Geofinanza
Sommario: 1. Introduzione. 2. Che cos'è la geofinanza. a) La finanza e l'evoluzione nella struttura della ricchezza. b) Lo spazio. 3. Gli effetti politici della geofinanza. 4. Quale futuro ci attende. a) La struttura della morale. b) La guerra. □ Bibliografia.
1. Introduzione
‛Geofinanza' è parola composta, in cui ‛geo' sta, più che per ‛spazio', per ‛spazio virtuale', per ‛cyber-spazio'. Per questa ragione la geofinanza non rappresenta una specie appartenente al genere della geoeconomia, che a sua volta è una specie del genere della geopolitica, ma qualcosa di diverso e rivoluzionario. Qualcosa che si può cominciare a comprendere sulla base di questa prima, essenziale determinazione: la ricchezza è sempre più dematerializzata e finanziarizzata. Per questo motivo, essa circola: a) sempre meno nello spazio fisico - attraverso le antiche nervature delle ferrovie, delle autostrade, delle linee di navigazione - e b) sempre più nello spazio virtuale, nel ‛cyber-spazio', tenuto insieme da autostrade informatiche, da reti satellitari, da segnaletiche digitali. In questi termini, realtà e virtualità si identificano: la realtà diventa virtuale, la virtualità diventa reale. La ricchezza, dematerializzata e finanziarizzata, ha sempre più la forma di un segno informatico, mentre le informazioni su di essa si trasformano a loro volta in ricchezza. Nel nuovo circuito della ricchezza, l'informazione cessa infatti di essere un oggetto di conoscenza e diventa essa stessa la forma più importante della ricchezza. Dematerializzazione e finanziarizzazione, virtualità e globalità, combinandosi, attivano un processo politico rivoluzionario.
Ciò che in particolar modo impressiona è la struttura di questo processo. Una struttura che, per la prima volta nella storia, è virtuale. La ricchezza e la povertà non si muovono più solo materialmente: hanno cominciato a muoversi virtualmente, attraverso immagini e segni. E il nuovo ‛motore', il ‛motore virtuale', è di gran lunga più potente di quello meccanico: capace di muovere su vasta scala, a velocità crescente e senza limiti, masse enormi di povertà e ricchezza. Tale processo avviene nei termini che seguono.
1) La povertà del mondo circola fisicamente nelle nostre strade, ma entra anche nelle nostre case, attraverso le immagini televisive. Per converso, sono le immagini della ricchezza occidentale trasmesse dalla televisione che, come un miraggio, lentamente attivano e attirano dal Sud verso il Nord il movimento della povertà.
2) I salari occidentali entrano in concorrenza con quelli orientali, senza che i salariati orientali debbano immigrare e venire a lavorare nelle nostre fabbriche. Non occorre che gli operai si muovano. A muoversi ci pensano infatti i capitali occidentali, che direttamente o indirettamente finanziano le fabbriche orientali. In specie, la convenienza a investire capitali dove la manodopera costa pochissimo fa scattare, su scala mondiale, la concorrenza salariale. È in questo modo che la povertà entra nella busta paga dei salariati occidentali. Ci entra in modo virtuale: attraverso l'applicazione del ‛parametro concorrenziale', che livella automaticamente i salari occidentali su quelli orientali.
3) I capitali, smaterializzati al punto da assumere la sola consistenza di impulsi magnetici, si muovono e si moltiplicano, in forma virtuale e parossistica, all'interno di una rete planetaria di computers. Una rete in cui ogni giorno (overnight) più di tre milioni di milioni di dollari sono negoziati, tra Londra e Tokyo, New York e Singapore.
È importante notare che circuiti di questo tipo funzionano su scala mondiale solo perché sono ‛virtuali'. E per questo trasportano, insieme con la ricchezza finanziaria, le prime macerie degli Stati nazionali. Il circuito virtuale è ormai così sviluppato che, per influire sulla finanza di uno Stato nazionale, non è neppure necessario investire direttamente nella sua moneta, nei suoi titoli o, più in generale, nei suoi assets finanziari. È sufficiente operare sui futures: scommettere cioè sulle sue finanze, considerandole come puri parametri speculativi. Come ha osservato il Governatore della Banca d'Italia, nella sua Relazione del 31 maggio 1996: ‟I depositi transnazionali attualmente ammontano a 8.000 miliardi di dollari, più del prodotto lordo degli Stati Uniti, una volta e mezzo il valore delle esportazioni mondiali di merci. La dinamica è fuori dal controllo diretto delle banche centrali; la loro velocità di circolazione viene esaltata dai prodotti derivati".
Una nuova coppia di fattori sta dunque modificando la geopolitica del mondo: la combinazione virtualità-mondialità, che rende i capitali sempre più apolidi e irresponsabili. È così che l'‛acido finanziario' erode le basi di potere degli Stati nazionali: le leggi finanziarie sono sempre più dettate dalla sovranità dei mercati, sempre meno dai parlamenti nazionali. Le direttrici e le forme del movimento sono diverse, ma l'effetto complessivo è lo stesso: l'Occidente esporta ricchezza e importa povertà. Le ragioni di scambio originariamente proprie del colonialismo sono, in questi termini, sovvertite. Come contropartita della sua proiezione sui mercati esteri, l'Occidente non stacca più il ‛dividendo' coloniale, non fruisce più dell'impressionante flusso di ricchezza fisica che ha reso opulente vaste regioni del Nord. Al contrario, l'Occidente ha cominciato a operare e congiuntamente a subire una specie di gigantesco ‛auto-takeover'. L'immigrazione dei poveri, combinata con l'allungamento della vita (invecchiamento) delle popolazioni occidentali, e la migrazione ‛mondiale' dei capitali attivano, infatti, un processo di ‛concorrenza verso il basso' che erode progressivamente la ricchezza dell'Occidente. In particolare, all'egoismo attivo, tipico del colonialismo, si sta ormai sostituendo una specie di altruismo passivo: colonialismo storico e autocolonizzazione attuale sono contraddistinti dallo stesso darwinismo economico. Opposto, e soprattutto regressivo per l'Occidente, è invece l'effetto.
