Geografia
di Pierre Birot e Philippe Pinchemel
GEOGRAFIA
Geografia fisica
di Pierre Birot
sommario: 1. Introduzione. 2. Il ruolo dell'acqua in natura, tema centrale della geografia fisica. 3. Ripartizione dei tipi di formazioni vegetali. 4. Le forme del rilievo. a) Introduzione: tipi fondamentali di rilievo. b) Le tappe della geomorfologia. 5. Processi di erosione e di accumulo e forme elementari dipendenti dall'azione dell'acqua. a) L'attacco delle rocce da parte degli agenti atmosferici e la formazione dei suoli di alterazione. b) La circolazione dei detriti sui versanti. c) Il modellamento degli alvei. d) L'evoluzione del profilo del versante nel corso del ciclo di erosione. e) I rilievi carsici. f) Le forme di accumulo fluvio-marine. 6. Il dominio della foresta sempreverde umida. 7. La zona calda a stagioni alternate umide e secche; il mosaico foresta-savana. 8. Le regioni aride e semiaride. a) II dominio semiarido. b) II deserto vero. c) Le playas. 9. Le superfici di spianamento della zona calda. 10. Le regioni forestali delle medie e alte latitudini. a) La zona temperata sensu stricto. b) La zona temperata calda. c) La foresta di Conifere della zona fredda. 11. Il dominio freddo extraforestale. a) II dominio periglaciale della tundra. b) Accumulo di ghiaccio e forme glaciali. 12. Prospettive di sviluppo della geografia fisica. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Il fine essenziale della geografia fisica consiste nel definire i paesaggi naturali e nell'individuare le cause che li determinano. Da questo punto di vista, alcune branche della geografia fisica, come la climatologia, intervengono soltanto nella ricerca dei fattori determinanti. Uno di questi è il clima del suolo, che differisce sensibilmente da quello dell'aria, specialmente in montagna.
Il rilievo, il cui studio è compito della geomorfologia, è la parte essenziale del paesaggio; esso è rivestito da un mantello vegetale, in cui gli animali intervengono soltanto nell'equilibrio della catena alimentare. A contatto di questa ‛copertura vivente', la roccia subisce alterazioni più o meno profonde, al cui studio si dedicano i pedologi.
La spiegazione della fisionomia di questa ‛epidermide' dei continenti si pone dunque nell'ambito delle scienze di sintesi. Essa non costituisce una regressione infantile verso una considerazione delle apparenze. Vi sono fattori di causalità comuni al rilievo e alla copertura vegetale (i più importanti sono di ordine climatico) e anche interazioni tra queste due serie di fenomeni: il valore delle pendenze influisce sulla vegetazione, la quale a sua volta agisce sull'alterazione delle rocce, ecc.
Se il clima ‛attuale' è sufficiente a spiegare i tratti essenziali della ripartizione delle forme di vita così come esse si presentano nei paesaggi vegetali, esso non è determinante che per una piccola parte dei fenomeni che interessano la geomorfologia: si tratta di alcuni aspetti del modellamento dei versanti. Tutto il resto deve essere esaminato in una prospettiva ‛storica', secondo la scala dei tempi geologici, come risultato di un succedersi di paleogeografie nel corso del quale i movimenti tettonici e i climi si sono manifestati in modi differenti. Bisogna pure notare che i suoli in generale manifestano di fronte al clima attuale un'inerzia maggiore rispetto a quella della vegetazione, ma minore rispetto a quella del rilievo.
La stessa nozione di clima ‛attuale' è difficile da delineare a causa delle variazioni periodiche di diversa lunghezza d'onda che interessano i suoi principali elementi (pioggia, temperatura, ecc.). Una sua definizione a partire dalle medie trentennali di misure meteorologiche è naturalmente arbitraria onde sarebbe più realistico, anche se poco rigoroso, definire un'unità climatica regionale a partire dalla corrispondente vegetazione ‛climax'.
Il proposito di creare una scienza dei paesaggi si è manifestato quasi cent'anni or sono nella letteratura geografica tedesca, ad opera di S. Passarge, le cui principali pubblicazioni peraltro sono apparse tra il 1914 e il 1930. Questa scienza, che occupa una gran parte dell'opera di C. Trolì, si è affermata in Francia soprattutto da una quindicina d'anni a questa parte e ha avuto due scopi essenziali: a) assicurare gli indispensabili legami tra geologia, pedologia, biogeografia e biomorfologia; b) precisare le interazioni tra l'uomo e il suo ambiente.
D'altra parte su una gran parte del nostro pianeta il paesaggio ‛naturale' non è immediatamente percettibile, perché ha subito profonde modificazioni a causa dell'intervento dell'uomo cacciatore, pastore, coltivatore, per cui si deve operare una ricostituzione della vegetazione naturale, che peraltro comporta molte incertezze su cui si scontrano teorie opposte: dibattuto, per esempio, è il problema della dimensione mondiale dell'estensione originale delle formazioni erbacee. La soluzione di questi problemi comporta l'impiego di metodi di ordine storico e archeologico, come nel caso dell'esame dei pollini deposti nelle torbiere da qualche migliaio di anni. Questo intervento dell'uomo ha intaccato i suoli e il rilievo, ma, in quest'ultimo caso, in modo insignificante.
L'espressione grafica più completa della ripartizione dei tipi di paesaggio si ottiene sovrapponendo una carta delle formazioni vegetali a una carta geomorfologica; negli ultimi 25 anni si sono moltiplicate iniziative di questo genere, che richiedono naturalmente una definizione e una classificazione dei tipi, a proposito dei quali si sono manifestate divergenze notevoli. D'altra parte, a seconda della scala, le carte prendono in considerazione unità di dimensione diversa. Anche estese unità relativamente omogenee, come la foresta sempreverde del Congo, si possono suddividere in unità più piccole in funzione della topografia (foreste paludose e foreste di versante) e della riserva utile d'acqua dei suoli, soprattutto ai loro margini. Il rilievo può essere esaminato alla scala di un bacino idrografico di primo ordine, di una nicchia o di un ammasso di frana, o di un immenso complesso di pedepiani e di superfici di lento ringiovanimento, che si estendono per molte decine di migliaia di km2. A. Cailleux e J. Tricart hanno avuto il merito di approfondire questo problema, in particolare per quel che riguarda la geomorfologia, mentre G. Bertrand (La ‛science du paysage' une ‛science diagonale', in ‟Revue géographique des Pyrénées et du Sud-Ouest", 1972, XLIII, pp. 127-173) ha posto maggiormente l'attenzione sul paesaggio vegetale.
Ritengo, comunque, che sarebbe utopistico ricercare un linguaggio universale che esprima tutti i tipi di paesaggio del globo con l'aiuto degli stessi segni, gerarchizzati nella stessa maniera. Sembra che i geografi si siano lasciati trascinare talvolta (per es. nell'Unione Sovietica) in discussioni riguardanti la tipologia e la tassonomia, che allontanano le realizzazioni concrete.
2. Il ruolo dell'acqua in natura, tema centrale della geografia fisica
Il comportamento e la circolazione dell'acqua in superficie, nei suoli di alterazione, nella roccia e, infine, nei corsi d'acqua, determina la pedogenesi (in senso stretto), l'alterazione delle rocce, i processi morfogenetici, l'idrologia continentale e la vita vegetale.
La temperatura può essere considerata come un fattore del comportamento dell'acqua, poiché influisce sulla sua viscosità. L'azione chimica e biochimica, per la quale l'acqua è un intermediario indispensabile, decresce in maniera esponenziale al diminuire della temperatura e diviene nulla quando si forma il ghiaccio. (Questa è almeno l'opinione generalmente accettata; non è tuttavia condivisa da certi ricercatori sovietici i quali ritengono che, a temperature vicine a 0 °C, un'acqua ‛pesante', assorbita nelle fessure della roccia, sia in grado di esercitare un'azione chimica intensa).
Il ghiaccio quando sostituisce l'acqua liquida determina l'attacco alle rocce, lo scorrimento delle precipitazioni solide e dei detriti sui versanti. I tessuti vegetali sfuggono alla distruzione essendo l'acqua fissata al protoplasma in seguito a trasformazioni fisico-chimiche non ancora ben conosciute.
Nelle zone climatiche che non sono né troppo fredde né troppo aride, la parte del ciclo dell'acqua che scorre a contatto della terra comporta le seguenti fasi: durante i periodi piovosi, l'acqua riempie tutti i pori dei suoli di alterazione, mentre la parte in eccesso scorre in superficie dando luogo al ruscellamento; questa saturazione può prodursi anche se i pori della parte inferiore dei suoli di alterazione non sono riempiti, come nel caso di rovesci intensi. Cessata la pioggia, l'acqua percola verso la parte bassa dei versanti all'interno dei suoli (scorrimento ipodermico) a partire da falde acquifere poste a contatto della roccia sana, che viene corrosa a poco a poco; tuttavia parte dell'acqua aderisce alle pareti dei pori per attrazione superficiale. La quantità massima di acqua che può essere contenuta nel suolo costituisce la cosiddetta capacità di campo. Lo strato liquido esercita un'azione chimica sulle pareti ed è aspirato dalle radici delle piante, che ne assorbono le sostanze minerali assimilabili e mantengono così l'idratazione dei loro tessuti: tutto questo succede finché questo strato di liquido non si è talmente assottigliato che la forza di attrazione della parete è superiore alla forza di aspirazione delle radici (punto di appassimento). (V. anche acqua).
Terminato lo scorrimento ipodermico, la portata dei corsi d'acqua non è più sorretta che dalle sorgenti originate dalle falde sotterranee. Nelle rocce permeabili in grande (per es. i graniti), la portata di queste falde sotterranee è scarsa ed è localizzata nelle fessure della roccia. Le rocce permeabili in piccolo, a forte porosità (arenarie e sabbie), sono impregnate interamente dall'acqua il cui livello superiore ha un profilo che rassomiglia a quello di una sezione di ellissi convessa verso l'alto; questo profilo è determinato dall'equilibrio tra la pressione esercitata dall'acqua - tanto più grande quanto più essa si trova al di sopra del livello di base - e le forze di attrito all'interno dei piccoli canali. La durata del contatto tra l'acqua e la roccia varia dunque da qualche ora, nel caso del ruscellamento, a parecchi mesi: questo risultato è stato ottenuto versando sul suolo dell'acqua marcata da isotopi.
Il bilancio annuale medio del ciclo dell'acqua si può scrivere con la semplice formula: P = S + R + H + T + E, o anche P = Q + T + E, dove P sono le precipitazioni, R il ruscellamento, H lo scorrimento ipodermico, S lo scorrimento che ha origine da falde sotterranee, T la traspirazione, E l'evaporazione fisica, Q la portata dei fiumi; quanto all'evaporazione fisica occorre distinguere quella che interessa l'acqua che si trova sulle foglie e l'inaridimento del suolo. Sfortunatamente disponiamo di molti dati soltanto per P e Q, mentre per tutti gli altri parametri, come pure per il tenore d'acqua dei suoli d'alterazione, non possediamo che cifre disparate; ciò deriva in parte da difficoltà tecniche. La valutazione della traspirazione si effettua mediante foglie tagliate, quella dell'umidità del suolo mediante prelievo di una carota oppure con le registrazioni di sonde a neutroni o di sonde a gesso, che peraltro non danno risultati del tutto soddisfacenti. D'altra parte l'interesse dei ricercatori e dei tecnici è rivolto, volta per volta, solo a una parte del ciclo dell'acqua e in verità non esiste nel mondo, a quanto ci risulta, alcun bacino idrografico in cui siano stati studiati simultaneamente tutti gli aspetti dell'azione dell'acqua, che oltretutto sono interdipendenti.
L'alimentazione sotterranea dei fiumi ha un'importanza relativa variabile secondo la permeabilità della roccia (meno del 10% in certi corsi d'acqua dell'alto bacino della Loira sullo zoccolo cristallino dove la riserva idrica è pari a 28 mm, contro il 90% per piccoli ruscelli che drenano i basalti assai fessurati dei Monti delle Cascate) e secondo la pendenza (l'importanza del ruscellamento è tanto più grande quanto più forte è la pendenza) e infine secondo il clima e la vegetazione (l'importanza del ruscellamento diminuisce sui versanti ricoperti da foreste). L'alimentazione sotterranea è nulla nei climi aridi e nelle regioni fredde con suolo permanentemente gelato.
L'entità della evapotraspirazione dipende dal valore della radiazione solare e dell'umidità relativa (anche questa funzione della quantità di vapore presente nell'aria per evaporazione, della quantità di acqua presente nel suolo e della capacità della vegetazione di adattarsi ai periodi di siccità mediante la chiusura degli storni). L'evapotraspirazione reale si discosta più o meno da quella potenziale, la quale poco differisce dall'evaporazione fisica da un recipiente d'acqua. Si è cercato di valutarla con diverse formule fondate in parte su considerazioni fisiche e in parte su certi adattamenti empirici. Ci limitiamo a citare la formula di L. Turc:
Formula
dove ETP è l'evapotraspirazione potenziale espressa in mm al mese, t la temperatura media mensile, Ig il valore medio giornaliero della radiazione globale. La variazione di Ig suppone la conoscenza della durata media giornaliera dell'insolazione. La formula di Thorthwaite, di impiego internazionale più frequente, si fonda esclusivamente su misure indirette e presenta una struttura fisica poco soddisfacente, perché pone la temperatura al denominatore.
I regimi stagionali del deflusso fluviale possono essere così classificati: 1) nella zona intertropicale il regime è funzione delle precipitazioni; infatti la quantità sottratta dall'evapotraspirazione non dipende affatto dalle variazioni termiche stagionali, che sono limitate, ma soprattutto dall'umidità atmosferica e dall'attività biologica, che pure dipendono dall'importanza delle piogge; 2) nelle medie e alte latitudini il regime dipende principalmente dalle variazioni termiche stagionali per cause differenti: a) nelle zone dove le precipitazioni cadono quasi esclusivamente sotto forma di pioggia l'abbondanza delle acque fluviali è maggiore durante la stagione fresca, in seguito alla riduzione dell'evapotraspirazione; b) nelle zone dove le precipitazioni cadono soprattutto sotto forma di neve le fasi di piena sono determinate dalla fusione delle nevi che avviene in primavera (o in estate là dove la neve si è trasformata in ghiaccio); 3) alle latitudini intermedie le fasi di piena si verificano in inverno nell'area del clima mediterraneo, poiché il regime delle precipitazioni e quello dell'evaporazione sommano i loro effetti, e si verificano in estate nella zona di clima ‛cinese', come in quella intertropicale.
3. Ripartizione dei tipi di formazioni vegetali
Mentre il botanico volge volentieri la sua attenzione allo studio della distribuzione delle unità floristiche, il geografo prende come oggetto di studio le forme di vita come si manifestano nei paesaggi. In questo campo ha avuto un ruolo determinante la Scuola tedesca, da Schimper a H. Walter e C. Troll.
È evidente che queste unità sono molto più grandi di quelle floristiche e questo vale già alla scala della specie linneana. Per esempio, il P. silvestris ricopre una vasta fascia che va da zone di clima temperato caldo di varietà arida fino alla taiga; la sua uniforme macroanatomia riesce a mascherare le differenti reazioni degli ecotipi. A maggior ragione la facies comune degli alberi della foresta sempreverde e umida riunisce centinaia di specie diverse: infine una data facies, per esempio quella delle foglie xeromorfe, può derivare dalla convergenza dell'azione di fattori naturali diversi (aridità, carenza di N), azione che talvolta è diretta (xeromorflsmo di foglie povere di N), talaltra deriva dalla selezione, e ciò significa che nel paesaggio l'adattamento all'ambiente è rappresentato solo molto imperfettamente dall'aspetto sensibile. Fatte queste riserve esiste quindi una logica nella suddivisione dei tipi di formazioni vegetali. L'antitesi essenziale è quella che oppone le foreste alle formazioni non forestali: formazioni erbacee più o meno arborate, cespugli e arbusti più o meno folti, deserti nudi o tutt'al più coperti qua e là da licheni. Bisogna prendere in considerazione anche il ritmo stagionale della vita delle foglie, dal quale deriva la distinzione tra formazioni sempreverdi, le cui foglie si rinnovano durante tutto l'anno, e formazioni a foglie caduche. Approssimativamente si può dire che le foreste esistono ovunque i tessuti possano svilupparsi con un'intensità sufficiente e in un lasso di tempo abbastanza lungo da assicurare, oltre al rinnovamento dell'apparato assimilatore, anche la costruzione di un sistema di tronchi e di rami che possano sostenere questo apparato su diversi piani. Durante questo periodo di vegetazione attiva, il tessuto delle foglie deve trattenere una certa quantità d'acqua libera sufficiente per intervenire nelle reazioni biochimiche. Le precipitazioni (P), alle quali bisogna aggiungere le riserve di acqua utile del suolo (falda che va da 50 a 200 mm a seconda dello spessore della capacità di ritenzione del suolo), devono raggiungere un valore assai vicino a quello dell'evapotraspirazione potenziale, che può essere fissata approssimativamente in 4 t, dove t è la temperatura media mensile (v. tab. I). In queste condizioni, gli stomi che regolano l'assimilazione clorofilliana e la perdita di vapore d'acqua non si chiudono che nelle ore più calde della giornata, per cui l'assimilazione diurna continua in maniera sufficiente. D'altro canto, per ciò che riguarda la vegetazione della zona temperata e fredda, questa parte d'acqua non è utilizzabile e benefica che a temperature mensili di circa 5 °C; ciò corrisponde ai periodi in cui il gelo non è più dannoso e il protoplasma può quindi idratarsi senza pericolo. Nella zona temperata calda, questo limite si pone tra i 5 e i 10 °C. Quanto alla vegetazione tropicale, le temperature inferiori a 15 °C sono letali o perlomeno proibitive per cause non ancora ben conosciute.
Nelle zone in cui durante tutto l'anno il calore e l'umidità sono sufficienti, le foreste hanno foglie larghe non xeromorfe e sempreverdi, come nel caso della vegetazione dei climi tropicali e subtropicali umidi, che si diversificano per una capacità più o meno elevata di tollerare il freddo nella stagione invernale, e cioè da 15 a 18 °C per il mese più freddo nel primo caso, da 5 a 10 °C nel secondo caso (come accade nella foresta cilena di Nothofagus).
Nelle zone in cui esiste un'alternanza ben marcata fra una stagione favorevole relativamente lunga e una stagione sfavorevole, che può essere fredda o arida, la caduta delle foglie costituisce un adattamento logico (foreste temperate e foreste monsoniche); fa eccezione la foresta di eucalipti dell'Australia, la cui vita stagionale non si manifesta nel paesaggio, poiché questi alberi non perdono le foglie nei climi tropicali a stagioni alternate, per cause fisiologiche non ben conosciute.
D'altra parte se i periodi favorevoli sono troppo brevi o discontinui durante l'anno, spesso si trovano foreste composte di organismi sempreverdi e xeromorfi: sarebbe un dispendio di energie per l'albero rinnovare due volte il suo apparato assimilatore. La foresta mediterranea rappresenta una felice soluzione per le regioni in cui le stagioni sufficientemente calde e umide si hanno in primavera e in autunno. La foresta boreale di Conifere sempreverdi, dopo un inverno lungo durante il quale il protoplasma resiste al gelo ‛addormentandosi', conosce solo un'estate corta; il raddolcimento primaverile avviene più rapidamente della costruzione di un nuovo apparato fogliare, così da permettergli di usufruire delle prime settimane di calore per l'assimilazione. La foresta arida sempreverde dell'India meridionale dispone di pochi mesi sufficientemente piovosi. Infine la xeromorfia può costituire la conseguenza diretta dell'insufficiente quantità di azoto nel suolo, e allora la quantità di cellulosa prodotta è molto superiore a quella di protoplasma.
Quando i periodi favorevoli sono ancora più brevi (non superiori a 4 mesi), ma comunque ben marcati, si hanno formazioni erbacee che formano un denso tappeto di foglie caduche, soprattutto quando, in mancanza di un suolo spesso, esistono rocce friabili in cui si possono insinuare numerose e sottili radici: sono le praterie della zona temperata, le savane della zona tropicale, sulla cui estensione originale si discute molto.
Infine, quando condizioni non molto favorevoli si hanno per tutto l'anno, le formazioni erbacee continue sono sostituite da formazioni aperte, principalmente da arbusti o cespugli. Essi vivono una vita rallentata e si accrescono molto lentamente, sia perché il loro apparato assimilatore ha una superficie ridotta o gli stomi costantemente chiusi, sia perché il protoplasma può resistere alla disidratazione soltanto a prezzo di una rallentata attività vitale. Individui deboli di questo genere vengono eliminati dalla presenza della densa vegetazione, ma sono capaci di occupare i siti ecologici più favorevoli (v. tab. I).
I principi molto schematici che sono stati ora esposti si fondano su una correlazione tra i dati climatici e la vegetazione osservata, così come su un piccolissimo numero di misurazioni o valutazioni dello stato dell'acqua nel suolo e negli organismi. Sarebbe opportuno riunire prove più rigorose moltiplicandole e conducendo ricerche molto avanzate sulle reazioni del protoplasma all'aridità e al freddo, campo in cui le nostre conoscenze sono ancora piuttosto scarse. Un confronto più modesto, a scala media, tra i dati meteorologici mensili o per decadi e la crescita degli anelli del tronco, oppure semplici osservazioni fenologiche potrebbero portare un contributo prezioso, in mancanza di studi più approfonditi eseguiti con l'uso del fitotrone.
Ogni qualvolta il comportamento dell'umidità del suolo diventa un fattore determinante, le condizioni edafiche, anch'esse funzioni del clima, del rilievo e della litologia, hanno pure un ruolo importante, almeno su territori sufficientemente vasti.
Dal 1950 gli sforzi degli studiosi sono volti a valutare l'importanza relativa dei fattori ecologici con i metodi più rigorosi dell'analisi fattoriale (v. Greig-Smith, 19642), che vanno dalla regressione semplice, fino ai procedimenti più raffinati, che fanno ricorso al calcolo delle matrici per studiare le caratteristiche di elementi che rappresentano l'insieme dei dati in uno spazio a n dimensioni. I tentativi si basano su carte a grandissima scala, ma finora, per quanto ne sappiamo, non hanno molto migliorato l'apprendimento dei legami di causalità.
4. Le forme del rilievo
a) Introduzione: tipi fondamentali di rilievo
Nella maggior parte dei continenti il rilievo è formato da un sistema di versanti gerarchizzati in funzione di una rete di corsi d'acqua ramificati, che confluiscono in tronchi sempre più importanti. In una struttura omogenea, questi versanti presentano un profilo convesso-concavo, la cui linea di interfluvio si abbassa progressivamente verso valle. A queste forme comuni si contrappongono forme particolari: a) superfici piane situate nelle zone di interfluvio (altipiani) oppure disposte lungo i corsi d'acqua (pianure), dove la pendenza dei versanti è inferiore al 10% su vaste estensioni; b) scoscendimenti il cui tracciato presenta una certa autonomia in confronto al piano della rete idrografica.
Tuttavia nelle regioni aride o nelle regioni anticamente ricoperte dai ghiacciai, i versanti non sono più gerarchizzati in funzione di una rete idrografica confluente in mare, ma esistono numerose contropendenze e depressioni chiuse. Queste forme si ritrovano anche nelle rocce calcaree delle regioni carsiche.
Le pianure e i terrazzi di accumulo fluviale sono costituiti da alluvioni deposte negli stessi letti fluviali, nei laghi o nei delta marittimi. Questi ultimi continuano verso l'esterno in altre formazioni in cui l'apporto del materiale e il modellamento delle forme dipende in ‛maniera determinante dai movimenti del mare: sono gli stagni costieri, le spiagge e i cordoni litoranei.
b) Le tappe della geomorfologia
Si è tentato di spiegare le forme del terreno secondo tre procedimenti diversi, adottati successivamente dai geomorfologi nel corso di quelle che si possono chiamare le ‛età' di questa scienza, secondo una sequenza peraltro molto schematica.
