Geografia umana
La geografia umana è oggi una disciplina multiforme e ambiziosa. Si potrebbe cercare di definirla con una formula lapidaria dicendo che studia l'uomo sulla Terra, l'uomo e la Terra o la dimensione spaziale delle società, ma ci sfuggirebbe così una parte del suo contenuto; è preferibile allora descrivere nei particolari i suoi metodi attuali.
La geografia umana studia anzitutto la distribuzione degli uomini sulla Terra e la maniera in cui vivono. Essi traggono dalla natura ciò che è loro indispensabile per il nutrimento, per la produzione di utensili e attrezzature, per la costruzione di ripari e case. Con la loro azione modificano profondamente le piramidi ecologiche in cui s'inseriscono: riescono talvolta ad attingere solo a risorse rinnovabili, permettendo l'indefinito rigenerarsi del sistema utilizzato, ma in altri casi lo perturbano in modo irreversibile, dando origine a forme di terreno, a suoli e a specie vegetali molto diverse da quelle esistenti prima.
La geografia umana si sofferma poi sul funzionamento delle società e sul modo in cui le distanze e la lontananza ne influenzano variamente le attività. Il corpo sociale somiglia a una macchina: perché funzioni bene, le sue parti devono articolarsi tra loro in modo efficiente. Le posizioni centrali favoriscono contatti e relazioni, mentre la periferia presenta interesse solo per le risorse di cui dispone. La macchina sociale non si sviluppa in uno spazio omogeneo, ma in ambienti molto diversi, e certi luoghi favoriscono configurazioni specifiche.
La geografia umana non si ferma a questa visione meccanica dell'organizzazione spaziale delle società. Gli uomini s'interrogano sul senso da dare al loro passaggio sulla Terra e attribuiscono al mondo e alla natura vari significati: certi luoghi sono per loro sacri e altri profani, qui hanno la sensazione di trovarsi di fronte a paesaggi autentici mentre altrove tutto sembra artefatto. Amano ciò che è originale e spesso rifiutano ciò che è banale; i loro sogni e le loro aspirazioni influiscono sulle loro decisioni e finiscono col riflettersi nelle sistemazioni dell'ambiente da essi realizzate.La geografia umana presenta dunque tre versanti. Il primo studia il posto degli uomini negli ecosistemi; il secondo analizza la logica per cui le innumerevoli decisioni umane finiscono col produrre un certo ordinamento spaziale, un'organizzazione regionale; il terzo si interessa del modo in cui gli uomini concepiscono il mondo, gli attribuiscono un senso e di conseguenza lo modificano. Le tre articolazioni della geografia umana non sono indipendenti tra loro, ma utilizzano strumenti di diversa natura. L'ottica è di tipo naturalistico quando si tratta di vedere come l'uomo s'inserisca nelle piramidi naturali, le domini e le modifichi. I procedimenti somigliano invece a quelli della sociologia, dell'economia e della scienza politica quando si tratta di comprendere i meccanismi che nascono dall'interazione fra gli individui e dalla loro ricerca di prestigio, potere e ricchezza. Per valutare invece le reazioni degli uomini all'ambiente naturale è utile servirsi della psicologia, ma i suggerimenti più preziosi vengono dagli studi umanistici, dalla filosofia, dalla storia delle idee e dallo studio delle ideologie e delle rappresentazioni collettive. La geografia umana si avvicina pertanto alle scienze ermeneutiche.Sebbene abbia appena un secolo di storia, la geografia umana è una disciplina complessa. Per comprendere i suoi aspetti attuali e l'aspirazione dei suoi cultori ad associare punti di vista così diversi, è opportuno osservare come si sia sviluppata la riflessione al suo interno: si capirà allora come l'insieme degli attuali interessi sia nato dallo sforzo di superare approcci rimasti a lungo troppo parziali e unilaterali.
La geografia è una delle più antiche discipline scientifiche coltivate dall'uomo: il suo iniziatore fu probabilmente Erodoto, ma il suo programma fu definito soprattutto nell'età ellenistica. La denominazione data a questa scienza ne esprime chiaramente la finalità: descrivere la Terra, e a tale scopo sapere anzitutto ubicare i luoghi. La geografia presenta il mondo: mostra le articolazioni regionali del pianeta, mette in risalto le affinità che emergono tra un paese e l'altro, ne ricerca le cause, e inoltre sottolinea ciò che conferisce a ciascun luogo un aspetto inconfondibile. La geografia di posizione, indispensabile per cogliere le configurazioni spaziali e per valutare gli effetti della latitudine, della longitudine e della continentalità, viene trattata da Tolomeo, mentre l'opera di Strabone è notevole per le sue descrizioni. In tutto ciò l'uomo non è assente: si enumerano i popoli, se ne descrivono i costumi, si evidenzia ciò che nella natura e nell'orografia è favorevole alle loro attività; tuttavia l'accento è posto più sul territorio che sugli abitanti.Fino al XVIII secolo la geografia continua a dedicarsi soprattutto alla descrizione della Terra e alla localizzazione. Lo studio della società conserva per essa un'importanza limitata. Dopo il 1750 si ha un cambiamento, legato ai decisivi progressi del rilevamento topografico e alla determinazione esatta delle longitudini: i problemi di localizzazione diventano puramente tecnici e non sono più al centro della disciplina. La descrizione della Terra si fa più precisa, grazie agli sviluppi delle scienze naturali: zoologia, botanica e geologia permettono di denominare animali, piante e rocce e di individuarne i caratteri specifici. Le ricerche di agronomia portano a risultati analoghi per quanto riguarda i paesaggi agrari.
Il cambiamento più importante viene però dall'esterno: con Herder il pensiero tedesco critica l'idea di progresso, fondamentale per l'illuminismo, senza peraltro rinunziarvi. I popoli si evolvono, ma ognuno con ritmi diversi e seguendo vie proprie; il divenire di ciascuno di essi s'inscrive nel territorio in cui è insediato e che condiziona il suo sviluppo. Le filosofie della natura che fioriscono all'epoca mostrano che la comprensione della storia passa attraverso la geografia e che il destino dei gruppi sociali è inscindibile dall'ambiente in cui essi vivono. Dall'inizio del XIX secolo, con Karl Ritter e Alexander von Humboldt, si amplia il posto dell'uomo nella geografia, le cui finalità si estendono: alla descrizione della Terra (spesso si precisa: alla rappresentazione delle sue differenziazioni regionali) si aggiunge l'aspirazione a rendere intelligibile il processo evolutivo di ciascun popolo in funzione del suo ambiente.
Tuttavia non si può ancora parlare di geografia umana: perché la trasformazione della disciplina sia completa occorrerà l'impatto del darwinismo, secondo il quale l'evoluzione degli esseri viventi dipende dalla pressione selettiva dell'ambiente. Gli studi sulle piante e sugli animali implicano d'ora in poi due distinti sbocchi: l'analisi dell'ambiente di vita, a cui si dedica l'ecologia (così battezzata da Ernst Haeckel nel 1866), e quella degli influssi che l'ambiente stesso esercita sugli esseri viventi. Friedrich Ratzel, che si è formato come zoologo e conosce a fondo i vari aspetti del pensiero darwiniano e dell'evoluzionismo, pubblica un'Anthropogeographie in due volumi (1882 e 1891), che segna l'ingresso della geografia umana nell'ambito delle scienze. Qualche anno dopo, fra il 1898 e il 1900, i francesi cominciano a usare l'espressione 'geografia umana' - preferendola a quella di 'antropogeografia', giudicata troppo pedantesca - e concepiscono la nuova disciplina, in termini evoluzionistici, come una branca della biogeografia: c'è una geografia umana così come c'è una geografia botanica.