Questo articolo - nelle sue tre partizioni (cosa è la geofinanza, quali sono gli effetti politici della geofinanza, quale futuro ci attende) - analizza nella sua meccanica causa-effetto il processo che è stato appena delineato: un processo - occorre ribadirlo - chiaramente sovversivo dell'ordine convenzionale dei valori politici, giuridici e morali. Con un caveat essenziale: la geofinanza è una forma di sapere non ancora strutturata. Geofinanza, ma anche geoeconomia e geopolitica, sono piuttosto formule empiriche, che designano processi in corso. Su questo tipo di processi, l'unica forma di sapere praticabile è l'ignoranza scientifica, il socratico ‛sapere di non sapere': avere come unica base alcuni dati empirici; formulare, su questa base, alcune ipotesi razionali. Nei termini che seguono.
2. Che cos'è la geofinanza
Per definire cosa è la geofinanza, conviene partire dalla componente ‛finanza', per poi passare, da questa, alla componente ‛geo'.
a) La finanza e l'evoluzione nella struttura della ricchezza
Da millenni l'umanità maneggia denaro, e perciò fa finanza. Ma il tipo di finanza che fa la geofinanza è molto recente. È lo sviluppo di quel ‟freddo pagamento in contanti" che, secondo Marx, ha ‟lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali" su cui si reggeva il mondo, prima della rivoluzione industriale. All'origine, le ideologie e le prassi economiche, le dottrine e le norme giuridiche, hanno cercato di bloccare lo sviluppo autonomo della finanza. Ciò che si voleva era infatti una funzione ‛limitata' e ‛strumentale' della finanza: essa era ammessa, ma solo come accessorio dell'industria, e perciò si bloccava la finanza sull'economia, in rapporto 1/1: una merce, un mezzo di pagamento. A fronte di ogni transazione reale ci doveva o poteva essere, al massimo, una sola transazione finanziaria, strettamente strumentale e direttamente corrispondente alla transazione reale sottostante. Al massimo, si tolleravano alcuni primitivi ‛derivati' finanziari, costituiti dalla ‛cambiale' o dalla ‛polizza', entrambe utili per le relative operazioni di sconto o di assicurazione.
L'idea del limite alla finanza era un'idea negativa semplice: si temeva la finanza, perché le si attribuiva il potere di destabilizzare il sistema economico. Per decenni, la finanza fu infatti vista come fonte di speculazioni pericolose perché fini a se stesse, di guadagni ingiustificati, di poteri abnormi e prevaricanti.
L'effetto di blocco (di blocco della finanza sull'industria) cominciò a cedere solo con la crescente diffusione dei beni cosiddetti di ‛secondo grado'. In specie, con la diffusione delle ‛azioni', idealmente rappresentative di frazioni della proprietà di beni produttivi, e delle ‛obbligazioni', idealmente rappresentative di frazioni di prestiti finanziari. Dapprima si sviluppò il mercato delle azioni e delle obbligazioni, poi, a cascata, venne tutto il resto. A partire dal Novecento, lo sviluppo economico è stato caratterizzato da una continua e progressiva evoluzione finanziaria: in principio, il passaggio è stato dal denaro alla finanza; da ultimo, dalla finanza alla finanziarizzazione progressiva della ricchezza. Un processo incessante, che è andato dall'idealismo finanziario al progresso tecnico, dalla diffusione tra le masse della convenzione mentale per cui universalmente e sistematicamente si intende che un segno immateriale può avere un valore economico ‛proprio', fino alla scoperta dei mezzi tecnici per diffondere, su scala sempre più vasta, i segni attraverso segnali digitali istantanei. Nel complesso, il movimento è stato duplice: da un lato, la finanza ha causato, sostenuto, spinto il progresso (finanziandolo con masse crescenti di capitale); dall'altro lato, ne è stata a sua volta strutturalmente influenzata, perché il progresso ha, a sua volta, causato la progressiva finanziarizzazione e dematerializzazione della ricchezza.
Dematerializzazione e finanziarizzazione della ricchezza si sono dunque configurate come le due facce di una stessa medaglia. Più analiticamente, tale processo si è evoluto nei termini seguenti.
All'origine, la produzione industriale era fisicamente concentrata intorno alla grande macchina a vapore, intorno alla ciminiera. Nell'opificio industriale classico tutto era infatti in-sourcing, tutta la filiera industriale era inizialmente servita da fattori produttivi interni: dalla catena di montaggio all'imballaggio, dal trasporto alla rete di vendita, dalla mensa all'infermeria per la manodopera. In questo contesto, le transazioni a contenuto finanziario erano rigorosamente limitate: sia ‛a monte', dove si collocava l'attività di raccolta dei mezzi finanziari, tanto di rischio (rappresentati essenzialmente da titoli azionari) quanto di prestito (rappresentati essenzialmente da titoli obbligazionari); sia ‛nel mezzo', dove si collocava l'operatività aziendale (pagamento delle forniture e dei salari); sia, infine, ‛a valle', dove si collocava il punto di contatto con la clientela (incasso del venduto).