1. Poiché lo sviluppo della geologia ha preceduto di molto quello della geomorfologia, è naturale che l'attenzione sia stata posta dapprima sulle forme che derivano immediatamente dalla struttura statica. In Francia questo stadio si è espresso nelle lezioni di geografia fisica di A. de Lapparent, le quali offrono gli aspetti essenziali di una ‛morfologia strutturale'. Le forme strutturali sono facili da definire e da spiegare nel campo delle strutture sedimentarie suborizzontali o piegate, poiché basta conoscere la ripartizione delle rocce dure e tenere secondo una semplice geometria. L'erosione differenziale, attaccando di preferenza le rocce tenere che sono inizialmente poste più in alto, spiega l'escavazione delle depressioni susseguenti e delle conche e il formarsi di cuestas, di creste, di dorsali e di superfici strutturali il cui piano stratigrafico corrisponde al tetto di uno strato duro liberato dello strato tenero che lo sormontava. Tuttavia le forme di erosione differenziale sono molto più difficili da spiegare nelle strutture formate da rocce cristalline, perché la scala di durezza non è così evidente come nelle strutture sedimentarie.
2. La morfologia ciclica. Verso il 1875 si è osservato che numerose superfici piane o quasi piane (penepiani) non sono superfici strutturali, ma sono intagliate in rocce di diversa resistenza; qualche volta poste a livelli diversi, separati da scarpate più o meno indipendenti dalla struttura. Verso la fine del XIX secolo, la scuola americana, vera fondatrice della geomorfologia soprattutto con W. M. Davis, ha spiegato questi spianamenti come il risultato dell'allargamento dei versanti, proseguito fino allo stadio di senilità nel corso di un ciclo di erosione coincidente con un lungo periodo di stabilità tettonica (almeno per molti milioni di anni). In seguito l'intervento di un nuovo sollevamento a grande raggio di curvatura più o meno accompagnato da faglie provoca l'incisione degli alvei e il ringiovanimento delle vallate. Se questo fenomeno si verifica a più riprese, si formano degli altipiani sovrapposti, separati da scarpate. In tal caso la presenza di questi penepiani fino alla sommità delle alte montagne (per es. fino a 3.000 m nella Sierra Nevada americana) fornisce la prova di un certo ritmo tettonico. Ai periodi di corrugamento e di granitizzazione, che forniscono la materia prima al rilievo, seguono movimenti di diverso tipo a grande raggio di curvatura, che prima il geologo non poteva identificare se non partendo dalle discordanze.
L'analisi ciclica del rilievo ha costituito la principale preoccupazione dei geomorfologi almeno in Francia e nei paesi anglosassoni fino alla seconda guerra mondiale. La combinazione della geomorfologia strutturale con la geomorfologia ciclica ha portato alla formulazione di un certo numero di principî fondamentali. Se si eccettuano le vallate di forma semplice, qualsiasi superficie depressa (di area > 1 km2) è scavata nelle rocce tenere, mentre ogni rilievo prominente è dovuto o a un sollevamento (tanto più recente quanto più la roccia è tenera) o alla presenza di una roccia più dura.
Invece su estensioni dell'ordine delle decine di migliaia di km2 la tettonica verticale è generalmente il fattore decisivo. Le grandi unità montagnose in rapporto ai bassipiani vengono messe in risalto da un movimento a grande raggio di curvatura, cioè da una flessura più o meno complicata da faglie o da accavallamenti tardivi diretti verso la zona pedemontana.
I vari tipi di montagne possono essere così classificati: a) secondo la natura delle loro incisioni, derivanti da sprofondamenti, da erosione di banchi di rocce tenere alternate a rocce dure, oppure da escavazioni prodotte dai ghiacciai. La presenza di incisioni parallele comporta il parallelismo delle catene che possono derivare da Horst molto allungati (tipo Tien Shan), o essere la conseguenza di piega- menti regolari (Zāgros). Le faglie, però, possono non essere orientate tutte nella stessa direzione (come nella zona centrale delle Alpi Orientali) e le falde di ricoprimento possono determinare una suddivisione delle unità litologiche in blocchi a forma di lenti; in tal caso l'unità elementare che costituisce la montagna è il massiccio; b) secondo l'andamento degli interfluvi: le medie montagne hanno degli interfluvi rotondeggianti e quasi eguali, che si allargano in veri e propri ripiani, rappresentanti delle superfici di spianamento ciclico. Le montagne di tipo ‛alpino' sono chiuse da grandi versanti ripidi di almeno 1 km, che terminano in creste aguzze. Spesso non hanno mai conosciuto uno spianamento ciclico o per lo meno le testimonianze di quest'ultimo sono state distrutte dalla forza dell'erosione.
Bassipiani e colline corrispondono a regioni meno sollevate. Le rocce dure predominano nel primo caso, dando luogo ora a superfici strutturali, ora a superfici di spianamento modificate a più riprese (superfici poligeniche, a gradinata, ecc.); meno comune il caso di bassipiani corrispondenti a incisioni più o meno ampie in rocce tenere. Quanto alle colline, esse sono costituite da rocce tenere e compatte secondo un modello generalmente semplice e senza traccia di fenomeni ciclici.
Infine le pianure di grande dimensione sono aree di sprofondamento, dove l'accumulo prevale sull'erosione (tranne che in certe parti degli antichi ‛scudi' della zona tropicale, dove sono ancora in azione alcuni cicli senili).
Questi principi sono stati applicati in numerose monografie di geomorfologia ‛storica', nelle quali si è tentato di ricostruire l'evoluzione di una data regione partendo dal rilievo più antico, ancora avvertibile nel paesaggio, che spesso consiste in una superficie di spianamento fossile poi riesumata. Questo paesaggio può essere così antico da risalire al Precambriano (antichi scudi artici), ma la montagna può essere anche integralmente giovane e senza traccia di un passato. Dunque il geomorfologo ha preso il posto del geologo, considerando che tutta la storia anteriore ai primi paesaggi ancora conservati costituisce un dato di fatto statico, composto contemporaneamente di rocce dure e rocce tenere.
Dopo i noti lavori di E. de Martonne sull'Europa centrale, il capolavoro di questo genere di studi è probabilmente lo scritto di H. Baulig sull'altopiano centrale francese; studio nel quale la ‛storia' di ogni regione si materializza in modelli grafici, in serie di stereogrammi, che dovrebbero poter formare una serie continua come nei fumetti.
La teoria di Davis, tuttavia, è stata sottoposta a varie critiche. A partire dagli anni venti, un primo tentativo di superare la teoria davisiana è stato fatto da W. Penck, il quale ha immaginato che le superfici di spianamento disposte a gradinata si siano sviluppate nel corso di un sollevamento via via più rapido e interessante una superficie sempre più estesa. Una morte prematura ha impedito all'autore di sviluppare il suo pensiero e di spiegare in quali condizioni potrebbe essere superato il limite che divide il meccanismo di formazione di una valle aperta da quello di una valle incassata. Una parte di queste argomentazioni era basata su un metodo nuovo rivelatosi in seguito fecondo: l'utilizzazione dei depositi di un'area di sedimentazione per risalire all'energia dell'erosione esercitatasi contemporaneamente nel massiccio vicino. Si deve comunque tener presente che il principio secondo il quale l'energia del rilievo si manifesta nella granulometria: dei depositi correlativi deve essere attenuato tenendo conto dell'influenza del clima; tale principio d'altronde non si applica in generale che ai sedimenti continentali.
L'arbitraria applicazione dell'analisi ciclica a rilievi in cui le superfici piane obiettivamente non esistono, ha reso più facile una reazione antidavisiana e anticiclica che è stata condotta in Francia da J. Tricart e A. Cailleux. Le loro critiche hanno investito certi punti della terminologia (in realtà il ‛ciclo' di Davis è una sequenza che va dalla giovinezza alla senilità) e lo schematismo eccessivo che oppone periodi di stasi assoluta a movimenti bruschi ‛catastrofici'. Finora in verità non è stata proposta nessuna soluzione sostitutiva per spiegare l'esistenza di superfici piane o quasi piane che incidono rocce dure e sono a loro volta solcate da vallate con versanti ripidi.
3. Dalla seconda guerra mondiale in poi l'interesse si è rivolto verso lo studio dei processi di erosione e di accumulo, come si manifestano nei letti dei corsi d'acqua, sui versanti o sui litorali. Si è cercato di valutarli quantitativamente e si è preso atto delle loro molteplici variazioni in funzione del clima.
Non si è trattato affatto di un metodo rivoluzionario. Già Davis aveva dimostrato come lo schema di un ciclo di erosione possa radicalmente modificarsi nei climi freddi o desertici. In un'opera postuma particolarmente valida, egli aveva proposto un meccanismo riguardante la formazione di pediments in clima semiarido molto diverso da quello della peneplanazione ‛normale'. Durante gli anni 1920-1940, gli studiosi tedeschi avevano abbozzato tutta una geomorfologia climatica, le cui articolazioni essenziali, però, trascuravano troppo la copertura vegetale.
Tuttavia, negli scritti di molti autori, soprattutto francesi, questa nuova geomorfologia fenomenologica ha rappresentato una rottura brutale con le precedenti scuole di pensiero, poiché negava la validità della morfologia ciclica. Negli Stati Uniti, in cui queste critiche sono state meno sistematiche, l'accento è stato messo sullo studio quantitativo: morfometria dei sistemi di versanti e dei letti fluviali nelle loro relazioni con la portata, misurata dagli effetti di erosione e di accumulo sul terreno.
Secondo il pensiero dell'autore di queste pagine, possono essere ritenuti ancora validi i dati essenziali acquisiti durante le fasi anteriori. Sarebbe però alterare la storia del pensiero geomorfologico distinguere una fase in cui le teorie sono state costruite in astratto e una fase fenomenologica. Davis e i suoi contemporanei, ben inteso, sono partiti da dati di osservazione come Tricart, ma in seguito la raccolta dei dati si è arricchita considerevolmente, grazie alla molteplicità delle ricerche negli ambienti bioclimatici più diversi, in un mondo in cui la circolazione è diventata più facile malgrado gli ostacoli dovuti ai vari nazionalismi: basta ricordare, ad esempio, il notevole lavoro di confronto che è stato effettuato da certi geografi come J. Dresch. Ed è necessario e giusto ordinare questi fatti seguendo schemi esplicativi, come, fortunatamente per la scienza, non manca di fare Tricart.
I progressi registrati riguardo all'influenza del clima sull'erosione e la sedimentazione sono utilizzati immediatamente nella interpretazione dei paleosuoli e dei sedimenti correlativi, che costituiscono ormai uno dei punti essenziali nelle monografie di tipo ‛storico'. Noi sappiamo ora che sedimenti di grossa granulometria possono provenire dalla demolizione di un rilievo modesto in climi freddi e aridi, e che al contrario ai piedi delle montagne della zona calda e umida la granulometria rimane fine; la presenza massiccia della caolinite, in assenza di minerali primari fragili (feldspati, ecc.) è quindi uno dei migliori criteri dell'influenza di un tale clima.
Lo studio dei paleosuoli, condotto in modo specifico per ogni spianamento permette di distinguere i casi in cui delle faglie portano a diversi livelli una superficie di spianamento unica, e quelli nei quali i cicli di erosione successivi si spiegano con un sollevamento d'insieme: in quest'ultima ipotesi i paleosuoli sono infatti sempre meno evoluti e portano l'impronta di climi diversi sui gradini inferiori.
La scala di durezza è notevolmente influenzata dal sistema bioclimatico, a seconda che quest'ultimo sia dominato dalla gelività o dalla sensibilità delle rocce all'alterazione chimica (v. sotto, cap. 5). È quindi questo sistema che modella l'evoluzione dei versanti verso lo spianamento; tuttavia sembra che i grandi dislivelli di molte centinaia di metri e le divisioni in unità di primo e di secondo ordine siano opera della tettonica verticale. Essa ritma lo sviluppo delle superfici di spianamento e la loro incisione in vallate profonde.
La valutazione quantitativa dell'effetto dei processi è spesso indispensabile per permettere la scelta tra due teorie qualitative egualmente seducenti. Ma per le difficoltà che sono legate alle osservazioni sul terreno e alle esperienze di laboratorio, questo procedimento analitico deve rimanere subordinato ai fatti globali, che sono sempre capaci di suggerire l'ipotesi più verosimile.
Uno degli aspetti più fecondi di questo metodo è la valutazione della velocità dell'erosione, che ci permette di arricchire il quadro degli strumenti con i quali tentiamo di svelare i segreti della geomorfologia ‛storica'. L'età di una superficie di spianamento, quella del suo sollevamento, il meccanismo della sua genesi devono essere compatibili con ciò che noi sappiamo sulla velocità dell'erosione. Un esempio è quello dell'argomento sviluppato da P. Gabert, che dall'imponenza della sedimentazione Plio-quaternaria nella pianura padana ha dedotto l'impossibilità della conservazione di una superficie di spianamento miocenica sulle Alpi.
Più generalmente questo metodo è di grande aiuto per operare una distinzione fondamentale, tra ‛forme viventi' in equilibrio con il clima e con la tettonica ‛attuali' (quest'ultima spesso assopita) e ‛forme ereditate' da paleoclimi e da ritmi tettonici interessanti decine di milioni d'anni. La loro importanza è certamente notevole e non si saprebbe accettare la filosofia di quei ricercatori che negano ai paesaggi ogni traccia del passato e soprattutto ogni traccia ciclica (come è il caso di Hack, secondo il quale nel rilievo appalachiano lo stato di equilibrio fra l'attività fluviale e il modellamento dei versanti non avrebbe mai subito turbamenti sensibili).
La valutazione della velocità dell' erosione e però un'operazione difficile che può essere affrontata con i seguenti metodi: a) misurazioni sul terreno dei processi attuali; b) apprezzamento globale prendendo in considerazione i materiali trasportati dai corsi d'acqua; c) ricerche con modelli in laboratorio; d) misurazione della perdita di sostanza a cominciare da paleoversanti di data conosciuta e non risalendo nel tempo oltre i 10.000 anni.
Se si crede a un certo numero di ricercatori, la cui attività è particolarmente intensa in Gran Bretagna (R. J. Chorley) e negli Stati Uniti, gli anni sessanta avrebbero visto il sorgere di una quarta età nello sviluppo della geomorfologia, che sarebbe l'età del calcolatore elettronico. La descrizione stessa dei fenomeni risulterebbe dall'applicazione delle più moderne tecniche statistiche all'analisi dello spazio. Le leggi esplicative sarebbero di carattere completamente stocastico.
5. Processi di erosione e di accumulo e forme elementari dipendenti dall'azione dell'acqua
È opportuno premettere che si designa con il termine di erosione l'insieme dei processi di degradazione del rilievo. Tuttavia, basandosi sull'etimologia, un certo numero di autori riserva questo termine all'aggressione meccanica da parte dell'acqua o del ghiaccio; essi chiamano allora ‛denudazione' (in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Germania, in URSS, ecc.) la degradazione del versante. Tale scelta è, però, ugualmente criticabile, specie nei casi in cui il termine è usato, ad esempio, per dei versanti in cui invece lo spessore del suolo si accresce.
I frammenti prodotti dall'erosione dovuta ad agenti atmosferici (weathering) scendono fino al livello di base. Questa operazione richiede che la forza di gravità prevalga sulle forze di attrito che si verificano tra i detriti e al contatto tra questi e il substrato roccioso (salvo il caso in cui i detriti sono trasportati in soluzione).
a) L'attacco delle rocce da parte degli agenti atmosferici e la formazione dei suoli di alterazione
La pedogenesi costituisce il primo capitolo dell'evoluzione morfologica. Si procede dapprima a un raffronto tra la roccia sana e i suoi prodotti di alterazione, successivamente si misura il tenore di sostanze disciolte nelle acque naturali, infine si ricercano i meccanismi fondamentali di aggressione chimica, imitandoli in esperienze di laboratorio.
Tuttavia quest'ultimo metodo va incontro a difficoltà notevoli, di cui la principale è che i processi naturali sono molto lenti; occorrono infatti molti giorni per misurare la solubilità del calcare e molti mesi per quella dei feldspati. D'altra parte la materia è estremamente eterogenea. Infatti se si taglia in due un frammento di roccia e si sottopongono le due parti ad uno stesso trattamento, si ottengono risultati che possono differire da 1 a 100; ne deriva pertanto la necessità di esaminare contemporaneamente un gran numero di campioni.
La dissoluzione chimica. - L'efficacia della dissoluzione chimica dipende dalla sensibilità di ciascun minerale e dalla permeabilità della roccia, cioè dalla superficie di contatto con l'acqua e dalla velocità di circolazione di questa. La quantità disciolta è proporzionale a √-t (considerando t come il tempo di contatto) e, più spesso, alla temperatura. Per una lama d'acqua annualmente drenata, per es. di 1.000 mm, esiste una permeabilità ottimale che riduce al minimo il ruscellamento superficiale, ma che permette anche il tempo di contatto più lungo possibile. Quanto alla sensibilità specifica di ogni minerale, essa è stata poco considerata dai chimici in genere, donde la necessità di una ricerca orientata specificatamente verso le necessità dei geomorfologi e dei pedologi.
Dissoluzione delle rocce carbonate. - I calcari entrano in soluzione ionica nelle acque piovane ricche di anidride carbonica, in seguito a una complessa catena di reazioni. In superficie, la percentuale massima di CaCO3 disciolto è debole e inversamente proporzionale alla temperatura, come lo è il tenore di CO2 fisicamente disciolta nell'acqua: cioè 90 mg/l nelle regioni fredde, contro 40 mg/l nelle regioni calde. Ma la parte più esterna del suolo può essere da 100 a 150 volte più ricca in CO2, e poiché la capacità di soluzione è proporzionale a 3√-p-C-O-2 le acque sotterranee dissolvono da 2 a 300 mg/l.
Le acque naturali si diversificano dalle acque di laboratorio a causa della loro proprietà non ancora ben conosciuta di restare fortemente soprassature per molti giorni, per esempio quando una sorgente carsica ritorna a contatto con l'atmosfera normale.
Sui fattori che provocano la dissoluzione della dolomia, sappiamo ben poco. Non si capisce bene come la percentuale di Mg nelle acque naturali possa essere forte come quella di Ca.
Decomposizione delle rocce cristalline. - La maggior parte delle rocce cristalline entrano in soluzione con difficoltà e seguendo una proporzione diversa dalla loro composizione originale, come prova l'analisi delle acque naturali dove i cationi basici vi sono relativamente più abbondanti della silice, Si(OH)4, che precede il ferro e l'alluminio. I suoli di alterazione da esse derivati sono di conseguenza composti di minerali primari poco o affatto solubili (quarzo), di residui amorfi allumo-silicei e di cristalli di neoformazione di cui gli uni hanno una composizione semplice (idrossidi di ferro e di alluminio) e gli altri molto complessa: argille a 2 strati (caolinite), argille a 3 strati e più ricche di silice (illite, montmorillonite, ecc.).
L'alterabilità ineguale dei minerali silicati tetraedrici, visibili al microscopio, si giustifica in parte con considerazioni teoriche, nonostante che questi complessi si pongano al di fuori delle principali famiglie della mineralogia. Il quarzo è al vertice della scala della durezza e i feldspati calcici al gradino più basso; la maggior parte degli anfiboli e dei pirosseni sembrano porsi un po' al di sopra di questi ultimi. Fra i minerali a 3 o a 4 strati, l'esame al microscopio mostra una certa vulnerabilità della biotite in rapporto alla clorite, alla sericite e alla muscovite.
Ma solo il metodo sperimentale permette di determinare l'azione dei fattori climatici, temperatura e drenaggio, che danno una fisionomia originale ai suoli di alterazione delle diverse zone. Risulta dai primi studi che il tipo di attacco usuale è l'idrolisi, tuttavia l'espulsione dei cationi basici (dei quali il più semplice è Ca2+) è accelerata in ambiente acido, dovuto all'abbondanza di CO2 o di acidi organici. Questi ultimi esercitano anche un' azione complessa, suscettibile di trasportar via l'alluminio e il ferro insieme agli altri elementi. Le temperature e il drenaggio elevati favoriscono l'asportazione della silice.
Partendo da gabbri e da graniti si è potuto ottenere facilmente in laboratorio la montmorillonite, che rappresenta spesso il primo stadio dell'alterazione, specialmente nei regimi a debole drenaggio, e a temperature normali. Ma non si è riusciti ancora a sintetizzare la caolinite (se non in presenza di acidi organici), mentre in natura essa è prodotta in enorme quantità nei suoli di alterazione tropicali, in condizioni tali da escludere l'intervento di questo intermediario organico.
I suoli di alterazione della zona calda e umida sono caratterizzati dalla scomparsa di tutti i minerali primari, tranne il quarzo (i cui elementi tuttavia subiscono una riduzione di dimensione), e dalla neoformazione massiccia di caolinite, alla quale si aggiunge, dove compare una stagione asciutta, l'idrossido di alluminio e di ferro. Questa situazione è attribuita alle alte temperature che favoriscono l'asportazione della silice, al drenaggio abbondante (da 500 mm a 5 m) e alla debole viscosità dell'acqua che penetra rapidamente all'interno dei feldspati e dei minerali ferro-magnesiaci.
Al contrario, quando l'aggressione chimica è rallentata, la solubilizzazione si limita al bordo delle fessure, cosicché i minerali primari rappresentano l'essenziale dei suoli di alterazione. La desilicizzazione è meno completa e a fianco della caolinite si trovano argille più ricche di silice (montmorillonite, interstratificati), o risultanti da una minor trasformazione del minerale primario (biotite trasformata in vermiculite). Questa situazione si verifica: a) nella zona calda e arida, perché il drenaggio è poco intenso (talvolta nullo nella zona saheliana); b) nella zona temperata, perché le temperature medie sono qui inferiori della metà e l'acqua è due volte più viscosa; c) nella zona mediterranea, perché l'acqua manca quando l'aria è calda ed esercita la sua azione solo in inverno quando le temperature sono relativamente basse. In tutti questi casi, le rocce granito-gneissiche si disgregano in sabbie e non in argille come nella zona calda e umida, nella quale tuttavia sembra che l'alterazione sia più veloce ma non qualitativamente diversa.
Nelle zone fredde, gli acidi organici sfuggono più a lungo ai loro nemici naturali, i Batteri, poco attivi. Potrebbe risultarne un sistema di alterazione originale, caratterizzato dall'asportazione dell'alluminio dal ferro (G. Pedro); infatti questi ultimi elementi sono riprecipitati nei suoli di alterazione dopo un percorso di pochi decimetri. Si può soltanto immaginare ciò che sarebbero questi suoli allo stadio maturo, perché tali climi non si manifestano che da qualche centinaio di migliaia d'anni al massimo, più spesso qualche migliaio d'anni, in opposizione all'alterazione lateritica, che domina da decine e decine di milioni d'anni.
Nella maggior parte delle zone climatiche, la sensibilità all'attacco chimico è il principale fattore dell'erosione differenziale all'interno delle rocce compatte, il quale provoca dislivelli di diverse centinaia di metri negli ambienti più disparati, come, ad esempio, in Scozia, in Corsica e negli Inselberge della zona calda. Le rocce più resistenti sono quelle la cui struttura è costituita da quarzo (quarziti); seguono le arenarie quando il loro cemento è formato da sesquiossidi ferrici e da caolinite. Quanto alle rocce cristalline, la diversità del loro comportamento, molto discussa, sembra riportarsi alle seguenti regole: a) nella famiglia granito-gneissica, la scala di durezza segue spessissimo l'ordine di alterazione dei minerali, ma con fluttuazioni importanti a seconda della permeabilità; b) numerose rocce piuttosto basiche sono più dure della maggior parte dei granito-gneiss (dolenti, certi gabbri, ecc.), a causa della loro debolissima permeabilità.
Infine nel caso degli scisti, rocce più o meno microcristalline, la sfaldatura è un fattore di scarsa resistenza, in ragione della sua porosità orientata, che prevale sulla composizione mineralogica (v. tabb. II e III).
La disgregazione fisica. - Fenomeni di rottura dovuti all'escavazione delle vallate: l'escavazione rapida di una vallata montana provoca fenomeni di rottura nelle rocce massicce (principalmente cristalline e arenacee), che si aggiungono alle diaclasi preesistenti per dar luogo a blocchi di ogni dimensione. Qui il geomorfologo sfrutta dati acquisiti dagli ingegneri specialisti della meccanica delle rocce nella progettazione degli impianti idroelettrici.
L'incisione della valle provoca uno squilibrio in rapporto alle forze iniziali esistenti; queste ultime ora si avvicinano a una distribuzione idrostatica delle pressioni, ora mostrano una forte eccedenza di compressione in senso orizzontale, che si crede costituisca il residuo delle forze tettoniche.
