Geografia della critica d’arte
Critica e crisi
La nozione tradizionale di critica d’arte è oggi messa in discussione dal fatto che il suo orizzonte d’interesse si è enormemente allargato comprendendo ambiti anche extra artistici, sociali ed economici, evidenziati dalla situazione di crisi politica nella quale stiamo vivendo. Non possiamo parlare di critica, dunque, se non avendo presenti, parafrasando uno degli ultimi cantori della modernità, Hannah Arendt, «alcune questioni di ordine morale» (Some questions of moral philosophy, 2003).
Nella cultura moderna la relazione tra estetica ed etica era sentita come una questione fondamentale e perciò induceva la critica a emettere un giudizio non solo distinguendo tra ciò che era bello e ciò che era brutto, ma anche tra ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. Altrettanto essenziale era la distinzione tra essenza e apparenza, tra vero e falso, tra realtà e simulazione, tra autentico e inautentico, tra originale e imitazione, tra unicità e copia. Nella postmodernità tali contrapposizioni sono venute progressivamente scomparendo ed è emerso il predominio del significante sul significato, del mutante sul tipo, del processo sul finito, dell’imperfetto sul perfetto, della performance sull’opera, della combinazione sulla selezione, dell’artificiale sul naturale e, infine, del simulato sul reale, con conseguenze devastanti nel campo artistico e nella critica d’arte.
Dentro la grande tragedia del nostro tempo, in cui convivono arti moderne (arti del progetto e dell’utopia, un tempo peculiari dell’avanguardia), premoderne (arti decorative e artigianali), postmoderne (arti dello spettacolo, della simultaneità e della simulazione) e creatività extra artistiche, sociali e di rete, la critica più recente sta preparandosi ad assumere una funzione filosofica e interpretativa di maggiore responsabilità, affinché, per la prima volta, l’indagine sull’arte possa essere tesa a comprendere meglio questo mondo e questa realtà, perché è proprio di questi che l’arte è sempre rappresentazione e sintomo.
Ma se l’arte è sempre, in ogni Paese, la prova tangibile e ‘politica’ della libertà dell’individuo, quale arte riesce oggi a liberarsi dal ricatto capitalistico postmoderno e a opporsi all’altro crimine, quello censorio, di carattere ancora premoderno, costituito dal controllo politico e religioso di ogni espressione dissidente e da ideologie autoritarie o fondamentaliste, capaci di minacciare la vita stessa degli artisti?
Appare fondamentale in tal senso la riflessione di Benjamin H.D. Buchloh così come emerge nella discussione riportata al termine del libro Art since 1900 (2004), alla quale partecipano anche gli altri autori del volume, Hal Foster, Rosalind Krauss e Yve-Alain Bois. La maggior parte dei partecipanti al mondo dell’arte contemporanea, a partire dagli stessi redattori del volume – sostiene Buchloh –, non ha ancora sviluppato una comprensione sistematica di come sia potuto accadere che quell’elemento culturale un tempo così profondamente integrato nella cultura borghese che fu l’avanguardia, con la sua libertà creativa e con i suoi luoghi deputati, sia irrimediabilmente scomparso. Quel mondo dell’arte è stato assorbito da formazioni sociali e istituzionali – collezioni private, gallerie e nuovi musei – che non sappiamo ancora bene cosa rappresentino e che ruolo abbiano, dal momento che la loro funzione è diventata soprattutto rituale e cultuale piuttosto che culturale. La moltiplicazione e l’affollamento di questi spazi per l’arte non significano nulla se non esiste un programma di ‘articolazione politica’ di tali strumenti culturali. La contrapposizione ideale tra artista e dimensione capitalistica è stata progressivamente annullata, dal momento che l’artista – conclude Buchloh – non è che un campo d’investimento economico come un altro, ma con in più la copertura ideologica di essere un bene valoriale in sé. Critica e crisi costituiscono, dunque, i poli di una nuova tensione epistemologica.
Critica dell’immagine
Il mondo non è stato mutato dal progetto utopico delle avanguardie, il cui mito deve essere ancora studiato con molta attenzione, ma dalla filosofia industriale tardocapitalistica, che ha convertito l’arte in sostanza attrattiva e dunque in plusvalore estetico aggiunto al proprio prodotto migliore: lo «stile internazionale» della creatività persuasiva (R. Krauss, The originality of the avant-garde and other modernist myths, 1985; Foster 1996). Il tardocapitalismo, che nutre un’avversione per la critica e che coltiva l’ideologia della neutralità deresponsabilizzata dell’arte, con la partecipazione di uno spettatore acritico e consenziente, vuole che sia rappresentato soprattutto il mondo innaturale, spettacolare e artificiale realizzato dalla sua tecnica, mentre la dimensione dell’arte è «il regno delle interazioni umane», ossia il prodotto di una serie di azioni grazie alle quali possiamo interpretare l’opera come il risultato di un pensiero collettivo (Bourriaud 2002).
Una recente svolta dell’arte nasce di conseguenza all’entrata in gioco di nuovi attori, di nuove vicende storiche, politiche e sociali che, in quest’ultimo decennio, hanno messo a nudo con ampia evidenza di prove la crisi economica e di valori della cultura tardocapitalistica. Questa tensione verso la ‘verità’, che chiama l’artista a opporre la sua ‘immagine’ del mondo a un mondo già trasformato in immagine, dimostra come l’arte possa affrontare un mondo nel quale, per utilizzare la parafrasi marxiana di Guy Debord, «tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli» (La société du spectacle, 1967; trad. it. 2008, p. 53). Rileva acutamente Giorgio Agamben, in alcune glosse in margine alla traduzione italiana ai Commentaires sur la société du spectacle di Debord, che non soltanto tutto ciò che lì vi era stato previsto si è verificato, ma che ormai «la sostanziale unificazione di spettacolo concentrato (le democrazie popolari dell’Est) e spettacolo diffuso (le democrazie occidentali) nello spettacolo integrato» è di un’evidenza triviale. Verità e falsità sono diventate interscambiabili e la realtà si legittima solo attraverso lo spettacolo (Agamben, in G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo e La società dello spettacolo, 1990, p. 241).