Ora non è più così. La vecchia filiera si è rotta. La struttura è ‛esplosa'. Un esempio, tra i tanti possibili: le macchine possono essere - e di fatto sono spesso - acquisite in regime di locazione finanziaria (leasing). Secondo questa formula finanziaria, proprietà e operatività della macchina si scindono: la proprietà resta dei soggetti finanziari terzi, mentre il suo utilizzo è attribuito all'imprenditore. Tra i due soggetti - finanziatore e produttore - il collegamento è solo ed essenzialmente di tipo finanziario: il canone di leasing. Inoltre, la produzione tende a essere ‛esternalizzata', articolata in termini out-sourcing: cioè, i soggetti che producono, imballano, trasportano, forniscono il supporto per l'elaborazione elettronica delle informazioni (EDP, Electronic Data Processing), fanno la pubblicità, costituiscono la rete di vendita dei prodotti, ecc., non sono più necessariamente interni alla e/o dipendenti dall'impresa. Sono piuttosto produttori terzi indipendenti. Infine, la fatturazione del venduto (ma lo stesso è a monte, per l'acquisto dei beni e servizi necessari per la produzione) non solo è oggetto di operazioni di sconto ma, in caso di esportazione, viene assicurata contro i rischi di cambio.
Questo, per esempio, rappresenta un punto essenziale nell'economia del processo di finanziarizzazione. Ed è perciò utile analizzarlo specificatamente, per avere un'idea di come vadano effettivamente le cose. Tra la data di vendita (o di acquisto) di un bene (o di un servizio) e la data di incasso del relativo prezzo passa (normalmente, fisiologicamente) un certo tempo. È per questo che le due monete (money of contract e money of payment) non coincidono necessariamente. In specie, lo scostamento tra le due date (di fatturazione e di pagamento) non produce solo un effetto ‛finanziario' (prendere dopo vuole infatti dire prendere meno), ma anche, e soprattutto, un effetto ‛monetario'. Può infatti accadere - e normalmente accade - che il cambio della moneta di fatturazione si modifichi, in più o in meno, nel tempo che intercorre tra l'emissione e l'incasso della fattura, producendo in tal modo arricchimenti o impoverimenti che non dipendono dall'attività industriale dell'impresa, ma da effetti monetari esterni, ossia dal corso dei cambi delle monete. L'impresa può accettare questi rischi esterni; ma può anche rifiutarli, come in realtà normalmente accade. E ciò attiva i cosiddetti processi di assicurazione, contro il rischio di cambio. Tali processi richiedono l'intervento di un intermediario, capace di combinare la domanda di chi ha interesse a comprare e l'offerta di chi ha interesse a vendere, a una certa data e a un certo cambio, una certa quantità di moneta. È così che gli interessi opposti di una parte che vende moneta e di una parte che la compra vengono tra di loro ‛compensati' (matching) e che, di conseguenza, i rispettivi rischi di cambio vengono eliminati. Se il mercato è efficiente, domanda e offerta si incontrano, producendo un servizio di assicurazione che, eliminando i rischi di cambio, rende più sicure (e dunque stimola) le attività di import-export.
Congiuntamente, come si è anticipato, si è trasformata anche la funzione dei diritti industriali. Questi un tempo erano solo un mezzo ‛giuridico', utilizzato per proteggere la produzione fisica, che veniva realizzata negli opifici industriali. Ora non è più (solo) così: i diritti industriali sono divenuti un mezzo di produzione essi stessi; in particolare, brevetti, know-how, ecc., sono iscritti nell'attivo della società-madre, che li concede in uso a produttori terzi, presso i quali, in aree del mondo ‛remote', dove la manodopera è a basso costo, viene o verrà principalmente realizzata la produzione fisica dei beni industriali, contro il pagamento di un flusso finanziario di royalties. Tutto questo insieme di fenomeni ha evidentemente causato, e causa, la continua moltiplicazione delle transazioni finanziarie. È in questi termini che si è rotto l'antico blocco 1 a 1: ormai, per una transazione ‛reale', si contano almeno dieci transazioni ‛finanziarie', preparatorie o complementari o successive.
Spostando l'analisi dalla ‛struttura' della produzione all'‛ambiente' in cui le modifiche sono avvenute, va infine notato che, soprattutto a partire dagli anni settanta, i fattori-chiave della progressiva finanziarizzazione dell'economia sono stati, in estrema sintesi, i seguenti: a) crollo del regime di cambi fissi, con conseguente aumento delle possibilità di arbitraggio tra domanda e offerta di cambi; b) crescita dei tassi di inflazione e, di riflesso, dei flussi migratori di valute, da un'economia all'altra, con conseguente ulteriore aumento delle possibilità di arbitraggio tra domanda e offerta di cambi; c) incremento esponenziale del commercio internazionale, come effetto dello sviluppo progressivo delle economie e dell'incremento della velocità di circolazione delle valute; d) incremento della massa di capitali ‛apolidi', a partire dai cosiddetti petrodollari ed eurodollari (possibilità di acquisire o vendere dollari contro marchi, e viceversa, per esempio a Londra, senza coinvolgere sterline), che di questi fenomeni hanno costituito la manifestazione iniziale; e) crollo del dominio comunista nei paesi dell'Est europeo, con conseguente apertura di nuove aree di commercio e di investimento e liberazione dai vincoli militari di enormi risorse economiche; f) innovazione finanziaria: il denaro cessa di essere il mezzo per regolare una transazione avente a oggetto beni e diventa esso stesso una commodity; il contratto cessa di essere il mezzo per formalizzare giuridicamente una transazione su beni e diventa esso stesso bene negoziabile (come prodotto finanziario). Va infine aggiunto, per completezza, che tutti questi processi hanno riguardato tanto i flussi cosiddetti diretti (movimenti di valuta a breve termine), quanto i flussi cosiddetti indiretti (azioni e obbligazioni come strumenti di finanziamento stabile di investimenti industriali).