Sia in un caso che nell'altro, i massimi effetti di rottura si manifestano alla base del versante. Le rocce sono sottoposte a sforzi di taglio parallelo alle pareti, per cui tendono a gonfiarsi. Se vi si pratica un incisione artificiale, per esempio per fissarvi una diga, imitando così l'azione di un corso d'acqua o di un ghiacciaio, esse scoppiano con formazione di lastre sottili. In condizioni naturali la cicatrice di tali ferite è spesso materializzata sotto forma di nicchie poco profonde con tetto a volta. Sfortunatamente, noi abbiamo soltanto un'idea vaga dell'ordine di grandezza del dislivello necessario.
D'altronde le creste di intersezione subiscono un richiamo al vuoto che crea forze di trazione; si sono visti punti di appoggio di teleferica spostarsi di diversi centimetri dal momento della loro installazione.
La montagna tende così a disgregarsi in funzione anche dell'importanza del suo volume e dei suoi dislivelli verticali.
Certi autori immaginano che i fenomeni di distensione provocati dall'erosione abbiano effetti tardivi, posteriori alla distruzione della montagna. Essi sarebbero responsabili delle calotte di ineguale permeabilità che esistono alla periferia delle masse di granito favorendo in tal modo, con la penetrazione dell'acqua negli strati superficiali più porosi, la loro frantumazione in scaglie.
La crioclastia. Il gelo dell'acqua racchiusa nei pori delle rocce è uno dei fenomeni più efficaci di disgregazione e il cui studio è facilmente attuabile in laboratorio. In rapporto alle condizioni naturali, si risparmia tempo riducendo il più possibile gli intervalli gelo-disgelo. Su quest'ultimo argomento si dispone già di un'esperienza considerevole acquisita sia dai tecnici della costruzione di edifici e di strade, sia dai geomorfologi (soprattutto del Centre National de Géomorphologie di Caen).
Certi calcari come la craie, certi scisti come i calcescisti, oppure le andesiti, si disgregano, dopo qualche decina di alternanze gelo-disgelo, in frammenti le cui dimensioni vanno dalle sabbie alle schegge di qualche centimetro. Molte arenarie e la maggior parte delle rocce cristalline si mostrano del tutto refrattarie.
Il meccanismo fisico di base è conosciuto fin dal 1698 quando fece esplodere un cannone di bronzo; l'acqua, infatti, trasformandosi in ghiaccio aumenta di volume (1/10). In una cavità sferica perfettamente chiusa dopo aver tenuto conto della comprimibilità del ghiaccio e della roccia, che ha un effetto moderatore, il calcolo mostra che l'aumento di volume potrebbe sviluppare una pressione idrostatica di 6.000 kg/cm2; in realtà questo valore non è mai raggiunto. La temperatura di cristallizzazione si abbassa sino a −22 °C man mano che la pressione aumenta fino a 2.200 kg/cm2. Se la pressione supera questo valore, si forma un tipo di ghiaccio la cui densità è più forte di quella dell'acqua; ciò arresta automaticamente il processo. La pressione idrostatica si esercita sia direttamente sulle pareti, sia tramite l'acqua che essa spinge (Powers).
Gli sforzi di trazione che ne risultano possono creare delle fessure congiungenti tra loro le cavità, tanto più facilmente quanto più sottili sono le pareti divisorie. Questo spiega la debole gelività delle rocce poco porose come il granito (1%), le cui pareti divisorie sono molto spesse. Naturalmente una condizione indispensabile è che la percentuale d'acqua nei pori sia vicina alla saturazione. Se la porosità è troppo diffusa e troppo aperta verso l'esterno, la roccia resta intatta perché l'acqua, o anche il ghiaccio, possono disperdersi al momento del gelo. È una delle ragioni per cui calcari troppo porosi e con pori di grande dimensioni sono poco attaccabili. Vi è dunque un optimum che le esperienze tentano di determinare.
I versanti rocciosi che assorbono più rapidamente la pioggia o l'acqua di ruscellamento e quelli che perdono più difficilmente questa umidità per evaporazione o per migrazione verso la parete fredda, sono i più gelivi. Nei climi freddi, esiste un optimum quando lo strato di neve è così sottile da fondere durante il giorno, esponendo quindi la roccia all'irraggiamento notturno. In regime periglaciale, le condizioni di imbibizione sono egualmente buone nella parte superiore degli strati rocciosi.
È probabile che la produzione di scaglie a partire dai versanti rocciosi risulti da un fenomeno di crioosmosi. Quando l'onda di gelo non penetra troppo bruscamente, i primi cristalli di ghiaccio, formatisi per esempio a 1 cm dalla superficie, attirano l'acqua ancora non gelata che circola secondo condotti capillari e si ingrandiscono sino a spezzarsi. Frammenti ancora più grossi possono essere prodotti ovviamente quando sono presenti le diaclasi. Ci resta ancora molto da apprendere soprattutto dalle esperienze riguardanti l'interpretazione della scala di vulnerabilità delle rocce al gelo.
Aloclastia. Erodoto aveva già osservato che il sale di gesso essudato dalle pietre delle piramidi provocava la loro distruzione. Il dominio naturale dell'aloclastia è quello dei deserti dove le polveri saline sono trasportate a grandi distanze e provengono sia dagli chott che dalle coste rocciose bagnate dall'acqua del mare. Fin dal 1933, partendo dalla sua esperienza cilena, H. Mortensen ha descritto, tra gli altri, diversi meccanismi fisici possibili: a) la cristallizzazione delle soluzioni soprassature nelle rocce porose, con aumento di volume dell'insieme dei cristalli e della soluzione residua; b) l'assorbimento di acqua in cristalli di sali idratabili (NaSO4, CaSO4, Na2CO3); c) la crescita dei cristalli a partire dall'acqua attinta all'esterno del poro.
I due ultimi processi sono i più verosimili e si è ricercato (H. Mortensen, P. K. Weyl) l'ordine di grandezza delle pressioni sviluppate partendo da modelli fisici fondati sulle conoscenze che abbiamo sulla pressione di cristallizzazione (che è regolata dal grado di soprassaturazione).
L'esperienza in laboratorio ha permesso di verificare l'efficacia dei problemi di aloclastia, con risultati quantitativamente variabili secondo gli autori (P. Birot, G. Pedro). Esperienze più accurate permetteranno di scegliere tra i differenti modelli; per es. si è visto che l'Na2SO4 provoca la disgregazione prima che abbia avuto il tempo di idratarsi e quindi il processo veramente attivo sarebbe la crescita del cristallo (F. J. P. M. Kwaad).
Umidificazione - Essiccazione. Le alternanze di umidificazione e di essicazione riescono a rompere rocce anche compatte come il granito, purché racchiudano una certa percentuale di minerali igrofili di neoformazione: per es. la montmorillonite o la vermiculite (che deriva direttamente dalla biotite). Si è così potuta realizzare la polverizzazione di un lastricato di granito attraverso una vermiculitizzazione accelerata (M. Robert).
Nelle rocce poco coerenti e poco compatte a grana fine l'umidificazione dopo l'essiccamento ricaccia l'aria contenuta nei pori e fa scoppiare gli aggregati.
Termoclastia. 1. In ambiente umido: l'acqua possiede un coefficiente di dilatazione superiore a quello dei minerali, per cui si può supporre che gli aumenti di temperatura provochino delle pressioni sulle pareti dei pori. Le esperienze di Caen hanno mostrato che a partire da 20 a 25.000 oscillazioni tra 15 e 70 °C i graniti hanno formato delle sottili scaglie o frammenti di forma appiattita, rappresentanti al massimo una perdita di sostanza dal 3 al 4%; è dunque un fenomeno molto lento.
2. In ambiente arido: i minerali costituenti le arenarie o le rocce cristalline hanno coefficienti di dilatazione cubica ineguali (quello del quarzo è due volte quello del feldspato). Tuttavia le esperienze di Griggs permettono di concludere che questo processo non basta a determinare una disgregazione granulare poiché nessun effetto è stato ottenuto dopo 90.000 oscillazioni di 100 °C.
Si attribuisce talvolta a semplici variazioni di temperatura, che dilatano e contraggono una lastra di roccia superficiale, la formazione delle scaglie che si staccano dalle pareti rocciose. A causa delle difficoltà sperimentali, questa teoria non è stata invero ancora provata. La degradazione ‛a scaglie di coccodrillo' osservata nelle arenarie (solchi poligonali) richiede sforzi ben minori, perché si tratta di una semplice rottura per trazione e non per cesellamento.
Azione delle radici. La crescita delle radici delle piante esercita notevoli tensioni che sono capaci di sconquassare i muri. Lo sfruttamento di diaclasi fini o dello sfogliettamento ha un ruolo molto importante nell'individuazione di frammenti calcarei o scistosi.
Nella maggior parte dei processi studiati, la velocità dell'erosione degli agenti meteorici è inversamente proporzionale allo spessore dei suoli di alterazione esistenti; ciò vale per tutti i casi in cui l'alterazione è regolata dalla temperatura le cui oscillazioni si attenuano con la profondità in modo esponenziale: crioclastia, termoclastia, alternanza umidificazione-essiccazione, e anche alterazione chimica (che cresce essa pure esponenzialmente con la temperatura). Riguardo a quest'ultimo punto, è notevole il vantaggio degli strati superficiali soprattutto per le latitudini medie con forti contrasti stagionali, dove le temperature estive dello strato superficiale sono molto superiori alla temperatura media annua che regna negli orizzonti profondi: questa differenza si attenua nella zona tropicale forestale (da 3 a 5 °C). Tuttavia là dove l'acqua costituisce un fattore limitante (alterazione chimica, crioclastia), esiste uno spessore minimo di suoli di alterazione al di sotto del quale l'acqua, circolando troppo rapidamente, lascia il versante prima di essere saturata, o non umidifica abbastanza la roccia.
Infine l'azione biologica è ugualmente efficace solo in un orizzonte superficiale, poiché gli acidi organici sono rapidamente biodegradati e l'azione fisico-chimica delle radici si esercita soprattutto quando queste sono a contatto della roccia sana.
b) La circolazione dei detriti sui versanti
La classificazione dei tipi di trasporto proposta qui sotto tiene conto dei seguenti criteri: a) ruolo dell'acqua; b) movimenti individuali (che si manifestano soprattutto in superficie) o movimenti collettivi che interessano una parte di suolo avente un certo spessore; c) rapidità del movimento. Dopo Sbarpe, molti autori hanno applicato il termine di creep a tutti i movimenti lenti (che non superano 1 cm l'anno).
Trasporto in soluzione chimica. - Avviene alla velocità della circolazione ipodermica, cioè di qualche metro al giorno; essa non è quasi influenzata dalla pendenza. Quest'ultima semmai regola la distribuzione dell'usura chimica sui versanti. Con forti pendenze e suoli di alterazione sottili l'usura aumenta in maniera notevole verso valle così come la portata liquida, poiché l'acqua deve effettuare un lungo percorso prima di saturarsi. Con pendenze deboli e suoli di alterazione spessi, l'usura è al contrario uniforme su tutto l'insieme.
Il trasporto per ruscellamento (surface flow). - L'energia cinetica dei rivoli d'acqua è la causa del trasporto di particelle individuali con notevole velocità (alla scala geologica). Il ruscellamento avviene nelle seguenti condizioni: 1) quando la portata del rovescio supera la velocità di filtrazione; 2) quando l'acqua giunge su un suolo che ha temperatura inferiore a 0 °C e gelando ne ostruisce i pori; 3) quando le gocce distruggono gli aggregati e trasportano le particelle, ostruendo i pori.
Nella parte superiore di un versante, quando la vegetazione è fitta, gli acquazzoni non sono forti e il suolo è permeabile, il libero percorso medio di ogni rivolo d'acqua è di pochi centimetri, finito il quale esso si infiltra o s'imbatte in una pianta. In questo caso la perdita di sostanza è all'incirca proporzionale a sen α. Al contrario questo percorso raggiunge diverse decine di metri nel settore di base di un versante con un mantello vegetale discontinuo, un substrato impermeabile, acquazzoni fittissimi, benché i rivoli d'acqua siano anastomizzati e con traiettoria variabile da un acquazzone all'altro; possiamo allora applicare delle formule di capacità di trasporto analoghe a quelle di un corso d'acqua. La portata di un tale rivolo cresce da monte a valle in proporzioni notevoli.
L'urto delle gocce di pioggia spezza gli aggregati e li fa schizzare in ogni direzione ma soprattutto verso valle quanto più forte è la pendenza. D'altra parte quest'ultima aumenta la lunghezza del tragitto compiuto. Ma il flusso delle gocce che si applica a una data superficie del versante è proporzionale a cos α.
I rimaneggiamenti ad opera della fauna del suolo (Vermi, Insetti, grossi animali scavatori) e la caduta degli alberi morti sono pure perturbazioni di direzione aleatoria, ma la cui risultante è uno spostamento a valle delle particelle.
Creep termico. - Dal 1888, si è definitivamente capito e sperimentalmente provato che le alternanze di contrazione e dilatazione di un ciottolo isolato, dovute a variazioni termiche, si traducono in una discesa del suo centro di gravità.
Un fenomeno analogo è quello del pipkrake. Gelando sotto un ciottolo l'acqua forma degli aghi di ghiaccio che lo sollevano in modo tale che al momento della fusione il ciottolo stesso ricade sulla sua verticale, con uno spostamento proporzionale a tg α.
La caduta di ciottoli (rockfall) è una modalità di trasporto rapido e individuale che non richiede l'intervento dell'acqua. Se un frammento roccioso situato su un pendio inclinato di 35-40% (che è la pendenza di equilibrio dell'attrito in ambiente secco) viene isolato da diaclasi leggermente interessate dagli agenti atmosferici, scivola e continua il suo movimento per tutta la lunghezza del versante.
I movimenti collettivi lenti sono più difficili da studiare. Bisogna innanzi tutto distinguere i fenomeni di reptazione dovuti alle variazioni di volume, anch'esse provocate dalle alternanze di umidificazione-essiccazione, o dalle alternanze gelo-disgelo. Come nei casi di reptazione individuale (pipkrake, ecc.) lo spostamento dell'insieme dello strato interessato è proporzionale a tg α. Tale spostamento è anch'esso tanto più grande quanto più lo strato è spesso.
Il soliflusso e il creep collettivo continuo dipendono da meccanismi del tutto diversi.
Quando il suolo presenta una matrice continua argillofangosa e sufficientemente impregnata d'acqua, gli attriti fra i granuli sono trascurabili. In tali condizioni può verificarsi lo scorrimento plastico e quando questo si verifica lo spessore dello strato in movimento e la sua pendenza si regolano automaticamente, poiché il contatto effettivo non può superare un valore critico k; d'onde: k=ρgh sen α, essendo h lo spessore, ρ la densità e α l'angolo di pendenza (P. Souchez). Se la quantità d'acqua è ancora più grande, non c'è più coesione tra le particelle e si ha a che fare con un flusso viscoso, capace di scorrere su una pendenza molto debole e con uno spessore di pochi centimetri.
I modelli matematici applicati allo scorrimento del ghiaccio valgono per tali suoli, scegliendo un coefficiente di viscosità 100 volte superiore. La ripartizione delle velocità in profondità mostra ora una curva continua, ora un taglio basale netto particolarmente evidente nelle lingue di soliflusso.
Infine specialisti di meccanica del suolo considerano che anche un complesso di granuli con attriti interni, la cui pendenza non è superiore all'angolo di attrito, subisce uno scorrimento quasi viscoso quando vi siano tensioni deboli ma applicate per migliaia di anni.
Nel caso dei movimenti collettivi, la stretta unione delle diverse sezioni del versante fa sì che la perdita di sostanza di una data sezione sia superiore a quella che la pendenza locale consente di prevedere se quest'ultima continua a valle, con un settore più inclinato; il contrario avviene se la curvatura è concava.
Scivolamenti di massa. - Quando la pressione tangenziale supera bruscamente un certo valore si determina uno spostamento in massa, che comunque non implica una deformazione del volume coinvolto. Sulla superficie di rottura si ha la seguente relazione: T>N tg ϕ+C, indicando T la componente tangenziale della gravità, N la sua componente normale, C la coesione e ϕ l'angolo di attrito. L'aumento improvviso della pressione tangenziale è di solito provocato da quello della percentuale d'acqua, che si accompagna con la comparsa di una forza idrostatica diretta verso l'alto. Lo spessore minimo necessario è tale che questo processo interessa i suoli di alterazione solo nella zona tropicale umida. In tutte le altre zone climatiche lo smottamento interessa le rocce, soprattutto quelle ricche di argilla dilatabile.
La misura sul terreno dell'attività annua dei movimenti di trasporto incontra differenti difficoltà. Quella dell'usura chimica globale è relativamente facile, poiché si tratta di determinare la percentuale degli elementi disciolti in una sorgente o nell'acqua raccolta da un fossato artificiale alla base della pendenza, poi di togliere gli ioni contenuti nell'acqua piovana. Lo stesso procedimento può essere impiegato per misurare gli effetti del ruscellamento. In un caso come nell'altro bisogna delimitare il perimetro del bacino di raccolta ed estenderlo fino alla sommità del versante, cosa di rado realizzata nei pochi impianti esistenti. Il problema è naturalmente più complicato per i movimenti lenti che interessano uno strato di suolo assai spesso; ogni segnale di riferimento più o meno ingegnoso è stato tentato (palle colorate imputrescibili, radioattività, ecc.) (v. tab. IV).
c) Il modellamento degli alvei
Geometria dei bacini e degli alvei. - Il sistema di corsi d'acqua e di creste gerarchizzati giustifica uno studio quantitativo che definisce, grazie a un gran numero di misure, la morfometria dei versanti e la geometria dei letti fluviali.
Il loro studio statistico ha messo in evidenza relazioni semplici tra la superficie del bacino e l'ordine dei corsi d'acqua gerarchizzati; quelli di primo ordine corrispondono infatti ai bacini di nuove dimensioni. Questi ultimi sono molto piccoli quando: a) la copertura vegetale è assente; b) la roccia che affiora è impermeabile e tenera; c) l'energia del rilievo (definita dal rapporto h/l, con h dislivello del bacino e l lunghezza dell'alveo) è forte; d) le piogge sono molto concentrate. In queste condizioni la densità del drenaggio, cioè la lunghezza totale dei corsi d'acqua per unità di superficie, è grande. Il caso estremo è quello delle bad lands dove il bacino elementare è dell'ordine di grandezza della decina di m2 (mentre è dell'ordine del km2 nei penepiani coperti da foreste).
La comparsa dell'alveo elementare, in cui l'erosione è assai forte in rapporto ai versanti che l'alimentano, corrisponde in effetti a un valore limite a partire dal quale il ruscellamento si concentra seguendo una linea definita. Per autocatalisi, il fenomeno di convergenza dello scorrimento si conserva e si accresce. D'altra parte, esso alimenta una umidità della roccia che favorisce la sua disgregazione in rapporto a ciò che avviene nei versanti, sia per crioclastia che per alterazione chimica.
La densità delle linee di deflusso con inizio da sorgenti aumenta anche con la piovosità e l'impermeabilità della roccia e dei suoli di alterazione. Ormai la saturazione del suolo, soffocando le radici, elimina la vegetazione, che è un ostacolo al trasporto dei detriti. Così un limite importante è superato.
Fra le leggi morfometriche di Horton ne citeremo due.
1. Per due bacini di ordine consecutivo esiste un rapporto costante tra le loro superfici, come tra la lunghezza degli alvei. Queste relazioni sembrano di tipo aleatorio, come hanno mostrato operazioni di simulazione partendo da meccanismi elementari differenti. Esse dicono che la probabilità di cattura per erosione regressiva o per confluenza di due rivoli d'acqua zigzaganti su un piano inclinato dipende dalla superficie del loro bacino.
2. Relazioni dello stesso genere sono state messe in evidenza per quel che riguarda i rapporti tra la superficie del bacino e la pendenza dell'alveo. Ma il rapporto della progressione cambia secondo il clima: ad es. per gli uidian del Nuovo Messico, quando la superficie del bacino è moltiplicata per 30, la pendenza è divisa per 2,5; nel massiccio scistoso dei Mori, quando la superficie del bacino è moltiplicata per 5, la pendenza si riduce della metà.
Queste ricerche vanno confrontate con quelle che sono state effettuate sulla geometria dei letti fluviali principalmente da L. B. Leopold. Egli ha espresso la lunghezza (B), la profondità (H) e la pendenza (I) corrispondenti alla portata media (Q) di un gran numero di corsi d'acqua degli Stati Uniti, secondo le seguenti formule:
B=kQ0'5 H=kQ0'4 I=kQ-0,45
in cui k è una costante.
Gli esponenti cambiano anche con il clima; per le regioni semiaride a scorrimento effimero, I=kQ-0,3.
Le leggi di Horton e di Leopold sono legate dalla relazione che esprime la portata liquida Q in funzione della lunghezza A del bacino: Q=kAm; m varia tra 0,75 e 1 secondo il coefficiente di deflusso, k è sensibile soprattutto all'abbondanza delle piogge. Queste leggi pongono problemi più difficili riguardanti la natura dei legami di causalità che dobbiamo ora affrontare.
Erosione della roccia in posto e realizzazione del profilo di equilibrio. - L'erosione della roccia in posto risulta dall'urto e dagli attriti provocati dalle sabbie e dai ciottoli sul fondo, principalmente nel caso di marmitte con asse verticale, ove si verifica un effetto massimo per un certo raggio di curvatura. Nel caso di un flusso torrentizio con velocità superiore a 9 m/s, è possibile invocare i fenomeni di cavitazione, responsabili dell'usura delle condotte forzate, i quali sono legati a rapide variazioni di pressione all'interno della massa liquida che creano dei vuoti seguiti da una forte percussione.
Disponiamo di pochissime indicazioni quantitative sulla rapidità dell'erosione lineare in rocce dure, salvo alcune eccezioni come quella delle cascate del Niagara, o le marmitte di qualche torrente preglaciale (10 cm/anno).
A uno stadio molto precoce del ciclo di erosione il profilo del letto roccioso assume un aspetto concavo; ciò deriva da due fenomeni opposti. Ammettiamo che un bacino idrografico si sia abbassato in direzione del suo livello di base: a) a monte, l'erosione cresce con la portata liquida, così che il profilo del letto è più inclinato di quello della pendenza iniziale; b) a valle, l'incisione corrispondente alla pendenza del blocco inclinatosi è immediatamente frenata appena essa si propaga verso monte. Poiché il livello di base è fisso, c'è automaticamente diminuzione di pendenza nella sezione vicina; ne risulta un ostacolo all'erosione che ha un carattere regressivo. È solo nel caso in cui l'erosione sia provocata da un abbassamento del livello di base o da un sollevamento senza deformazione del continente che si può parlare di erosione regressiva.
In tutti i casi c'è solidarietà fra tutti i punti del profilo longitudinale. Infatti l'erosione in un punto è possibile solo se non provoca una diminuzione di pendenza eccessiva a valle impedendo il trasporto del carico solido, e se essa non riceve da monte un carico solido eccessivo. Basta una debole modificazione nel rapporto portata/carico solido per passare dal letto roccioso al letto alluvionale.
Così come è enunciato dalle leggi di Horton e di Leopold, la stragrande maggioranza dei fiumi presenta un profilo longitudinale concavo verso l'alto, che si suddivide in sezioni sempre meno inclinate verso valle dopo ogni confluenza. Questo profilo è detto di equilibrio in senso lato (il termine graded è usato da molti autori anglosassoni, e da Baulig stesso nelle sue recenti pubblicazioni, in un senso più ristretto; è riferito cioè a una corrispondenza tra i diversi punti di un profilo di versante o di corso d'acqua) quando in media durante un secolo le alluvioni che compongono il fondo del letto non tendono nè ad aumentare di spessore nè ad assottigliarsi, malgrado molte fluttuazioni nel valore della portata liquida. Come lo ha concepito il grande pioniere della geomorfologia G. K. Gilbert fin dal 1877, questo equilibrio può essere realizzato solo se la quantità dei detriti forniti dai versanti è uguale alla capacità di trasporto del corso d'acqua, poiché quest'ultimo aggiusta automaticamente il suo profilo longitudinale e trasversale.