Il riposizionamento dell’arte attuale, nella sua possibile ribellione alla cultura postmoderna, può attuarsi solo opponendo immagini a un mondo ridotto in immagine. Immagini contro immagini. Immagini nonostante tutto. Ma quali immagini, se non quelle a cui fa riferimento Georges Didi-Huberman (2003), quando ci ricorda che, a proposito di alcuni fotogrammi dell’orrore di Auschwitz, solo questi hanno la forza di rivelarci l’inimmaginabile: non soltanto perché l’atrocità del reale supera qualsiasi pensiero, ma perché ogni immagine è come un messaggio in bottiglia. Perché ogni immagine risponde all’imperativo «immaginate sempre, immaginate nonostante tutto». Questa è la lacerazione, per chi vive il tempo della di-struzione sia del reale sia della verità: dover ricorrere all’immagine per documentare ciò che l’immagine spettacolare nasconde.
Possiamo citare due esempi in cui le opere, assieme alla loro qualità intrinseca, assumono anche una potente forza critica: il video di Aernout Mik, Middlemen (2001), che ci porta all’interno di una sala di contrattazione dopo un crollo di borsa, e l’opera The bank (1999) di Antoni Muntadas, appartenente al ciclo On translation, che si concentra sul paradosso del cambio monetario internazionale. Si tratta di tentativi di realizzare un’arte che racconti non più mondi ‘altri’, ma questo mondo e questa realtà. E riuscire a rappresentare la realtà senza essere stilisticamente ‘realistici’ è la grande sfida dell’arte attuale.
Mutamenti culturali
I caratteri del mutamento estetico, artistico e culturale della nostra epoca, intensificatisi in questo decennio, possono essere indicati da una serie di elementi: la predominanza di una cultura del visivo a scapito di quella teorica; l’importanza, anche sociale, data alla figura dei curatori e degli organizzatori di eventi espositivo-museali rispetto a quella attribuita agli studiosi e agli storici; la dimensione onnicomprensiva e fagocitante di un’estetica diffusa, confusasi con l’arte e immersa nell’intreccio mostruoso di realtà e spettacolo, di necessario e superfluo, di verità e finzione (Francalanci 2006); la devalorizzazione dell’arte come fenomeno culturale per l’eccesso di visibilità determinato del suo sfruttamento pubblicitario e mediatico e la sua parallela ipervalutazione commerciale in un mercato globalizzato; l’entrata in campo di nazioni e continenti un tempo lontani o tradizionalmente ostili, per cultura o per religione, alle arti figurative; la sparizione di movimenti artistici, poetiche e tendenze a fronte di un’enorme offerta artistica (il data-base di artfacts.net contiene un elenco di circa centocinquantamila artisti), ormai completamente mondializzata.
A tutto ciò si aggiunga l’estendersi a livello mondiale delle nuove ritualità cultuali delle mostre e delle esposizioni, forme di religiosa attrazione che pretendono e prevedono una partecipazione di pubblico senza precedenti, un pubblico ignaro del fatto che, nel frattempo, non è più il soggetto artista il produttore dell’opera d’arte, ma una moltitudine di soggetti – l’artista, il critico, il giornalista, il curatore di mostre, il direttore di museo, lo spettatore stesso, l’amatore e il collezionista – i quali dimostrano come l’opera d’arte sia oggi soprattutto il risultato di un insieme organizzato di causalità e di casualità. Tutti questi soggetti implicano un allargamento ‘rizomatico’, per usare un termine di Gilles Deleuze e Félix Guattari, della definizione stessa di opera d’arte con evidenti ripercussioni sulla relazione operativa tra critica e società. Per rispondere a quale sia, dunque, la funzione ‘ideologica’ della critica odierna potremmo utilizzare un noto aforisma: i filosofi (e i critici) hanno solo interpretato il mondo, si tratta ora di cambiarlo.
Teorie critiche
In forma di Annales
Il volume Art since 1900. Modernism, antimodern-ism, postmodernism di Buchloh, Foster, Krauss e Bois, lavoro storico di notevole importanza di cui abbiamo parlato in precedenza, discute anno per anno gli eventi artistici più significativi, riferiti agli autori più famosi e affermati nella storia e nella critica soprattutto statu-nitense (pochi i nomi degli artisti italiani: dei più re-centi si citano solo Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Jannis Kounellis, Mario Merz, Pino Pascali, Giuseppe Penone e Michelangelo Pistoletto). I quattro storici dell’arte, forse tra i più importanti e certamente tra i più influenti del nostro tempo, sintetizzano alla fine del volume le loro personali analisi interpretative in altrettanti testi: La psicanalisi nel modernismo e come metodo, Poststrutturalismo e decostruzione, Formalismo e strutturalismo, La storia sociale dell’arte, modelli e concetti.
Secondo gli autori, gli elementi di maggiore novità della situazione internazionale dell’arte e di immediato interesse critico sono: a) un mutamento di statuto dell’opera d’arte ‘nell’epoca dell’informazione’, rappresentato da poetiche e da movimenti della cosiddetta postproduzione, da fenomeni di collaborazione tra artisti, dalla public art, dallo schema dono-offerta, tutti atti compiuti in luoghi di momentanea socializzazione (operazioni famose, quelle realizzate, per es., da Félix Gonzáles-Torres, 1957-1996, e Rirkrit Tiravanija); b) un impulso archivistico, sempre più comune (vedi Tacita Dean o Douglas Gordon); c) l’estetica interattiva (sperimentata in occasione di mostre come Documenta 2002 o la Biennale di Venezia del 2003, nelle quali si sono incontrati all’interno di apposite ‘piattaforme’ o ‘stazioni di discussione’ numerosi soggetti coinvolti a vario titolo nel mondo dell’arte).
Merito precipuo degli autori è stato quello di dimostrare il superamento del modernismo, ovvero di quella cultura dell’arte basata sulle idee di progresso e di continuità senza salti. In modo particolare, risulta fondamentale il contributo della Krauss, che ha saputo importare negli Stati Uniti e utilizzare per prima la psicoanalisi lacaniana, lo strutturalismo e il poststrutturalismo, attestandosi su una concezione del postmodernismo inteso come prospettiva filosofica che considera l’arte un insieme di fatti non evolutivi, bensì in continua progressiva mutazione.
Il bisogno di realtà
L’arte modernista era simbolica e costruttiva quanto l’arte postmoderna è allegorica e decostruttiva, perché cita la catastrofe del nostro tempo, allestendo spazi devastati, rovesciando le norme stilistiche, accentuando lo scarto tra significante e significato, assemblando frammenti, ibridando sia le forme sia i contenuti tematici, rifiutando la purezza, il minimalismo, il concettualismo e la fissità. La cultura postmoderna, partendo dalla teoria del rifiuto di ogni teoria, sviluppa nella critica una tendenza anticritica di omologazione di tutte le differenze formali e contenutistiche, anteponendo la logica del collage, del bricolage, del camouflage, del site specific e della monture. Nell’ordine: della possibilità di unire insieme gli elementi più disparati (essendo quindi il collage la manifestazione più consona a un’age de la colle come quella nella quale viviamo); del sincretismo artigianale di tutte le forme; dell’indifferenziazione tra contenitore espositivo e opera; dell’occultamento della realtà e della verità mediante la produzione di cloni e di copie; del montaggio-montatura delle immagini mediante tecniche falsificatrici.