Riassumendo si può notare che, sia pure in modo discontinuo, il cambiamento è avanzato e avanza su due fronti principali. Il primo è rappresentato dal ‛fronte della ricchezza', con la sua relativa e progressiva dematerializzazione. Nel processo che ha portato dalla res alle new properties, va in particolare registrato il passaggio dalla vecchia ricchezza, fisica e materiale, a nuove sofisticate forme di ricchezza immateriale. Il modello economico dominante non è più quello ‛reale', essenzialmente riferito alla produzione e al consumo di beni materiali. La ricchezza non si dirada più ai margini del mondo reale: qui piuttosto si trasforma e riappare in forme diverse. Lo sviluppo economico non è più associato all'incremento del consumo di materie prime. Dal know-how alle griffes, dai networks alla dematerializzazione dei titoli di credito, dal software all'oggetto del franchising: si assiste all'apparire incessante di nuovi beni immateriali e alla rarefazione o alla caduta di valore di alcuni beni materiali convenzionali, in un processo che riguarda da vicino anche l'integrazione del mercato interno. Tale processo dipende sostanzialmente da tre fattori: 1) il primo è rappresentato dall'internazionalizzazione crescente dei rapporti e delle ragioni di scambio; in Europa, la caduta delle barriere interne ha avuto ed ha effetti, più che sulla produzione, sulla distribuzione dei prodotti, e farà perciò crescere il valore dei servizi capaci di mobilizzare i beni su mercati destinati a integrarsi; 2) il secondo fattore è poi consistito nella finanziarizzazione dell'economia; mentre per secoli gli scambi sono stati operati rasente il suolo e il deficit di finanza è stato un limite dello sviluppo economico, adesso si verifica la situazione opposta, per cui per ogni transazione reale se ne contano almeno dieci finanziarie; la finanza ha pervaso l'economia trasmettendole sollecitazioni continue; 3) un terzo fattore è stato, infine, il passaggio da una ‛società dei patrimoni' a una ‛società delle conoscenze': in un mondo dominato da complessità crescenti, non conta tanto quello che si ha, quanto quello che si sa, che costituisce un mezzo per incrementare la propria ricchezza. Il valore delle informazioni è del resto enormemente amplificato dalla possibilità di trasmettere dati in termini economicamente utili: dai portafogli di clienti potenziali alle serie statistiche, ai dati di mercato istantanei, molte informazioni non circolano perché hanno valore, ma hanno valore perché circolano. Questi fattori agiscono fortemente sulla struttura e sulla composizione della ricchezza. La proprietà non sarà più, come nei secoli scorsi, la forma principale di godimento e di sfruttamento della ricchezza: centralità crescente sarà assunta, per esempio, dal diritto di concessione, come si è già verificato nel rapporto tra Stati Uniti ed Europa, e come accadrà in futuro in quello tra Europa e paesi dell'Estremo Oriente e meridionali. È dunque per una sorta di diabolico incantesimo che il valore continua a mutare, trasferendosi dall'oro alla carta, dai beni materiali a quelli immateriali, modificando in tal modo radicalmente e continuamente la struttura della ricchezza.
Il secondo fronte sul quale avanza il cambiamento è rappresentato dal ‛fronte del territorio', con la dissociazione progressiva tra Stato e mercato. Non vale più la formula ‛uno Stato-un suo mercato', ma quella ‛tanti Stati-un solo mercato'. Per la prima volta nella storia moderna, infatti, i confini del mercato si spingono ben oltre quelli nazionali, infrangendo, tra l'altro, anche la regola storica ‛uno Stato-un'imposta'. Gli Stati stanno infatti perdendo il più antico ed esclusivo dei loro monopoli, il monopolio fiscale. Non è più lo Stato a scegliere come tassare la ricchezza, ma è questa a scegliere dove essere tassata. Mentre le strutture statali restano ‛domestiche', la ricchezza ne fuoriesce, seguendo una sua artificial reason, per entrare in aree di progressiva apolidia. Un nuovo from status to contract, basato sull'ormai universale freedom of contract, decreta il trionfo del diritto contrattuale e, con esso, la crisi del potere fiscale degli Stati-nazione, potere che è, per definizione, legale e non contrattuale, statale e non privatistico, hegeliano e non kantiano. Ciò ha alterato profondamente, tra l'altro, anche i meccanismi di rappresentanza politica, a partire dal principio ‟no taxation without representation".
In sintesi, soprattutto a partire dall'ultimo ventennio, la finanza ha progressivamente allentato il suo collegamento originario con i fondamenti economici e politici sottostanti. Ormai, la finanza non serve più solo per mobilitare commodities: è diventata essa stessa una commodity, sempre più libera da vincoli territoriali. Ed è proprio da questo punto di vista che si deve guardare lo spazio.
b) Lo spazio
Lo spazio ha sempre avuto una essenziale funzione geoeconomica. All'origine del mondo moderno, il sistema delle reti e delle vie di scambio seguiva ‛fisicamente' il territorio, formandosi in funzione dei valichi, delle pianure, dei canali, delle rotte. Il prodotto politico era costituito dalle cosiddette economie-mondo, sistemi di campagne, di città, di mercati che, in senso braudeliano, si configuravano come ‟frammenti dell'universo, un pezzo della Terra economicamente autonomo, in grado di essere autosufficiente nei suoi aspetti essenziali e al quale i collegamenti e gli scambi interni conferiscono una certa unità organica".
Poi, progressivamente, il territorio ha cominciato a caricarsi di energia, a trasformarsi in un campo di forza. Ciò è stato quando il vapore e il ferro, canalizzati su linee di terra o su rotte di mare, hanno cominciato a essere usati come mezzi di spostamento, su scala di massa, di persone e di cose. È così che le nuove forze meccaniche hanno cominciato a vincere i residui vincoli del localismo feudale. I motori hanno conferito alle classi che li controllavano quote esponenzialmente crescenti di potere politico, esteso su territori sempre più unificati dalle ‛moderne' strutture di traffico.