Questa capacità di trasporto, tuttavia, non può semplicemente essere valutata come una certa portata solida per unità di tempo, dato che occorre pure prendere in considerazione il diametro dei detriti; la capacità di trasporto dei detriti fangosi e argillosi può raggiungere 1/4 della portata liquida, quando lo stesso corso d'acqua non è capace di trasportare blocchi di 25-30 cm di diametro; da ciò la nozione di carico-limite (Baulig).
La concavità del profilo di equilibrio è uno dei maggiori problemi della geomorfologia. Questa utilizza sia le ricerche condotte dagli ingegneri idraulici nei canali sperimentali e le loro osservazioni e misure nei letti naturali che essi tentano di correggere, sia lo studio dei meccanismi fondamentali della turbolenza, condotto dai fisici.
Le alluvioni si spostano per rotolamento, saltazione (individuale o collettiva) e in sospensione in un fluido turbolento. Queste modalità di trasporto sono in relazione col fatto che il valore limite del trasporto di una particella corrisponde alla situazione in cui IH>kD, con D diametro della particella. La velocità sul fondo è d'altronde proporzionale a IH. Questa formula non è più valida per i detriti molto fini (〈2μ), che sono posti in uno strato sottile in cui lo scorrimento è laminare e il cui distacco richiede un valore di IH molto forte.
È più difficile dare una formula soddisfacente della capacità di trasporto in funzione della portata liquida, della pendenza e del diametro dei detriti. Le formule semiempiriche e semiteoriche, più o meno complesse e che danno solo un'immagine molto approssimativa della realtà, si basano su esperienze in canali artificiali. Per quel che riguarda i corsi d'acqua naturali, mentre la misura dei trasporti in sospensione non costituisce un gran problema tecnico, quella del trasporto per trascinamento sul fondo presenta maggiori difficoltà. In più, mentre i trasporti in sospensione (in generale argilla e limo) reagiscono rapidamente alle variazioni di portata, il trasporto dei ciottoli avviene in maniera discontinua, talvolta solo in occasione di piene millenarie. In condizioni medie di pendenza, sono le sabbie che sistemano il fondo incostante del letto in rapporto alle oscillazioni della portata, ora depositandosi, ora rotolando nel fondo o entrando in sospensione.
La capacità di un corso d'acqua, la cui portata liquida cresce verso valle, a trasportare detriti solidi su una pendenza sempre più debole può spiegarsi con le seguenti considerazioni: a) la dimensione e la quantità dei detriti forniti dai versanti per ogni unità di lunghezza del letto fluviale diminuiscono verso valle, poiché il rilievo è sempre più addolcito; b) l'usura chimica e meccanica, che avviene automaticamente sul fondo del letto, riducono il loro diametro: ma è da notare che alla confluenza di due corsi d'acqua analoghi, il rapporto del carico-limite alla portata liquida non subisce una diminuzione di questo genere e tuttavia la pendenza diminuisce: la spiegazione di questo fenomeno è stata data già da Gilbert e ripresa da Baulig; c) dopo la confluenza, il rapporto tra il perimetro bagnato (sul quale si esercita l'attrito) e la sezione diminuisce. Di conseguenza l'energia dispersa per attrito sul letto diviene minore e ciò permetterebbe al corso d'acqua di avere una maggiore energia cinetica.
Tuttavia questo ragionamento non è del tutto convincente. Infatti l'energia dispersa per attrito sul letto per unità di lunghezza e di tempo è uguale a QI, cioè alla perdita di energia potenziale, poiché nel regime di scorrimento permanente la velocità e dunque l'energia cinetica non aumentano, o solo molto lentamente, verso valle. Le forze di attrito si manifestano con vortici il cui diametro va dal centimetro al metro. Sono proprio questi vortici che sollevano le alluvioni e permettono il loro spostamento verso valle. L'energia dispersa in attrito è in parte ‛utile' (dal punto di vista della capacità di trasporto), in parte ‛sterile' (quella che è dissipata direttamente in calore). Il rapporto tra queste due grandezze è certamente piccolo (da 2 a 3/100); ma non siamo sicuri che aumenti con Q.
La risposta potrebbe essere cercata nelle formule che danno la capacità di trasporto. Ora la maggior parte di esse esprimono questa capacità per un'unità di larghezza del letto e non permettono di prendere il profilo trasversale ottimale, cioè il rapporto B/H che assicura il trasporto di una data portata solida su una pendenza minima. L'osservazione e l'esperienza hanno solo mostrato che il rapporto B/H è tanto più grande quanto più il carico solido ha grosse dimensioni ed è trasportato per trascinamento sul fondo e non in sospensione. D'altra parte è proprio questo trasporto sul fondo la causa principale dei profili di equilibrio trasversali e longitudinali. Anche quando molti strati di ciottoli sovrapposti rotolano simultaneamente, la capacità di trasporto dipende dalla larghezza dei canali di scorrimento.
Soltanto le esperienze di Gilbert danno il profilo trasversale ottimale; ma la portata solida non aumenta che lentamente con Q. Sono necessarie esperienze più sistematiche in cui si faccia sì che il canale crei senza vincoli il proprio profilo di equilibrio trasversale. Innalzandosi al di sopra dei metodi analitici e sperimentali, L. B. Leopold e altri (v., 1964) hanno avanzato l'idea che un profilo longitudinale concavo sia il più probabile, se si parte da certi principi molto generali della meccanica: il percorso adottato dal corso d'acqua sarebbe intermedio tra quello che risulta dal principio del minor lavoro nell'insieme del corso (e che dovrebbe dare I=k/Q) e quello che assicura la suddivisione di un dispendio di energia identico per ogni unità di larghezza del letto, cioè QI/B=k, che dovrebbe tradursi in un raggio di curvatura più piccolo del profilo di equilibrio. Queste soluzioni possono essere simulate supponendo che la probabilità che l'acqua scenda da un gradino verso il basso sia tanto più grande: a) quanto più elevata è l'altezza del punto scelto; b) quanto più grande è la distanza dalla foce. Ma questo non ci dispensa dal cercare di comprendere meglio i fattori dell'erosione e del trasporto in un punto, e le relazioni con ciò che avviene più a monte o più a valle. Ogni legge di probabilità è valida solo a partire da una sufficiente conoscenza di comportamento degli individui (come per es. i prodotti dei gas che si basano sulle leggi degli urti elastici).
Tipi di letti fluviali. - Nelle valli alluvionali a fondo piatto e largo possiamo avere quattro tipi di letti fluviali: 1) canali rettilinei e stretti, a fondo generalmente sabbioso e con ondulazioni dissimmetriche del tipo delle dune, ben studiate nei canali sperimentali; 2) canali rettilinei, ma con un letto minore sinuoso collegante punti di maggior profondità separati da soglie (spesso costituite dai ciottoli); come per le dune si tratta di fenomeni di raggruppamento, paragonabili agli ingorghi che si formano in un flusso di automobili e che si spostano lentamente sia verso monte sia verso valle (L. B. Leopold); 3) meandri nei quali i punti più profondi sono localizzati a contatto con le rive concave; l'esame di un gran numero di casi ha rivelato alcune regole geometriche empiriche; 4) canali anastomizzati che hanno una pendenza ripida e trasportano sedimenti grossolani eterogenei.
Quando si cerca la logica di questa geometria empirica, si resta assai perplessi. Perché il corso d'acqua a meandri allunga il suo corso, e disperde una parte della sua energia in attrito di curvatura, diminuendo la sua capacità di trasporto? Perché si forma un deposito in mezzo al letto, dove all'inizio si trova la velocità massima, dando origine ad un'isola che poi si allunga verso valle separando due canali?
Le esperienze di laboratorio, malgrado la distorsione di scala, permettono di esaminare il problema più da vicino. Quando il carico solido e la pendenza sono molto deboli, le ondulazioni del letto sono simmetriche e il deflusso è assiale. Per ottenere la sinuosità dell'asse di deflusso è necessario aumentare la pendenza (quindi il carico), perché non ci sia né escavazione né alluvionamento. Se la pendenza è portata a 4 volte il suo valore iniziale, si ottengono canali anastomizzati procedenti dallo sviluppo delle isole mediane.
Con introduzione di caolinite in sospensione e forte riduzione del carico solido, il canale con asse di deflusso meandriforme si è trasformato in corso d'acqua a veri meandri. La diminuzione di carico solido ha provocato un'escavazione, quindi un abbassamento del livello dell'acqua, mentre la larghezza del letto si restringeva. Questo indica che certi corsi d'acqua a meandri possono essere originati da una modificazione del loro carico in seguito a oscillazioni climatiche.
D'altra parte è lecito pensare con S. A. Schumm che, quando il deflusso è lento, la circolazione trasversale sia quasi inesistente. Nel caso di un deflusso più rapido, essa si evidenzia nell'andamento meandriforme dell'asse di deflusso. Se è troppo rapida, quasi torrentizia, segue la linea di maggiore pendenza pareggiando le sinuosità.
Infine L. B. Leopold ha fatto notare che la dispersione di energia per attrito per unità di lunghezza del letto è più regolare in un tracciato a meandri. Ciò è dovuto al fatto che, dove la pendenza è più debole, i punti di maggior profondità coincidono con i settori concavi, nei quali la velocità dell'acqua è maggiore e più sensibile l'attrito dovuto alla curva; al contrario la profondità, la velocità e l'attrito di curvatura sono minori al punto di flesso tra due anse successive. Spingendosi oltre Leopold ha proposto, come Scheidegger, una spiegazione probabilistica del paradosso dei meandri, supponendo che il corso d'acqua abbia una probabilità finita di deviare di un angolo dϕ percorrendo la distanza ds, secondo una distribuzione gaussiana.
Così è stata proposta una larga gamma di ipotesi, dalle regole empiriche locali fino a una concezione teorica dell'insieme dell'evoluzione delle forme. Resta, tuttavia, un immenso lavoro da fare per determinare con maggior rigore i principi fisici del trasporto delle alluvioni. Ad onta dei loro inconvenienti, i canali sperimentali offrono le migliori prospettive (benché non si possa imitare che corsi d'acqua elementari), ma bisogna stare attenti ai risultati ottenuti nei corsi d'acqua naturali, in particolare mediante l'impiego di ciottoli marcati con traccianti radioattivi.
d) L'evoluzione del profilo del versante nel corso del ciclo di erosione
Nello stadio di giovinezza si sviluppa normalmente un profilo convesso corrispondente all'accelerazione dell'erosione fluviale verticale, conformemente alle vedute di W. Penck, per cui la capacità di trasporto eccede di molto la quantità dei detriti forniti dalla degradazione meteorica. Se la velocità dell'erosione è considerevole, pendenze uniformi ripide possono sostituirsi alla convessità superiore, dando creste concordanti (Steilreliefe), e ciò avviene tanto piu facilmente quanto più le rocce sono tenere (bad lands). L'erosione laterale ha le stesse conseguenze, ma si applica a un solo lato della valle.
Tuttavia, nel caso inverso non avviene esattamente lo stesso. Anche per un versante roccioso, la convessità può risultare dalla convergenza delle azioni meteoriche (variazioni di temperatura e penetrazione dell'acqua) massime sugli angoli sporgenti.
Il termine ultimo dell'evoluzione di un versante roccioso di forte pendenza, quando l'escavazione dell'alveo si attenua fino ad arrestarsi, è un profilo rettilineo corrispondente a quello della pendenza di equilibrio dell'attrito secco (da 35 a 40°). (Nei climi favorevoli alla vegetazione forestale questa si forma dal momento in cui la pendenza raggiunge i 50°; i tronchi frenano allora la caduta dei blocchi).
Infine l'usura per formazione di ciottoli si arresta e il versante può perdere materiale solo se i detriti si assottigliano sufficientemente così da permettere a tutti gli altri modi di trasporto di intervenire. Il versante regolarizzato è allora percorso da un flusso di colluvi, la cui portata aumenta verso valle molto lentamente, cioè nella misura in cui i progressi della degradazione meteorica aggiungono, alla base dei suoli di alterazione, un nuovo strato di detriti che possono venir messi in moto dato il loro modesto diametro. L'accrescimento di questo strato è dell'ordine di grandezza da 1 mm a 1/100.000 mm all'anno, mentre la velocità di spostamento dei detriti in transito va dal centimetro all'ettometro all'anno: quest'ultima cifra riguarda il ruscellamento. Questo accrescimento varia in funzione dello spessore dei suoli di alterazione preesistenti e il suo valore massimo dipende dal clima e dal tipo di alterazione predominante. In ogni punto, l'abbassamento della superficie del versante è funzione non solo della pendenza e dello spessore locali, ma anche della velocità di circolazione a monte e a valle. L'evoluzione in ogni punto può essere definita come la differenza tra la portata dei detriti che provengono da monte e di quelli che partono verso valle. All'estremità del versante, in situazione di equilibrio, il corso d'acqua si limita a portare via ciò che riceve, almeno alla scala del secolo.
L'impiego del calcolatore elettronico ha permesso, dal 1960, la costruzione di modelli rappresentanti la successione dei profili trasversali nel tempo, a partire da certe ipotesi sui fattori determinanti la velocità di trasporto (A. Scheidegger, A. Young, F. Ahnert, H. Gossmann). Tuttavia molti di questi schemi non sono sufficientemente realistici, perché trascurano, quale più quale meno, il principio per cui una sezione di versante può retrocedere parallelamente a se stessa solo se i detriti si spostano sulla sezione a valle. Ciò vale in particolare per molti modelli di Scheidegger e anche di Young, dove il settore a valle ha una pendenza quasi nulla. Questo è possibile unicamente quando entra in gioco la sola usura chimica; inoltre in questo caso le pendenze ripide si fanno ancora più erte, perché le acque non si saturano sulla verticale in cui cadono.
Tuttavia la costruzione di questi modelli ha permesso di confermare o di precisare bene relazioni concepite fino allora in modo assai vago.
Il creep e altri modi di trasporto lento, dove la velocità di spostamento dei detriti non dipende che dalla pendenza, imprimono a tutto l'insieme del versante un andamento convesso (perché l'esposizione alla degradazione meteorica diminuisce verso la base). Al contrario, il trasporto per ruscellamento che, come la portata liquida, cresce verso il basso, e, in modo più generale, ogni forma di spostamento la cui velocità aumenta in funzione della distanza L dalla sommità del versante, tendono a sviluppare la concavità. Se in f(L)m, m è >1, il versante è interamente concavo; se m è compreso tra 0 e 1 esso è convesso-concavo (secondo Kirkley che, tuttavia, non tiene conto della legge di accrescimento di spessore dei suoli di alterazione).
In un regime di equilibrio perfetto, lo spessore del suolo è approssimativamente eguale dall'alto al basso. È logico che nel settore concavo l'aumento della percentuale d'acqua e l'assottigliamento dei detriti (quelli che provengono dalla sommità possono essere stati esposti alle intemperie da più di mille anni) permettono lo smaltimento di una portata solida tanto maggiore quanto minore è la pendenza.
È normale che nel corso di questa evoluzione lo spessore dei suoli di alterazione vada aumentando perché diminuisce la pendenza. La lentezza del deflusso solido si traduce nell'assottigliamento delle particelle e nell'apparizione di orizzonti distinti nel suolo non perturbato da movimenti collettivi sensibili. Questa evoluzione è tuttavia frenata dal fatto che l'aumento di spessore e di finezza dei detriti accresce la loro velocità di spostamento.
Tuttavia la diminuzione della dimensione dei detriti portati al corso d'acqua e anche la diminuzione della loro quantità sono responsabili del fatto che il corso d'acqua ritrova una capacità di erosione, poiché la sua capacità di trasporto non è più saturata. Da ciò un'accelerazione del flusso dei detriti sul versante, che frena a sua volta l'erosione verticale. Così il profilo di equilibrio longitudinale provvisorio del corso d'acqua si approfondisce, ma sempre più lentamente, fino a quello che si avvicina al profilo definitivo ideale, nel quale i versanti perdono sostanze solo in soluzione. Queste induzioni si accordano male con la nozione di uno steady state nel quale le forme non si modificherebbero più con il tempo.
Versanti scalzati dal mare. - Un caso particolare è quello dei versanti scalzati alla base dal mare. Per un gran numero di rocce, ivi compresi i calcari compatti, l'attacco del mare fa indietreggiare la roccia, generando falesie subverticali. Si tratta soprattutto di un mitragliamento da parte dei ciottoli, essendo l'azione meccanica delle onde tanto più forte quanto più lunga è la corsa del vento e della mareggiata. Le pressioni sono massime quando esistono sacche d'aria che diminuiscono l'energia riflessa e quando interviene la cavitazione. Vi si aggiunge una disgregazione granulare dovuta ai sali e, quanto al calcare, una dissoluzione chimica che scava una nicchia al livello medio dei mari; infine il gelo, alle alte latitudini.
Nelle rocce resistenti come il granito, invece, le falesie sono rare (Costa Brava). Le onde più forti si limitano a portar via completamente i suoli di alterazione e ad accelerare la disgregazione granulare.
L'erosione differenziale è capace di scolpire forme di dettaglio (filoni scavati in corridoi che penetrano in grotte), soprattutto nelle prime fasi della trasgressione; ma nell'insieme l'erosione marina tende a rettificare le frastagliature della topografia continentale; infatti fenomeni di rifrazione concentrano la forza delle onde sui promontori, mentre le valli trasformate in baie sono sbarrate da cordoni litoranei costruiti dalla corrente di deriva in un settore in cui le onde divergono.
Le misure e le osservazioni precise, in scala storica, hanno dimostrato che non bisognava tenere in conto eccessivo la velocità di arretramento di una falesia, anche quando si tratta di una roccia così poco resistente come la craie (Normandia). Ma non bisognerebbe neppure sottovalutarla.
L'esame globale del paesaggio o di una carta dimostra che l'erosione marina, a partire dalla trasgressione postglaciale (-10.000 anni), è molto più rapida dell'insieme dei processi continentali: tuttavia la piattaforma di abrasione alla base della falesia si sviluppa facilmente solo a spese di un bassopiano. Infatti se il crollo delle rocce a strapiombo raggiunge uno spessore elevato, ci vuole molto tempo perché questi blocchi siano ridotti a una dimensione tale da poter essere portati via dalla corrente di deriva litoranea, o portati al largo dal riflusso delle onde (undertow). Affinché quest'ultima azione si verifichi, è necessario che la piattaforma di abrasione abbia una pendenza assai forte. Orbene, l'arretramento della falesia riduce ovviamente questa pendenza a meno che contemporaneamente non si elevi il livello del mare. Ritroviamo qui una condizione critica che limita l'arretramento di un versante ripido parallelamente a se stesso. Per queste ragioni si pensa che le superfici di abrasione marina estese, che sono state fossilizzate in diverse epoche geologiche, non rappresentino che una modifica delle superfici di spianamento continentali.
e) I rilievi carsici
Nelle regioni carsiche sono abolite le leggi normali della gerarchizzazione degli alvei e dei rilievi d'interfluvio fino a un livello di base lontano, almeno per una gran parte del ciclo. I versanti sfociano in depressioni chiuse di ogni dimensione, che vanno dalla dolina (da qualche metro a qualche decina di metri di diametro) fino al polje (di parecchi km), passando per l'uvala. In questi casi lo scorrimento sotterraneo ha la prevalenza su quello superficiale.
Questa situazione risulta dai seguenti fattori: a) l'anidride carbonica prodotta nel suolo e più pesante dell'aria aumenta la solubilità del calcare molto più di quella delle altre rocce (da 1 a 5 per il calcare e da 1 a 1,5 per i silicati, al massimo); b) a differenza delle rocce cristalline (comprese le arenarie), i calcari puri lasciano un residuo minimo (3% contro l'80% dei graniti). Ne consegue che ogni fessura allargata dalla dissoluzione resta aperta, spianando la via a un rivolo liquido di diametro superiore al precedente e di conseguenza capace di provocare un'ulteriore dissoluzione poiché il rapporto tra volume d'acqua e superficie di contatto è più elevato.
Lo sprofondamento del deflusso che utilizza le principali fessure aperte più che i pori stretti dove l'acqua è presto saturata, è una operazione lunga in una massa calcarea esposta da poco alle intemperie. Ma questa può proseguire fino al di sotto del livello di base quando l'acqua è sotto pressione, ed è capace di disciogliere maggior quantità di CO2.
Le caverne formatesi all'intersezione delle gallerie nella direzione delle principali diaclasi provocano dei cedimenti che hanno dei contraccolpi in superficie e danno luogo a una dolina circolare, modellata in seguito dalla dissoluzione superficiale. Quest'ultima, nelle stesse condizioni strutturali, è sufficiente a creare una dolina. Nelle regioni tropicali, il deflusso superficiale verso la dolina è meglio gerarchizzato; ogni linea di frattura principale è seguita da valli asciutte, separate da valichi molto bassi e individuanti dei mammelloni. Questo suggerisce che la dissoluzione superficiale è più importante che nelle zone temperate. Dalle misure effettuate (ma non superano qualche decina) non ci sono differenze sistematiche tra la percentuale di CO2 delle acque superficiali (60 mg/l). Se questo viene confermato, bisognerebbe pensare che la concentrazione del ruscellamento, maggiore nella zona tropicale, costituisce il fattore decisivo che favorisce la dissoluzione superficiale a spese di quella sotterranea. Spesso forme carsiche a doline rotonde e a mammelloni sono abbastanza regolari da prestarsi a un'analisi morfometrica.
Molti polja sono fosse tettoniche poco modificate, nelle quali l'originalità consiste nel fatto che gli Horst che li delimitano all'esterno sono superati con condotti sotterranei (Appennino). Si conoscono però ugualmente numerosi casi in cui il polje è una forma di erosione incisa nella massa calcarea dura. Si passa allora da una superficie di accumulo alluvionale a una superficie di spianamento erosivo perfettamente regolare, di pendenza molto debole, e che entra in contatto con pareti che possono essere subverticali nel carso a torrette della zona tropicale umida, mentre altrove hanno pendenze modeste. Nella formazione dei polja si distinguono pertanto diversi processi. Si può considerare che la montagna sia traforata per il crollo delle volte di una moltitudine di caverne; di fatto, nelle zone carsiche dell'Asia di SE, i corsi d'acqua passano da un alveo all'altro attraverso brevi sezioni ancora in tunnel. Ma questo meccanismo non può dare superfici di spianamento regolare e non fa che preparare il loro avvento che è determinato dalla dissoluzione esercitata da falde di inondazione più o meno temporanee. La decomposizione di una vegetazione specializzata, al riparo dell'aria, fornisce inoltre acidi organici del tipo acetico, capaci di disciogliere il calcare. Le capacità di aggressione sono accresciute quando il polje è alimentato da acqua, non da sorgenti carsiche già molto ricche di bicarbonati disciolti, ma da acque superficiali circolanti su rocce impermeabili e non calcaree. Da ciò la frequenza dei polja di contatto tra rocce calcaree e scistose (Tauri, Uiamaica, ecc.). Le pareti subverticali del carso a torrette, specifiche del clima tropicale umido, possono essere interpretate sia come pareti di grotte crollate, sia come falesie di scalzamento chimico operato dalla falda freatica (sono identificabili dalla loro nicchia di base). Esse non possono arretrare che molto lentamente, per le stesse ragioni delle falesie marine. Le superfici di corrosione chimica conservano una pendenza quasi nulla perché il calcare è trasportato in soluzione. Le falesie della zona temperata non superano qualche metro; è infatti probabile che le acque della falda freatica si siano limitate a ‛digerire' i blocchi calcarei discesi dai versanti e isolati sia per crioclastia, sia per un processo biochimico al livello delle radici.
f) Le forme di accumulo fluvio-marine
A differenza dei processi di erosione in rocce dure, i processi di accumulo sono fenomeni rapidi, osservabili su scala storica e facilmente riproducibili in modello ridotto. Essi sono provocati sia da una rottura di equilibrio climatico che aumenta il rapporto carico/portata, sia da una perturbazione tettonica, sia per il contatto normale tra il deflusso fluviale e il livello di base marino.
Le più grandi forme di accumulo risultano dal colmamento di una depressione tettonica a subsidenza lenta, o da una depressione di erosione.