Se, da una parte, questo modello di critica ci aiuta a comprendere il carattere dissipativo e informe di molte opere contemporanee e soprattutto di molte esposizioni d’arte contemporanea, dall’altra non spiega altri fenomeni recenti, come l’improvvisa tendenza verso un sentire più politicizzato e relativistico, che si manifesta come riappropriazione dei contenuti della realtà. Potremmo dire che, forse per la prima volta, l’inconscio collettivo richiede all’artista di dirci cosa sia la realtà piuttosto che di raccontarci di mondi altri, immaginari, utopici o fantastici.
In uno dei suoi saggi più indicativi Foster (1996) afferma che dietro la rappresentazione della realtà alla Jeff Koons o alla Haim Steinbach si cela, come sostiene anche il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, la ragione cinica di una «falsa coscienza illuminata», in quanto la realtà continua a essere solo allusa, significata, allegorizzata, metaforizzata, ma mai portata veramente alla luce. Questa tendenza artistica a riproporre la realtà di oggetti di uso comune non farebbe che rispondere al bisogno culturale di compensare con l’attrazione del segno puro della merce, sostiene Foster, la perdita definitiva dell’aura dell’opera d’arte contemporanea. All’interno della dimensione ideologica tardocapitalistica una scultura che finge di essere un oggetto continuerà a essere sempre e nient’altro che un «segno-merce» (Foster 1996; trad. it. 2006, p. 97, p. 121 e sgg.), indipendentemente dalle sue qualità concettuali, formali ed estetiche.
La postproduzione
Un’interpretazione critica fondamentale sulla dissoluzione dell’originale e dell’aura è quella proposta da Nicolas Bourriaud (2001 e 2002). I concetti di estetica relazionale e di postproduzione dell’arte attuale, elaborati da Bourriaud, si inscrivono all’interno di una concezione materialista, di influenza althusseriana, secondo cui ogni atto e ogni evento, arte compresa, sono l’effetto di un sistema di incontri e di relazioni umane; per questo motivo l’arte contemporanea non si caratterizza più per una sua dimensione indipendente, ma per essere una complessa rete di collegamenti e di significati generali.
Per quanto riguarda il fenomeno della postproduzione, che caratterizza molte delle operazioni artistiche degli ultimi due decenni, Bourriaud muove dall’osservazione che l’arte contemporanea non può più evitare il confronto con la grande rivoluzione materiale e filosofica prodotta dall’irruzione dei mezzi di produzione e riproduzione, di archiviazione e diffusione, che hanno cambiato il modo di produrre cultura, di pensare l’economia e di organizzare mediaticamente il potere politico. L’arte si serve di tutti i mezzi messi a disposizione dalla tecnica per montare, rimontare, assemblare, costruire e decostruire i dati dell’archeologia del passato e del presente. L’arte si serve dell’arte stessa come di un giacimento di dati, una sorta di playlist, da utilizzare con un metodo di postproduzione, lo stesso metodo usato nell’attività di montaggio e rimontaggio nella musica dei deejays, comprendente il taglio, la ripetizione, la sovrapposizione, il missaggio, l’alterazione, la ridondanza.
Sulla base di queste riflessioni Bourriaud analizza le opere di numerosi artisti, tra i quali Philippe Parreno, R. Tiravanija, Liam Gillick, Thomas Hirschhorn, Mike Kelley, Pierre Huyghe, D. Gordon, Maurizio Cattelan, Angela Bulloch, Tobias Rehberger, Sylvie Fleury, Vanessa Beecroft. Essi sono, per Bourriaud, artisti «sintomatici» della postproduzione, artisti che non si pongono più, come nel modernismo, la necessità di inventare opere dal nulla, ma di creare con quello che si ha a disposizione mediante un meccanismo che trasforma la «proprietà dell’altro» in un «luogo temporaneamente occupato».
Bourriaud non crede che sia ancora possibile fornire al mondo un’opera originale, ma ritiene che a causa di questa perdita abbia cominciato a diffondersi una nuova rete di segni e di significati, di oggetti e di comportamenti che abbracciano l’intero campo sociale. Il museo o il luogo espositivo sono essi stessi uno spazio mentale di postproduzione, dal momento che lo spettatore, come afferma anche Michel de Certeau (L’invention du quotidien, 1990), non è più un consumatore passivo, ma un riorganizzatore silenzioso di segni. La zeta di Zorro tracciata da Cattelan alla maniera di Lucio Fontana; il film Psycho (1960) di Alfred Hitchcock riproposto integralmente nel 1993 da Gordon dilatando però la sua durata fino a ventiquattro ore; il film Soljaris (1972) di Andrei A. Tarkovskij riproposto da A. Bulloch con la colonna sonora sostituita da suoi dialoghi (1993), l’inserimento da parte di Tiravanija di opere di altri artisti in una sua installazione, come in Untitled (One revolution per minute) (1996), sono esempi di riappropriazione di opere d’arte storiche o altrui: si tratta di una libertà operativa che è concessa solo ad artisti di chiara fama, essendo invece, secondo la legge sulla proprietà delle immagini, un atto illegale per l’uomo comune.
Pratiche discorsive
Gli autori di Art since 1900 individuano nell’ambito delle ultime novità espositive – Documenta 2002 e la Biennale di Venezia del 2003 – le prime esperienze di dibattito pubblico tra artisti, critici e intellettuali, testimonianza di una tendenza definita estetico-interattiva. Il dibattito, svoltosi in cinque diverse ‘piattaforme’ di incontro nell’ambito di Documenta (curata da Okvui Enwezor), partiva dalla relazione conclusiva degli incontri effettuati precedentemente in varie parti del mondo. Potremmo assumere, indipendentemente dai risultati teorici, i temi dibattuti come indicazioni, ancora valide, delle questioni più cruciali che la critica odierna deve affrontare: la democrazia irrealizzata, la verità, la creolizzazione (gli incroci e le ibridazioni), l’urbanizzazione postcoloniale, i passaggi epocali, visti attraverso una mostra.
