampa specializzata indicano che i programmi di politica economica e le critiche rivolte ad essi sono ancora concentrati sull'esame di dati macroeconomici tradizionali, quali la crescita del prodotto interno lordo, dei prezzi e dell'occupazione. Ciò evidenzia che le teorie di governo della domanda globale di stampo congiunturale o keynesiano hanno origine nel pensiero politico legato alle preoccupazioni sociali piuttosto che nell'analisi dei meccanismi sottostanti alle strategie geoeconomiche. Nei documenti ufficiali, anche in quelli aventi contenuto puramente statistico, molto difficilmente si trovano informazioni e previsioni sugli andamenti delle ragioni di scambio, meno ancora sulle singole componenti sopra indicate della crescita della produttività. Solo alcune iniziative di singoli ricercatori o sporadiche informazioni dovute a organi ufficiali colmano la lacuna. Manca, quindi, un effettivo approfondimento analitico che testimoni della coscienza acquisita circa i nuovi compiti ai quali è chiamata la politica a seguito degli sviluppi in atto nel contesto globale, i quali hanno a loro volta stimolato gli studi di geoeconomia.
6. L'Italia nella competizione geoeconomica
Come si è già indicato, non esistono indagini sistematiche relativamente alle condizioni di competitività del sistema-Italia con i sistemi-paese del resto del mondo e ai fattori che propiziano la crescita della produttività secondo un'ottica geoeconomica. Disponiamo solo di informazioni parziali, raccolte sovente per finalità diverse da quelle qui analizzate. Dagli scarsi dati a disposizione risulta: che l'Italia non ha mai seguito una strategia geoeconomica ma quasi esclusivamente macroeconomica o di politica economica tradizionale; che non ha mai provveduto a tracciare un disegno organico per affrontare i problemi della competizione dinamica riguardanti l'intero sistema produttivo; che si è affidata sostanzialmente alle scelte fatte dalle grandi imprese e all'inventiva delle piccole, con modesti supporti specifici (come finanziamenti all'esportazione e alla ricerca, sussidi alla produzione e misure protezionistiche più o meno limitate e mascherate) e l'attivazione di strumenti macroeconomici tradizionali, quali manovre sulla spesa, sulle entrate e sui tassi dell'interesse e dei cambi (come si è detto, soprattutto di questi ultimi). Non sono però mancate decisioni che, pur suggerite da istanze prevalentemente ‛metaeconomiche', hanno avuto un forte impatto geoeconomico negativo, di fatto riducendo le nostre capacità di competere a livello internazionale. Tra queste, hanno avuto un peso di rilievo la rinuncia alla ricerca e alla produzione di energia nucleare e l'accettazione di una pubblica amministrazione non al passo coi tempi. In quest'ambito va ricordato anche lo scarso impegno nella ricerca scientifica e tecnologica da parte delle imprese produttive.
Per una serie di circostanze storiche e di carenze culturali, l'economia italiana è affetta da dualismi economici radicati a livello territoriale, principalmente nel Mezzogiorno, e settoriale, individuati per consuetudine nell'agricoltura e nel terziario pubblico e privato. Per dualismo non si deve intendere, come sovente accade anche a livello ufficiale, l'esistenza di divari di occupazione, di reddito pro capite e di inflazione, ma la presenza di divari di produttività, che sono all'origine degli altri tre. Il capitale investito nell'industria meridionale rende mediamente un terzo in meno che al Nord e quello investito in agricoltura e nel terziario da un sesto a un decimo.
Questa è, tuttavia, un'analisi di tipo tradizionale, che non ha permesso una diagnosi corretta e, di conseguenza, ha indotto politiche rivelatesi inefficaci a raggiungere lo scopo. I fattori distintivi del dualismo sono, invece, più propriamente individuabili nella natura protetta o non esposta alla concorrenza interna e internazionale delle aziende, dei settori produttivi o delle aree geografiche. Una ricerca condotta su questo tema (v. Savona, 1993) indica che il settore esposto alla concorrenza ha presentato a partire dagli inizi degli anni ottanta - ossia dal momento in cui l'industria italiana si è scrollata di dosso i vincoli impropri imposti da uno Stato ‛garantista' in campo economico - una crescita della produttività pari a 5 volte quella del settore protetto in via diretta (protezioni alla frontiera) o indiretta (sussidi alla produzione), e una crescita dei prezzi in linea con il resto del mondo industrializzato (essendo questo settore price taker, per la natura della competizione alla quale è esposto). Il settore non esposto alla concorrenza estera, invece, presenta un basso tasso di crescita della produttività e un'elevata capacità di creare un differenziale di inflazione con l'estero (essendo price maker, per la sua natura protetta), che porta periodicamente a una debolezza della lira sui mercati dei cambi e tiene elevati i costi nominali del danaro. Da questo stato di cose proviene un vincolo all'evolversi della politica e dell'economia dell'Italia, in quanto il settore non esposto pesa sul reddito e sull'occupazione nell'ordine di oltre due terzi del totale, condizionando con il suo peso prevalente le scelte democratiche del paese. Invece di procedere in chiave geoeconomica - ossia avendo come obiettivo l'integrazione dell'economia italiana (inclusa la componente meridionale) nel contesto globale attraverso l'accrescimento della capacità di competizione del sistema-paese - e di avviare politiche capaci di incidere sui fattori che determinano la crescita della produttività per rimuovere i divari esistenti, si è mirato a lenire con politiche compensatrici le piaghe sociali derivanti dai dualismi: si è posto cioè il divario a carico della collettività in varie forme (contributi in conto capitale, in conto interessi, in conto lavoro, in conto servizi, in conto pensione), impegnando così le risorse finanziarie disponibili che sarebbero state invece necessarie per raggiungere gli obiettivi che l'analisi geoeconomica, pur lacunosa, indicava come indispensabili per la competizione dinamica tra sistemi. Dall'uso prolungato di queste politiche sono derivati due handicaps per lo sviluppo: carenze nelle infrastrutture di base per la competizione internazionale e un ingente debito pubblico che rischia di emarginare l'Italia dall'Unione Economica e Monetaria Europea.