In quest'ultimo caso c'è un passaggio da una situazione di equilibrio al colmamento tramite alluvioni. I bordi del letto fluviale, generalmente a meandri, non cessano di innalzarsi sotto forma di due argini; infatti al momento delle piene, quando il fiume inonda le sponde, deposita su quest'ultime il materiale in sospensione, poiché c'è una brusca riduzione di profondità, quindi diminuzione di velocità. Queste dighe naturali permettono al fondo del letto di sopraelevarsi (fiume pensile) senza cambiamento, almeno per le portate normali, dalla sua sezione trasversale; ciò fino al momento in cui il fiume rompe una di queste dighe e imposta un nuovo corso nella piana vicina. Ripetendosi a più riprese questo processo, a un dato istante la pianura è suddivisa in una sorta di reticolato, con bracci fluviali morti e altri attivi. Ma sulla scala geologica dei tempi, una sezione nell'insieme del materiale riportato farebbe apparire delle lenti di sedimenti grossolani, corrispondenti alla posizione dei letti successivi, alternati a fanghi deposti nella piana d'inondazione.
Le pianure alluvionali più vaste si estendono a spese dei laghi o dei mari. L'azione è particolarmente rapida quando il fiume costruisce un delta in uno specchio d'acqua poco profondo. L'ossatura è sempre costituita da argini sabbiosi che accompagnano ogni braccio. Quando il fiume invade le acque dei laghi e dei mari agitati da movimenti irregolari, si presenta come una corrente che agisce sulle pareti laterali, presso le quali deposita la maggior quantità di alluvioni in sospensione. Al centro del letto, la diminuzione di velocità verso il basso è più rapida. La migrazione dei bracci del delta si verifica come nelle pianure alluvionali continentali; tuttavia, sotto l'effetto della turbolenza la corrente si allarga e si smorza fino alla costruzione di una barra, respinta dall'azione delle onde che ridistribuiscono il materiale sabbioso.
Negli oceani a forti maree, l'azione di deposito a opera dei fiumi progredisce meno velocemente e il delta interno a monte degli estuari è trascurabile. Durante l'alta marea la corrente di flusso porta dei fanghi che si attaccano alle pareti per aderenza superficiale; a bassa marea, benché si sommino in quel momento le correnti fluviale e di riflusso, solo le sabbie sono trascinate a valle così lontano per cui il loro deposito non emerge. D'altronde a parità di condizioni nel caso dei delta come in quello degli estuari, la componente dei movimenti verso il largo è la stessa, cioè è rappresentata dall'avanzamento fluviale. Se l'estuario è tenuto sgombro dall'azione delle maree, ciò è dovuto, sembra, al fatto che una corrente fluviale debole e regolare ha minore capacità di trasporto di un flusso che subisce grandi variazioni, ora bloccato dalla marea montante, ora rinforzato dal deflusso, mentre nel fondo del letto la risultante è diretta verso valle.
Il mare contribuisce attivamente al colmamento delle baie. Comincia dapprima col costruire un cordone litoraneo sabbioso: la capacità di trasporto delle onde è stata valutata sia sul terreno che matematicamente (R. A. Bagnold). Poi i fanghi si depositano sulle lagune marittime a riparo del cordone o sul fondo di una baia a pendenza molto debole. Nella bassa slikke, il fango è completamente nudo e solcato da canali multipli di cui gli uni sono formati dalle correnti di flusso e gli altri dalle correnti di riflusso. Nei canali, lo scorrimento della marea discendente è laminare, e ciò permette al fango di depositarsi in modo tale da resistere, per adesione superficiale, alla successiva corrente della marea montante. L'alta slikke è occupata dall'acqua viva solo durante le alte maree; in essa una vegetazione alofila frena il movimento dell'acqua e accelera la sedimentazione, così da formare lo schorre invaso solo dalle maree eccezionali. La sua copertura vegetale, più abbondante, si decompone in torba impregnata d'acqua.
Certi autori hanno pensato che ogni riempimento dovrebbe avere un andamento regressivo, cioè che risale a monte lungo le valli fluviali. Questa ipotesi è stata contestata in Francia da J. Bourcart e negli Stati Uniti da L. B. Leopold, la quale si basa sul fatto che il riempimento dei laghi di sbarramento artificiale non comporta fenomeni di questo genere. È ben chiaro che un riempimento regressivo può apparire solo se il corso d'acqua subisce un allungamento che lo porti a diminuire la sua pendenza.
I laghi di sbarramento colmati sono di dimensione troppo piccola perché questo processo possa essere verificato; inoltre non si trovano sempre lungo corsi d'acqua in equilibrio.
6. Il dominio della foresta sempreverde umida
La foresta sempreverde. - Le condizioni climatiche ottimali per la maggior parte dell'anno lasciano a ogni specie, spesso a ogni individuo, il ritmo vegetativo proprio. Non ci sono stagioni privilegiate per la fioritura, né per lo sboccio delle gemme né per la caduta delle foglie, né per la crescita degli anelli del tronco.
Tuttavia questa esuberanza si limita da sé, perché la continua volta superiore priva di luce il sottobosco che copre male il suolo, e i giovani alberi, quasi senza rami, attendono la caduta di un albero vecchio per potersi aprire un varco.
L'assenza di stagione fredda o secca (alla quale bisogna aggiungere il lungo periodo geologico durante il quale la foresta si è evoluta) spiega come un gran numero di generi e di famiglie vi abbia trovato posto. Questa foresta permette anche espressioni di vita sconosciute sotto altri climi. Le più sorprendenti, nella loro diversità, permettono alle epifite di vivere molto al di sopra del suolo, mentre foreste specializzate hanno potuto occupare le paludi d'acqua dolce, i pantani marittimi salati e la sabbia delle rive ventose.
Nella varietà delle forme, è difficile distinguere quello che è uno ‛scherzo della natura' o un adattamento utile. Per esempio la presenza di radici contrafforti rientra forse in questa seconda categoria in quanto permette agli alberi di resistere al vento, nonostante il loro apparato radicale spesso superficiale, che sembra dipendere dal notevole ingombro dei suoli. Questi ultimi, malgrado lo spessore considerevole del materiale di alterazione (spesso molte decine di metri) non assicurano che un'alimentazione precaria in N, P, K e Ca; le riserve in elementi nutritivi, infatti, sono molto scarse, perché le argille caolinitiche dominanti hanno una debole capacità di scambio, mentre gli ioni H+ e Al3+ costituiscono gran parte del complesso adsorbente e la materia organica è rapidamente distrutta dai Batteri.
Infatti la foresta vive in circuito chiuso, recuperando pian piano le sostanze nate dalla propria decomposizione, non solo per l'assorbimento delle radici, ma anche grazie ai micorrizi. Da ciò deriva la difficoltà di ricostituire la foresta, quando è distrutta, poiché la roccia madre racchiudente le sostanze nutritive si trova fuori del raggio di azione delle radici.
A causa della varietà floristica e della grande dimensione degli alberi, la conoscenza della loro fisiologia si trova in notevole ritardo rispetto a quella della foresta temperata. Tutt'al più si possono citare misure di traspirazione e di assimilazione di foglie isolate, con ricerche un po' più coordinate per ciò che riguarda un albero del sottobosco, l'albero del cacao. In ragione anche delle condizioni favorevoli offerte dall'ambiente, sembra che l'attività vitale sia media. L'assimilazione clorofilliana per unità di superficie non è particolarmente elevata. Senza dubbio si verifica per tutto l'anno, ma per i grandi alberi il deficit di saturazione dell'atmosfera a metà del giorno provoca la chiusura degli stomi. La respirazione preleva il 75% della CO2 assimilata contro il 50% della foresta di faggi; ciò significa che l'energia impiegata nella trasformazione degli zuccheri in proteine è relativamente più grande.
La quantità d'acqua evapotraspirata da questa massa vegetale è relativamente debole, circa 1.200 mm l'anno su una precipitazione totale di 2.000 mm. Ciò si deve al fatto che l'evaporazione si limita da sé in quanto alimenta la nebulosità e l'umidità dell'aria. Poiché il suolo, molto spesso, racchiude importanti riserve di umidità malgrado la presenza di radici superficiali, la foresta può sopportare due o tre mesi di stagione secca durante i quali le precipitazioni scendono al di sotto di 100 mm.
Azione dell'acqua sui versanti. - L'enorme spessore dei suoli di alterazione, che sono principalmente argille caolinitiche, talvolta cementate in pseudo-sabbie da idrossidi di ferro, esprime una diseguaglianza fondamentale: la decomposizione chimica è relativamente più rapida degli agenti di trasporto sui versanti, almeno nel campo dei rilievi cupoliformi (demi-oranges) la cui pendenza massima non supera i 25-30°. L'orizzonte colluviale superficiale, in movimento sotto l'effetto di forme diverse di creep mal studiate, non supera i 2 metri e non è ancora sicuro se sia stato messo in movimento in un'epoca di crisi climatica che ha distrutto la foresta. In ogni caso, in superficie il ruscellamento, tanto in Costa d'Avorio che in Brasile, è più importante che sotto la foresta temperata a causa della debole protezione del suolo da parte della vegetazione vivente e morta. Nella parte centrale della Costa d'Avorio, ad esempio, si è stimato che la frazione d'acqua ruscellante corrisponda all'1% delle piogge totali; essa è tuttavia capace di trasportare 600 kg all'ettaro, cioè uno strato di 1/50 mm (soprattutto di limi o argille).
La maggior parte dell'acqua che è sfuggita all'evaporazione fisica (gocce d'acqua trattenute dalle foglie, circa 300 mm) e alla traspirazione (circa 900 mm) s'infiltra. Una debolissima frazione scivola in drenaggio obliquo su un orizzonte argilloso compatto, spesso rosso, situato sotto l'orizzonte colluviale. La maggior parte raggiunge la base dell'orizzonte di alterazione dove trova un ambiente poroso, che ha perduto molti elementi, e debolmente argilloso. Essa non torna in superficie se non alla periferia dei demi-oranges, sotto forma di molteplici piccole sorgenti.
Il deflusso dei piccoli corsi d'acqua reagisce rapidamente alla discontinuità dei rovesci, dato che i suoli di alterazione sono generalmente vicini alla saturazione. Ma le riserve sono capaci di sostenere la portata media di tali corsi d'acqua durante una stagione arida di 2 o 3 mesi.
Sempre nelle rocce cristalline, nelle regioni a debole rilievo, la criptodecomposizione scende a un livello inferiore ai corsi d'acqua principali; la superficie della roccia intatta offre un rilievo irregolare, che non è sempre conforme al rilievo superficiale. Ma questa azione chimica è rallentata come la stessa circolazione sotterranea.
La misura dell'erosione chimica è data dall'analisi delle percentuali di sostanze disciolte dalle acque di sorgenti e dai corsi d'acqua; ma offre un'enorme variabilità. All'inizio queste acque dovrebbero essere più ricche di silice, perché i suoli di alterazione caolinitici mostrano un processo di desilicizzazione molto più imponente di quello della zona temperata. Tuttavia certi corsi d'acqua, come quelli della Costa d'Avorio studiati da G. Rougerie, non differiscono molto da quelli della zona temperata; si tratta di un altro esempio di contraddizione apparente tra i risultati di una misura di processo attuale e i risultati globali di questi processi. Nell'insieme sembrerebbe sicuro che il rapporto silice/cationi basici sia più elevato nelle foreste sempreverdi.
Con gli stessi dati si può avere un'idea della velocità di formazione dei suoli di alterazione: sembra che occorrano da 30 a 50.000 anni per trasformare in caolino tutta la silice combinata da una roccia granito-gneissica.
I tipi di rilievo. - Nelle regioni poco accidentate, l'organizzazione del rilievo in demi-oranges da 500 a 1.500 m di diametro, per una gamma di rocce estremamente varie, pone un quesito imbarazzante. Tutto avviene come se, per l'abbondanza delle piogge, bastassero apporti liquidi di due versanti, anche di modesta superficie, per attaccare linee di frattura poligonali.
Almeno nel caso del carsismo a mammelloni questo attacco avviene per dissoluzione chimica delle acque di ruscellamento e di deflusso ipodermico. Nel caso dei versanti granito-gneissici, e anche arenacei, sembra che la convessità del loro profilo sia mantenuta da modesti crolli provocati dalle piccole sorgenti periferiche; i detriti così sparsi sono trasportati dai rivoli d'acqua che si gonfiano dopo i grossi acquazzoni. Questo arretramento dei versanti ripidi parallelamente a se stessi è tuttavia limitato dal fatto che le falde non possono allargarsi indefinitamente. D'altra parte per la scarsa imponenza del rilievo (da 50 a 100 m) il ruscellamento proprio del versante non raggiunge uno spessore sufficiente per modellare un profilo concavo. La convessità dei mammelloni calcarei è necessariamente dovuta a una causa, probabilmente un'accelerazione dell'escavazione verticale che segue il crollo delle doline. È un esempio di convergenza di forme identiche risultanti da processi diversi.
Nelle regioni montagnose, i grandi versanti prendono al contrario precocemente una curvatura concava. I suoli di alterazione sono ancora spessi e a granulometria fine perfino su pendenze di 60°. Periodicamente sono portati via da frane cospicue che sono determinate dal sovraccarico d'acqua portata da un rovescio o da un tifone; una circostanza favorevole è il contatto brutale con la roccia intatta, più frequente nelle zone basiche, ma che esiste anche nelle rocce granitiche dove le diaclasi parallele alla parete sono alternativamente molto serrate e molto allargate. L'optimum è realizzato con pendenze di 45° per le quali lo spessore dei suoli è ancora notevole, come è stato mostrato in uno studio quantitativo dei versanti basaltici delle isole Hawaii. Ne risulta una perdita di materiale da 0,5 mm a 1 mm all'anno. Ma questi fenomeni si limitano da se stessi con l'apparizione delle superfici rocciose nude, delle lastre sommitali delle docce fluviali e dei ‛pan di zucchero', per i quali la ricostituzione del mantello iniziale del suolo di alterazione e della foresta è lunga. Durante questo tempo la superficie rocciosa dotata di una relativa immunità si ingrandisce verso la base.
Irregolarità dei letti fluviali. - Se si abbandonano le valli di primo ordine che delimitano mammelloni e demi-oranges, la cui incisione è precoce, la regolarizzazione del profilo longitudinale dei corsi d'acqua avviene con difficoltà. Tale profilo, infatti, è interrotto da cascate e cateratte in corrispondenza delle rocce più dure e ciò anche per grandi complessi vicini al livello di base. Questo arresto dell'erosione lineare è stato denunciato da molti autori come la caratteristica climatica più originale della zona tropicale umida, ivi compresa l'area dei monsoni (J. Tricart, J. P. Bakker, H. Bremer).
La spiegazione proposta fin dal 1940 da E. de Martonne, sulla base delle sue osservazioni in Brasile è che il corso d'acqua abbia scarso potere erosivo, perché i versanti gli forniscono solo argille, fanghi e al massimo sabbie quarzose, a differenza di ciò che avviene alle alte e medie latitudini. Nei tratti intermedi fra le cascate, la pendenza è debole perché il carico imposto al corso d'acqua è di diametro ridotto. Per Bremer, questi stessi tratti, come tutto l'insieme del letto fluviale, non sono dovuti all'erosione meccanica, ma alla decomposizione chimica, favorita dall'abbondanza del drenaggio ma sfavorita, si può aggiungere, dal più debole tenore di CO2, all'opposto di ciò che avviene sul fronte di alterazione dei versanti.
Non bisogna tuttavia immaginarsi i letti tropicali come del tutto sprovvisti di ciottoli. I filoni di quarzo ne forniscono quantitativi abbondanti che sono trasportati sui tratti intermedi solo all'epoca delle piene. Se ne trovano pure strappati. alle rocce cristalline nelle valli di montagna, soprattutto quelle che sono scosse da terremoti (Nuova Guinea). D'altronde una parte dei fenomeni che osserviamo oggi corrisponde ad uno stato di squilibrio in cui i corsi d'acqua affondano il loro letto negli antichi suoli di alterazione; allora, quando incontrano una grossa massa di granito, essi la scavalcano senza riuscire ad intaccarla.
7. La zona calda a stagioni alternate umide e secche; il mosaico foresta-savana
In questi climi, il più caratteristico dei quali è regolato dai monsoni, le condizioni del deflusso dell'acqua, i ritmi biologici, i differenti aspetti dell'azione pedogenetica ed erosiva sono sottoposti a un forte contrasto stagionale.
Come sempre, la nostra conoscenza del destino dell'acqua sopra e sotto i versanti non è che qualitativa, salvo alcune rare eccezioni. Nelle colline del Dahomey settentrionale, per esempio, i violenti acquazzoni della stagione piovosa penetrano nei suoli di alterazione disseccati e bastano ad alimentare una falda freatica che persiste nella stagione asciutta (inverno), durante la quale la sommità della falda si abbassa di 8 m nelle colline, principalmente per evaporazione. Soltanto i grandi fiumi che vengono dal sud hanno un corso regolare. Durante la stagione piovosa, la falda emerge nelle aree basse che sono in tal modo trasformate in acquitrini in meno di 5 settimane. Una parte piuttosto rilevante dell'acqua caduta scorre (dal 3 al 10% nella savana, dove le foglie delle erbe esercitano una ritenzione dell'acqua più debole che nella foresta), ma le misure della capacità di trasporto in prodotti solidi da parte di questo ruscellamento hanno dato risultati molto differenti, che vanno da un intervallo di 2/10 di mm a 2/1.000 di mm (per un'esatta valutazione, però, bisognerebbe confrontare solo appezzamenti di egual superficie e occupanti la stessa posizione nel bacino).
L'alterazione delle rocce avviene come sotto la foresta sempreverde (predominio delle argille caolinitiche), ma è sospesa nella stagione secca negli strati superiori, e rallentata entro le falde freatiche che sono immobili, quindi vicino alla saturazione. Una caratteristica originale è la formazione di croste di accumulo globale ferruginose sui ripiani terminanti nelle zone basse. La circolazione dei composti del ferro nella stagione piovosa avviene sotto l'azione di complessi organici; questi sono poi distrutti dai batteri e il ferro precipita allo stato di idrossidi di ferro cristallizzati (goethite) o di ossidi di ferro disidratati (ematite) sui pori aerati, perché il livello della falda si abbassa lentamente. Per un meccanismo puramente pedologico la crosta può formarsi anche su pendenze di 15-20°. Un po' più a valle, negli acquitrini temporanei, si formano montmorilloniti per sintesi della silice, del magnesio e del ferro trasportati dal deflusso ipodermico.
Il mosaico foresta-savana occupa la maggior parte di questo dominio climatico. Esso compare a partire dal momento in cui la stagione secca supera i 3 mesi. Le isole forestali sono composte, nelle regioni più piovose, da un insieme di alberi sempreverdi e di alberi a foglie caduche, che sono in genere i più alti e quindi i più esposti all'evaporazione. Questi ultimi hanno spesso una crescita più rapida e un'assimilazione clorofilliana più attiva, per esempio il teck dell'Asia monsonica. È un fatto noto che gli alberi a foglie caduche compensano il periodo di riposo con una maggiore attività vitale. Se si allunga il periodo secco o diminuiscono le precipitazioni totali, si giunge a una foresta più aperta in cui aumenta la quantità delle piante erbacee nel sottobosco.
La savana può trovarsi in contatto con questi differenti tipi di foreste. L'assimilazione clorofilliana delle Graminacee è intensa nella stagione piovosa, poiché gli stomi rimangono aperti tutto il giorno fino all'essiccazione. Le proteine che si trovano nella foglia giovane sono state già incamerate nei rizomi sotterranei che, nella stagione secca, traspirano debolmente. L'inizio della nuova generazione di foglie, d'altronde, non attende le prime piogge. Queste erbe perenni sono associate in proporzioni variabili ad alberi di taglia ridotta e di lenta crescita, a foglie sia caduche sia xeromorfe sempreverdi.
Lo sviluppo delle ipotesi che spiegano la localizzazione delle savane è un buon esempio di progresso scientifico a spirale.
1. Poiché il centro di gravità dell'area delle savane sì pone nel dominio caratterizzato da un'accentuata stagione secca (da 4 a 8 mesi) la prima spiegazione proposta da Schimper riguardo all'assenza di foresta era basata unicamente su cause climatiche. Al contrario degli alberi che hanno importanti organi permanenti superficiali, le erbe si adattano a una stagione piovosa breve alimentandosi da uno strato di suolo poco spesso.
2. Molto presto si è visto che in effetti la savana non costituisce una zona, ma si associa a mosaico con isole di foresta densa a foglie caduche e anche a foresta mista (con elementi a foglie persistenti). D'altronde i piccoli alberi della savana sono assuefatti ai fuochi della boscaglia con la loro riproduzione vegetativa e la loro spessa scorza. Da ciò il concetto sostenuto, in forma enfatica, da A. Aubreville, secondo il quale l'uomo è responsabile della distruzione della vegetazione originale, avendo il fuoco eliminato quasi completamente una foresta aperta a tappeto graminaceo combustibile (che sopravvive nei boschi sacri o dietro la protezione che le rocce offrono all'avanzare delle fiamme). Per le savane incluse nella foresta sempreverde, il dissodamento ha dovuto precedere il fuoco.
3. Tuttavia si è costretti a constatare che la savana esiste nelle regioni che hanno subito debolmente l'azione dell'uomo (Australia). Gli studi locali si moltiplicano, mostrando che il mosaico foresta-savana si sviluppa in una stessa zona climatica, poiché la vegetazione è differenziata dallo stato dell'acqua nel suolo, esso stesso variabile in funzione del rilievo e della litologia (Sudamerica, lavori del gruppo Orstom in Africa occidentale). Nel Sudamerica, sembra che la savana sia localizzata negli altipiani e nelle aree basse inondabili.
Dalle osservazioni precedenti si possono trarre le se- guenti conclusioni.
A. La presenza di una crosta ferruginosa intatta è un ostacolo all'impianto degli alberi a lunghe radici, i soli che possano sopravvivere nella stagione secca. Inoltre l'evoluzione pedologica prolungata per decine di milioni d'anni ha impoverito i suoli degli elementi minerali indispensabili per gli alberi a rapida crescita. L'importanza di questi ultimi fattori è stata colta soprattutto dalla Scuola di Sào Paulo, che ha mostrato come i piccoli alberi rachitici di un cerrado allunghino le loro radici fino in vicinanza di una falda freatica molto profonda e continuino a traspirare liberamente nella stagione secca; non si può dunque attribuire la presenza della savana al regime idrico.
B. Avvicinandosi ai bordi dell'altopiano, le croste sono spesso intaccate da fenditure che le lunghe radici utilizzano per raggiungere la falda freatica nella stagione secca: falda che è alimentata grazie a queste stesse fenditure. Piccole sorgenti appaiono alla base della cornice ferruginosa; inoltre, sul versante, i suoli sono più giovani, quindi più ricchi in minerali potassici e calcici. La foresta può svilupparsi a condizione che le argille di questi suoli trattengano abbastanza acqua durante la stagione secca. Nella Costa d'Avorio centrale e occidentale, un gruppo Orstom, cercando di verificare questo concetto, ha mostrato che la foresta densa è possibile là dove la granulometria è sufficientemente fine, per cui il periodo durante il quale l'umidità del suolo è inferiore al punto di inaridimento non supera 2 mesi consecutivi al di sotto di 50 cm di profondità. Ciò si verifica soprattutto negli scisti. Al contrario la savana si impianta sulle sabbie granitiche, più permeabili, dove tutto il suolo si trova al di sotto del punto di inaridimento per 5 o 6 mesi almeno. Sfortunatamente le misure di umidità sono state fondate su profili di 2 m di profondità, cioè al di sopra del livello in cui gli alberi a lunghe radici possono trovare riserve nella stagione secca.
C. Nelle zone basse infine si ritrova la savana sulle argille a montmorilloniti, trasformate in melma nella stagione umida e in cemento screpolato nella stagione secca, ben al di sotto del punto di inaridimento. Gli alberi possono adattarsi all'una o all'altra di queste situazioni, ma non ad ambedue successivamente, ad eccezione di alcune palme a pneumatofori.