Anche la Biennale di Venezia (Sogni e conflitti. La dittatura dello spettatore, sotto la direzione di Francesco Bonami) presenta una sua ‘stazione di discussione’. S’intitola Utopia station, ed è curata da Tiravanija, Hans Ulrich Obrist e Molly Nesbit. Centinaia di idee, raccolte in varie occasioni precedenti, confluiscono e si confrontano in un’esperienza comunitaria, ridiscutendo il difficile concetto di utopia. L’inedito esperimento culturale di questi incontri organizzati tra diversi soggetti costituirebbe, per gli autori di Art since 1900, la prova di una nuova possibilità di fare insieme arte e critica, sfuggendo al mercato globale e uniformante delle idee.
Negli anni a seguire, tuttavia, tanto Documenta quanto la Biennale avrebbero abbandonato questo tipo di esperimenti. L’esposizione di Kassel del 2007 (curata da Roger M. Buergel e da Ruth Noack), amministrata peraltro mediante un sito web in modalità blog e un forum di magazines, ha proposto il «rapporto tra arte antica e moderna» imponendo allo spettatore stesso di risolvere autonomamente il significato simbolico, e ancor più impegnativo oggi, della celebre opera di Paul Klee, Angelus novus (che allude al «carattere distruttivo del nostro tempo»), con cui si apriva idealmente l’esposizione.
La Biennale del 2005 (curata da María de Corral per la sezione intitolata L’esperienza dell’arte e da Rosa Martinez per quella intitolata Sempre un po’ più lontano) dal punto di vita tematico si è ritirata ancor più nella sfera esclusiva dell’arte, nonostante numerose testimonianze politicamente orientate da parte di molti artisti. L’edizione successiva (Pensa con i sensi – Senti con la mente. L’arte al presente, direttore Robert Storr) ha lanciato un significativo richiamo all’ordine, manifestatosi in un omaggio artistico alla cultura ideologica del Futurismo, una tendenza che sarebbe divenuta esplicita e definitivamente politica nella sezione italiana della Biennale del 2009, dal titolo emblematico di Collaudi. Quest’ultima edizione (sotto la direzione di Daniel Birnbaum) presenta un titolo generale assai significativo, che potremmo assumere a conclusione di questa digressione sulle ‘esposizioni universali’: Fare mondi.
Fare mondi, dunque, e non «fare il mondo»: l’appello è al plurale e alla pluralità dei mondi possibili, ideati da ogni singolo artista e avallati da una vecchia convenzione critica, che continua a pensare l’arte come il luogo in cui tutto è possibile e in cui tutto il possibile può essere rappresentato. L’interesse vero nei confronti dell’etico e del quotidiano, da parte degli artisti, può essere documentato – sostengono gli autori di Art since 1900 – dalle dichiarazioni degli artisti stessi: l’arte è così un modo di esplorare altre possibilità di scambio (per Huyghe), un modo di ‘viver bene’ (secondo Tiravanija), un mezzo per essere insieme nel quotidiano (per Gabriel Orozco; Foster, Krauss, Bois, Buchloh 2004, trad. it. 2006, p. 667).
Pratiche operative
Un’incolmabile distanza separa ancora critica dell’arte e critica del mondo, critica estetica e critica sociale, pensiero critico e azione critica (che rivela il ‘punto critico’, il punto di cedimento, la linea di frattura, il nucleo di disintegrazione di un sistema). Qui si misura il fallimento politico di una critica dissenziente e oppositiva rispetto alla fagocitazione irreversibile dell’arte da parte di un sentire estetico superficiale e diffuso, di un sentire sfumato, che aborre il confronto, la dialettica, la ‘differenza’.
Questa costante relazione politica e morale dell’arte con le varie e drammatiche complessità sociali della vita assume oggi una rilevanza particolare. L’artista attuale si trova infatti, per la prima volta, ad affrontare per lo meno due ordini di problemi: il primo è lo scontro che ogni sua opera ha con un mondo devastato dalla distruzione continua della natura, dalla trasformazione sistematica del lavoro, dalla fragilità delle gerarchie di status tra i generi, dalla dissoluzione delle tradizioni di classe, dall’accentuazione delle disuguaglianze di classe, dalle nuove tecnologie in equilibrio sull’orlo della catastrofe (U. Beck, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, 1986; trad. it. 2000, p. 258); il secondo è il volto comunque spettacolare di questo mondo.
La critica d’arte che, nel pieno della crisi postmoderna che tutto appiattisce su un piano indifferenziato di valori, cerca di differenziare il necessario dal superfluo, l’innovazione dalla ripetizione, l’originale dalla copia, l’artistico dall’estetico, il reale dal simulato, la società dallo spettacolo, si muove secondo un principio che appartiene ancora alla logica culturale della modernità, fondandosi sull’uso critico della ragione, sull’enunciazione di giudizi contemporaneamente estetici e morali e su una sperimentalità autoriflessiva. Non a caso proprio Ulrich Beck mette in guardia sul fatto di continuare a utilizzare il termine postmoderno, perché in questione è la nostra responsabilità di portare a termine il progetto della modernità, piuttosto che posticipare con un prefisso ciò che non è ancora pienamente risolto.
Il problema è chiedersi se discipline come quelle semiologiche o sociologiche, per es., possano essere ancora utilizzate non solo come strumenti essenziali della critica, ma addirittura come forme sostitutive di essa. È possibile, pertanto, scientificizzare la critica, contrastando l’opinione secondo cui essa è ormai solo un mestiere (mediologico e mediatore), che si attuerebbe come pratica discorsiva sull’arte (una pratica assorbita dalla figura del curatore), la quale sarebbe a sua volta niente più che una pratica discorsiva sul mondo? L’aleatorietà della collocazione istituzionale della disciplina della critica permette, nel frattempo, a differenti soggetti – filosofi, semiologi, sociologi e storici – di continuare a occuparsi individualmente di critica dall’interno della propria specializzazione.
Dopo la morte dell’arte
La tesi della morte dell’arte è ancora oggi sostenuta da quanti dichiarano che essa muore nel momento in cui non sono più le proprietà estetiche a dichiarare che un oggetto è un’opera d’arte. La fine dell’arte – sostiene, infatti, Arthur C. Danto (1997) – inizia quando gli artisti affermano che «qualsiasi cosa può essere arte», un’idea confutata dalla complessa articolazione teorica dell’arte attuale. H. Foster (1996), al contrario, fa un’analisi accurata dell’oggetto feticcio del segno-merce testimoniato da tutta una serie di opere, come quelle realizzate da Koons, Steinbach, Barbara Kruger o Allan McCollum. Barbara Rose si pone in una posizione molto simile a quella di Danto: il declino dell’arte nasce quando cominciano ad apparire opere «facilmente confondibili con i mobili» (2008, p. 35). Questa e altre ricorrenti teorie posthegeliane della ‘morte’ oppure della ‘sdefinizione’ baudrillardiana dell’arte hanno il difetto di concepire l’arte come un sistema ancora lineare piuttosto che come un fenomeno così rizomatico e complesso da non poter più essere spiegato come attuazione diretta dell’eredità concettuale delle avanguardie (per Danto nella linea Marcel Duchamp-Andy Warhol, per la Rose in quella Pablo Picasso-Jackson Pollock).