Come nelle vecchie economie-mondo, sul territorio hanno comunque seguitato a formarsi aree di sviluppo omogeneo. Aree che restavano concentrate fisicamente sul territorio, e perciò relativamente statiche. Ad esempio, la Ruhr nell'età dell'acciaio; o l'Italia, tra Ottocento e Novecento, paradigma di Stato-nazione chiuso in un sistema prevalentemente agrario.
Certo, non tutto è stato ‛domestico'. Sul territorio, così attrezzato e strutturato, si sono sviluppati anche processi di estensione e competizione ‛imperiale'. Ad esempio, con la progressiva sovrapposizione dell'impero commerciale americano su quello britannico. Ma senza effetti rivoluzionari, con mezzi nuovi: è stata comunque la ripetizione di logiche vecchie.
Poi il tradizionale equilibrio si è rotto. Il superamento rivoluzionario delle strutture geoeconomiche convenzionali non si è manifestato in termini ‛quantitativi', ma in termini ‛qualitativi'. In particolare, è stata innovativa, ma non rivoluzionaria, l'invenzione dei mezzi di trasporto su gomma o per aria. È stato invece rivoluzionario il successivo passaggio informatico: quando il maggiore valore economico non è stato più prodotto dallo spostamento sul territorio di persone e cose, ma dallo spostamento di ‛segni' rappresentativi di nuove forme di ricchezza immateriale.
È specificamente in questi termini che ha fatto il suo ingresso rivoluzionario la geofinanza, come nuova chiave della ricchezza che ha alterato, insieme, le ‛vecchie' strutture economiche e le ‛vecchie' strutture politiche. È in questi termini che la geofinanza sta alla geoeconomia, come lo Stato postmoderno sta allo Stato moderno.
Con un ultimo caveat. La geofinanza non segna radicalmente la fine della geografia, intesa come azzeramento della rilevanza dello spazio. La globalizzazione della ricchezza (finanziarizzata, dematerializzata) depotenzia infatti in modo considerevole il ruolo del territorio, ma non ne produce la radicale cancellazione. Anzi, non solo il territorio conserva un ruolo essenziale per le attività economiche convenzionali (dall'agricoltura alla produzione ‛fisica' dei prodotti di base), ma conserva un ruolo, sia pure marginale, anche per la geofinanza, perché ogni piazza finanziaria (Wall Street, la City, Singapore, Tokyo, Hong Kong) presuppone comunque una propria base logistica territoriale: aeroporti, uffici, alberghi, residenze, intrattenimenti. È in questi termini che il territorio conserva dunque un suo (pur se marginale) ruolo, anche nell'economia della geofinanza.
Ciò premesso, si può passare a formulare una più approfondita valutazione politica della geofinanza.
3. Gli effetti politici della geofinanza
Nel momento presente, le molte bandiere nazionali sono state non tanto ammainate, quanto concentrate in arcipelaghi di città-Stato e di Stati-regioni. In estrema sintesi, le principali concentrazioni sono quelle di UE (Unione Europea), NAFTA (USA, Canada, Messico), MERCOSUR (Brasile, Argentina, Paraguay, Uruguay), ASEAN (Nazioni dell'Asia del Sud-Est). Si tratta di aree geografiche tendenzialmente omogenee (anche se spesso sono costituite da isole di ricchezza in mari di povertà), solo in parte simili alle antiche economie-mondo (ad esempio, a ciò che era il Mediterraneo alla metà di questo millennio).
L'analisi politica di questa realtà può essere sintetizzata come segue. Lo Stato nazionale moderno, seguito dal corteo dei suoi Idealtypen politici, si è formato e fermato prima dell'invenzione dell'automobile, ovvero ha totalmente ignorato gli effetti politici che si sprigionano dal motore a scoppio. Dato che in questo caso l'automobile è da intendersi solo come metafora secolare della celeritas, della mobilità, si può aggiungere: lo Stato nazionale moderno, seguito dal corteo dei suoi Idealtypen, si è formato e fermato prima dell'invenzione del televisore e del computer, delle macchine, cioè, capaci di trasformare masse di idee in idee di massa, informazioni in valori, quindi di far progredire vertiginosamente, nella scala delle grandezze economicamente rilevanti, l'immateriale rispetto al materiale. Prima che entrassero in funzione relais planetari capaci di trasformare e trasmettere, da una parte all'altra del globo, flussi enormi di ricchezza.
La forza politica della televisione: si ricorderà del resto, ancora prima della televisione, l'intuizione di Ortega y Gasset, sul contadino che passa dall'idea astratta all'immagine stampata, subendo così un processo di ‛americanizzazione'! La forza politica del computer: si osservino le ideologie, i pregiudizi e le scelte fatte, durante l'estate del 1992, dai governatori delle banche centrali dei paesi europei con valute deboli; il loro comportamento ricorda quello dei generali francesi che, nell'estate del 1940, presidiavano i reticolati nazionali e confidavano sui trattati internazionali, ma non avevano capito la forza dirompente del motore a scoppio. Lo stesso si potrebbe dire del computer, variante ‛politica' del motore a scoppio, che muove continuamente un flusso di ricchezza apolide pari - come si è già notato - a qualcosa come tre milioni di milioni di dollari al giorno, negoziati overnight da Londra a Tokyo, da New York a Singapore. A fronte di tali cifre, le riserve valutarie delle banche centrali hanno consistenza quasi simbolica, segno e misura, questo, della perduta sovranità monetaria degli Stati (e perciò della loro ridotta sovranità politica).