Lo scopo della nuova disciplina è dunque, nell'ottica darwiniana, di studiare il modo in cui le società umane sono modellate dall'ambiente nelle loro componenti, nel loro funzionamento e nella loro evoluzione, in modo da stabilire delle leggi che permettano di spiegare il destino degli uomini e delle società. Ma occorre ben presto rinunziare a quest'ambizione: l'uomo è un animale culturale, e impara a consolidare il suo dominio sul mondo naturale più arricchendo la sua cultura che adattandosi all'ambiente in cui è insediato. Non si può comprendere il futuro delle società se si ignorano le loro capacità d'invenzione e di assimilazione da altre civiltà e se si trascurano gli scambi e le migrazioni. Sebbene le aspirazioni originarie di Ratzel fossero permeate di darwinismo, nella sua Anthropogeographie egli insiste tanto sulla circolazione e sulla storia, quanto sull'azione diretta dell'ambiente. I geografi francesi vanno oltre in questa cauta reazione agli eccessi dell'ecologismo, e Paul Vidal de la Blache enunzia la teoria del possibilismo: la natura propone, ma è l'uomo a disporre. Le idee sulla geografia umana si modificano quindi sensibilmente, anche se la disciplina mantiene il suo fondamento ecologico e mette in risalto i rapporti tra l'uomo e il suo ambiente.
La geografia umana, quale si costituisce sul finire del secolo scorso, si presenta come una disciplina ricca di dinamismo e d'immaginazione, che però incontra qualche difficoltà nel definire con chiarezza il proprio oggetto. I suoi cultori lavorano come naturalisti: intendono essere oggettivi e non attribuire troppa importanza alle idee, alle rappresentazioni e alle immaginazioni. Descrivono i gruppi umani, analizzano le loro attività, redigono l'inventario delle trasformazioni prodotte nell'ambiente e delle strutture realizzate dall'uomo (case, campi, recinzioni, ecc.). Questa preoccupazione positivistica è particolarmente evidente in Jean Brunhes, autore, nel 1910, del primo trattato di geografia umana in lingua francese: egli raccomanda di attenersi ai fatti primari della geografia umana, quelli dell'occupazione produttiva o distruttiva del suolo, e accenna solo con cautela agli aspetti propriamente sociali o etnografici dell'analisi.
Queste incertezze si manifestano nella molteplicità delle definizioni allora date della geografia umana. Per alcuni questa disciplina esamina il modo in cui gli uomini hanno stabilito il loro dominio sulla superficie terrestre: ciò significa restare fedeli ad alcuni dei presupposti evoluzionistici, ponendo l'accento sui rapporti 'verticali' tra l'uomo e l'ambiente e sulla prospettiva storica. Ma l'uomo non è più visto come in balia dell'ambiente naturale: egli impara a dominarlo rispettando le sue leggi, secondo la formula classica. Nel momento in cui le ultime grandi ondate di pionieri europei invadono i nuovi paesi, il tema dell'assoggettamento del mondo naturale appare seducente. Esso è presente spesso negli autori americani: Isaiah Bowman è il primo a mettere in risalto le particolarità geografiche della 'frontiera', dei fronti di dissodamento e delle società che su di essi s'insediano.
Dopo la Rivoluzione d'ottobre i geografi sovietici e alcuni studiosi comunisti di altri paesi trovano nel tema della conquista della natura un argomento congeniale e conforme all'ortodossia definita dal partito; non mancano tuttavia le critiche che sottolineano il carattere parziale e le lacune di quest'approccio. La conquista del pianeta da parte dell'uomo non avviene in modo lineare: le avanzate sono seguite talvolta da arretramenti, e i successi iniziali generano difficoltà dovute alla degradazione, spesso irreversibile, degli ambienti valorizzati.
Nasce peraltro il dubbio che l'approccio evoluzionistico possa creare ostacoli alla geografia umana. Lo pensano coloro che si rifanno alle antiche finalità della geografia, e cioè alla descrizione e allo studio delle differenziazioni regionali della superficie terrestre: nell'ambito della disciplina così intesa la geografia umana ha il compito di precisare il ruolo dell'uomo nella formazione dei paesaggi. Quest'idea, che ottiene un grande successo in Germania grazie all'opera di Otto Schlüter, è al centro dell'analisi della Landschaft, riguardante sia gli elementi fisionomici, sia la loro organizzazione spaziale (nel termine tedesco sono infatti compresenti il significato di 'paesaggio' e quello di 'regione'). Negli Stati Uniti l'idea è ripresa da Carl Sauer, fondatore della Scuola di Berkeley, che si occupa di ricostruire, attraverso le testimonianze fornite dall'archeologia del paesaggio e dalle civiltà indie attuali, ciò che era l'America prima dell'arrivo degli Europei. La dimensione ecologica è presente con grande evidenza in questa versione tedesco-americana della concezione tradizionale della geografia.
In Francia l'idea di mettere in risalto il ruolo dell'uomo nella differenziazione della superficie terrestre viene ugualmente accolta, ma con un diverso orientamento: più che a studiare le trasformazioni prodotte dall'uomo nell'ambiente e a eseguire rilevamenti minuziosi delle varie specie vegetali, ci si dedica a esaminare il modo in cui gli uomini organizzano lo spazio, e la ricerca riguarda più l'analisi delle realtà regionali che la comprensione dei paesaggi.
Questo ritorno alla concezione classica della geografia, con fugaci riferimenti alle iniziative dell'uomo, non soddisfa quanti sono sensibili alla complessità delle realizzazioni umane. Tra questi vi è Albert Demangeon, secondo il quale la geografia umana studia la distribuzione degli uomini e delle loro opere sulla superficie terrestre. Poco importa che tale presenza costituisca un fattore di omogeneizzazione o di differenziazione: ciò che conta è prendere in esame tutte le forme dell'attività umana e ogni loro manifestazione. Fra tutte le formulazioni della geografia umana classica, è questa la più adatta a chi voglia ampliare l'indagine dei meccanismi sociali, economici e politici operanti nella vita associata. A essi Demangeon era molto attento, e sulla scia delle sue concezioni si è potuta attuare più agevolmente la grande mutazione degli anni cinquanta e sessanta.
All'inizio del secolo i lavori dei geografi sono fortemente segnati, oltre che da un'impostazione di tipo naturalistico, anche da una forte impronta economicistica fisiocratica: ciò che ad essi più importa descrivere sono le attività produttrici di ricchezza, e in particolare quelle relative alla valorizzazione dei terreni mediante le colture e l'allevamento. Vi sono ragioni valide per questo: accrescere la produzione è uno dei temi dominanti dell'epoca, e l'agricoltura interessa distese di territorio assai più vaste che non le industrie o i servizi. Ma alcuni autori reagiscono all'economicismo dominante, e fra loro vi è, al termine dell'evoluzione della geografia classica, Maurice Le Lannou. Per lui la geografia umana studia la Terra come habitat dell'uomo e definisce il modo in cui egli vi è insediato: è una scienza dell'uomo-abitante. Questa formula 'forte' ebbe un notevole influsso. Nelle intenzioni di Le Lannou essa non mette in discussione la preminenza dei metodi positivi, attenti quasi esclusivamente agli aspetti materiali dell'esistenza e dell'organizzazione spaziale; ma l'idea dell'uomo-abitante porta a occuparsi del modo in cui gli uomini percepiscono la Terra, vi scelgono la propria dimora e vi organizzano il territorio in cui si svolge la loro vita. Si avverte in ciò la possibilità di un'apertura agli interessi umanistici: la definizione di Le Lannou, come quella di Demangeon, apre la strada a nuovi sviluppi.