In After the end of art (1997), Danto ribadisce la sua tesi: la fine dell’arte dipende dalla raggiunta indifferenziazione con il mondo degli oggetti in quanto è ormai impossibile definire l’opera d’arte in relazione alle sue specifiche caratteristiche visive. Esisterebbe, tuttavia, una possibile sopravvivenza dell’arte grazie al suo incessante ‘progresso’, legato alla trasformazione migliorativa del medium tecnologico. Ma i media sono ben altra cosa rispetto a quelli elencati da Danto e a partire dagli anni Ottanta, diffondendosi sempre più nell’ultimo decennio grazie alle sperimentazioni e all’evoluzione del digitale, hanno conosciuto una rivoluzione profonda (Krauss 2005), dimostrando come la fine del secolo abbia coinciso con l’inizio di un’era postmediale. Poststrutturalismo, Arte concettuale ‘postduchampiana’, videoarte, arte elettronica hanno di fatto prodotto una nuova nozione di medium (Krauss 2005; Shanken 2009).
Un altro dei motivi addotti da Danto per reclamare uno stato di verginità dell’opera d’arte nasce da un’osservazione a proposito della mostra, curata da Roberta Smith al County museum di Los Angeles dal titolo Made in California. Art, image, and identity, 1900-2000 (2000). La finalità della mostra era quella di collocare le opere d’arte presentate in un contesto storico, sociale, politico ed economico generale, trattandole come parti di una cultura complessiva (Danto 2003; trad. it. 2008, pp. 154-55). Per Danto l’effetto fu «depressivo». Aveva ragione e torto nello stesso tempo: torto perché solo un atto di ‘critica del pensiero’ permette di riconsiderare l’arte all’interno di un esteso sistema di relazioni, a prescindere dal suo valore auratico; ragione perché l’opera d’arte va esposta, per quanto possa essere un ‘semplice oggetto’, nel luogo e nei modi della sua consacrazione rituale.
La fine dell’arte, o per meglio dire il confine dell’arte, coincide con la linea che separa e nello stesso tempo unisce l’arte all’estetico e allo spettacolo, ed è una linea che viene indicata solo dall’atto decisivo della critica, più che dalle enunciazioni teoriche dell’artista o dalla specifica collocazione espositiva dell’opera da parte di un curatore: ciò significa ridare alla critica la sua funzione di ‘scienza dei bordi’ e, nello stesso tempo, dare all’arte la sua finalità di ‘abbordaggio’ alle varie emergenze che caratterizzano il nostro tempo.
La filosofia dopo la critica
Se il critico si differenzia dallo storico per il fatto che si occupa dei fondamenti teorici utilizzando anche la storia, mentre lo storico sistematizza il passato e i dati utilizzando anche la teoria, è il filosofo che utilizza la critica e la storia, e quant’altre discipline, per tessere un’interpretazione esaustiva. La possibilità di disegnare una ‘mappa dell’amicizia’ tra arte e filosofia è stato il tema di una delle ‘stazioni utopia’ della Biennale di Venezia del 2003. L’argomento ha riscosso così grande interesse, indipendentemente dai risultati specifici, da diventare un tema particolarmente discusso nel corso del 2007 in «Le monde diplomatique» e tale da essere ripreso nel 2009 da «Art month-ly» (nel numero 323), che ne ha approfondito l’analisi; era dai tempi del saggio decostruttivo di Jacques Derrida sulle scarpe di Vincent van Gogh (La vérité en peinture, 1978; trad. it. 1981) che non ci si occupava così intensamente di ricerca della ‘verità in arte’.
Quali sono i motivi per i quali improvvisamente i filosofi compaiono richiestissimi ovunque, sui giornali, in televisione, nei musei, nei cataloghi? E quali sono le ragioni per le quali i titoli di quasi tutte le grandi rassegne, esposizioni o mostre riecheggiano postulati, teoremi e interrogazioni di tipo filosofico? Il tema dell’edizione del 2007 di Documenta era riassunto in tre interrogativi: È la modernità la nostra antichità? Cos’è la pura vita? Cosa si può fare? La prima questione ripropone la riflessione sulla condizione postmoderna. La seconda fa esplicito riferimento al famoso saggio Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita (1995) di Agamben. La terza riecheggia il leniniano ‘che fare’. La prima Biennale di Istanbul (2007), intitolata Not only possible, but also necessary. Optimism in the age of global war, ha tentato di eliminare la presenza di opere tradizionalmente ‘belle’ per mettere in primo piano questioni sociali e filosofiche; l’arte può evidenziare i problemi primari dell’umanità mediante una rappresentazione che, senza tradire la poesia, diventi soprattutto un monito (piuttosto che un monumento), alla condizione, però, che l’atto artistico non sia unicamente opera di un singolo, ma nasca invece da una moltitudo, portatrice a sua volta di una ‘intelligenza collettiva’.
L’interesse sempre più diffuso per il coinvolgimento dei filosofi nelle più diverse occasioni, come l’invito alla Tate Britain nel 2008 di Antonio Negri, Maurizio Lazzarato e Franco ‘Bifo’ Berardi, figure leader della cultura operaista e della teorizzazione del lavoro immateriale, di Agamben alla Biennale di Mosca, di Slavoj Žižek alla UCLA (University of California Los Angeles), segnala il riconoscimento di un’irreversibile erosione della critica artistica, che non sa o non può più analizzare l’arte nel suo esplosivo contesto sociale e politico. Nello stesso tempo il richiamo alla filosofia, soprattutto nella sua componente politica, indica la necessità di focalizzare le ragioni della crisi intrinseca dell’arte stessa, condannata dalla logica postmoderna a relazionarsi con un mondo dominato dallo spettacolo estetico e dallo sfruttamento capitalistico, e la necessità di ipotizzare delle soluzioni che non possono più essere mediatrici tra la violenza del potere e il consumo dello spettatore.