Il confronto tra i punti B e C indica che deve esistere una granulometria ottimale per la crescita della foresta. Il disaccordo riguarda l'importanza relativa delle savane originali e delle savane secondarie. Nell'insieme gli esperti di foreste dell'Africa occidentale continuano ad attribuire la preminenza alle seconde. Per spiegare le savane interne, il cui sviluppo a spese della foresta sempreverde è difficile, molti pensano a soluzioni di compromesso: verso la fine dell'ultimo periodo freddo, foreste aperte a Graminacee si sarebbero sviluppate nel corso di una fase climatica molto secca, in una gran parte della zona della foresta sempreverde. Questa avrebbe successivamente ricolonizzato le regioni fisicamente più favorevoli e quelle in cui l'azione dell'uomo era più debole. Nelle regioni marginali dal punto di vista del bilancio idrico (esso stesso risultando dal clima e dalla granulometria) la foresta aperta è stata sostituita dalla savana sotto l'azione degli incendi di boscaglia.
Le forme di erosione differenziale. - Nell'insieme della zona calda (foresta e savana) le forme di erosione differenziale sono tanto più attenuate quanto più il clima è umido, conseguenza normale della prevalenza della decomposizione chimica e del ruolo relativamente debole del ruscellamento.
Tuttavia uno dei più importanti tratti del rilievo è costituito da grandi scoscendimenti di arenarie suborizzontali che hanno il ruolo di rocce dure in rapporto allo zoccolo cristallino e, dove affiora la roccia nuda, anche nei climi umidi (Cambogia meridionale, ecc.). Bisogna attribuire la loro esistenza al fatto che: a) l'attacco chimico agisce più lentamente nei grani di quarzo e su un cemento composto sia di idrossidi di ferro, sia di caolinite, che nei feldspati delle rocce granito-gneissiche; b) il materiale disgregato è totalmente sabbioso e non può essere allontanato che tramite un ruscellamento molto attivo. Nei rilievi molto pronunciati, le pareti sono minate alla base dalle acque che sgorgano al contatto di banchi impermeabili o dello zoccolo che ha subito una criptoalterazione. La ricolonizzazione da parte della vegetazione è più difficile che nei ‛pan di zucchero' o Inselberge, perché l'alterazione fornisce poca argilla. Nei rilievi poco pronunciati queste cornici non esistono, ma l'erosione differenziale chimica mette allo stesso modo in risalto le arenarie, anche debolmente cementate.
Il posto del calcare nella scala di durezza è stato oggetto di molte discussioni. Senza dubbio si conoscono casi in cui i punti culminanti di un sistema di mammelloni calcarei dominano alveoli spianati in granodioriti particolarmente poco resistenti (Giamaica), ma lo sviluppo di polja attivi rende più aperto il bordo delle masse calcaree. La dissoluzione superficiale trasporta da 60 a 100 mg/l a partire dai versanti calcarei, cioè più del doppio di quello che forniscono i versanti cristallini. Ma non bisogna dimenticare che il ruscellamento, in quest'ultimo caso soltanto, trascina argille e sabbie fini in quantità quasi eguale.
Infine gran parte dei grandi Inselberge dei vecchi zoccoli è dovuta all'erosione differenziale. Come i sistemi morfogenetici semiaridi hanno collaborato al loro modellamento, si vedrà in seguito.
8. Le regioni aride e semiaride
a) Il dominio semiarido
Si possono definire come semiaride le formazioni in cui le foglie dei vegetali al culmine della stagione favorevole non si toccano più - tenendo presente che questa situazione è generalizzata e si applica a tutti i versanti, a esclusione delle pendenze forti.
La lontananza tra gli individui è allora la conseguenza della necessità di raccogliere l'acqua caduta e sfuggita all'evaporazione su una superficie molto superiore alla corona. Su un substrato sufficientemente mobile di rocce tenere o di suoli di alterazione, la distanza degli individui è regolata da questo principio e dalla concorrenza. Là dove la roccia dura è nuda, le radici possono impiantarsi solo dove le diaclasi sono distanti, perché devono ricevere l'acqua caduta su una superficie rocciosa minima che domina il pendio.
Soprattutto sulle pendenze deboli l'acqua utilizzabile è tanto più abbondante quanto più il suolo è permeabile. Nelle sabbie si stima che lo strato umido espresso in centimetri sia all'incirca uguale all'altezza delle precipitazioni espressa in mm. Quest'acqua che penetra facilmente, risale difficilmente per ascensione capillare. Così le dune messe in posto durante una fase erosiva più arida sono occupate da cespugli o ciuffi d'erba, il cui sistema di radici è molto sviluppato.
Salvo nel caso delle rocce arenacee spesse, l'infiltrazione è insufficiente a permettere la costituzione di una falda freatica. I corsi d'acqua, che non sono mai perenni, sono alimentati unicamente dal ruscellamento, prolungato da un deflusso ipodermico, ma hanno una grande portata per il loro forte tenore di fango. Al termine dello scorrimento endoreico, l'acqua non viene a mancare ma si arricchisce in cloruri e in solfati, concentrati per evaporazione e provenienti dall'acqua piovana e anche, eventualmente, dalle rocce salifere del bacino. Per un certo numero di piante specializzate, dette alofite, questi ioni non sono tossici, ma talvolta benefici.
L'aridità è un fattore fortemente limitante per quel che riguarda la disgregazione delle rocce compatte, specialmente nei semideserti caldi. Nei deserti a inverno freddo, anche poveri di neve, la crioclastia esercita invece un' azione non trascurabile su certi calcari o scisti.
Al contrario le rocce meccanicamente tenere, del tipo argillite, sono facilmente disgregate dalle alternanze di umidificazione e di essiccazione, alle quali si aggiunge la dissociazione per il gelo nei semideserti freddi. I detriti così disgregati sono messi in movimento dalla saltazione pluviale, dalla reptazione dovuta al gelo e all'alternanza di umidificazione-essiccazione delle argille plastiche, come dal ruscellamento che ha un ruolo preponderante. In un deserto a inverno freddo dell'Ovest americano, S.A. Schumm ha misurato uno spostamento per reptazione di 3 o 4 cm all'anno. La perdita di sostanza totale per erosione meccanica di queste rocce tenere raggiunge un valore massimo per precipitazioni annuali di 300 mm, a giudicare dai trasporti dei corsi d'acqua elementari (ablazione di uno spessore annuale di 0,2 mm). Le regioni semiaride a inverno freddo conoscono un'ablazione areolare, perché le fessure che il ruscellamento comincia a sfruttare nell'estate sono colmate in inverno.
L'usura rapida delle rocce tenere combinata con l'immunità delle rocce dure spiega sia la nitidezza delle forme di erosione differenziale nelle strutture sedimentarie come la rapidità di formazione dei pendii.
Pediments in rocce dure e pendii di erosione in rocce tenere sono localizzati di preferenza nel dominio semiarido e si può ben supporre che questo sistema bioclimatico sia responsabile della loro formazione, nonostante le oscillazioni climatiche del Quaternario. Ambedue pongono lo stesso enigma: la giustapposizione di superfici approssimativamente piane a rilievi ripidi normalmente incisi in interfluvi gerarchizzati. Il loro funzionamento è di facile osservazione. Talvolta il ruscellamento non concentrato, scorrendo lungo il versante si intensifica bruscamente arrivando sulla superficie piana, secondo la formula h=L•t/V, ed assumendo una portata maggiore. Talvolta le acque utilizzando un alveo alimentato da un bacino di alcuni ettari si dividono in alcuni microcanali anastomizzati. Talvolta infine un corso d'acqua più potente provoca la penetrazione del pediment a guisa di triangolo all'interno del rilievo residuo (embayment). Ma si tratta di capire perché si forma la superficie piana e perché essa ha tendenze analoghe, sia che si tratti di grandi uidian o di un semplice ruscellamento.
I pendii di erosione in rocce tenere, spesso posti nella famiglia dei pediments dagli autori americani, sono forme banali di erosione laterale fluviale che esistono ovunque la portata è irregolare: durante le piene il letto si allarga e si approfondisce, mentre durante le fasi di magra solo le incisioni sono colmate. Ma i pendii alla base dei versanti implicano che una debolissima superficie di alimentazione basti a provocare l'erosione laterale. Questi pendii si sono formati a più riprese nel corso del Quaternario, quando la fase di erosione si è generalmente conclusa con la messa in posto di una copertura di colluvioni-alluvioni, ricavate dalla cornice rocciosa.
Spesso il pendio inferiore non fa che sostituirsi al pendio superiore, ma naturalmente i pendii primitivi sono estesi solo perché la cornice delle rocce dure ha indietreggiato. La loro frammentazione è stata il risultato sia del gelo (per gli orizzonti semiaridi a inverno freddo) sia di un'alterazione chimica limitata alle fessure in un clima forestale antecedente. In un caso e nell'altro la loro messa in posto implica dei flussi molto irregolari di grande capacità. I periodi di incisione lineare sono stati rapportati sia a queste fasi forestali, sia, al contrario, a climi più aridi: sequenze climatiche molto diverse possono quindi condurre a risultati convergenti.
È un uso diffuso di riservare il nome di pediment agli spianamenti dello stesso tipo ma su rocce dure e sane, principalmente arenarie o rocce cristalline, che hanno la proprietà di passare direttamente dallo stadio di blocco a quello di sabbia.
Dopo gli studi di K. Bryan si sa che questa discontinuità di rilievo corrisponde a una discontinuità nella disgregazione delle rocce, che avviene sotto forma di blocchi o di sabbie.
Il fenomeno si verifica come se i corsi d'acqua capaci di trasportare i massi conservassero, per evacuarli, una pendenza forte come quella dei rivoli d'acqua che trasportano i granuli di sabbia. Conformemente allo schema proposto da Davis, l'acqua si limita a trasportare i detriti preparati dalla degradazione meteorica. La roccia è, infatti, troppo dura per essere livellata dall'abrasione fluviale laterale.
A differenza dei pendii di rocce tenere, i pediments si sviluppano lentamente. Nell'Ovest degli Stati Uniti non se ne trova in genere che un piano, che ha cominciato a formarsi alla fine del Terziario, e che resta funzionale solo nelle regioni endoreiche dove il riempimento è continuato per la maggior parte del Quaternario; altrove i pediments subiscono un inizio di dissezione in groppe rotonde.
Il fattore limitante dello sviluppo è la paralisi dell'azione chimica, poiché il periodo di contatto tra acqua e roccia è breve, con la conseguente immunità delle pendenze ripide e anche delle parti emergenti dal pediment (contrariamente all'opinione di J. A. Mabbutt, Mantle controlled formation of pediments, in ‟American journal of science", 1966, CCLXIV, pp. 78-91). Quanto alla crioclastia, essa è senza efficacia sui graniti compatti. Basta una debole modificazione chimica perché le rocce granito-gneissiche siano ridotte in sabbia sotto l'azione della montmorillonite (frequente nella zona semiarida calda) o della vermiculite. Alla base dei versanti ripidi l'imbibizione è più prolungata, a causa delle acque ruscellanti provenienti dai versanti superiori; la pendenza tende dunque ad aumentare, ma su una breve distanza verticale, forse di 1 m. Perché questa erosione acquisti un carattere regressivo, occorre che siano presenti diaclasi di pendenza superiore a 40°, tali da isolare frammenti suscettibili di scivolare verso il knick umido per esservi digeriti.
L'arretramento dei versanti ripidi parallelamente a se stessi può portare l'intersezione degli interfluvi sotto forma di Inselberge di posizione. Nei climi semiaridi, gli Inselberge di durezza, refrattari alla disgregazione granulare (porfidi, apliti, ecc.), hanno una straordinaria longevità a causa dell'immunità delle pendenze ripide. Essi sopravvivono nelle immediate vicinanze degli alvei principali, e anche nel corso di molti cicli di pedimentazione (J. Dresch).
Un carattere comune alle regioni aride e semiaride (ad eccezione dei deserti oceanici) è la perfezione e la finezza delle forme strutturali. Un banco duro o un filone di qualche metro di spessore sono messi rigorosamente in rilievo, quando negli altri climi i loro contatti con le rocce più tenere sono mascherati dai terreni colluviali. Questi risultano dal fatto che il trasporto dei detriti è opera del ruscellamento o del vento, agenti molto selettivi. Quest'ultimo è ancora più efficace perché agisce pure sulle selle e sugli interfluvi.
b) Il deserto vero
Discontinuità dell'attività dell'acqua. - Nei deserti totali continentali, la vegetazione è limitata ai siti lineari, come il fondo dei letti percorsi da un deflusso episodico, ma che si avvalgono di un bacino di almeno 100 km2 (contro qualche m2 nel dominio semiarido). Soltanto in queste condizioni il suolo è reso umido per una profondità sufficiente a permettere l'approvvigionamento d'acqua della pianta per qualche settimana dopo la pioggia. Le foglie di alcuni cespugli vivono allora un'attività febbrile, con un'assimilazione che può essere superiore a 10 volte quella dei nostri alberi a foglie caduche. Nei casi più favorevoli, si possono avere piccoli alberi.
Tuttavia in seguito ad acquazzoni copiosi (da 2 a 5 cm al minimo, secondo la stagione) si forma un denso tappeto di piante effimere su suoli la cui granulometria ottimale è quella del limo. La profondità d'acqua assorbita corrisponde alle radici minuscole di piante succose, che in qualche settimana germinano, sviluppano qualche foglia, poi dei fiori e dei semi; questi ultimi attenderanno per decadi la possibilità di un risveglio.
Il deflusso di questi uidian non dura che qualche giorno all'anno secondo il capriccio degli acquazzoni e l'estensione del bacino, che è talvolta molto esteso, poiché la gerarchizzazione degli alvei si è operata durante un periodo più umido del Quaternario. Tuttavia essi terminano in genere a un livello di base endoreico. Gli uidian sono alimentati unicamente dal ruscellamento (poiché l'acqua che bagna i versanti è integralmente recuperata dall'evaporazione), che circola talvolta su superfici a debole pendenza in canali anastomizzati e prende così un andamento areolare per qualche ora, in seguito a un rovescio d'acqua.
Si può parlare di zona areica soltanto per i deserti più rigorosi di tipo continentale (regioni del Sahara, dove in 19 anni di osservazioni le piogge non hanno superato i 3 mm), così come per le aree oceaniche, dove l'acqua atmosferica non interviene che sotto forma di nebbia.
Il trasferimento orizzontale delle sostanze disciolte trasporta a grande distanza solo gli elementi più solubili: doruri e solfati. Silice e calcare precipitano in capo a qualche centinaio di metri.
Un caso particolare è quello dei deserti oceanici (Cile, Perù), che sono inumiditi soltanto dalla nebbia e dove il ruscellamento è nullo. Gli ioni disciolti non subiscono che una migrazione verticale di qualche centimetro e tutti i suoli sono salati. In compenso le alofite corrispondenti devono far fronte a una evaporazione ben minore che nei deserti continentali. Un adattamento particolare è quello delle epifite, piante senza radici, quindi senza contatto col suolo tossico, ma le cui squame assorbono l'acqua delle nebbie (Tillandsia). Mancando l'acqua, la disgregazione delle rocce è quasi completamente arrestata. Senza dubbio, sui versanti di rocce silicee si osservano delle macchie bianche, che hanno l'aspetto di ferite superficiali sulla parete patinata indicanti che la desquamazione opera più velocemente della formazione della patina. Questo fenomeno di dilatazione sarà discusso in seguito.
D'altra parte la disgregazione granulare è realizzabile per aloclastia. L'acqua necessaria alla crescita dei cristalli e alla loro idratazione è fornita dalla rugiada notturna o da piccole piogge. Il sale è portato dal vento e proviene dalle playas.
La discontinuità dell'azione dell'acqua spiega come le forme essenziali di erosione siano ereditate da periodi più umidi di tipo semiarido. Nel Sahara si tratta principalmente di pediments dominati da Inselberge e anche da Inselgebirge superanti 1.000 m di dislivello (Ekker). La buona gerarchizzazione degli alvei dell'Hoggar risale pure a queste epoche più umide. Nei deserti del Cile settentrionale e del Perù, il ruscellamento dei periodi pluviali ha formato dei pendii di erosione in rocce tenere.
I caratteri specifici del rilievo. - Anche le forme dei rilievi, proprie del regime desertico, hanno in genere dislivelli inferiori a 100 m e dipendono principalmente dal modellamento eolico, o idroeolico. Tutti concordemente riconoscono che il vento è un agente di trasporto potente, ma selettivo, poiché non può trasportare detriti più grossi delle sabbie. Il meccanismo è stato studiato dapprima sul terreno, poi nella galleria del vento (Bagnold). Come nei corsi d'acqua, si distingue un sottile strato in cui lo scorrimento è laminare, al di sopra del quale diventa turbolento; la distribuzione delle velocità del vento in altezza obbedisce a una legge logaritmica. I refoli d'aria trasportano i granuli per rotolamento e saltazione. La velocità negli strati vicini al suolo è inversamente proporzionale alla rugosità, che è essa stessa proporzionale alla dimensione dei granuli. Il trascinamento inizia solo in corrispondenza di un certo valore critico della velocità e delle dimensioni dei granuli. Un vento debole è incapace di spazzare la sabbia su un reg disseminato di grossi ciottoli, a causa della sua notevole rugosità; al contrario su un cumulo di sabbia già costituito, di mediocre rugosità, esso è sufficiente a mettere i granuli in movimento. Il mucchio di sabbia si spande, poiché non è alimentato dal reg vicino. Al contrario se il vento è violento, la velocità tra i grossi ciottoli del reg è sufficiente per prelevare granuli di sabbia che, rimbalzando, possono subire degli urti perfettamente elastici e quindi effettuare lunghi percorsi. Ma giungendo sul mucchio di sabbia già formato, essi incontrano un ambiente molle, dove una parte dell'energia cinetica viene impiegata nell'infossamento del granulo spostato. Il mucchio di sabbia riceve quindi più granuli di quanti ne perde.
Le dune. - Per la capacità di trasporto del vento, Ba- gnold ha proposto la seguente formula, stabilita in base a considerazioni teoriche, peraltro poco rigorose, e a numerose misure in galleria aerodinamica e sul terreno:
dove Q rappresenta la massa totale di sabbia in tonnellate per metro di larghezza trasversalmente alla direzione del vento. Questa massa di sabbia sarà spostata in t ore da un vento saturo, che ha una velocità v km/h misurato all'altezza di z metri.
Le dune più facili da spiegare sono le barcane, che crescono esattamente perpendicolari alla direzione del vento, con pendenza dolce a monte e più accentuata a valle. Lo strato superiore è reso più compatto dal bombardamento dei granuli che si spostano per saltazione, anche se il vento non è molto violento, proprio perché questo assestamento fa sì che gli urti siano relativamente elastici. La convergenza dei venti dà la velocità necessaria per permettere di superare l'ostacolo. Al di là i soffi del vento divergono; i granuli precipitano in caduta quasi libera lungo la pendenza di equilibrio di attrito secco (35°). Così l'insieme della barcana si sposta, con una velocità dell'ordine di grandezza della decina di metri l'anno per le barcane libere.
Questa velocità è notevolmente inferiore per le associazioni di barcane che spesso sono fortemente saldate tra loro, perché appare allora una rugosità superiore a quella dei granuli. Altre volte le dune sono saldate fra loro nelle ali e i gruppi di barcane prendono l'aspetto di un volo di anatre.
Gli erg più estesi sono formati da piccole catene sabbiose approssimativamente parallele ai venti dominanti (in Africa, gli alisei). In particolare, il rilievo si compone di una successione di nodi dove si incrociano creste dissimmetriche, del tipo delle barcane. La loro origine è molto discussa. L. Aufrere ha spiegato le dune longitudinali con l'erosione. Là dove la sabbia è compatta a causa della sua massa (più di 1.000 m nei grandi erg), il vento dominante scava corridoi dove affiora spesso il erg scuro. Tuttavia la parte superficiale della sabbia, più mobile, può essere modellata liberamente dal vento in forma di erosione-accumulo; da ciò l'esistenza di semi-barcane mobili correnti sul fianco delle dune longitudinali. La loro obliquità viene spiegata con cambiamenti stagionali nella direzione del vento. Dopo decenni di dimenticanza, questa teoria è stata ripresa da Verstappen.
Al contrario, secondo Bagnold, la maggior parte delle dune longitudinali risultano dalla riunione di barcane. Il vento leggero dominante modella una barcana; poi viene un periodo di vento forte, di direzione obliqua, che arricchisce una sola ala della barcana alzandola; nella successiva fase di vento debole quest'ala è allungata (perché i venti deboli spandono la sabbia); una nuova crisi di vento violento la arricchisce; e così di seguito.
In altri casi in cui la catena longitudinale risulta dalla saldatura di linee poco dissimmetriche lo stesso autore giudica che questa sia da attribuire all'azione di venti forti spiranti alternativamente da due direzioni quasi ortogonali. Il saggio di Bagnold presenta un sistema coerente: purtroppo la sua verifica implicherebbe la messa a punto di un ricco insieme di osservazioni anemometriche sugli erg, che si è ben lungi dall'aver realizzato. Non bisogna dimenticare, poi, che il regime dei venti è potuto cambiare durante il periodo di formazione degli stessi erg (che si aggira infatti all'incirca intorno alle decine di migliaia d'anni).
Dal 1965 la spiegazione dei tipi di dune è stata ripresa su una base diversa. Si insiste soprattutto sul fatto che circolazioni atmosferiche trasversali al vento accompagnano necessariamente movimenti longitudinali (idea già ventilata da Bagnold). A. E. Wilson applica alle dune fenomeni rilevati durante esperimenti riguardanti le increspature e le dune subacquee. Lo scorrimento di fluido si ottiene con eliche giustapposte il cui senso di rotazione è alternato: dove gli spostamenti trasversali convergono ci sarà accumulo di sabbia e formazione di corridoi nell'intervallo. Si spiegano in questo modo gli erg di tipo aklé, in cui dominano le catene trasversali collegate tra loro da cordoni longitudinali, essendo i festoni delle catene trasversali essi stessi opposti. Gli studi condotti in canale sperimentale hanno dato luogo a profili di questo tipo, dal momento che gli elementi longitudinali sono più marcati rispetto a quelli trasversali e tanto più numerosi quanto minore è la profondità del canale, per una velocità media. Tutti questi suggerimenti, assai stimolanti, sono lungi dal costituire una dottrina completa; occorre passare dal modello acquatico al modello eolico.
Questa riserva vale anche per le teorie di A. Clos-Arceduc che spiega le catene longitudinali semplici o incrociate con l'esistenza di onde stazionarie nella struttura del vento dominante. Esse si formano non soltanto per dei rotoli di nubi parallele, ma anche per accumuli lineari di sabbia corrispondenti ai nodi delle onde, allorché i corridoi spianati da un movimento alternativo corrispondono ai ventri delle onde. Rimane da dimostrare che esistano in natura in maniera stabile tali distribuzioni di pressione in relazione al rilievo, il solo capace di provocare interferenze esprimentisi in onde stazionarie, e infine che le forze risultanti siano di un ordine di grandezza sufficiente a spostare la sabbia.
Le forme di erosione pura. - L'importanza del vento come agente di corrosione è stata dapprima esaltata poi minimizzata: infine nel corso di questi ultimi dieci anni si è riconosciuto che il vento è capace di modellare delle collinette oblunghe dal profilo aerodinamico separate da solchi paralleli in rocce di scarsa e media resistenza. Queste forme compongono tutto un paesaggio su molte decine di migliaia di km2: nella parte occidentale del deserto di Lūt, dove l'incisione è stata facile perché i solchi sono scavati nelle rocce argillo-sabbiose mal consolidate (ruscellamenti e franamenti episodici allargano i fianchi) e soprattutto nel complesso di scanalature e di creste arenacee circondanti il Tibesti verso l'est e il sud, su 600.000 km2 (v. Mainguet, 1972). Meglio ancora delle dune longitudinali queste collinette per un osservatore posto in un satellite disegnano la curvatura dell'aliseo. I solchi risultano tutti dallo sfruttamento di diaclasi il cui orientamento è sufficientemente vario perché il vento abbia potuto fare la sua scelta. Senza dubbio anche lungo le diaclasi è possibile che la roccia sia stata dapprima disgregata per azione dell'acqua e dei sali, riducendo a poca cosa la corrosione eolica propriamente detta; le creste dal profilo aerodinamico indicano però che il vento è stato capace di attaccare anche rocce intatte. Perché il rilievo eolico imponga così il suo segno a rocce di resistenza media, occorre che il deserto sia impiantato da molto tempo.