Ciò che differenzia una regione della Terra dall'altra è innanzitutto il numero degli abitanti. Partendo dalle carte di densità, i geografi valutano la pressione che i gruppi umani esercitano sull'ambiente, impostando così il problema fondamentale di ogni approccio ecologico: in che modo la popolazione della zona considerata riesca a trarre il proprio sostentamento dal contesto ecologico locale, in che misura lo modifichi, e se quest'azione sia irreversibile. La cartografia delle densità va di pari passo con l'orientamento fisiocratico di questo primo tipo di geografia umana e col particolare interesse che esso ha per tutto ciò che riguarda la vita rurale e quella pastorale.
Lo studio della produzione pone in primo piano l'analisi delle attività umane, che peraltro non sono tutte destinate a soddisfare le necessità materiali: l'uomo ha bisogno infatti di crearsi un ambiente di vita e di organizzare dei luoghi in cui sentirsi al sicuro, riposarsi, ritrovarsi in famiglia e incontrare i propri simili.La descrizione delle attività umane sarebbe un compito smisurato se non vi fosse un certo ordine e non si evidenziassero certe regolarità. Nelle società in cui la divisione del lavoro è poco avanzata e il modo di vita resta di tipo rurale, le necessità legate al calendario delle coltivazioni e dell'allevamento si manifestano quasi inalterate nell'impiego del tempo sia degli uomini che delle donne: a questa conclusione si arriva descrivendo i vari 'generi di vita', concetto che da Vidal de la Blache in poi diventa fondamentale per tutta la geografia classica.
Lo studio dei generi di vita serve fra l'altro a comprendere il modo in cui gli uomini s'inseriscono nell'ambiente; l'ecologia non ha ancora concetti operativi da proporre, in quanto non hanno fatto la loro apparizione l'idea di ecosistema e l'analisi del ciclo dell'energia. Nella descrizione del genere di vita si prende in esame il complesso delle attività di valorizzazione del territorio, il modo in cui la vegetazione naturale viene regolata, utilizzata o sostituita da associazioni di colture, e come sono consumati i raccolti. La parte principale di questi è destinata all'alimentazione umana (sul posto o altrove, qualora la produzione sia messa in commercio), un'altra parte serve per gli animali domestici e il rimanente fornisce materie prime (ad esempio fibre tessili) per le industrie. Le tecniche di conservazione della fertilità e di lotta contro l'erosione del suolo non sono tutte egualmente efficaci: nello sfruttare il pianeta l'uomo è di solito previdente, ma talvolta mette in pericolo il patrimonio naturale.
Per vivere a lungo non basta produrre a sufficienza, giacché sugli uomini incombono numerose malattie: i rischi che ne conseguono sono in genere maggiori dove la vita di relazione è più attiva e negli ambienti in cui prosperano certi complessi patogeni. La geografia medica rappresenta un altro contributo importante del metodo classico all'analisi del ruolo degli uomini negli ecosistemi.
A causa del loro orientamento naturalistico e del risalto dato alla densità della popolazione e alla conseguente pressione ecologica, i geografi classici si dedicano più ad analizzare le relazioni 'verticali' stabilite dagli uomini col proprio ambiente che a chiarire i nessi 'orizzontali' interumani; quest'aspetto non viene però trascurato, anche se non è considerato primario. Ratzel e Vidal de la Blache insistono entrambi sull'importanza dei fenomeni di circolazione, senza i quali non si comprenderebbe il diffondersi delle innovazioni: ad essi le società modernizzate dalla rivoluzione dei trasporti e da quella industriale devono la loro crescente indipendenza dall'ambiente circostante. A tale proposito Vidal de la Blache ha sviluppato, soprattutto verso la fine della sua carriera, alcuni spunti originali, che tuttavia non sono stati ripresi dai suoi continuatori.
Lo studio della circolazione introduce nella geografia classica la dimensione evolutiva: i problemi delle culture primitive, totalmente dipendenti da un ambiente circoscritto e vicino, non hanno molto in comune con quelli dei moderni abitanti delle città, i cui rifornimenti alimentari provengono non di rado da altri continenti. Il succedersi delle forme di valorizzazione e di popolamento attrae ora i geografi, che sovente dedicano a esso i loro saggi migliori. Poiché in genere conservano le impronte delle situazioni precedenti, i paesaggi si prestano a interpretazioni di tipo archeologico. Sia i tedeschi che l'americano Sauer e i suoi allievi sono portati ad analizzare minutamente i paesaggi e il modo in cui essi vengono periodicamente riorganizzati; in Francia invece l'attenzione è rivolta, più che a essi, agli uomini e alle strutture da loro create: da ciò la preminenza attribuita agli studi regionali.
La geografia classica apporta alle scienze sociali in via di formazione due contributi principali. In primo luogo, essa insegna a elaborare rappresentazioni cartografiche delle serie statistiche, suggerendo correlazioni che passerebbero altrimenti inosservate: André Siegfried fonda la geografia elettorale analizzando la distribuzione dei voti nella Francia occidentale nel corso di un cinquantennio. In secondo luogo, i geografi contribuiscono largamente al progresso della ricerca sul campo, anche se non sono i soli a farla, essendo stati preceduti in questo settore dai sociologi. Mentre però gli altri studiosi si limitano a intervistare le persone e a esaminare le attrezzature di cui esse si servono, i geografi insegnano a osservare le forme dei campi, le recinzioni che li delimitano, e gli insediamenti, la loro dislocazione e la tipologia: i documenti d'archivio non sono l'unica fonte di notizie. Come ha affermato Krysztof Pomian, la scuola delle "Annales" è stata profondamente influenzata da questa nuova impostazione. La geografia umana rivela, al di là delle divisioni prodotte dalle vicende politiche e dalle necessità amministrative, l'esistenza di forme di organizzazione e di strutturazione più profonde e più stabili e il permanere di addensamenti: le divisioni regionali più significative prescindono spesso dai confini ufficiali. La geografia umana si riallaccia infine alla corrente di pensiero, inaugurata dai fisiocrati e presto interrotta, secondo cui gli uomini vivono solo di ciò che traggono dal loro ambiente; nelle altre discipline, invece, si tende troppo spesso a dimenticare questa realtà.
La geografia classica incontra peraltro certe limitazioni, che portano, alla fine, a metterne in questione la validità. Non tutte le sue carenze sono ad essa stessa imputabili, perché l'ecologia compie progressi decisivi solo fra il 1930 e il 1940 e fino allora la geografia continua a utilizzare al meglio l'armamentario concettuale disponibile all'inizio del secolo, che comincia a essere superato. La principale insufficienza consiste nell'impostazione naturalistica, a cui si deve la scarsa importanza attribuita all'analisi dei meccanismi sociali, economici e politici e delle loro implicazioni territoriali. I geografi ignorano la teoria della localizzazione, i cui risultati sono invece già consolidati. Walter Christaller, l'unico geografo che negli anni trenta si serve di criteri analoghi a quelli degli economisti, verrà scoperto con vent'anni di ritardo.I sociologi non ignorano la base materiale delle società, ma diffidano dell'impostazione deterministica della prima geografia evoluzionista e la rinfacciano ai geografi della seconda generazione, che da parte loro la rifiutano anch'essi: fra la geografia umana e la morfologia sociale alla maniera di Durkheim e di Halbwachs l'incomprensione è totale. Né miglior sorte è riservata negli Stati Uniti ai lavori di Park, di Burgess e della Scuola di ecologia urbana di Chicago. La geografia politica si dedica ai popoli progrediti - ai Kulturvölker di Ratzel, i soli capaci di istituire degli Stati - ma rimane molto in superficie: i suoi cultori sono talmente invischiati nei problemi di frontiere, di territori, di città capitali da non riuscire ad analizzare i fenomeni relativi alla posizione, il modo in cui essi sono percepiti dai responsabili della vita politica e i loro effetti sul corso della storia mondiale. Vi riescono solo i migliori: Mackinder, Siegfried, Bowman e, nonostante le sue discutibili prevenzioni ideologiche, Haushofer.