Vi sono tuttavia due comparti dove il nostro paese ha sempre perseguito una strategia geoeconomica retta da convincimenti politici più che da analisi specifiche, quello dell'indipendenza energetica di tipo non nucleare e quello degli accordi internazionali stipulati nell'ambito dell'area occidentale. Il primo obiettivo fu perseguito ‛con ogni mezzo' da Enrico Mattei attraverso l'AGIP (Azienda Generale Italiana Petroli), divenuta poi ENI (Ente Nazionale Idrocarburi). Rientrano nelle finalità del secondo l'adesione alla NATO (e, per questa via, agli aiuti dell'ERP, European Recovery Program); il rientro nella Società delle Nazioni (divenuta nel frattempo ONU), dopo l'esclusione in epoca fascista; l'adesione al FMI e al Trattato di Roma, costitutivo della CEE; la partecipazione al GATT e la riconferma recente nel WTO; l'accettazione dell'accordo di Rio de Janeiro, che ha creato i DSP (Diritti Speciali di Prelievo); e, più recentemente, la ratifica del Trattato di Maastricht. Sul piano strettamente finanziario vanno ricordati anche la partecipazione dell'Italia al capitale della Banca Mondiale, della BEI (Banca Europea degli Investimenti) e della BERS (Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo), creata per assistere finanziariamente la costruzione di un'economia di mercato nei paesi ex comunisti.
Il settore delle scelte internazionali ha visto la politica italiana giungere sempre puntuale alle decisioni, un po' meno al loro rispetto. Invero, i paesi influenti sul piano geoeconomico offrono all'Italia, come ad altri paesi, motivi di querelle dopo la firma dei patti, fornendo interpretazioni restrittive degli stessi che inducono la pubblica opinione a sospettare che l'obiettivo non sia l'affermarsi di condizioni di eguaglianza competitiva, ma di assoggettamento economico del paese; i patti non sono cioè considerati un modo per concorrere all'innalzamento dei livelli di vita di tutti i paesi, secondo quanto suggerisce la stessa etimologia latina del termine (cum+petere), ma come un ‛gioco a somma zero', dove c'è chi guadagna e chi perde. In breve, una forma di conflitto per ‛spartirsi la torta' e non una forma di cooperazione per ampliarla.
La strategia geoeconomica dell'Italia appare particolarmente carente nell'attivazione di strumenti per promuovere azioni competitive sui mercati internazionali o su singoli settori o per stipulare alleanze che sortiscano gli stessi effetti. Un'occasione rilevante è stata offerta dalle privatizzazioni di imprese strategiche (nel settore delle telecomunicazioni, dell'energia, della chimica, dei trasporti, della siderurgia, della produzione per la difesa) e di importanti banche e compagnie di assicurazione. Il governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi (1993-1994) propose di ancorare le privatizzazioni al raggiungimento di alleanze strategiche con imprese estere per rinsaldare la posizione dell'industria e del sistema finanziario italiani nel contesto internazionale. Di questo progetto, largamente inattuato, è rimasta traccia in un documento di Palazzo Chigi (v. Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1993). La sua più chiara applicazione si è avuta nella cessione alla General Electric del Nuovo Pignone, società posseduta dall'ENI, in contropartita dell'impegno della nuova proprietà a concentrare in Italia lo sfruttamento del brevetto delle turbine ad alto potenziale da essa messo a punto.