Esposizioni
Di fronte all’esposizione universale dell’arte, la critica si espone e prende automaticamente posizione. Esporsi di fronte all’inarrestabile diffusione delle merci estetiche significa riconoscere quanto segue: tutto ciò che è, è ‘prodotto’; ed è prodotto mediante processi manuali (artigianato) e meccanici (industria), o attraverso rappresentazioni simboliche e linguistiche; tutto ciò che è prodotto, è, nel sistema capitalistico, trasformato in merce; la merce per diffondersi si espone. Anche l’arte, quindi, è assimilabile a una produzione e l’opera a un prodotto e, dunque, a una merce. Non è possibile definire artistica un’opera che non sia passata attraverso un processo di esposizione. L’esposizione è universale. Nonostante tutto ciò la ‘creazione’ (cioè l’istinto naturale di ogni individuo alla creatività, una volta liberato dalla necessità della sopravvivenza materiale) sfugge a questa consecutio.
Da un punto di vista tecnico le grandi esposizioni internazionali, le ormai numerose decine di Biennali che si inseguono nel mondo e tutti i grandi appuntamenti annuali, triennali, quadriennali e quinquennali testimoniano l’importanza preponderante della fenomenologia del visivo, organizzato attorno alle pratiche effimere del lavoro di monture da parte di curatori che generalmente non sono né critici teorici né storici dell’arte, ma più spesso avventurosi raccoglitori di meraviglie. Per questa ragione l’esperienza espositiva dimostra l’inattendibilità di un valore effettivo delle opere presentate. La principale caratteristica di queste ‘esposizioni universali’ è data dalla sottomissione delle scelte critiche non tanto o non soltanto alle logiche del mercato, quanto alla necessità di fornire entertainment e loisir, piuttosto che impegno e fatica. La funzione fondamentalmente attrattiva delle esposizioni è analoga, in una sorta di logica barocca, alla meraviglia prodotta dall’opera d’arte contemporanea, sia essa formalmente bella sia essa volutamente sgradevole.
Tutte queste questioni, e molte altre ancora più gravi, legate a questi fenomeni espositivi, come la responsabilità dei curatori nell’ipervalutazione del mercato dell’arte e nella pesante incidenza che hanno sulla percezione estetica piuttosto che ‘politica’ e sociale della realtà da parte degli spettatori-consumatori, dovrebbero essere poste costantemente al centro del dibattito critico internazionale.
Interviste
Una tendenza della critica recente è quella di raccogliere in maniera sistematica interviste ai principali soggetti dell’arte, dagli artisti ai galleristi, ai mercanti ma anche ai filosofi e agli intellettuali, dando ai materiali la dignità di un corpus che è diventato quasi un genere letterario a sé. I primi a usare questo metodo erano stati Andy Warhol e Gerard Malanga con la loro rivista «Interview» (fondata nel 1969 e ancora operativa). A essa si aggiunge oggi la fondamentale rivista statunitense on-line «Bomb», detentrice dal 1981 a oggi di quasi novecento interviste registrate. Questa e altre raccolte sono per lo studioso di fondamentale importanza, trattandosi di documenti storici, che codificano nello stesso tempo due posizioni, quella del critico e quella dell’interlocutore.
Possiamo confrontare due raccolte basilari, quella curata da H.U. Obrist Interviews (2003) e quella edita dalla casa editrice Phaidon, intitolata Press play. Contemporary artists in conversation (2005), entrambe caratterizzate dalla qualità degli interlocutori e dall’accuratezza delle registrazioni. A differenza dell’opera della Phaidon, che non possiede un curatore generale essendo una raccolta antologica comunque preziosa di interviste, il lavoro di Obrist è una sorta di laboratorio, di dialogo multidisciplinare, che spazia – grazie alla preparazione scientifica e all’esperienza pratica dell’autore e a causa della varietà degli interessi degli intervistati – dai contesti figurativi a quelli digitali, musicali, letterari, teatrali, performativi, architettonici, cinematografici e fotografici.
Un altro lavoro interessante, fondato sull’esperienza di incontri personali, è quello fornito da Sarah Thornton (Seven days in the art world, 2009; trad. it. 2009). Incrociando e ricontestualizzando una serie di dati ricavati da interviste fatte ai protagonisti del sistema dell’arte – gli artisti, i galleristi, i mercanti, i curatori, i critici, i collezionisti e gli esperti delle case d’asta – e realizzate nei sette punti di massima concentrazione informativa – l’asta, il seminario, la fiera, lo studio dell’artista, il premio, la rivista e la Biennale – la Thornton giunge a dimostrare come il ruolo scientifico della critica venga ad assumere ormai un peso del tutto irrilevante.
Esclusioni
Per quanto riguarda le produzioni, i generi e le tipologie formali, l’arte attuale è irriconducibile a unità. Risulta infatti impossibile, da parte di una critica abituata tendenzialmente a percepire la natura ‘materiale’ dell’arte come produttrice di segni-merce, comprendere nell’ambito di un’unica teoria descrittiva i seguenti fenomeni:
a) l’arte elettronica con tutte le sue varianti, di cui si fa garante la grande rassegna annuale Ars electronica di Linz (artisti ricercatori sono, per es., Christa Sommerer e Laurent Mignonneau);
b) la ‘bellezza logico-artistica’ di alcuni codici di programmazione, che induce a spostare il giudizio estetico dal prodotto al processo;
c) il cinema, che Žižek definisce l’arte più perversa, percepito come opera e non come ‘spettacolo’ (Lars von Trier, David Lynch, Krzysztof Kieślowski, per indicare solo alcune avanguardie), o addirittura pensato per spazi museali (Matthew Barney, Eija-Liisa Ahtila, D. Gordon);
d) lo spettacolo teatrale e musicale interattivo e multimediale (Fura dels Baus, Marcel.lí Antúnez Roca, Studio azzurro) e il nuovo ipermediale teatro circense, per es. il Cirque du soleil;
e) il videoclip a livello di autori come John Landis, Michel Gondry, Chris Cunningham, Spike Jonze, il gruppo di artisti digitali Pleix, Mark Romanek, Jonathan Glazer, Paul Hunter, Anton Corbijn, Floria Sigismondi e l’attività dei deejays, dei web surfers, di quanti creano opere secondo tecniche di postproduzione, definiti semionauti da Bourriaud (2002);
f) il net-working lanciato come ‘attivismo artistico-politico’ e il social-net;
g) l’innumerevole serie di cosiddette postproductions (Bourriaud 2002);
h) i mondi illustrati dei manga e degli anime (le cosiddette storie illustrate in un arco che va da Walt Disney a Osamu Tezuka, Go Nagai, Hayao Miyazaki);
i) i teorici e i testimoni della mutazione tecnologica del corpo umano (il fenomeno cyborg, testimoniato, per es., da Stelarc).