Ancora: dal 1983 al 1990 gli investimenti di capitale all'estero sono cresciuti quattro volte più velocemente della produzione mondiale e tre volte più del commercio mondiale. Ciò significa che le valute hanno cessato di essere un mezzo per acquistare beni e servizi; sono divenute esse stesse una merce, una commodity, oggetto possibile di autonome transazioni. Si sono dunque finalmente avverate le profezie di Goethe (‟I biglietti alati volano più in alto di quel che la fantasia umana può immaginare [...] la fantasia, nel suo più alto volo, si affatica solamente e non quanto basti") e di Marx (‟All'antico isolamento nazionale subentrerà uno scambio universale, una interdipendenza universale"): Goethe e Marx avevano intuito il risultato finale, anche se non conoscevano il mezzo. Motori a scoppio, televisori e computers spingono e sprigionano effetti rivoluzionari, capaci di sovvertire strutture e sovrastrutture politiche ed economiche finora considerate inattaccabili: le riducono a forme senza sostanza, ad astrazioni che si concretizzano unicamente in nomi. E il fatto che ancora non sembri così, non vuol dire che non sia già così. Motori a scoppio, televisori e computers erodono la base dello Stato nazionale moderno, perché, torniamo a ribadire, questo è stato pensato e modellato su basi statiche, in assenza di mobilità.
L'economia erode lo Stato perché gli sottrae il territorio. In particolare, la mobilità della ricchezza erode lo Stato perché attribuisce al territorio un'autonoma funzione economica e politica. È la rete dei servizi, la mobilità delle persone e delle merci, la forza rivoluzionaria che ha spezzato la catena Stato-territorio-ricchezza, che ha rivoluzionato la geografia politica, che sta riducendo gli Stati nazionali a quella che nell'Ottocento si chiamava une notion géographique. Come ha notato nel suo discorso di insediamento il presidente degli Stati Uniti Clinton, ‟è possibile che la nazione più potente del mondo abbia così perso una misura significativa della sua sovranità".
La geografia politica è stata, finora, prevalentemente agraria, nel senso latino di ager: l'orizzonte politico si è finora formato e fermato soprattutto sui confini nazionali degli Stati, visti come estensione piana, su più vasta scala, dei confini dei campi. Ma non è più così. La rottura della catena politica fondamentale, la catena Stato-territorio-ricchezza, e la conseguente fine della geografia agraria, comportano infatti il principio della fine degli Stati e delle politiche sviluppate in loro favore.
La fine degli Stati: non basta più agli Stati controllare il loro territorio con mezzi fisici (le dogane) o con mezzi giuridici (gli sbarramenti valutari) per controllare la ricchezza che, un tempo, trovava il suo naturale baricentro sul territorio, essendo prima ricchezza agraria, poi ricchezza industriale, ma comunque concentrata intorno alle grandi macchine a vapore o alle grandi ciminiere industriali. Ora non è più così perché è cambiato il rapporto tra Stato, territorio e ricchezza.
La prima intuizione ‛moderna' sul ruolo politico fondamentale esercitato dalla configurazione del territorio si trova in Tocqueville: ‟Situata in mezzo a un immenso continente, in cui l'attività umana può estendersi illimitatamente, l'Unione è isolata dal mondo quasi come se fosse circondata da ogni parte dall'oceano". Nel caso americano, è la struttura geografica che agisce e influisce sulla struttura politica: è il territorio (illimitato) che ha consentito la scelta della forma politica (ottima), costituita dallo Stato federale. Evidentemente, gli Stati Uniti costituiscono un'eccezione dal punto di vista storico. Di norma, il potere degli Stati si è sempre basato sul controllo di una frazione limitata di territorio: è in questa e da questa che lo Stato nazionale moderno ha espresso e derivato la sua forza. Ora, però, l'antico assetto geopolitico, durato secoli, si è disgregato: il territorio è diventato, per tutti gli Stati, al contempo illimitato e incontrollato. La visione statica dell'economia fondata sull'agricoltura e sulle vecchie produzioni industriali è stata, infatti, sostituita da una dinamica fondata sui consumi e caratterizzata dalla dissoluzione dell'unità industriale di base: la fabbrica. Nel nuovo ambiente economico, il controllo di un territorio limitato ha perso significatività, acquisita invece dal territorio del mondo, non controllato da nessuno Stato. La sovranità politica territoriale annega nella nuova dimensione economica. Da tradizionale punto di forza, il territorio diviene ora un punto di debolezza.
In particolare, le dimensioni dello Stato moderno risultano essere troppo piccole rispetto a fenomeni che si svolgono su scala mondiale, e troppo grandi rispetto a esigenze di governo locale. Lo Stato moderno, soprattutto nella sua forma classica di Stato nazionale, è quindi divenuto insufficiente, insieme per eccesso e per difetto. Determinante in tale evoluzione è stato il cambiamento del contesto geoeconomico, ovvero del rapporto tra ricchezza e territorio.
Nella vecchia Europa le frontiere sono cadute, ufficialmente e in modo teatrale, all'alba del 1° gennaio 1993. La caduta delle barriere doganali europee e, di conseguenza, la possibilità di passare le Alpi o i Pirenei, il Reno o la Manica senza subire controlli fiscali costituiscono un evento storico. Simboleggiano la fine della geografia economica e politica di questo millennio e il principio di una nuova geografia. Bisogna infatti risalire grosso modo al termine dell'epoca medievale per trovare un simile grado di libertà o di possibile anarchia e sregolatezza. Successivamente, gli Stati moderni hanno gradualmente cominciato a consolidare, insieme con il controllo del loro territorio, la loro struttura politica. Ora, invece, con la caduta delle barriere doganali assistiamo al fenomeno contrario: all'inizio del ridimensionamento degli Stati nazionali.