Nonostante le luci e le ombre indicate, la collocazione dell'Italia nella divisione internazionale del lavoro è cresciuta costantemente e ha raggiunto un livello soddisfacente: nel 1963, all'apice del ‛miracolo economico' che ha trasformato il paese da società agricola in società industriale, la quota del mercato delle esportazioni mondiali da noi posseduta era pari a 3,6 punti percentuali ed è salita fino al 5,1 nel 1990. Negli ultimi anni è risultato sempre più faticoso difendere questa quota dalla concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione, a causa del fatto che la nostra partecipazione al commercio internazionale è concentrata nei settori a elevata intensità di lavoro (tessile, meccanica leggera e prodotti agroalimentari), nonostante i nostri salari siano prossimi a quelli delle altre aree sviluppate (v. Vulpes e De Santis, 1996). Sebbene tale caratteristica non sia propizia a queste produzioni, nondimeno l'innalzamento della qualità dei prodotti, soprattutto in materia ‛di stile' (il molto rinomato made in Italy), ha finora compensato questo svantaggio. Il nostro indice di specializzazione produttiva nel settore è infatti cresciuto da 1,8 nel 1970 a 2,3 nel 1990, pur in presenza di una lieve riduzione del peso di questi prodotti nel commercio mondiale (da 16,5 a 15,2).
Nell'ambito della divisione internazionale del lavoro esiste per l'Italia una punta di eccellenza anche nella meccanica strumentale (le cosiddette macchine utensili); queste produzioni rappresentano il 5-6 per cento delle esportazioni mondiali di tale tipo. Il nostro indice di specializzazione produttiva nel settore mostra segni di debolezza, anche se il peso di questi prodotti sul totale del commercio mondiale è migliorato di 2,2 punti. Siamo invece indietro nei settori a elevata intensità di capitale e di economie di scala, pur in presenza di un lieve recupero dell'indice (mediamente da 0,7 a 0,8); questo miglioramento non ha però consentito di raggiungere posizioni di vantaggio, dato che l'indice si deve collocare a tal fine su valori superiori all'unità. L'Italia è molto indietro anche nei settori a elevato contenuto scientifico, dove abbiamo perso ulteriore terreno (l'indice si è ridotto da 0,7 a 0,6): siamo, cioè, arretrati proprio nei settori nei quali la competizione geoeconomica tra paesi industrializzati acquista maggiore forza espansiva.
Nei decenni passati le previsioni sulla collocazione dell'Italia nel contesto dei mercati mondiali sono state oggetto di ripetute valutazioni pessimistiche che non hanno, tuttavia, trovato riscontro nella realtà. Come si è detto, la specificità delle nostre esportazioni non è sostenuta da strategie geoeconomiche decise a livello pubblico, ma da caratteristiche innate del nostro modello culturale, quali la creatività, lo spirito di iniziativa dei piccoli imprenditori e la capacità di reazione delle grandi imprese al mutamento delle circostanze. Quando, per un motivo o per l'altro, queste caratteristiche positive esauriscono la loro spinta competitiva, si sfruttano le potenzialità offerte dagli strumenti tradizionali di politica economica, in particolare dal lato dei cambi, disponendo d'autorità svalutazioni della lira o subendole su iniziativa del mercato. Sfruttando l'elevata elasticità della domanda di nostre esportazioni alle variazioni del cambio, con le svalutazioni viene periodicamente ricostituita, in modo artificiale, la competitività perduta. Quella che possiamo chiamare la ‛geopolitica del cambio' rappresenta pertanto l'unico strumento dinamico di sostegno alle posizioni competitive del paese, ma comporta, come è noto, molte controindicazioni, come quella di rendere più costosi i prodotti importati indispensabili alla nostra industria manifatturiera e alla convivenza civile (come le fonti di energia), con riflessi indesiderati sull'inflazione e riflessi benefici che toccano solo i settori esportatori. Essa, inoltre, almeno in ambito europeo, non è più praticabile ai sensi delle clausole previste dal Trattato di Maastricht, che l'Italia deve rispettare essendo entrata a far parte dell'UEM fin dalla sua costituzione.
In conclusione, tenuto conto delle conoscenze finora acquisite in materia di geoeconomia, si può affermare che la politica italiana ha provveduto a costruire condizioni di ambiente favorevoli alla crescita della produttività in funzione della competizione mondiale attraverso l'adesione a tutti gli accordi internazionali che si sono succeduti nell'area occidentale e ricercando l'indipendenza energetica da fonti non nucleari. Al di là della fissazione di un quadro generale di alleanze internazionali, sia pure rafforzato dalla scelta nel settore dell'energia, il compito specifico è stato prevalentemente affidato alle forze di mercato e, quando queste si indebolivano, si è provveduto a correggerle attraverso l'attivazione di strumenti macroeconomici tradizionali, quali variazioni nella spesa pubblica e nella tassazione, il ricorso a provvedimenti amministrativi e, soprattutto, a svalutazioni della lira. La combinazione tra quadro generale e iniziativa privata ha dato ottimi frutti, collocando e mantenendo l'Italia tra le prime potenze mondiali. I processi economici in atto e gli eventi socio-politici che li hanno accompagnati riducono la fertilità del modello geopolitico seguito dall'Italia dopo la seconda guerra mondiale e suggeriscono cambiamenti di impostazione in direzione di quelli ipotizzati dai nascenti studi geoeconomici.
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