Un critico che volesse produrre una teoria unificata di tutte queste dimensioni ‘creative’ si inoltrerebbe in un territorio poco battuto. La ragione di questa difficoltà analitica consiste nel condizionamento quasi genetico della critica a farsi testimone di quelle opere che sembrano garantire ancora la presenza dell’aura, nonostante gli sforzi di demistificazione da parte di Walter Benjamin, Jean Baudrillard, Debord, François Lyotard, Mario Perniola, Bourriaud, Žižek e soprattutto di molti artisti contemporanei.
Nuovi mondi
Quasi nessuno tra i recenti saggi sull’arte contemporanea dedica uno studio serio all’irruzione sulla scena internazionale, soprattutto in questo decennio, delle esposizioni e del mercato di nuovi Paesi orientali, africani, afroamericani, balcanici ed ex sovietici. La Cina, la Corea, il Medio Oriente, l’America Latina, l’Africa, l’India, il Giappone, le nuove identità nazionali in Europa e altrove, per quanto riguarda la critica d’arte rappresentano problemi di grande complessità, sotto molteplici profili sia culturali, sia ideologici, sia politici. Solo l’importante lavoro di Foster, Krauss e altri (2004), più volte citato, s’impegna in una qualche riflessione ‘politica’, commentando una mostra famosa tenutasi nel 1989 al Centre Georges Pompidou di Parigi, Les magiciens de la Terre, mostra che ebbe come fondamentale merito quello di concorrere a sdoganare l’arte africana e di attuare un’analisi seria sulle culture postcoloniali.
Attualmente la critica africana tende a privilegiare il valore di autoctonia dei propri artisti, con il rischio di dover giustificare, nonostante l’impegno dei critici africani più importanti, come Salah Hassan, anche opere d’arte dal predominante carattere locale, le quali d’altronde sono realizzate con un preciso intento politico. L’arte africana contemporanea si libererà dalla sua dipendenza occidentale solo se l’artista originario dell’Africa esporrà in quanto artista di valore mondiale (Amselle 2005).
Un’altra enorme problematica critica è accesa dalla limitazione o dall’impedimento della libertà artistica in Paesi dal forte condizionamento repressivo e censorio, come la Cina, la Corea o alcuni Paesi islamici, come l’Irān. La critica d’arte in Cina – meta ambita soprattutto dagli inizi di questo secolo di un esercito di speculatori europei e americani – deve fare i conti con una ferrea censura nei riguardi di ciò che, ancora oggi, viene facilmente considerato come arte pornografica o arte antigovernativa. Per questo motivo, cui si somma anche la difficoltà di agili scambi teorici con il resto del mondo a causa delle differenze linguistiche, la critica cinese è oggi soprattutto impegnata a promuovere l’arte del suo Paese nel mondo e a tessere in Cina proficue relazioni commerciali. Si tratta ora di introdurre l’arte cinese in Cina, quell’arte prodotta da artisti in esilio, come in esilio sono costretti molti storici dell’arte (Bories 2008). L’enorme proliferare di artisti, in questo decennio, non esclude l’eccellenza, ormai internazionale, di alcuni di loro. Il ricorso sempre più frequente a tecniche multimediali (come per es. per Paul Chan) o performativo-installative (nel caso di Ai Weiwei) permette di veicolare messaggi anche fortemente critici nei confronti della situazione politica mondiale, accentuando un acido e ironico realismo cinico, dopo aver superato il cosiddetto movimento Pop politico.
Un caso a sé è costituito dal Giappone: quanto per noi è impossibile penetrare nella complessità della cultura e della vita giapponese, altrettanto difficile è per il giapponese affrancarsi dal suo carattere nazionale e uscire dal suo mondo nel quale passato e presente sono stati fatti armoniosamente convivere e nel quale la ‘contemporaneità’, come categoria della mente, è talmente percepita in ogni atto della vita individuale e collettiva da non sentire quasi l’esigenza di rappresentarla. Un aspetto culturale non ancora emerso del tutto neppure nell’ambito della stessa critica giapponese è la relazione che intercorre tra esperienze artistiche realizzate mediante tecnologie mediali molto sofisticate e l’antica componente religiosa scintoista. Tale relazione mostra come, per ogni giapponese, tutte le cose siano collocate sullo stesso piano e connesse le une alle altre, sia che appartengano al mondo fisico sia che facciano parte della dimensione digitale.
Non è per noi possibile comprendere unitariamente l’infinita diversità delle produzioni artistiche giapponesi (non possiamo dimenticare che esiste anche tutta una tradizione artistica di denuncia politica, sebbene molto spesso censurata), che vanno dalla produzione di manga e anime alle opere scientifico-elettroniche a forte valenza artistica, secondo le loro precise testimonianze, di ricercatori come John Maeda o Iroshi Ito. E non è neppure molto semplice contemperare insieme artisti tra loro così diversi come Mariko Mori, Yasumasa Morimura, Nobuyoshi Araki rispetto a Takashi Murakami, autore della teoria del superflat, una teoria che rappresenta forse l’ultima lezione del postmodernismo occidentale, introdotto in Giappone sin dagli anni Ottanta dal critico Akira Asada grazie a un fortunatissimo saggio e alle sue traduzioni di Deleuze, Baudrillard, Derrida e Žižek.
Di fatto, al Giappone manca l’esperienza del modernismo, come riconoscono critici e intellettuali quali Akira Asada, Masahiko Shimada e Fuyumi Namioka. Se ripensiamo a quali siano le peculiarità della cultura postmoderna (fine della dialettica degli opposti e così via) sarà più agevole comprendere come essa abbia solo rinforzato la naturale predisposizione del pensiero giapponese alla mancanza di una vera profondità emotiva, a una totale indifferenza tra cultura alta e bassa e la predisposizione a quell’unica dimensione di superficie, cosiddetta per l’appunto piatta, a cui la Pop art occidentale, nonostante W. Disney (nume tutelare dei più grandi autori di manga), non era stata capace di giungere.
Un film recente di Takeshi Kitano, Akiresu to kami (2008; Achille e la tartaruga), potrebbe essere assunto come metafora conclusiva del rapporto tra arte e critica in Giappone: l’artista, impersonato dallo stesso Kitano, provandosi in tutti gli stili dell’arte, fino al tentativo di suicidio come performance estrema, tenta di essere accettato dal critico, il quale, dall’interno della sua collezione di opere ancor più insignificanti, continua a dargli consigli senza mai farsi davvero raggiungere. Di fatto l’artista giapponese sta ancora cercando il suo mentore, il quale decida la sua collocazione all’interno o all’esterno del mondo (occidentale).