La caduta della sovranità degli Stati è ‛governata' da tre leggi essenziali: lex mercatoria, lex fisci, lex pauperum. La lex mercatoria è la legge che, nella repubblica internazionale del denaro, governa i movimenti del capitale apolide e irresponsabile. La lex fisci marca la caduta della sovranità monetaria e fiscale: le valute nazionali sono poco più che argent de poche e non è più, come già detto, lo Stato a scegliere come tassare la ricchezza, ma essa a scegliere dove essere tassata. La lex pauperum marca la crisi delle socialdemocrazie di massa, che storicamente presuppongono l'incremento e non la riduzione del potere economico degli Stati. Come diceva Marx, ci si può fermare qui, se si è reazionari, se si è egoisti. L'egoismo, infatti, si trova bene ovunque. Ma se si è progressisti, se si crede nel progresso come metafora del cambiamento e della sperimentazione - cultura, questa, specifica dell'Occidente - allora non ci possiamo fermare qui. La fine della geografia non significa la fine della politica. Semplicemente perché la geografia non finisce, cambia.
La pittoresca espressione ‟European banana" è un modo per indicare, all'incirca, l'antica Lotaringia, il grande asse della ricchezza, della produzione industriale e del traffico commerciale che va dalla grande Londra a Rotterdam-Amsterdam, comprende l'Ile-de-France e la Ruhr, scende da Stoccarda a Monaco allargandosi ancora verso Lione e Grenoble, arrivando infine alla pianura padana. Niente meglio della European banana rappresenta la catena spezzata, la fuoriuscita di ricchezza dalla forma-Stato con i conseguenti dirompenti effetti politici. La nuova Lotaringia non è infatti (ancora) un modello politico, è (per ora) solo un contenitore, un magazzino storico di modelli politici pronti per l'uso.
La European banana passa attraverso gli antichi Stati-nazione. Dentro di essa si stanno riformando le antiche città-Stato. È il modello ‛anseatico', che offre una parziale spiegazione del fenomeno che stiamo esaminando. Sopra di essa si aggrega poi la Comunità Europea, la cui struttura politica rimanda al Sacro Romano Impero; infatti, essa non è più fondata sullo Stato nazionale vecchio stile, ma è piuttosto flessibile centro ispiratore di politiche sovranazionali. Formula politica, questa, che è a un tempo modernissima e antichissima.
Se ne può trarre una prima conclusione: lo Stato nazionale è ancora un modello di organizzazione politica, ma non è più il modello par excellence. Il modello dello Stato-nazione è destinato a un progressivo impoverimento; nuovi modelli alternativi si stanno consolidando sopra e sotto di esso. Si può aggiungere un corollario: nessuno di questi è, e sarà, uguale allo Stato nazionale moderno, che per suo conto non sarà più uguale a se stesso, conforme al suo stereotipo. Conseguentemente, non si deve ripetere l'errore storico di pensare alle autonomie locali o alla Comunità Europea in base al pregiudizio, allo stereotipo dello Stato nazionale. Il problema, infatti, non consiste solo nel ridurre o estendere questa forma politica, come se si trattasse di pantografare, ora in piccolo ora in grande, l'unico modello possibile, il modello dello Stato nazionale moderno. Autonomie locali e Comunità Europea sono in realtà da pensare come enti diversi, ciascuno con una propria forma, con un proprio spirito, con una propria variabile geometria politica. L'intero asse politico è infatti in movimento. Ed è essenziale che si muova lungo una linea di civiltà politica. Braudel, per esempio, definiva le città-Stato - una delle alternative possibili allo Stato nazionale moderno - come ‟égoïstes, vigilantes, féroces". Non è questo l'obiettivo. È proprio dall'egoismo che ci si deve infatti guardare: la frantumazione dello Stato nazionale moderno non deve portare con sé la frantumazione dei rapporti sociali.
Già l'industrializzazione aveva cominciato con il frantumare i rapporti sociali. Come notava Marx, l'industrializzazione ‟non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo ‛pagamento in contanti'". La risposta alla frantumazione dei rapporti sociali è poi venuta proprio a opera degli Stati nazionali moderni. È stata dapprima una risposta tragica - la nazionalizzazione delle masse - poi più razionale, concretizzatasi nelle politiche sociali iniziate dalle socialdemocrazie occidentali con il Welfare State. Come si è già notato, le politiche sociali classiche presuppongono però uno Stato economicamente sempre più forte: se non il monopolio, esse presuppongono il dominio statale sull'economia. Un dominio che non esiste più, un monopolio che non può essere più esercitato. La mobilità della ricchezza porta infatti con sé la frantumazione della società: le vecchie leggi della solidarietà sociale sono abrogate dalla nuova rozza lex pauperum. Se si è egoisti - torniamo a ribadire - tutto ciò va bene: è accettabile, come lo è un'influenza minima del governo sull'economia. Questo è un risultato, del resto, cui conduce anche la dottrina dei reazionari di sinistra. Un valido modo per regredire nello Stato minimo è, infatti, proprio quello di credere che lo Stato sia ancora fortissimo. Certo, non si può impedire alla sinistra finanziaria di adottare un'ideologia suicida di questo tipo, perché essa è fondamentalmente statalista. In alternativa a questo modello di pensiero ‛nichilista', ci si deve invece sforzare per impedire, in ogni modo, la vanificazione degli antichi ideali di solidarietà sociale.