L'incapacità della geografia umana classica di esplorare a fondo le moderne società industrializzate e urbanizzate trova spiegazione nella dominante mentalità naturalistica. Talvolta si riesce a compiere tale esplorazione, ad esempio nelle monografie di Demangeon sull'Impero britannico, di Baulig sugli Stati Uniti o di Siegfried sulle grandi democrazie anglosassoni; mancano però le basi teoriche per sistematizzare le notevoli intuizioni di questi autori.Il contributo più originale della geografia classica va cercato nel campo degli studi regionali. Fin dall'antichità lo scopo della disciplina era stato di illustrare le peculiarità dei vari luoghi, ciò che essi hanno in comune con altri e ciò per cui ne differiscono: i geografi dell'inizio del Novecento si dedicano appunto a delineare la personalità (è questo il termine che essi adoperano) dei luoghi, dei paesaggi, delle città, delle regioni, delle nazioni. A tal fine, nel caso di un territorio complesso come quello della Francia, Vidal de la Blache mette in evidenza come unità e singolarità nascano dall'associazione di elementi eterogenei ma complementari; la combinazione che ne risulta è così originale da non poter esistere che in un unico esemplare. La personalità riflette anche la qualità degli ambienti naturali; nel caso della Francia, ciò che facilita la sintesi è l'intima mescolanza degli ambienti insieme alle transizioni che essi consentono: la loro composizione in un sistema coerente è insita nella loro stessa natura.
Ma all'inizio del secolo la geografia non ha ancora sviluppato alcuna teoria che spieghi in modo soddisfacente la specificità delle unità più semplici: per rendere quest'aspetto del reale ci si affida alla sensibilità e al talento letterario, il che può dare talvolta buoni risultati, ma da un punto di vista metodologico equivale a una dichiarazione di fallimento.
Attraverso l'attenzione per la dimensione espressiva, la geografia dell'inizio del Novecento si apre, senza esserne consapevole e senza elaborarne una teoria, all'esperienza vissuta del mondo: quella dei geografi, ma anche quella degli abitanti delle regioni descritte, nella misura in cui sono attenti al modo di denominare i luoghi e di percepire le diverse entità regionali. Malgrado questo tentativo interessante, la geografia come veniva allora praticata era incapace di studiare il mondo industriale e di elaborare semplici direttive per chi aspirava a organizzare e trasformare l'esistente. In effetti, nonostante la volontà naturalistica di lavorare su basi positive, si trattava, più che di un sapere scientifico, di un'esplorazione prudente e marginale di campi che saranno oggetto d'indagine nei successivi sviluppi.
A cominciare dai tardi anni quaranta i geografi sono portati, anche per il cambiamento del clima intellettuale, a rimettere in discussione il paradigma classico. Mentre all'inizio del secolo le scienze della natura erano imperniate sulla ricerca di spiegazioni genetiche, ora comprendere la 'fisiologia degli eventi' appare più importante che non sapere da che cosa, perché e come hanno avuto origine. La conoscenza dei meccanismi che regolano la vita dei diversi sistemi consente di prevedere le loro condizioni future a partire dalla situazione attuale: diventa possibile la previsione e ciò facilita gli interventi. Si sa come e dove agire per dirigere il corso degli avvenimenti.I concetti di sistema e di struttura sono al centro della mentalità scientifica che negli anni cinquanta s'impone un po' dappertutto nelle scienze sociali: queste adottano uno dei modelli delle scienze positive, il modello sistemico. Esso permette un profondo rinnovamento delle varie discipline e ne moltiplica le applicazioni, ma il suo impiego pone ben presto un certo numero di interrogativi: è sufficiente che una struttura sia stabile perché sia accettabile? Si deve favorire l'evoluzione di un sistema verso una configurazione che lo rende più efficiente anche se ciò crea nuove disuguaglianze e ingiustizie tra i suoi membri? Il paradigma neopositivistico ha qualcosa in comune con quello naturalistico a cui subentra: anche per esso gli uomini sono solo pedine nell'ambito di un sistema. Se per i seguaci del naturalismo essi erano cellule di un tutto organico, per i neopositivisti sono parti di una macchina. Possono però le scienze sociali ignorare le aspirazioni degli uomini alla giustizia e alla felicità? Secondo i radicali, critici verso gli sviluppi degli anni sessanta, la risposta è negativa.
Pertanto i nuovi orientamenti delle scienze sociali non accrescono di molto la considerazione dell'elemento umano, e parecchi cominciano a chiedersi se si attribuisca la dovuta importanza agli individui: quest'atteggiamento si oppone però alla tendenza dominante a occuparsi soprattutto di riproduzione sociale, di addestramento e di condizionamenti. Anche il marxismo e le teorie di Freud hanno insegnato a guardare l'uomo con un certo cinismo: da un lato la scoperta dell'inconscio ha fatto perdere ogni fiducia in ciò che appare troppo chiaro e razionale, dall'altro si è diventati spesso un po' frettolosi nel giudicare mistificatorie le idee della gente sulla società in cui si vive.
Sul finire degli anni sessanta vi è un cambiamento nella sensibilità. Il fatto di riconoscere all'inconscio un ruolo nel funzionamento della mente umana non deve portare a ignorare il senso che gli uomini danno alla propria vita: non esiste società senza una dimensione simbolica. Proprio al recupero di questa dimensione si adoperano da quasi vent'anni gli studiosi che si richiamano alla fenomenologia e agli approcci umanistici. Il rinnovamento della geografia contemporanea s'inserisce in un moto più vasto, che la supera e la condiziona. Entrando nell'ambito delle scienze sociali, la geografia umana prende coscienza, ma tardivamente, della necessità di approfondire i principî e i metodi dell'ecologia: lo studio delle relazioni verticali tra i gruppi umani e il loro ambiente viene momentaneamente accantonato, e i geografi entrano in concorrenza con gli etnologi e gli ecologi.