La sovraescavazione delle conche idroeoliche nelle rocce arenaceo-argillose o cristalline implica una disgregazione preliminare della roccia sotto l'azione dell'acqua e dei sali con formazione di detriti, successivamente trasportati dal vento capace di risalire le contropendenze. Questa sovraescavazione determina automaticamente una diminuzione della velocità del vento e quindi della sua capacità di trasporto; la conca idroeolica in tal modo si stabilizza. Tuttavia i suoli di alterazione asportati sono spesso ereditati da periodi più umidi ed il vento in tal modo riesuma la superficie irregolare della roccia intatta cripto-decomposta. In tutti i casi il rilievo desertico di erosione deve il suo andamento irregolare, là dove il rilievo stesso è poco pronunciato, alla grande frequenza di contropendenze.
Per finire, su vaste superfici piane il vento opera soltanto una modificazione superficiale, trascinando il materiale fine dei suoli di alterazione o degli spargimenti alluvionali. Si formano così i reg, pavimentazione di elementi congiunti sulla quale la sabbia venuta da altro luogo rimbalza per alimentare gli erg. La presenza di questi ultimi è stata dapprincipio spiegata in modo semplice, cioè come coincidente con le antiche zone di spargimento di terreni alluvionali sabbiosi (in particolare secondo la teoria di Aufrere). All'estremo opposto si pongono i tentativi di Wilson di spiegare dalla sola distribuzione dei venti la presenza di aree di accumulo e di deflazione (v. Cooke e Warren, 1973). Quest'ultima teoria è difficile da sostenere nella sua interezza, soprattutto per quanto riguarda i principali erg del Sahara. Ma la sabbia circola da un erg all'altro, al di sotto delle aree di deflazione. Mainguet, nel commentare le immagini dell'Africa settentrionale ottenute da satelliti, sottolinea come solchi di deflazione e catene di dune rendano in modo plastico ed evidente sulla superficie terrestre la curvatura degli alisei (queste ricerche e pubblicazioni sono tuttora in corso).
c) Le playas
Nelle regioni aride e semiaride, lo scorrimento endoreico è la regola; cioè a dire, si ferma a un livello di base locale che può essere di origine tettonica, ma a volte anche di origine puramente erosiva, come nel caso dei deserti più freddi (per esempio per alcuni chott del Sud tunisino studiati da R. Coque). Questi scorrimenti temporanei depositano al loro punto di arrivo gli elementi più mobili, cioè argille e limi fini; allorché l'evaporazione concentra i prodotti in soluzione, questi precipitano. I sali sono distribuiti in circoli concentrici nelle tre dimensioni in funzione della loro solubilità. I carbonati di calcio si trovano nel circolo esterno, seguiti dai gessi, quindi dai cloruri. Gli ioni di questi ultimi due corpi chimici provengono dall'atmosfera e dagli strati saliferi dei bacini versanti. La maggior parte delle playas sono ricoperte a seconda delle stagioni da una pellicola d'acqua, che corrisponde alla risalita della falda freatica (soprattutto quando la cornice montagnosa è lontana, come nel caso degli chott tunisini), alla quale si aggiunge l'apporto degli uidian (per esempio nelle playas dell'Ovest americano dove le montagne sono vicine).
In queste condizioni, la vegetazione si ferma alla periferia delle playas, assumendo delle forme tipiche (cespugli di freatofite, che utilizzano l'acqua della falda freatica dove i sali hanno ancora un tenore relativamente debole). Nella playa propriamente detta la concentrazione dei sali è tale da impedire qualsiasi forma di vita, anche nei climi semiaridi.
Il microrilievo delle playas presenta due aspetti ben distinti. Da una parte si hanno pianure perfettamente lisce con un suolo sufficientemente compatto da prestarsi assai bene come pista d'atterraggio (è questo il motivo di carattere militare che ha ispirato ricerche geomorfologiche assai precise effettuate su questo tema dagli Stati Uniti), dall'altra parte, nel quadro della stessa playa, vaste superfici hanno un suolo tenero e rugoso, le rugosità essendo costituite da efflorescenze saline che cementano le particelle argillose. Il primo tipo corrisponde alle situazioni in cui il carbonato di calcio è il sale essenziale e la falda freatica è relativamente profonda. Nel secondo tipo di microrilievo, la falda freatica è vicina alla superficie e assai ricca di cloruri o di solfati, trasportati in superficie dall'ascensione capillare, dove provoca dei rigonfiamenti.
Il bilancio dell'accumulo e dell'erosione è notevolmente diverso da una playa all'altra. L'accumulo è più abbondante nelle depressioni intramontane e sotto climi semiaridi. Ma nelle regioni di debole rilievo o di clima assai arido, l'erosione eolica prevale sull'accumulo (realizzato durante periodi anteriori più umidi). La deflazione si verifica essenzialmente nelle aree di suolo tenero, le cui particelle argillose sono cementate da sali in grani, che emergono sulla superficie e sono esposti al vento.
Al limite si può pensare che vaste superfici di spianamento in rocce tenere possano svilupparsi da sedimenti salati. Il Gran Kewir dell'Iran taglia sedimenti neogenici corrugati depositati nelle antiche playas, in funzione del livello di base della playa funzionale. Si può pensare che i corrugamenti sono stati livellàti a mano a mano che si formavano; in effetti, anche alla scala decimetrica, ciascun piccolo rilievo emergente dalla playa vede il suo tenore in sale aumentare per evaporazione, e da ciò deriva una sensibilità più grande alla deflazione (R. Coque).
9. Le superfici di spianamento della zona calda
Molte forme oggi visibili non possono essere comprese, a priori, in uno dei sistemi bioclimatici esaminati prima. Nel corso delle decine di milioni d'anni durante i quali sono state elaborate, si può pensare che esse abbiano vissuto cambiamenti climatici importanti, che vanno dal semiarido umido al semiarido e anche all'arido, soprattutto per quel che riguarda l'Africa occidentale. Questo vale per la maggior parte dei vecchi scudi della zona intertropicale, cioè immense superfici di spianamento a Inselberge, sormontate verso i margini oceanici da frammenti di spianamenti più elevati ancora, portanti croste residue di sesquiossidi di alluminio e di ferro. Si discute molto sul clima ottimale che permette la formazione di questi ultimi. È certo che l'individualizzazione della gibbsite e della boehmite nei suoli avviene in regimi a percolazione molto forte (suoli ferralitici). La risilicizzazione della bauxite può essere tuttavia ostacolata dall'abbassamento della falda freatica durante la stagione secca. Bisogna soprattutto comprendere che l'affinamento è proseguito in climi molto diversi e dopo che la superficie di spianamento iniziale si era già molto sezionata; anche il tentativo di correlare le corazze bauxitiche con gli indici climatici attuali sembra votato all'insuccesso.
I grandi Inselberge di durezza sono anch'essi forme poligeniche che non hanno cessato di ingrandirsi alla base per le loro deboli microfessurazioni o macrofessurazioni e per la loro composizione mineralogica.
Il problema dell'origine delle superfici di spianamento della zona intertropicale va molto al di là dei fenomeni visibili in questa stessa zona, poiché gli spianamenti conservati nella zona temperata sono stati realizzati molto probabilmente sotto climi tropicali e temperati caldi di tipo ‛cinese'. Nonostante che già da mezzo secolo si stia tentando di darne una spiegazione, la questione è ancora controversa. È necessario confrontare queste ipotesi con gli scarsi dati quantitativi che possediamo sulla velocità dell'erosione.
Pedimentazione ciclica. - L. King considera come ‛pedepiani' tutte le superfici di spianamento della zona calda che risultano dalla coalescenza di pediments. Il processo richiede che dapprima siano state incise delle valli giovani (ora sappiamo che nella zona calda con o senza stagione secca, questo processo è lento); poi sarebbe avvenuto l'arretramento dei versanti ripidi secondo piani paralleli a se stessi lasciando posto ai pediments. La conferma è stata completa, salvo dove rimangono degli Inselberge di posizione, tagliati nelle stesse rocce dei pediments, o degli Inselberge di durezza. Benché King non sia molto esplicito al riguardo, egli sembra porre in relazione questa evoluzione con le condizioni climatiche (v. King, 1957).
Il sistema bioclimatico ideale deve unire un'usura rapida delle pendenze ripide e il trasporto dei detriti su pendenze molto deboli e di larghe superfici, al di fuori dei letti propriamente detti. Si è pensato a un mosaico dove una foresta densa occupasse le pendenze ripide che evolvono per frana e la savana (a condizione che sia certamente una formazione naturale) occupasse le pendenze deboli dove si avesse il ruscellamento areolare.
Ci sono tuttavia tre difficoltà: a) l'arretramento dei versanti ripidi è limitato dalla velocità di decomposizione chimica (occorrono almeno 20.000 anni perché 1 m di granito-gneiss sia semiarenizzato, semiargillificato); b) la capacità del ruscellamento in savana non bruciata è sufficiente a trasportare sabbie non quarzose? c) si può ammettere che una savana sia giustapposta a un versante forestale e sia installata su un pediment nascente normalmente drenato e il cui suolo non è ancora impoverito?
Anche il dominio privilegiato della pedimentazione è stato spesso cercato in un insieme più secco, dove le pendenze ripide sono occupate da un popolamento rado di alberi e di arbusti impiantati nelle diaclasi, con superfici rocciose estese, mentre una savana rada occupa le pendenze deboli. È questa, sembra, la posizione scelta da J. Büdel; mentre si approfondisce, lo spostamento attacca, per erosione chimica, la base del versante che riceve il massimo di umidità e si consuma solo per desquamazione. Ogni arretramento per scavo, tuttavia, è necessariamente molto lento.
Se infine si cerca nel dominio semiarido l'area di formazione dei pedepiani, bisogna constatare che l'immunità dei versanti ripidi è ancora più grande. Al contrario, basta che la roccia dura (rocce cristalline e arenarie) si decomponga in sabbie perché la circolazione dei detriti sia possibile nei pediments, poiché questi ultimi sono coperti da una vegetazione discontinua. In totale, salvo nei casi in cui le rocce granito-gneissiche sono particolarmente fessurate, si può stimare che l'elaborazione di un pedepiano di 100 km di larghezza a partire da una rete di valli separate di 5 km, richieda un centinaio di milioni d'anni. Si rimane sorpresi nel constatare che J. Büdel considera come ‛attivo' l'arretramento dei versanti ripidi della zona semiarida e come ‛passivo' quello degli Inselberge della zona a stagioni alternate (rifiutando completamente il nome di pediment agli spianamenti che essi dominano). Ci sembra che la situazione sia inversa. D'altra parte, nelle due zone climatiche considerate, la decomposizione della roccia è massima alla base del versante, che è bagnato in maniera più durevole (O. Jessen). Nel caso dei climi a stagioni alternate questa decomposizione è spinta fino allo stadio della argillificazione, mentre non supera lo stadio di sabbia in climi semiaridi; ne deriva una pendenza più debole dei pediments nel primo caso.
La difficoltà di combinare in uno stesso sistema morfogenetico bioclimatico la decomposizione delle rocce e il trasporto areolare dei detriti sulle pendenze deboli ha portato certi autori a supporre fluttuazioni climatiche che fanno alternare la decomposizione chimica massima (in regime di biostasia sotto foresta umida) e il ruscellamento areolare massimo quando la foresta è distrutta da una crisi climatica (resistasia). In queste condizioni si può stimare che un metro di roccia intatta sia in parte argillificato, in parte trasformato in sabbia in 20.000 anni al minimo. Infatti la velocità della decomposizione della roccia intatta è un po' più grande a causa del rinnovo dell'esposizione (a condizione che questa non arrivi fino alla sua denudazione). I suoli di alterazione sono evacuati in parte allo stato di sabbia (quindi dopo un tempo di pedogenesi meno lungo). Il trasporto dei detriti in regime di resistasia non richiede più di 1.000 anni.
Tuttavia il tempo necessario all'elaborazione di un pedepiano a partire da un reticolo di valli separate da 5 km rimane superiore a 50 milioni di anni, cosa che supera le possibilità di realizzazione durante il Terziario.
Infine se la pedeplanazione è responsabile degli spianamenti, questi hanno dovuto essere molto ritoccati: perché infatti in una gran parte della zona intertropicale gli aspetti di pediments sono assai strettamente localizzati in vicinanza degli Inselberge o degli scoscendimenti che separano spianamenti disposti a gradinate. Dappertutto altrove si ha a che fare con dolci ondulazioni convesso-concave di tipo penepiano. Questo si vede esaminando i profili trasversali, a condizione che l'ordine degli alvei sia definito, per es. il secondo o il terzo ordine. Sfortunatamente non sono numerosi gli studi di morfometria sistematica a nostra disposizione (v. Birot e altri, 1974).
Teorie acicliche e che si richiamano a un'erosione ‛areolare'. - Un certo numero di autori hanno adottato posizioni più o meno acicliche (H. Louis, H. Bremer e, almeno nelle sue ultime pubblicazioni, J. Büdel), ritenendo che lo zoccolo antico si consumi in maniera pressoché uniforme su tutta la sua superficie. In tal modo le pendenze deboli si abbasserebbero parallelamente a se stesse, mentre le pendenze ripide si accentuerebbero: questo in un clima a stagioni alternate, ma la cui copertura vegetale non è specificata.
Seguendo i loro concetti molto sfumati, le valli non passano attraverso lo stadio di giovinezza per finire negli spianamenti attuali. Il letto del fiume si approfondisce solo nella misura in cui lo permette la decomposizione chimica. In rapporto a ciò che accade nei versanti tale decomposizione è avvantaggiata soprattutto dalla permanenza dell'umidità; in queste condizioni il profilo longitudinale dei letti fluviali non è funzione del loro carico solido come nelle altre zone climatiche, ma solo funzione dei progressi dell'alterazione chimica (Bremer). Gli alvei si approfondiscono un po' più rapidamente degli interfiuvi perché, dal momento in cui la roccia è alterata, i suoi detriti sono portati via (salvo il caso della criptodecomposizione creata dalle contropendenze), mentre il ruscellamento rispetta una parte dei suoli di alterazione. Così i versanti presentano un aspetto senile persistente.
In questa ipotesi gli Inselberge di durezza si ingrandiscono dalla loro base. Gli Inselberge di posizione sono invece più difficili da spiegare (alcuni autori mettono quindi in dubbio la loro esistenza, attribuendoli per esempio a un'azione di diaclasi più distanziata). Si ammette che tutti i dislivelli abbiano tendenza ad accentuarsi automaticamente per il fatto che la roccia intatta rischia di essere denudata al verificarsi di una crisi climatica breve e che da allora la sua decomposizione chimica sia rallentata (principio dell'immunità delle pendenze ripide). Infatti le acque la abbandonano prima di essere saturate ed esse sono meno ricche di Co2. Se alla base di questi rilievi l'acqua appena ruscellata si aggiunge alla pioggia caduta, l'umidità è più durevole (differenza sensibile sotto i climi a stagione secca) e pertanto la decomposizione chimica è più intensa. In totale la pendenza diventa sempre più ripida. Questo principio giustifica gli scoscendimenti che separano questi pseudopenepiani da elementi di superfici di spianamento più elevate almeno quando il loro contatto è approssimativamente rettilineo. Bremer immagina che la sezione della superficie sollevata rimasta suborizzontale sfugga all'erosione, mentre un ringiovanimento lento intacca un settore a valle un po' sollevato. Nella loro forma estrema queste teorie giungono ad affermare che gli spianamenti avvengono indipendentemente dal livello di base e che il profilo trasversale delle valli dipende principalmente dal clima, presentandosi largamente svasate sotto il clima a stagioni alternate e incassate sotto climi più umidi.
Discussione. - Faremo delle riserve sulle tesi che il profilo longitudinale dei corsi d'acqua sia un profilo puro e semplice di alterazione chimica. Nei tronchi assai poco inclinati i suoli di alterazione sono conservati su un certo spessore. La pendenza è tale da permettere all'acqua delle piene più forti di trasportare i ciottoli che coprono un'apprezzabile superficie. Essa non potrebbe abbassarsi al di sotto di questo valore limite, in mancanza del quale questi ciottoli si accumulerebbero, benché il loro apporto al fiume per unità di tempo sia evidentemente modesto. Solo le rapide sfuggono all'autoregolazione della pendenza da parte del carico solido. Ci sono tuttavia aspetti molto seducenti nella tesi secondo la quale si potrebbe considerare una gran parte degli spianamenti di vecchi zoccoli come ‛penepiani di lento ringiovanimento' sviluppati in clima umido a breve stagione secca, dove i versanti restano svasati mentre i corsi d'acqua raggiungono la roccia nelle rapide. Questo ringiovanimento sarebbe esso stesso la conseguenza di un leggero movimento di innalzamento interessante un penepiano vero che offre dislivelli poco accentuati. Il volume portato via può essere considerevole; con un drenaggio annuo di 550 mm, l'insieme della superficie ondulata si abbassa di 1,20 m ogni 50.000 anni, con il ruscellamento superficiale e la caolinizzazione che interessano uno strato di 1 m, mentre l'usura chimica seguita dall'accumulo sottrae 20 cm; ne deriva un'ablazione di 240 m in 10 milioni d'anni, su una superficie grande quanto si vuole. Nel corso di un'alternanza di periodi di resistasia e di biostasia, 5 o 6 milioni d'anni sarebbero sufficienti.
Certe catene poligeniche di suoli offrono la prova che ci si trova in regime di lento ringiovanimento. Per esempio, in Africa occidentale, i suoli di base dei versanti sono più giovani e corrispondono a un clima più secco di quello della vetta.
Il penepiano ‛originale' sarebbe stato realizzato in un periodo assai lungo di stabilità tale da permettere la riduzione delle rapide a partire da un penepiano di lento ringiovanimento, mentre l'alterazione, superiore al trasporto dei detriti, assicurava l'ispessimento dei suoli. Questo implica che, nel corso di decine di milioni d'anni, il blocco ha conosciuto solo deboli movimenti. Al limite, questi spianamenti di stabilità sono superfici di degradazione, in cui lo strato portato via nel corso di ogni ciclo si compone in gran parte di suoli di alterazione sviluppati anteriormente. È probabile che vaste distese del mondo ercinico dell'Europa occidentale (Massiccio Armoricano, bacino parigino) abbiano conosciuto una storia di questo genere nel corso del Terziario.
Se ora esaminiamo ciò che avviene negli scoscendimenti che separano due superfici di spianamento, soprattutto nel dominio dei ‛cuscinetti marginali', siamo obbligati a ritornare a idee più ‛classiche' di quelle di Bremer. È ben chiaro, e Büdel lo riconosce senz'altro, che in questo caso l'escavazione delle valli giovani precede lo svaso dei versanti. Finché pendenze relativamente erte arrivano fino al letto, quest'ultimo riceve ciottoli di comuni rocce cristalline che esercitano un' azione meccanica. La differenza dalle altre zone climatiche è che l'imbuto, attraverso il quale la superficie di spianamento inferiore attacca la superficie di erosione superiore, presenta un angolo grande alla sua estremità interna; questo fatto è riscontrabile non solo nelle rocce cristalline (orlo dell'altopiano del Deccan), ma anche nei grandi massicci arenacei dove corsi d'acqua sospesi, alimentati da bacini di molte centinaia di km2, saltano le falesie costiere degli altipiani; se ne deduce che i loro versanti arretrano con velocità pressoché uguale a quella del letto fluviale. Tuttavia nella fascia piegata, complicata da fratture e faglie, l'incisione verticale è stata rapida, dando inizio allo sviluppo dei pediments, con possibilità di alterazioni della roccia alla base dei versanti. Questi pediments si insinuano spesso nei luoghi in cui si intersecano delle linee di frattura che aumentano la porosità della roccia. Questa situazione si verifica in numerosi massicci antichi granito-gneissici che vanno dall'orlo sud-occidentale del Deccan fino alla Cordigliera Centrale Iberica. La paralisi dell'erosione lineare a sinistra della fascia piegata e la protezione offerta dalle croste ferralitiche sono responsabili della buona conservazione degli spianamenti sommitali; essi risalgono a un'età che varia tra il Cretaceo superiore e il Miocene; sono stati realizzati, come quelli del centro degli antichi scudi, nel corso di un periodo di stabilità che è succeduto a movimenti deboli. Poi la piega si è individualizzata con un sollevamento vigoroso. È l'intensità dei movimenti tettonici che decide dell'evoluzione in lento ringiovanimento o in spianamenti incassati. È difficile ammettere, con H. Louis, che la comparsa di valli relativamente incassate sia dovuta a un aumento di umidità del clima. Questa ipotesi è forse valida per un alveo elementare, ma non per grandi corsi d'acqua.
È normale che gli spianamenti trovino le condizioni di elaborazione ottimali là dove i detriti rocciosi si assottigliano più velocemente, cioè, se si eccettuano alcune rocce molto microgelive, nei climi caldi e sufficientemente umidi, dove l'attacco chimico porta all'argillificazione o almeno a un' arenizzazione relativamente rapida.
10. Le regioni forestali delle medie e alte latitudini
L'attività dei processi biologici e morfogenetici obbedisce a un ritmo termico stagionale.
Questa tesi si applica solo in parte all'emisfero sud dove i contrasti termici stagionali sono molto attenuati dall'enorme superficie relativa degli oceani e dove non è esistita la calotta glaciale (inlandsis) nelle medie latitudini (la sua esistenza nell'altopiano patagonico è stata messa in dubbio). È nota anche una foresta sempreverde di Nothofagus nella parte occidentale della Cordigliera di Patagonia in una regione senza estate.
a) La zona temperata sensu stricto
Se il clima si manifesta immediatamente nella copertura vegetale e nell'idrologia, non è lo stesso per quel che riguarda il rilievo. L'eredità dei climi molto variati, che durante il Quaternario hanno fatto alternare regime periglaciale e regime temperato caldo più o meno secco o umido, è infatti considerevole.
L'eredità dei periodi freddi si manifesta anche alla scala del km2 e di molte decine di m di dislivello verticale: 1) dallo sgombero di depressioni nelle rocce microgelive, ma di resistenza media in altri climi (calcare tenero della campagna pugliese); 2) dall'accumulo fluviale ripetuto, poi inciso in terrazzi durante gli interglaciali. Il rivolgimento è ancora più completo nelle grandi superfici che sono state occupate dal ghiaccio, sia nelle inlandsis che nelle montagne. D'altra parte le superfici di spianamento in rocce dure ancora conservate sono state realizzate in climi tropicali (Eocene) o subtropicali (Oligo-Pliocene). Questa ipotesi si basa sullo studio dei paleosuoli, delle paleofaune di insetti e sulle paleoflore. Queste ultime tuttavia forniscono solo suggerimenti e non dati imperativi: a) vegetali che possiedono la stessa anatomia hanno potuto adattarsi a climi diversi con trasformazioni fisiologiche; b) la palinologia mostra un gran numero di forme di pollini che non hanno i loro equivalenti attuali; c) abbiamo pochi dati sull'orizzonte inferiore delle foreste, che determina l'importanza del ruscellamento, per il periodo eogenico.
La vegetazione attuale si compone di foreste a foglie caduche il cui tipo più rappresentativo in Europa è una mescolanza di querce e di faggi di composizione assai monotona; anche questa è un'eredità dei periodi freddi che hanno cacciato dall'Europa le specie più sensibili al gelo. La caduta delle foglie è un adattamento a un periodo freddo più o meno intenso ma che, in ogni caso, non dura più di 5 mesi, mentre gli organi superficiali rimanenti entrano in letargo. All'inizio della primavera, la temperatura della superficie del suolo è sufficiente a permettere alle piante erbacee del sottobosco di utilizzare la luce che passa tra i rami ancora privi di foglie per un periodo di intensa fotosintesi. In estate, le riserve di umidità del suolo assicurano agli alberi un notevole numero di ore durante le quali gli stomi sono aperti anche quando, come è il caso del centro del bacino di Parigi, le precipitazioni sono inferiori all'evapotraspirazione potenziale per 3 o 4 mesi.
