di Gian Paolo Calchi Novati
Nella regione che comprende la valle del Nilo e il Corno d’Africa la geografia ha stabilito le gerarchie fra le diverse comunità condizionando direttamente la processualità politica. I gruppi che hanno avuto accesso alle risorse governando meglio il territorio hanno costituito imperi o stati dominanti. I gruppi esclusi dalle risorse più importanti e quindi dal potere hanno lottato per sottrarsi alla dipendenza. I confini hanno subito contestazioni e modifiche. Su questo sfondo – contrassegnato dalla dialettica che oppone stati ‘conservativi’ e stati o movimenti ‘revisionisti’ – si riversano le dinamiche messe in moto dalla crisi di identità e stabilità che infuria nella fascia di passaggio fra Nord Africa e Africa subsahariana.
La dimensione religiosa non è sconosciuta alle vicende di una regione in cui coabitano le tre confessioni monoteiste basate su testi scritti. Sia nell’Alto Nilo sia nello spazio in cui si è imposto l’impero etiopico spostando via via verso sud la capitale (da Axum a Addis Abeba), cristianesimo e islam si sono fronteggiati spartendosi le aree di insediamento e di influenza. Fra i fattori della grande tradizione su cui si fonda la legittimità della dinastia salomonide eccelle il cristianesimo nella versione copto-ortodossa. Al contrario, nel Sudan il potere si è consolidato attorno al nucleo arabo-musulmano.
Gli stati che hanno sfruttato a proprio vantaggio miti storici di lunga durata che risalgono a Luxor e Giza, Kush, Meroe e Axum – e quindi l’Etiopia e il Sudan oltre all’Egitto – si sono difesi validamente contro l’incorporazione coloniale e hanno conservato al loro interno relazioni sociali di tipo feudale o tributario. L’Eritrea, divisa fra un altopiano cristiano e un bassopiano islamizzato, si è ribellata alla signoria dell’Etiopia conquistando l’indipendenza sul campo nel 1991 (formalizzata nel 1993). Le minoranze nere, non arabe e parzialmente cristianizzate del Sudan meridionale hanno ottenuto l’indipendenza nel 2011 dopo una lunga guerra fra nord e sud, un trattato e un referendum con il pieno avallo dell’Unione Africana e dell’Un. La Somalia indipendente con capitale Mogadiscio si è proposta naturalmente come un ‘centro’ islamico alternativo alla vocazione totalizzante dell’impero cristiano con l’effetto di galvanizzare le popolazioni musulmane, specialmente se senza patria (cominciando dai somali dell’Ogaden etiopico e della regione nord-orientale del Kenya).
In tutto l’ultimo periodo le cause nazionali sono state soverchiate o strumentalizzate dai fattori globali. Addis Abeba presidia la sua integrità ma al servizio del neo-contenimento praticato dagli Stati Uniti: la war on terror indetta da George W. Bush e continuata da Obama ha trovato uno dei focolai più attivi nella Somalia a lungo priva di stato. Il nazionalismo somalo nella variante radicale degli Shabaab, alleati di al-Qaida nel Maghreb islamico, e l’Eritrea, con un governo cristiano che non lascia margini politici ai suoi musulmani, hanno stipulato un’intesa spuria avendo come nemico comune l’egemonismo etiopico. Nel teatro delle operazioni sono coinvolti Gibuti, che ha rinunciato alla tradizionale neutralità fornendo una base operativa agli Stati Uniti; lo Yemen, che i miliziani somali hanno utilizzato come retrovia; il Kenya, alla prese con l’irredentismo dei suoi somali e contagiato dal terrorismo di marca islamista.
La nascita del Sud Sudan ha reso più complicata la gestione delle acque del Nilo, uno dei nodi strategici per una regione dove, a differenza del Medio Oriente, l’agricoltura rimane essenziale. L’Egitto ha sempre temuto la presenza alle sue spalle di uno stato fuori controllo e tanto più di due stati sudanesi probabilmente ostili fra di loro. Il Cairo ha accettato il verdetto del 2011 ma segue con allarme gli sviluppi della turbolenza scatenatasi subito dopo la separazione del Sud Sudan, che ha già le sembianze di stato fallito.
L’Egitto fatica ad abituarsi all’idea che i privilegi nell’uso delle acque del Nilo riconosciutigli dalla Convezione firmata con il solo Sudan nel 1959, che gli hanno permesso di ampliare a dismisura la terra coltivabile, non sono più così sicuri davanti alle istanze dei paesi che forniscono la maggior parte dell’acqua. Gli sbarramenti costruiti finora dal Sudan non hanno danneggiato l’Egitto e forse lo hanno persino favorito evitando un eccessivo accumulo di terriccio nel flusso del grande fiume fino al lago Nasser. Tutt’altro discorso vale per le dighe nello stesso Sudan predisposte all’irrigazione e soprattutto per le grandi dighe costruite dall’Etiopia sul Nilo Blu e suoi affluenti, con investimenti, tecnologia e lavoro che vedono fra i protagonisti anche un’impresa italiana.
Con una specie di nemesi, è l’Etiopia ora a elevare le dighe a fattore di accreditamento politico di un governo in cerca di consenso come è accaduto per Nasser e la diga di Assuan negli anni Cinquanta e Sessanta. L’idro-egemonia è per sua natura unilaterale e si esprime in una forma negativa/dominativa che ostacola la cooperazione anche quando ce ne sarebbero le condizioni. La Commissione per il bacino del Nilo, istituita nel 1999 dai dieci stati rivieraschi, non è riuscita a risolvere le asimmetrie fra chi sta a monte e chi a valle.