Nel momento in cui si acceleravano le trasformazioni dei paesi sviluppati e si delineava il decollo del Terzo Mondo, i geografi mal tolleravano di non poter avanzare proposte: essi sentivano che l'organizzazione del territorio era di loro competenza, ma non erano consultati. I politici e i tecnici incaricati di predisporre attrezzature e servizi per soddisfare popolazioni più numerose, dotate di maggior reddito e di maggiore mobilità chiedono infatti una chiara valutazione dell'evolversi della domanda nei prossimi cinque, dieci, venti o trent'anni, in modo da prevedere, ad esempio, quale sarà l'aumento del traffico su una certa direttrice: sapranno così se la rete stradale esistente sarà adeguata alla nuova domanda, se dovrà essere migliorata in alcuni tratti o se sarà necessario adottare un nuovo tracciato. Verso la fine degli anni quaranta i geografi non sono ancora in grado di eseguire simili proiezioni, a differenza degli economisti e degli ingegneri, e anche dei sociologi che rendono servizi analoghi nel campo della domanda di alloggi e di servizi ricreativi e scolastici. All'inizio del secolo la geografia era orientata verso l'analisi delle relazioni 'verticali' che gli uomini intessono col proprio ambiente, da cui traggono una parte di ciò che è loro indispensabile e dove scaricano ciò che hanno smesso di utilizzare; non si soffermava invece sulle circolazioni, cioè sui flussi e sui movimenti che collegano 'in orizzontale' i gruppi umani tra di loro. Perché la geografia diventasse applicabile al mondo attuale era necessaria una riconversione: secondo la tesi che Edward Ullman andava allora esponendo a Seattle a un gruppo di brillanti allievi dell'University of Washington, occorreva porre l'accento sull'aspetto sociale della geografia, più che sulla sua dimensione ecologica. Per i 'giovani turchi' della fine degli anni cinquanta e dei primi anni sessanta la geografia umana deve studiare il ruolo delle distanze e della lontananza nel funzionamento della macchina sociale. Passano così in primo piano i fenomeni di circolazione e di mobilità, che riguardano i grandi aggregati umani e derivano da una molteplicità di decisioni, connesse tra loro da circuiti di retroazione: l'analisi di questi fenomeni può giovarsi degli strumenti forniti dai recenti progressi della statistica, e in particolare della statistica corologica. Le concatenazioni di influssi e di retroazioni sono suscettibili di un'interpretazione teorica che va verificata. La 'nuova geografia' (questo termine si afferma sul finire degli anni sessanta, ma il cambiamento è avviato già da un decennio) è allo stesso tempo quantitativa e teorica e ricorre largamente alla teoria della localizzazione prendendola spesso a modello. L'ecologia sociale della Scuola di Chicago suggerisce ai geografi che fanno capo a Brian J.L. Berry un rapido approfondimento teorico dei problemi posti dagli spazi e dai tessuti urbani. Geografi, economisti e sociologi lavorano a un'opera comune in cui diventa difficile distinguere l'apporto di ciascuno, come dimostra il successo della 'scienza regionale', che attira chiunque s'interessi ai problemi dell'inserimento della società nello spazio e dell'organizzazione del territorio.
Le acquisizioni ben presto accumulate dalla nuova geografia degli anni sessanta e dalla scienza regionale, che se ne differenzia poco in campo economico, sono considerevoli. L'influsso delle distanze spiega le regolarità osservabili nella diffusione delle innovazioni e nelle migrazioni periodiche o permanenti. I quartieri centrali delle città servono da luoghi d'incontro, cioè da commutatori di tutte le relazioni sociali: ciò mette in evidenza la logica a cui obbediscono i 'poli' urbani, le reti che essi formano e le strutture regionali dominate dalla vita di scambio.Sul finire degli anni sessanta, con l'approfondimento della riflessione teorica, appare chiaro che il compito specifico dei geografi è di studiare la dimensione spaziale dei sistemi socioeconomici. I progressi dell'ecologia sono ora legati all'utilizzazione del modello concettuale dell'ecosistema; associando i due approcci si potrà recuperare l'aspetto naturalistico della disciplina, inopportunamente trascurato proprio quando in questo campo le richieste della società si facevano più insistenti. La nuova geografia così concepita analizza la dimensione spaziale dei sistemi sociali e la loro integrazione in ecosistemi che essi modificano profondamente. Tutto ciò porta a una scienza dell'organizzazione globale del territorio che è oggi al centro dell'attenzione di molti fra i pionieri della nuova geografia, specialmente in Francia, dove più forte è la tradizione regionale.
Le interpretazioni teoriche proposte o sistematizzate negli ultimi trent'anni hanno in comune il fatto di soffermarsi soprattutto sulle regolarità: il loro contributo all'analisi regionale consiste nella conoscenza di ciò che è ripetitivo e aspecifico. Si tratta di un progresso notevole, che lascia però insoddisfatti molti geografi, sensibili all'atmosfera dei luoghi e a ciò che li rende decisamente diversi gli uni dagli altri, almeno sotto certi aspetti.Alla fine degli anni settanta alcuni autori anglosassoni riscoprono questo problema. Il movimento parte dal Nordamerica, dove poco dopo il 1970 ci si comincia a interrogare sul 'senso' dei luoghi, per iniziativa di specialisti dell'approccio storico e di quello culturale, da tempo presenti ai margini della nuova geografia. Dieci anni dopo la questione interessa molti studiosi che fino allora si erano occupati solo di fatti ripetutisi in gran numero, e che si trovano ora in un vicolo cieco: hanno messo infatti in evidenza delle regolarità sul cui valore non ci sono dubbi, com'è dimostrato dalle statistiche, ma la cui utilità è limitata, in quanto dall'esistenza di una correlazione generale tra l'evento A e l'evento B non si può dedurre che in ogni luogo in cui avviene A si verifichi anche B. Perché ciò accada bisogna che intervengano certe condizioni accessorie, che non sono soddisfatte dappertutto. L'applicazione meccanica dei modelli generali urta dunque contro il carattere particolare delle singole località, come avevano dimostrato fin dall'inizio del secolo le ricerche di geografia elettorale del tipo di quelle di Siegfried: è vero che i voti di destra provengono soprattutto dagli ambienti agiati e quelli di sinistra dal mondo del lavoro, ma tradizioni e memorie conferiscono ad alcune zone un carattere diverso da quello che ci si aspetterebbe.
Per molti giovani ricercatori d'oggi la geografia umana ha il compito di analizzare la dimensione spaziale dei sistemi sociali e il modo in cui questi utilizzano la specificità dei luoghi per permettere lo sviluppo di certe attività, che a loro volta rafforzano tale specificità.Nei paesi anglosassoni i marxisti, il cui ruolo si era affermato nel corso degli anni settanta, cominciano all'inizio del decennio successivo a prendere coscienza dell'inadeguatezza della loro teoria rispetto alla situazione geografica nel mondo attuale. Sotto l'azione della filosofia realista di Roy Bhaskar, essi scoprono nell'influsso dei luoghi sul verificarsi dei fenomeni un motivo per non rinunziare alla loro fede: lo schema marxista è ora un quadro generale che non è tenuto a spiegare gli eventi nei loro particolari, giacché questi ultimi dipendono sempre da molteplici cause. La geografia, che fino allora non aveva un posto nel pantheon delle scienze sociali marxiste, diviene indispensabile: il suo compito è di fornire le teorie intermedie che completano la megateoria costituita dal marxismo medesimo. Le riflessioni di Allan Scott e di David Harvey sul ruolo economico delle località s'inseriscono in questa prospettiva.
Nello stesso periodo i responsabili dell'organizzazione territoriale si trovano di fronte a numerose difficoltà. Fino all'inizio degli anni settanta le economie occidentali si erano sviluppate spontaneamente, e la programmazione aveva avuto il compito di orientare verso questa o quella regione meno favorita investimenti che spontaneamente si sarebbero localizzati altrove; un vasto repertorio di incentivi, di regolamentazioni e di controlli aveva permesso di raggiungere più o meno bene gli obiettivi prescelti. Con l'impennata dei prezzi del petrolio e la conseguente crisi lo sviluppo si arresta e la deindustrializzazione colpisce in pieno molte regioni un tempo prospere. Nella nuova congiuntura le formule usuali perdono ogni validità: il problema non consiste più nell'indurre gli imprenditori a modificare le loro scelte d'insediamento, ma nel creare degli imprenditori. Nonostante la recessione, in alcuni casi questo scopo viene raggiunto, senza però che si manifestino delle regole precise nel modo in cui ciò avviene: tutto dipende dagli individui e dalle condizioni che essi incontrano sul posto. Vi sono fattori generali che rendono possibile il sorgere di aziende, ma essi costituiscono solo una delle condizioni necessarie: la differenza è data dalle energie locali. Lo sviluppo nasce dal basso: è questa la sostanza della dottrina di Walter Stöhr.