La fine della geografia agraria e degli Stati nazionali segue Hegel nel suo sepolcro, ma non segna la fine della politica. Certo, è la fine dell'idealismo, della concezione secondo cui le idee (di alcuni) possono cambiare, con il mondo, la vita di tutti gli altri. Certo, è anche la rottura della catena che lega l'individuo (normalmente scritto con la ‛i' minuscola) a un ente energumeno (normalmente scritto con la ‛S' maiuscola di Stato). Certo, infine, è la caduta dello statalismo e comunque delle socialdemocrazie occidentali, che presuppongono ciò che non può essere più: Stati economicamente e politicamente sempre più forti (ed è proprio questa la causa principale della attuale crisi politica della sinistra). Ma tutto ciò non è affatto - lo ripetiamo - la fine della politica: nell'ambiente politico, che si trova in una fase di definitivo superamento delle vecchie idee, è infatti ora più che mai necessario e possibile immettere idee nuove, capaci di sopravvivere in assenza di Stato o, più realisticamente, in presenza di forme di Stato ‛diverse' da quelle finora note. Fermo restando che lo Stato deve sopravvivere: anzi, è proprio per farlo sopravvivere che nel futuro dovranno essere sviluppate nuove idee politiche.
4. Quale futuro ci attende
‟Liberté, Égalité, Fraternité": due secoli fa queste tre parole hanno evocato e simbolizzato il primato universale della politica. Alla fine di questo secolo, sembra che tre nuove parole, ‟Globalité, Compétitivité, Productivité", scandiscano un nuovo primato universale: il primato dell'economia, tanto sulla politica quanto sulla morale. Un primato che non è possibile valutare positivamente, ma che va comunque analizzato nei suoi presupposti di base, soprattutto se si intende superarlo.
Da un lato, lo Stato-nazione sta perdendo quote di forza giuridica (non compensata o solo parzialmente compensata dalle attuali forme di collaborazione amministrativa transnazionale: scambi transnazionali d'informazioni fiscali, collaborazione giudiziaria, ecc.). Dall'altro lato, l'anarchia dei capitali sta alimentando, con l'egoismo economico, il potere di organizzazioni sostanzialmente amorali (spesso attive anche nella cosiddetta business community), o criminali (le mafie e i clan), la cui latitudine e magnitudine (a partire da Russia, Cina, Estremo Oriente) sembra possa costituire un carattere tipico della società postmoderna.
Nell'analisi di questa realtà, nel complesso ‛negativa', è necessario fissare un punto di partenza che, per ora, può essere il seguente: la globalizzazione dell'economia porta con sé un misto di benefici e di malefici. Relativi benefici materiali ma, insieme con questi, indiscutibili malefici. Lo si verifica su due punti simbolici: la struttura della morale e la funzione della guerra.
a) La struttura della morale
La geofinanza ha sovvertito le basi della morale economica classica, che qui per brevità chiameremo ‛fisiocratica'. Finora la morale economica si è basata su questo presupposto: la ricchezza (ad esempio, il grano, il ferro, il petrolio) è frutto della terra; dunque, chi se ne appropria acquista il possesso di beni che naturalmente non gli competono. È in questi termini che si deve fare i conti con la morale. Questo processo mentale fondamentale ha però perso senso, data la nuova struttura dematerializzata e finanziarizzata della ricchezza. Se la ricchezza non è più un prodotto della natura, ma un prodotto ‛artificiale' della ragione (ad esempio, in un disco per computer, il valore fisico del silicio è minimo, rispetto al valore artificiale del software), o della convenzione finanziaria (un arbitraggio su cambi), è evidente che anche le categorie morali classiche vanno ristrutturate nei loro presupposti di base. In questo nuovo contesto, la soluzione positiva dei nuovi problemi morali va, piuttosto, trovata: a) nella diffusione, a fianco delle grandi religioni universali, di forze culturali e morali capaci di spingere verso nuove autorità politiche sovranazionali e verso una nuova morale internazionale; b) nella controspinta, caratteristica del processo competitivo, che si verificherà quando sarà non solo sperimentato (lo è già), ma soprattutto evidente (non lo è ancora) che, rispetto all'anarchia, il fattore ‛giuridico' è un fattore competitivo di per sé ‛positivo'. Quando, in particolare, sarà chiaro che un'area economica bene ordinata ha maggiori possibilità di attrarre e produrre ricchezza. Ed è proprio quest'ultima considerazione che ci porta al secondo punto dell'analisi.
b) La guerra
La nuova geopolitica del mondo (rivoluzionata dalla geofinanza), modificando radicalmente il rapporto tra Stato e territorio, ha radicalmente modificato il ruolo della guerra. La guerra non è più, come affermava von Clausewitz, la prosecuzione, con altri mezzi, della politica. La guerra è infatti diventata un investimento troppo costoso in termini politici, sociali, economici. Nella nuova realtà, la politica prosegue con la politica. Il territorio non è più uno spazio da conquistare o da proteggere. Al contrario, è divenuto uno spazio da ‛aprire', per attrarre ricchezza dall'estero, in una nuova logica competitiva sostitutiva della vecchia guerra. In specie, la competizione tra sistemi-paese si realizza con l'offerta competitiva di regole giuridiche, fiscali, morali. È in questi termini che la geofinanza ha attivato una competizione tra sistemi-paese basata sul coordinamento di strumenti monetari, finanziari, legali, fiscali. Ciò ha sovvertito i termini di quella che è stata finora una comune credenza: quella secondo cui si assumeva che fosse più appetibile lo spazio offerto da uno Stato debole, in condizioni di sostanziale anarchia. In realtà, è vero l'opposto: è appetibile lo spazio offerto da uno Stato capace di organizzare ed offrire: 1) servizi logistici efficienti; 2) un buono standing giuridico; 3) una fiscalità ragionevole (non paradiso, ma neanche inferno fiscale); 4) una buona rete di trattati internazionali; 5) la crescita continua dei livelli di istruzione intellettuale e di preparazione professionale, congiunti con piani di ricerca e sviluppo industriale; 6) il sostegno dell'export, ecc.
È in questi termini che la geofinanza impone la riscrittura delle agende politiche.
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