Il futuro critico
Il futuro è critico, vale a dire di difficile previsione, se si esclude quella di una progressiva e inarrestabile ingovernabilità su scala mondiale. E di fronte a questo orizzonte il critico futuro dovrà prendere posizione. Il contesto culturale nel quale opera la critica d’arte odierna, lo ribadiamo, non è più quello della modernità, ma quello della cosiddetta postmodernità, ossia la dimensione nella quale sono irreversibilmente scomparse le fondamentali illusioni politiche proprie dell’epoca precedente, la principale delle quali fu la speranza di realizzare un’effettiva, universale e permanente democrazia.
Dobbiamo avere ben presenti le conseguenze d’ordine pratico, determinate dalla caduta di queste illusioni. Dal punto di vista politico il quadro è a tutti noto; lo è meno quello culturale e filosofico, soprattutto se riferito all’ambito della funzione critica. Come afferma Zygmunt Bauman, l’assenza di una diagnosi adeguata della malattia della nostra società è una causa determinante, forse decisiva, della sua malattia (2000; trad. it. 2002, p. 255). Tutte le componenti dell’attuale trasformazione epocale determinano il profondo disincanto che colpisce definitivamente ogni mito metafisico e salvifico, in una terra diventata ovunque invivibile: per la metà dell’umanità a causa della povertà, per l’altra a causa della colonizzazione autoritaria e capitalistica di ogni contestazione, di ogni dissenso, di ogni dialettica. Quale enorme responsabilità dell’arte, dunque e, al tempo stesso, della critica che l’accompagna, nel tacere questa condizione attuale, tardocapitalistica, il cui carattere tragico non può non essere rappresentato per tentare di uscire dal labirinto di specchi di questo spettacolo costituito da fantasmi politicamente progettati.
Nessuna riflessione sulla critica può dimenticare questo contesto ormai ‘militare’, contro il quale il potere moralmente salvifico dell’arte, del cinema, della musica, della poesia e della letteratura potrebbe dimostrare la potenza della sua controinformazione, contrapponendo a quella che per tanti secoli venne considerata la prerogativa essenziale dell’arte, vale a dire la sua valenza estetica e la sua capacità di produrre bellezza, la forza laica di una moralità combattente. Perché la dimensione della vita sociale, trasformata dal tardocapitalismo in spettacolo (in esteticità diffusa) e in perfetta coincidenza finale tra consumo e mercificazione, può e deve essere rappresentata mediante segni di nuova specie.
Ma, nella postmodernità, tutto sfuma, tutto si ‘sdefinisce’, tutto si amalgama. Tutto si smarrisce in quello che stato giustamente definito il «deserto del reale» (Žižek 2002), un deserto senza orizzonti, senza prospettive, senza progetto, illuminato dai mille miraggi prodotti dal desiderio dell’inutile. Nella società del consumo utilitaristico la vita stessa si trasforma in messinscena del reale. Esiste un cinema ed esiste un’arte che ne trasmettono finalmente il desolato paesaggio, facendo comprendere allo spettatore che il vero eroe vendicativo non sta sullo schermo bensì davanti a esso: è lo spettatore che deve tornare a farsi reale, vale a dire soggetto critico.
In questo senso il richiamo del sociologo Beck alla necessità di rifondare una ‘seconda modernità’ pare estremamente puntuale. È vero, sostiene Beck, che non si può non concordare con tutti quei teorici postmoderni che sono critici nei confronti delle grandi narrazioni, della teoria generale e dell’umanità, tuttavia il ritorno a un possibile ‘illuminismo’ significherebbe il recupero di un processo e di una serie di dinamiche «in cui la critica, l’autocritica, l’ironia e l’umanità giocano un ruolo centrale» (Risikogesellschaft, 1986; trad. it. 2000, p. 347).
Questa pratica discorsiva che è la critica – che a ragione della sua asistematicità si differenzia da quelle che Michel Foucault chiamava le discipline rigorose, la matematica, la chimica, la fisica e così via – proprio per la sua dinamica a balzi e a incursioni del tutto impreviste, per la sua capacità di assimilare e fare propri concetti nomadi, potrebbe produrre una vera diagnosi, una rivoluzione cognitiva, non soltanto sulle arti, architettura e design compresi, ma anche su quel mondo di cui l’arte è sempre e comunque rappresentazione, sintomo e simbolo, e insieme anche uno strumento della sua riprogettazione.
Bibliografia
G. Agamben, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Torino 1996.
H. Foster, The return of real. The avant-garde at the end of the century, Cambridge (Mass.) 1996 (trad. it. Milano 2006).
A.C. Danto, After the end of art. Contemporay art and the pale of history, Princeton (N.J.) 1997 (trad. it. Milano 2008).
Z. Bauman, Liquid modernity, Cambridge-Malden (Mass.) 2000 (trad. it. Roma-Bari 2002).
R. Krauss, A voyage on the North sea. Art in the age of the post-medium condition, New York 2000 (trad. it. L’arte nell’era postmediale, Milano 2005).
M. Perniola, L’arte e la sua ombra, Torino 2000.
N. Bourriaud, Esthétique relationnelle, Dijon 2001.
N. Bourriaud, Post production. La culture comme scénario: comment l’art reprogramme le monde contemporain, Dijon 2002 (trad. it. Milano 2004).
S. Žižek, Benvenuti nel deserto del reale. Cinque saggi sull’11 settembre e date simili, Roma 2002.
A. Danto, The abuse of beauty. Aesthetics and the concept of art, Chicago 2003 (trad. it. Milano 2008).
G. Didi-Huberman, Images malgré tout, Paris 2003 (trad. it. Milano 2005).
H. Foster, R. Krauss, Y.-A. Bois, B.H.D. Buchloh, Art since 1900. Modernism, antimodernism, postmodernism, New York 2004 (trad. it. Bologna 2006).
J.-L. Amselle, L’art de la friche. Essai sur l’art africain contemporain, Paris 2005 (trad. it. L’arte africana contemporanea, Torino 2007).
R. Krauss, Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte di oggi, Milano 2005.
E.L. Francalanci, L’estetica degli oggetti, Bologna 2006.
E. Bories, Pragmatisme de l’art contemporain chinois, «Artpress», mars 2008, 343, pp. 30-39.
B. Rose, Paradiso americano. Saggi sull’arte e l’anti-arte 1963-2008, Milano 2008.
S. Žižek, In defense of lost causes, London-New York 2008 (trad. it. Milano 2009).
E. Shanken, Art and electronic media, London 2009.