Coloro che riscoprono come tema centrale di riflessione la differenziazione della superficie terrestre hanno dunque orientamenti diversi, ma in ogni caso il loro apporto è interessante. Pur attraverso le vicende della sua evoluzione, l'intento originario di descrivere in modo esauriente la realtà della Terra conserva inalterato il suo valore.
Le ricerche sui caratteri locali s'inseriscono nello sviluppo dell'indirizzo teorico che si è manifestato all'inizio degli anni sessanta e che è stato oggetto di critiche a partire dal 1970 circa. L'attenzione dei ricercatori si concentra ora sulla città: gli studi sui centri d'interazione e di contatto e sui campi di esternalità da essi generati chiariscono la morfologia urbana. Il meccanismo di base di tutti gli aggiustamenti è costituito dal mercato fondiario: esso è in grado di creare una situazione di efficienza anche in mancanza di interventi urbanistici e di pianificazione, ma è lontano dalle condizioni di concorrenza perfetta previste dalla teoria. Ciò potrebbe produrre un divario rispetto all'equilibrio ottimale a cui dovrebbe portare il libero gioco delle forze economiche. La nuova geografia esita a porsi questi problemi, che sono tuttavia fondamentali: in mancanza di garanzie contro proprietari avidi o datori di lavoro senza scrupoli, il destino dei ceti più deboli rischia infatti di essere ancora più duro.
La protesta radicale contro le concezioni positivistiche della nuova geografia riguarda quasi sempre lo scenario urbano. I geografi anglosassoni, che hanno un ruolo essenziale in questo campo, si ispirano largamente agli studi dei sociologi continentali, come il francese Henri Lefebvre e i suoi allievi o come il catalano Manuel Castells. Col suo saggio Social justice and the city (1973) David Harvey, che qualche anno prima era stato il teorico degli approcci neopositivistici, dà un impulso decisivo al movimento. Per i suoi seguaci la geografia umana si occupa dell'ordinamento spaziale delle società, allo scopo di cogliere il gioco delle segregazioni e delle discriminazioni a cui esso dà origine, e cerca di promuovere una ripartizione più giusta e di prevenire danni ingiustificati all'ambiente.
Il movimento radicale nasce da una contestazione di carattere etico. In origine esso non si appoggia a nessuna teoria sistematica, e ciò costituisce una lacuna che molti ritengono possa essere colmata dal marxismo. Ma dopo qualche anno costoro devono ricredersi: la dottrina marxista non attribuisce molta importanza allo spazio, e le poche strade esplorate dal suo fondatore sono state trascurate dai seguaci. Il nuovo lavoro di Harvey, The limits to capital (1982), costituisce un interessante tentativo di aggiornare le basi del ragionamento marxista introducendovi il concetto di spazio. Il risultato è parziale, ma la nuova riflessione sui fattori locali consente di attenuare lo scarto fra le ambizioni esplicative del marxismo e la sua capacità di cogliere la realtà.
Il rinnovamento della geografia dopo il 1960 avviene all'insegna delle scienze sociali: l'accento può essere posto sulle dimensioni spaziali della società, sul suo inserimento nell'ecosistema, sull'importanza dei luoghi o sulle ingiustizie derivanti da istituzioni imperfette, ma in ogni caso è presente una certa idea del rapporto tra uomo e società. I gruppi umani sono formati da individui capaci di riflettere, decidere e agire, ma entro confini così ristretti che le loro iniziative sono sempre limitate e i risultati delle interazioni a cui esse danno origine sono sempre prevedibili. Anche se ci si ribella contro le ingiustizie che penalizzano alcuni, si aderisce a una concezione piuttosto riduttiva dell'uomo: questi è condizionato, manipolato e dominato dal sistema, il che permette quindi di applicare alla realtà sociale i procedimenti delle scienze esatte.
Molti geografi non sono però convinti della veridicità di queste tesi. All'inizio degli anni cinquanta uno studioso isolato, Eric Dardel, dà un'impostazione diversa alla nostra disciplina, ma il suo breve, mirabile saggio L'homme et la Terre passa inosservato e viene scoperto solo vent'anni dopo, in Canada. Vero è che le proposte di Dardel sono molto avanzate: per lui la Terra non è più l'oggetto principale della geografia, com'era stato fin dall'antichità, e il problema essenziale diventa quello del posto che essa occupa nell'esperienza umana. Come discepolo di Heidegger, Dardel ritiene che non vi sia altra esperienza umana se non quella dell'esserci, dell'esistere in questo mondo; come protestante, crede che ogni individuo debba mettere in pratica la propria fede rendendo il mondo più cristiano. La volontà di tradurre in realtà l'esperienza religiosa è universale, anche se non assume sempre la stessa forma: nell'ambiente che lo circonda l'uomo vede agire forze ed esseri soprannaturali, o vi legge l'intelligenza del Creatore. Studiare geografia non significa solo compilare l'inventario materiale delle forme osservabili sul pianeta, ma cogliere anche ciò che gli uomini provano dalla nascita alla morte, nella vita quotidiana o nelle grandi occasioni; significa vedere come essi concepiscono la loro origine e il loro divenire, valutare gli scopi che si propongono, comprendere quale senso attribuiscono alla natura.
Siamo dunque di fronte a un profondo distacco dagli atteggiamenti naturalistici e neopositivistici. Dardel non nega che la conoscenza delle forze naturali e dei meccanismi sociali sia necessaria, ma ritiene che essa debba essere preceduta da una fase di studio più importante: per cogliere la vera essenza della geografia occorre partire da ciò che vi è di più umano nell'uomo e fondarsi su ciò che gli offre la testimonianza dei suoi sensi.
Gli sviluppi teorici in voga negli anni sessanta non soddisfano né i cultori della geografia storica o culturale, né coloro che per le loro convinzioni religiose sono portati a pensare che la nostra disciplina non tenga abbastanza conto dell'uomo e delle sue iniziative. Fra i primi vi è Yi-Fu Tuan, affascinato dalle culture; al secondo gruppo appartiene Anne Buttimer, la cui appassionata ricerca di un'interpretazione meno meccanicistica dell'uomo è certamente guidata dalla fede cattolica.
Per la corrente umanista la geografia umana s'interessa del modo in cui gli uomini vivono la loro condizione terrena, concepiscono la natura e il mondo e li rapportano all'aldilà, attribuiscono ai luoghi un carattere particolare - sacro o profano, autentico o artefatto, originale o banale - e traducono i loro sogni, le loro aspirazioni e la loro sensibilità nella realizzazione di determinate strutture. La ricerca si basa sulla storia delle idee, sulla scienza delle religioni e sull'analisi dei sistemi di valori a cui gli uomini si richiamano o che si manifestano nelle loro azioni. L'indagine partecipativa è vista come uno degli strumenti privilegiati dei nuovi approcci, senza il quale non sembra possibile cogliere ciò che vi è di originale e di specifico nella visione della vita e del mondo propria di ciascun gruppo culturale.
L'approccio umanista dà al ricercatore una lezione di modestia: nelle scienze sociali non si può attingere l'essenza delle cose se si trattano gli uomini come oggetti e si rifiutano a priori i loro modi di vedere e di pensare. Non si devono accettare passivamente le loro idee, ma neppure è possibile ignorarle, nella misura in cui sono al centro dell'esperienza che si cerca di comprendere e nella misura in cui incidono su reazioni, atteggiamenti e progetti. I metodi oggettivi di rappresentazione cartografica del mondo e di comprensione della realtà hanno permesso al pensiero occidentale di spiegare il funzionamento delle piramidi ecologiche o il gioco dei meccanismi sociali ed economici che contribuiscono al modellamento dello spazio. Ma questi metodi trascurano un elemento essenziale, perché ignorano le motivazioni degli individui e non badano a ciò che essi cercano di fare nel mondo e del mondo. Accanto agli approcci fortemente ispirati al neopositivismo, in auge da una trentina d'anni a questa parte, vi è dunque posto per procedimenti più sensibili alla diversità degli uomini e delle culture. Ogni gruppo umano plasma la propria geografia: l'inventario delle etnogeografie è uno dei compiti principali a cui devono dedicarsi oggi i ricercatori.
La questione a cui la geografia umana cerca anzitutto di rispondere è quella dell'inserimento degli uomini nelle piramidi delle forme viventi originate dall'energia solare e dalla sintesi clorofilliana. Ogni forma di vita è fondata sulla continua riproduzione di materia organica a partire dall'anidride carbonica dell'aria, dall'acqua e dagli elementi tratti dall'ambiente. Si è cercato a lungo di applicare ai gruppi umani i metodi adatti alle società animali prendendo in considerazione soprattutto gli scambi che avvengono tra ciascun gruppo e l'ambiente in cui esso è insediato e che gli fa da supporto. L'accento era posto sulla produttività globale degli ecosistemi spontanei e sul modo in cui gli uomini li manipolano per accrescere in valore assoluto la parte a essi spettante, senza curarsi troppo della conseguente riduzione della produttività globale. L'ecologia classica prendeva inoltre in considerazione le concorrenze biologiche e i rischi di danni alla salute dell'uomo.
Un'ecologia di questo tipo si adatta bene alle società arcaiche o alle piccole cellule rurali delle società tradizionali, ma le sfugge una delle dimensioni del rapporto tra uomo e ambiente: quella che si riferisce agli scambi. I gruppi umani non consumano soltanto ciò che viene prodotto sul posto, e talvolta utilizzano anzi solo prodotti provenienti dall'esterno; ciò ha conseguenze evidenti sui rapporti tra uomo e ambiente. Quando le derrate alimentari di base sono importate da paesi lontani e gli approvvigionamenti cambiano secondo i mercati e la congiuntura, i consumatori non possono avere una chiara consapevolezza del degrado che provocano in questa o quella regione del mondo. L'ampliamento della sfera delle relazioni, vissuto come una liberazione rispetto alle costrizioni dell'ambiente, porta gli uomini a dimenticare che dipendono dal mondo vivente per la loro alimentazione e per buona parte delle materie prime necessarie. Se da un lato i rapporti con l'ambiente naturale circostante diventano in un certo senso più distesi, dall'altro l'aumento dei consumi e lo sfruttamento più intenso delle fonti di energia fossile implicano una maggiore quantità di rifiuti; i vincoli ambientali immediati non sono più imposti dalla produzione delle derrate alimentari, ma derivano dalla scarsa capacità degli ambienti di riciclare le sostanze immesse sotto forma di gas, polveri, prodotti organici e minerali, pesticidi, scarichi liquidi. Gli uomini sono riusciti a trasferire l'impatto dei rifiuti lontano dalle aree in cui vivono abitualmente: da un secolo i maggiori progressi dell'igiene sono legati all'allontanamento dai centri abitati degli scarichi liquidi e dei rifiuti solidi, e il riciclo di questi elementi avviene senza rischi di contaminazione diretta per le popolazioni che li producono. Ma evitare le conseguenze nocive immediate non equivale a risolvere il problema; con l'esplosione dei consumi e dell'impiego di energia le zone interessate dai problemi di riciclo diventano sempre più vaste. L'uomo non può più fare a meno di una coscienza ecologica. È passato il tempo in cui gli equilibri erano attuati localmente, nell'ambito di unità molto piccole: col progresso dei trasporti si è enormemente ampliata la dimensione dei problemi. Riguardo agli approvvigionamenti essi si pongono ormai più su scala mondiale che su scala nazionale o continentale, come mostra la gestione dello sfruttamento della fauna marina. Riguardo ai rifiuti, le difficoltà locali diventano drammatiche a causa dell'inquinamento atmosferico, quando la densità d'insediamento e il grado di motorizzazione sono elevati; ma la scala del fenomeno cambia quando i corsi d'acqua sono carichi a tal punto di materie organiche o di prodotti tossici che questi vengono trasportati fino alla foce senza decomporsi. Le piogge acide colpiscono vaste aree continentali, e un incidente come quello di Černobyl ha dimostrato che si possono avere contaminazioni notevoli a centinaia e perfino a migliaia di chilometri di distanza.
La geografia dei rapporti tra uomo e ambiente si basa sui contributi della moderna ecologia, ma tiene conto anche di aspetti che trascendono il campo delle scienze naturali. Gli attuali problemi dell'ambiente sono inscindibili dall'ampliamento delle aree di scambio consentito dalla tecnologia dei trasporti. Il modo in cui tali problemi sono avvertiti e le reazioni che essi suscitano dipendono da ciò che i gruppi umani pensano della natura e del mondo: chiarendo i problemi dell'ecologia mediante l'analisi dei meccanismi socioeconomici e quella delle mentalità e degli atteggiamenti, la geografia arricchisce in maniera decisiva gli approcci relativi a ciò che ci circonda.
La localizzazione delle attività produttive è condizionata dalla facilità d'accesso alle risorse e ai mercati e dalla disposizione delle infrastrutture destinate a convogliare i flussi di beni, di persone e di informazioni. Per risolvere in modo soddisfacente i problemi dell'approvvigionamento, per sventare i pericoli derivanti dalle incertezze del clima, per profittare delle economie di scala permesse dall'uso di fonti energetiche sempre più concentrate, la società non può far altro che organizzare una divisione del lavoro spinta al massimo: la riduzione dei costi di trasporto accresce allora a sufficienza le possibilità di smaltimento della produzione.
Nella geografia umana l'approccio economico chiarisce dunque prima di tutto la distribuzione spaziale delle attività produttive: essa deve tener conto da un lato dell'ubicazione delle risorse, legata alla casualità delle situazioni naturali, e dall'altro della necessità di rimanere in prossimità dei centri di consumo per ridurre i costi di trasporto dei prodotti finiti. Su queste premesse è fondata la teoria classica della localizzazione, che ha fornito con von Thünen, Alfred Weber, Lösch e Christaller una spiegazione soddisfacente degli equilibri classici. L'universo strumentale di cui ci circondiamo diviene sempre più complesso: l'organizzazione della produzione e la distribuzione dei prodotti implicano scambi di informazioni sempre più intensi. Le ricerche recenti evidenziano l'importanza, a lungo trascurata, dei problemi di comunicazione nella localizzazione delle aziende: lo sviluppo della telematica e dei trasporti celeri favorisce la dispersione degli impianti su aree più estese, ma la conseguente moltiplicazione delle esigenze di contatti porta a situare i centri direttivi nelle metropoli, strettamente collegate tra loro da grandi linee aeree. L'integrazione dell'economia su scala mondiale è associata all'inurbamento metropolitano di una parte della popolazione.
L'economia però è solo una delle attività dei gruppi umani. Nelle società tradizionali le stratificazioni determinate dalla vita sociale poggiavano sull'esistenza di status e di ceti ben definiti; nelle società in via di industrializzazione la distribuzione dei redditi divenne nel corso del XIX secolo il principio fondamentale di tale stratificazione, prima che le dimensioni culturali ritrovassero una loro funzione - cosa che caratterizza le società postindustriali. La distribuzione disomogenea di ricchezza e di status nello spazio è un aspetto universale, ma variabile, delle civiltà.La geografia politica si occupa del modo in cui le distanze e la lontananza condizionano l'esercizio del potere, dell'autorità e della influenza. È molto più facile far funzionare un regime legittimo che uno tirannico, fondato solo sulla violenza. Poiché il primo si basa sul consenso ideologico, occorre capire quale sia l'origine delle ideologie e perché esse vengano accettate. Ma per governare non basta ottenere il consenso della maggioranza: è sempre necessario anche il controllo dei devianti e di chi contesta le regole del sistema, e ciò implica la divisione del territorio in circoscrizioni ben definite, senza le quali sarebbe impossibile attuare la sorveglianza. Una delle difficoltà del mondo attuale consiste nel fatto che i principî operanti nella sfera economica sono in contrasto con quelli che dominano la vita politica: l'integrazione economica a livello mondiale tende a ridurre l'importanza delle frontiere, oltreché ovviamente l'autosufficienza delle economie nazionali, mentre la divisione del territorio in entità distinte rimane indispensabile in ogni strategia di controllo.Il punto di vista sociale getta dunque una luce interessante sui problemi del mondo d'oggi: attribuendo un ruolo notevole alle ideologie, esso ci porta a prendere in considerazione i dati della cultura e la prospettiva umanista.
Se si evita di concepire gli uomini come semplici pedine o macchine, si scoprono dimensioni della geografia prima ignorate. Lo spazio geografico non è differenziato solo dall'orografia, dal clima, dalla vegetazione e dalle opere in esso create dalle attività umane: esso rivela un'ontologia dello spazio che è indispensabile per comprendere i rapporti tra uomo e ambiente. La distinzione fondamentale è tra ciò che è influenzato dal trascendente e ciò che dipende solo dall'intervento di forze naturali. Nel primo caso affiora il sacro, testimoniato dall'esistenza di luoghi di culto, di altari e di templi; nel secondo vi è solo il banale, il profano, l'ordinario. Da una civiltà all'altra cambia la divisione tra le due categorie di spazi: mentre per gli animisti le forze soprannaturali sono presenti dappertutto, sono coestensive alla natura e il mondo è magico, con le religioni rivelate e con le filosofie razionaliste comincia la demitizzazione, e il sacro non è più onnipresente, ma emerge solo in alcuni luoghi o nelle creature umane fatte a immagine di Dio. Questa demitizzazione del mondo è tuttavia meno radicale di quanto comunemente s'immagini, perché le ideologie sono fondate su principî analoghi a quelli delle religioni che intendono sostituire: anch'esse accettano l'idea del male, ma ne attribuiscono per lo più la causa alla società e ai suoi difetti, anziché a un qualche peccato originale. La redenzione dai peccati non avviene più mediante sacrifici individuali, la confessione e il pentimento, ma è fondata su sacrifici collettivi, quelli delle classi che hanno provocato il male. Le ideologie implicano rivoluzioni, ossia giganteschi olocausti. I luoghi in cui i martiri della buona causa hanno versato il loro sangue sono venerati come i luoghi sacri delle religioni tradizionali, sono meta di pellegrinaggi e in essi il sacrificio viene riattualizzato mediante grandi riti commemorativi. La geografia del sacro e del profano - per citare solo quest'esempio - ci mette di fronte ad alcuni dei problemi fondamentali della coscienza moderna.
In passato la geografia umana era orientata più verso le scienze naturali che verso quelle sociali: anche se i rapporti diretti con gli studiosi di geologia, di botanica o di pedologia erano tenuti dagli specialisti dell'ambiente fisico, ogni buon geografo si sentiva in dovere di seguire i progressi di quelle scienze. Oggi le relazioni si concentrano piuttosto sull'ecologia.
La geografia classica d'ispirazione francese procedeva in genere di pari passo con gli studi storici; questo parallelismo non è scomparso, nonostante qualche dissenso momentaneo, e la geografia storica costituisce ancora oggi un terreno coltivato da studiosi di entrambe le discipline, che se lo ripartiscono in modo diverso nei vari paesi. Per quanto riguarda l'economia, la scienza regionale ha fatto propria l'eredità della teoria della localizzazione, e in essa s'incontrano ricercatori di varia estrazione. Con l'etnologia si sono avuti per lungo tempo rapporti occasionali, nel corso di ricerche sul campo nei paesi del Terzo Mondo. Le relazioni più difficili sono state quelle con la sociologia: i suoi cultori avevano perso interesse per la morfologia sociale della scuola di Durkheim, e l'ecologia urbana ispirata alla Scuola di Chicago rimaneva molto ai margini rispetto ai filoni centrali del pensiero sociale. Negli anni sessanta si è avvertito negli studiosi di sociologia urbana, specialmente in quelli d'ispirazione marxista come Henri Lefebvre, un nuovo interesse per lo spazio, ma la scoperta della dimensione spaziale dei fenomeni sociali da parte dei sociologi è avvenuta solo negli ultimi tempi. La 'geografia della diffusione' di Torsten Hägerstrand aveva già avuto un'eco nella sociologia: la sua analisi delle traiettorie spazio-temporali degli individui, condotta su scale diverse (giorno, anno, durata della vita), ha messo in evidenza l'ambito più o meno vasto in cui si svolgono le esistenze umane e la maniera in cui esse s'intrecciano, si discostano e si combinano. È inutile studiare i fatti sociali senza curarsi di queste dimensioni di base della vita collettiva: dove ha inizio una società, dove finisce, da quale livello d'interazione è caratterizzata. Contemporaneamente, sul versante della sociologia è stata scoperta l'importanza dei problemi del substrato ecologico. Anthony Giddens è il sociologo che più si è prodigato per inserire la considerazione dello spazio nei metodi della propria disciplina e per avvicinare quest'ultima alla geografia; sotto tale riguardo le scienze sociali hanno raggiunto un grado di coesione finora sconosciuto.Il contatto continuo con i filologi, con gli storici delle idee e con gli studiosi dei fenomeni culturali è indispensabile per un approfondimento umanistico della nostra disciplina.
L'immagine della geografia umana ha subito delle fluttuazioni nell'opinione collettiva, deteriorandosi nel periodo in cui i suoi cultori non riuscivano ad affrontare efficacemente i problemi del mondo moderno. Oggi essa appare migliorata nel quadro delle scienze umane, e anche il grande pubblico ha cominciato a prendere coscienza del profondo ammodernamento avvenuto negli ultimi trent'anni.
La geografia umana si è affiancata con ritardo alle altre scienze sociali; inoltre le circostanze in cui si è formata e l'andamento non lineare del suo sviluppo hanno contribuito a far sì che la sua immagine apparisse un po' confusa a molti studiosi e al grande pubblico. Essa risente della vastità delle sue aspirazioni, in quanto cerca di comprendere con uno stesso metodo i meccanismi ecologici del mondo vivente, i meccanismi sociali, economici e politici che modellano i gruppi umani, e infine le rappresentazioni, le concezioni del mondo e le reazioni degli uomini nei riguardi del loro habitat.La sua complessità può sconcertare i cultori di discipline più analitiche, ma non ha nulla di sorprendente, perché non fa che riflettere la struttura del reale. La ricerca interdisciplinare, oggi così diffusa, è praticata già da tempo dagli studiosi di geografia umana: ciò conferma l'attualità di questa branca del sapere. ( V. anche Aree culturali; Città; Ecologia).
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