Il sistema morfogenetico riunisce processi che dominano in maniera quasi esclusiva nelle altre zone climatiche, ciò che legittima l'attributo di ‛normale' che gli è spesso dato. Dovunque i suoli di alterazione sono sufficientemente sottili, la crioclastia intacca le rocce gelive. E lo stesso per l'attacco chimico che ha il suo massimo di efficacia nell'orizzonte superiore, dove le temperature estive sono relativamente elevate. Ma questa aggressione è limitata, produce una debole quantità di argille, rispetta i cristalli di feldspato e di biotite, come pure numerosi frammenti della dimensione di un pugno. Una parte di questi frammenti rocciosi spigolosi può risultare dalla crioclastia dell'ultimo periodo freddo (-14.000 anni) e la loro presenza significa che non sono stati decomposti dai processi ‛attuali', che dominano da circa 10.000 anni.
Tuttavia a giudicare dal tenore delle acque di sorgente e dalle esperienze condotte a Versailles, che hanno mostrato l'assottigliamento, notevole in 30 anni, di frammenti di granito esposti alle intemperie in una parcella lisimetrica, uno strato di 1 m di granito potrebbe essere ridotto in sabbia in 50-60.000 anni.
Gli agenti di trasporto sui versanti sono diversi ma poco efficaci. La copertura erbacea e la lettiera spessa (mancanza di calore per decomporla) riducono il ruscellamento a un breve periodo di attività (1 o 2 settimane quando il suolo è ancora gelato all'inizio della primavera). La frazione fine nei suoli di alterazione è insufficiente per far sì che il soliflusso e la reptazione abbiano un effetto sensibile. Si interpreta tuttavia la curvatura dei tronchi come dovuta alla migrazione d'insieme delle particelle (benché il fatto sia localizzato e le interpretazioni talvolta discusse). Quanto alla demolizione dei filoni di quarzo, si può ritenere sia un'eredità del soliflusso periglaciale.
L'erosione lineare fluviale è relativamente più attiva e questo si spiega con l'abbondanza di frammenti rocciosi che raggiungono il corso d'acqua ogni volta che non si interpone un terrazzo dovuto alla fluttuazione climatica quaternaria. Per questo motivo, il profilo longitudinale è poco sensibile alla differenza di resistenza meccanica delle rocce, salvo nelle regioni di alta montagna dove il ciclo d'erosione è in uno stadio giovanile. Certi autori come Büdel pensano che l'incisione lineare sia un fenomeno in parte ereditato dai periodi in cui i fiumi gelavano disgregando la roccia in posto.
Tranne che nei rilievi molto pronunciati, il profilo d'insieme convesso-concavo a debole curvatura si applica alle strutture più diverse, anche a quelle sedimentarie dove si alternano strati duri e strati teneri. I depositi grossolani che provengono dallo strato duro superiore di una cuesta si mescolano per soliflusso alle colluvioni argillose dello strato tenero sottogiacente per attenuare la curvatura. Solo un travaso dovuto alla presenza di una sorgente è in grado di far affiorare la roccia nuda.
Tuttavia questi ciottoli, che regolano il profilo di equilibrio, non sono portati via dai normali aumenti di portata che si verificano in inverno quando l'evaporazione è minima e all'inizio della primavera quando interviene la fusione della neve, ma solo in occasione di piene decennali o secolari.
In questo sistema morfogenetico, l'evoluzione dei profili a debole curvatura concava nel corso del ciclo di erosione davisiano porta alla formazione di un penepiano. Il tempo necessario deve essere più lungo di quello occorrente per gli spianamenti della zona tropicale, a causa della lentezza dei fenomeni.
b) La zona temperata calda
La stagione più lunga è quella calda; si devono comunque distinguere due tipi di foreste molto diverse.
1. La foresta mediterranea. - I contrasti stagionali si esprimono con altrettanta intensità nel regime delle precipitazioni e in quello delle temperature, sommando i loro effetti. All'estate calda e secca si oppone l'inverno breve che conosce soltanto gelo moderato, ma con abbondanti precipitazioni. Le stagioni attive, tanto dal punto di vista biologico che da quello dell'erosione, sono le intermedie.
La foresta mediterranea, sempreverde ma xeromorfa, deve far fronte per una gran parte dell'anno a condizioni mediocri di umidità. Nell'inverno la foresta mostra una certa resistenza al gelo, che però paga con un rallentamento dell'assimilazione clorofilliana. Nell'estate la foresta riduce la sua traspirazione con la frequente chiusura degli stomi e grazie all'ispessimento delle cuticole. In totale la crescita del leccio e della quercia da sughero è mediocre in rapporto a quella delle querce a foglie caduche, che compensano con la loro attività estiva la sospensione dell'assimilazione durante l'inverno.
Questa foresta affonda direttamente le sue radici nella roccia poiché i suoli sono sottili, specialmente nei calcari e sugli scisti. Al contrario le sabbie granitiche appartengono allo stesso tipo di quelle della zona temperata, ma sono più profonde, perché le temperature medie annue che regolano l'avanzata del fronte di alterazione sono più elevate.
Reptazione, soliflusso e movimenti franosi interessano le rocce argillose. Esse, infatti, soprattutto quando si tratta di montmorillonite, si screpolano profondamente durante l'estate, in modo da permettere alle piogge violente di autunno di impregnare d'acqua la roccia su un grande spessore, facendogli superare il limite di resistenza; questi fenomeni si producono anche in aree forestali, per es. nei sughereti della Crumiria. L'erosione più intensa nelle rocce tenere tende ad accentuare la concavità e ad accrescere la pendenza al punto che la roccia dura emerge dalla foresta e affiora formando una cornice. Quest'ultima, soprattutto se è calcarea, è particolarmente resistente; infatti, a causa della concentrazione delle piogge in un periodo molto breve, il tempo di contatto tra l'acqua e la roccia è troppo breve perché l'attacco chimico vi sia sensibile. Da ciò la purezza delle forme di erosione differenziale, anche per volumi di rilievo modesto di 100 m di dislivello. D'altra parte la foresta è fragile: basta una breve crisi climatica di freddo o di aridità per rovinarla, consegnando al ruscellamento i sottili suoli ricoprenti le rocce dure, come pure le rocce tenere, che sono nello stesso tempo attaccate dal soliflusso accelerato.
L'erosione fluviale è potente perché discontinua. Le piene d'autunno compiono infatti in pochi giorni una frazione importante dell'annuale attività erosiva. Esse trasportano una grande quantità di ciottoli: si noterà tuttavia che molti graniti si decompongono in sabbia prima di raggiungere il letto. La loro erosione verticale e laterale è potente, e modella larghe docce alluvionali dove un rivolo d'acqua langue in estate.
Tanto in Eurasia che in Nordamerica, la foresta a foglie caduche lascia il posto alla prateria verso l'interno del continente, quando gli inverni divengono rigidi e secchi e il totale annuo delle precipitazioni si abbassa sensibilmente nonostante si abbiano delle piogge all'inizo dell'estate.
In queste condizioni l'alimentazione in acqua degli strati profondi è insufficiente a nutrire le radici di una vegetazione forestale. Infatti non c'è infiltrazione invernale come nei climi oceanici e anche quando il sottile strato di neve fonde in primavera, l'acqua scorre sul suolo gelato a beneficio del deflusso fluviale. Nel complesso la stagione vegetativa sufficientemente calda e sufficientemente umida è troppo corta per permettere lo sviluppo di tronchi di grande dimensioni. Al contrario, la parte umida superiore del suolo all'inizio dell'estate è assai favorevole per la breve esplosione di vita di un denso tappeto di Graminacee.
Tuttavia non è il caso di negare l'esistenza di praterie secondarie estese nel Nordamerica e in Russia.
D'altra parte esiste un mosaico prateria-foresta rada di querce, in funzione della granulometria. Nei lass l'acqua penetra meno profondamente che nei suoli pietrosi e ciò avvantaggia la prateria, la cui densa rete di radici assorbe tutta l'umidità disponibile. D'altronde la prateria naturale era sparsa di piccoli boschetti che arrestavano la neve cacciata dal vento dagli spazi nudi intermedi, e quindi ricevevano più umidità.
Il substrato naturale della prateria è il černozëm. Questo suolo nero è ricco di humus (fino al 10%), che proviene dalla decomposizione delle radici ed è rimescolato dai lombrichi fino a grande profondità. Al di sotto si trova un orizzonte illuviale calcareo, rappresentante il limite della percolazione alla fine della primavera. Questa è tuttavia sufficiente per trasportare fino al livello di base generale i sali più solubili, cloruri e solfati (a differenza di quanto accade nella steppa semiarida), ma non la silice che prende parte alla costituzione delle montmorilloniti del complesso argillo-umico. La flocculazione di quest'ultimo è assicurata dal Ca2+ che rimane nel complesso adsorbente. L'humus degli aggregati risulta da sintesi molto spinte, da cui deriva la sua ricchezza in azoto; l'argilla lo protegge contro l'attacco batterico che si esercita tuttavia per un breve periodo. Le praterie dell'emisfero sud sono in contatto solo con foreste sempreverdi di tipo temperato caldo (Australia, Transvaal, Uruguay). I geli sono molto moderati o insignificanti e quindi non impediscono l'infiltrazione delle forti precipitazioni che avvengono d'inverno. L'origine della pampa pone un problema particolarmente imbarazzante, perché, pur ricevendo da 700 mm a 1 m d'acqua, sembra si tratti di una prateria originaria, e d'altra parte il drenaggio non arriva a organizzarsi contro una neotettonica veramente assai attiva. Ciò significa che l'evapotraspirazione assorbe tutta l'acqua caduta a causa della debolezza delle pendenze e della granulometria fine (ceneri vulcaniche trasportate dal vento). Non si vede quindi perché la foresta non dovrebbe trovarvi posto. Per Tricart si tratterebbe di un relitto dell'ultima epoca fredda che era anche abbastanza secca da impedire la vegetazione forestale. Il ‛relitto' però è di ragguardevole dimensione e d'altra parte non sembra che negli interglaciali più umidi, la regione abbia conosciuto altra vegetazione che la prateria.
Le ‛forme ereditate' occupano una superficie considerevole. Nel settore del continente antico si sono formate estese superfici di spianamento in rocce dure in climi affini a quelli tropicali, forse fino alla fine del Pliocene (superfici a Inselberge della penisola iberica). Nel corso del Quaternario si sono alternati, con fasi climatiche simili all'attuale: a) climi più umidi (come testimonia l'abbondanza della caolinite nei paleosuoli del Quaternario medio); b) climi più secchi; c) climi molto più freddi, ma sulla cui rigidità si discute, poiché, durante l'epoca del Neo-Würm, la tundra arrivò fin sulle rive del Nordafrica. I pendii d'erosione in rocce tenere, che hanno uno sviluppo considerevole in questa zona, sono stati realizzati in climi non forestali, sia freddi e secchi (specialmente nei margini settentrionali del dominio), sia secchi e caldi (nei margini meridionali), che hanno provocato il deposito di incrostazioni calcaree. Queste ipotesi implicano una certa scelta tra le tesi che si affrontano in una letteratura specializzata già considerevole.
I grandi scoscendimenti calcarei presentano due aspetti opposti. Da una parte si tratta di cornici non boscate, che si decompongono in cengie strutturali; dall'altra di piani regolari inclinati di 35° che tagliano gli strati come ‛carta vetrata': questi versanti di Richter si sono formati probabilmente in climi freddi, dove dominava la crioclastia e dove la foresta non occupava i versanti ripidi. Dovunque queste smussature sono state distrutte, le forme strutturali sono ben evidenti con cornici dominanti concavità a forte curvatura in terreno tenero. Anche nelle rocce cristalline i contrasti litologici sono messi in evidenza come nelle regioni semiaride. La foresta è scomparsa certamente per l'eredità delle trasgressioni dell'aridità verso il nord, ma anche in conseguenza di brevi crisi climatiche.
2. La foresta di tipo ‛cinese'. - Nei climi di tipo ‛cinese' si alternano una lunga stagione calda e umida, vera trasgressione tropicale, e un inverno nel quale il gelo è un po' più rigido che nella foresta mediterranea e dove le temperature sono sufficientemente basse per cui la scarsità delle precipitazioni non è in se stessa una causa di paralisi.
Nei paesaggi è la stagione calda che lascia soprattutto la sua impronta. In primo luogo nella foresta di alberi sempreverdi a latifoglie ai quali si mescolano alberi a foglie caduche le cui affinità genetiche sono di tipo boreale, ma la cui crescita è molto rapida; gli alberi sempreverdi devono naturalmente sopravvivere nell'inverno a prezzo del rallentamento dell'assimilazione clorofilliana. Queste foreste rassomigliano a quelle della zona tropicale umida anche nelle modalità di alterazione delle rocce, che portano alla formazione di suoli di alterazione di granulometria fine, dove domina il caolino. Tuttavia il fronte di alterazione si propaga meno velocemente che nella zona intertropicale, perché la temperatura media, annua è più bassa. D'altra parte le temperature estive elevate spiegano come il massimo di argillificazione si ponga in un orizzonte relativamente superficiale. I corsi d'acqua sono però più provvisti di ciottoli a causa del gelo invernale e la loro capacità erosiva è considerevole all'epoca delle grandi piene autunnali causate dai tifoni. Le forme più evidenti risultano ovviamente come sempre da una successione di climi nei quali, nel corso del Quaternario, sono intervenute fasi più fredde. Questo però non ha modificato il senso generale dell'evoluzione, come testimoniano gli spianamenti a Inselberge della zona pedemontana a mezzogiorno degli Appalachi e il carso a torrette (v. sopra, cap. 5, § e) nella Cina meridionale fino allo Yangtze-Kiang.
c) La foresta di Conifere della zona fredda
Nella zona fredda l'estate è breve (da 1 a 3 mesi con temperatura >10 °C), l'inverno lungo e rigido, e questa dissimmetria ha conseguenze importanti. Nel settore continentale il suolo non disgela in profondità perché le frigorie accumulate durante l'inverno prevalgono sulle calorie estive. Questo fenomeno si verifica là dove la media annua è 〈0 °C, a meno che la copertura di neve sia molto spessa. Vi si aggiunge l'eredità di un permafrost risalente all'ultimo Quaternario. Il disgelo superficiale raggiunge una profondità tanto minore quanto più breve è l'estate.
D'altra parte la foresta è composta da un piccolissimo numero di specie di Conifere che hanno potuto adattarsi a un lungo periodo di gelo (tra i 240 e i 260 giorni) con temperature che si abbassano frequentemente al di sotto dei −40 °C. Malgrado la forte escursione termica annua, la massa vegetale conserva le sue foglie ad ago durante l'inverno (tranne il caso dei lanci). Nondimeno questa impassibilità nasconde un ritmo fisiologico stagionale contrastato come quello della foresta a foglie caduche. Dopo un lunghissimo sonno invernale (nel corso del quale i tessuti si disidratano al massimo possibile per evitare la formazione dei cristalli di ghiaccio) l'assimilazione clorofilliana riprende non appena la temperatura supera 0 °C, e la crescita dei germogli primaverili non appena si raggiungono gli 8-10 °C.
Le piante si organizzano principalmente in funzione dell'umidità del suolo; l'abete rosso occupa i siti meglio drenati e attecchisce superficialmente nell'orizzonte A0, per sfuggire all'asfissia. Il suolo è frequentemente intasato a causa di un bilancio idrico sempre positivo e della prossimità del permafrost. Il pino cembro a questo riguardo è più resistente. Tuttavia su vaste superfici dominano le torbiere che erodono la foresta; esse occupano non solo le depressioni, ma anche i versanti. L'acqua imbeve in permanenza il suolo minerale e invade un orizzonte organico di torba proveniente dalla decomposizione dei muschi, che appartengono al genere Sphagnum; i tessuti viventi trattengono per attrazione superficiale una quantità d'acqua pari anche ad una decina di volte il loro peso secco. I pini invece lottano con maggior successo contro l'asfissia.
Il sistema morfogenetico dipende in larga misura dal gelo. Dovunque l'orizzonte disgelato è sufficientemente spesso, la disgregazione delle rocce proviene dalla crioclastia. L'azione degli acidi organici è più importante che nelle altre zone a causa della scarsa attività dei batteri che li degradano con temperature superiori a 5 °C. Ovunque però esiste un suolo mobile, gli acidi si limitano a decomporre i silicati dell'orizzonte A2 e a spostare il ferro e l'alluminio un po' più in basso nell'orizzonte B (podsolizzazione), dove la maggior parte precipita. L'interesse dei pedologi raramente si è portato sull'orizzonte C. È solo là dove l'humus grezzo o la torba poggiano direttamente sulle rocce che vi è possibilità di attacco chimico.
Il trasporto dei detriti sui versanti a pendenza moderata è effettuato da pipkrake, frost creep e geliflusso, strettamente associati. Questi due ultimi processi però presuppongono un'abbondante matrice fine che possono fornire solo rocce argillose o microgelive (craie, scisti). D'altra parte gli spostamenti sono rallentati dalle radici della vegetazione forestale.
Sui versanti montagnosi, le frane possono scivolare; d'altra parte, rotolando rapidamente sui pendii ripidi le masse di neve, il cui insieme forma le slush avalanches (valanghe di fango), trasformano la loro energia cinetica in attrito: esse pertanto trascinano ciottoli, livellano la vegetazione anche forestale, erodono la roccia in posto. Talvolta questa azione è approssimativamente lineare, concentrata in corridoi alimentati da bacini di raccolta, e d'estate è sostituita dall'azione dei torrenti alimentati dalle placche di neve che completano la fusione; i detriti sono ammucchiati alla rinfusa in coni di accumulo, poi smistati meglio nella fase seguente. In altri casi lo scorrimento interessa una superficie assai vasta del versante.
La vita dei corsi d'acqua obbedisce a un ritmo termico: lunghe stagioni di gelo, poi lo scioglimento dei ghiacci e la piena annuale che si ingrossa per la fusione delle nevi fino all'inizio dell'estate. L'azione meccanica è importante e, per i grandi corsi d'acqua, si esprime soprattutto in erosione laterale. Infatti nella parte superiore della falda acquifera si fa sentire, in primavera e in autunno, la crioclastia, e si esercita l'attrito delle acque e dei ghiacci. Quando le rive sono formate da sedimenti poco consolidati, vengono erose in falesie fluviali che crollano al momento del disgelo portando via pezzi di foresta (corso medio della Lena). Tuttavia quando i corsi d'acqua sono poco profondi (da 2 a 3 metri), gelano fino al fondo con scavo lineare per crioclastia.
A causa del ruolo limitato del ruscellamento, del trasporto in soluzione e anche per la scarsità della frazione fine nelle rocce di durezza media, l'evoluzione dei versanti convesso-concavi deve avvenire ancora nel senso della peneplanazione.
Le forme ereditate dalle fasi periglaciali (pianure di accumulo) o glaciali hanno una propria autonomia per cui saranno studiate nel capitolo dedicato alla zona fredda non forestale.
Limite settentrionale della foresta di Conifere. - Il contatto tra la foresta e la tundra avviene lungo una fascia di transizione più o meno larga, perché la taiga penetra nelle valli mentre gli interfluvi sono occupati dalla tundra. La correlazione con le carte climatiche mostra una coincidenza approssimativa con l'isoterma di 10 °C per il mese di luglio, qualunque sia l'albero dominante ai margini.
La radiazione deve raggiungere un certo valore durante un lasso di tempo tale da assicurare il disgelo di uno strato di suolo sufficientemente spesso così da poter essere occupato dalle radici di un albero. La temperatura di questo strato deve superare sensibilmente 0 °C perché le radici assorbano l'acqua sintetizzando gli amminoacidi. La vicinanza di corsi d'acqua che vengono da sud costituisce un vantaggio poiché il suolo si disgela più presto.
Più a nord il periodo vegetativo è troppo breve e può svilupparsi solo una vegetazione nana, come la tundra.
Sul fianco delle montagne della zona temperata si ritrova un piano forestale di Conifere analogo a quello della taiga.
Il suo limite superiore corrisponde anche qui all'insufficiente calore dell'estate. Il clima del suolo però è in alta montagna più favorevole di quello dell'aria. Infatti il permafrost è raro sia per il notevole spessore della copertura nevosa, sia perché i raggi solari sono vicini alla verticale e perché la densità dell'aria è minore. Questo vantaggio spiega anche come la foresta ceda il posto a una vegetazione erbacea molto più densa di quella della tundra: gli alti pascoli montani.
11. Il dominio freddo extraforestale
a) Il dominio periglaciale della tundra
È un dominio nel quale la neve non giunge ad accumularsi, poiché le precipitazioni sono insufficienti a superare la fusione. Il ghiaccio penetra nella roccia o nei relativi suoli di alterazione, sempre gelati a partire da una profondità variante tra i 10 cm e i 2-3 m. Lo spessore e la durata del mantello nevoso, in funzione dell'esposizione al vento, sono i fattori essenziali della diversità del mosaico dei vegetali. L'associazione più densa è costituita da salici nani che senza danno possono essere ricoperti per lungo tempo dalla neve che li protegge contro i freddi dell'inverno e al tempo stesso costituisce fonte di umidità durante l'estate. L'assimilazione clorofilliana tuttavia non dura che per 2 mesi e se la durata dell'innevamento è troppo grande i licheni stessi non possono assimilare a sufficienza.
Gli organi fogliari dei cespugli legnosi, come Loiseleuria, sopportano invece −30 °C. L'altro motivo della discontinuità della copertura vegetale è il carattere scheletrico del suolo abbandonato dai ghiacciai. Su vaste superfici rocciose le piante vascolari non possono attecchire. Ai licheni, che rappresentano la prima forma di vegetazione, succedono i muschi capaci di generare un embrione di suolo.
I rilievi di erosione. - La disgregazione della roccia è quindi opera della crioclastia. Soltanto per le rocce calcaree essa si associa alla dissoluzione chimica, favorita dal fatto che le acque fredde possiedono molta anidride carbonica. A parità di condizioni per ciò che riguarda la natura della roccia, la macrogelivazione è favorita dalle bassissime temperature dei climi continentali siberiani, mentre la microgelivazione è favorita dai geli moderati ma frequenti di tipo islandese.
La base dei versanti ripidi è orlata da coni di terreno franato, dovuti alla macrogelivazione, che, dopo la loro messa in posto, si assestano lentamente per creeping se detriti fini di microgelivazione si mescolano ai blocchi in quantità sufficiente.
Su tutte le pendenze inferiori a 35°, il soliflusso lungi da essere impedito dalla magra vegetazione, alla quale anzi impone la sua legge, è un agente efficace. Infatti l'acqua di fusione primaverile è bloccata dalla presenza del permafrost, con il conseguente superamento del limite di liquidità dei suoli di alterazione. Le misure effettuate sul terreno mostrano che la reptazione è intimamente legata al soliflusso, perché i primi centimetri superficiali si spostano più velocemente. Una condizione indispensabile è che la quantità di detriti inferiori a 50 μ sia sufficientemente abbondante, cosa che la crioclastia non ottiene che per rocce molto microgelive. Infatti in molti casi l'erosione non è che una denudazione che si limita a spogliare il rilievo preglaciale delle morene che lo ricoprono dando luogo a soliflussi.
La neve, sebbene non giunga a trasformarsi in ghiaccio, ha un ruolo molto importante. La crioclastia infatti è massima in vicinanza delle sacche di neve e scava nicchie nella roccia; i frammenti scivolano sulla neve mentre, più a valle, le acque di fusione trasportano i detriti più fini per ruscellamento e soliflusso.
Tutti questi meccanismi tendono a diversificare il rilievo. Si resta dunque sorpresi nel constatare che in queste stesse regioni gli scoscendimenti si trasformano spesso in versanti di Richter, superfici di erosione nella parte superiore e di accumulo di detriti nella parte inferiore, disposti secondo un piano inclinato senza incisioni di alvei secondari. Non si comprende ancora come si passi da un sistema di cornici e di ripiani incisi da canaloni a un rilievo in cui le valli di primo ordine si smorzano.
Più ancora che nella foresta boreale, il modellamento dei letti fluviali è opera delle alternanze del gelo e del disgelo, soprattutto in primavera quando le prime acque di fusione occupano le fessure dovute alla contrazione. Per i bacini idrografici a permafrost spesso, quindi senza falda freatica, il deflusso è limitato al periodo estivo; benché in queste regioni con precipitazioni ridotte il suo valore specifico sia debole, la capacità di trasporto è tuttavia notevole.
Nei solchi vallivi elementari non c'è mai deflusso liquido. L'apporto di acqua laterale basta soltanto a conservare una crioclastia e un soliflusso più attivi che nei versanti, a condizione che la proporzione di detriti fini sia sufficiente.
Salvo nei casi in cui la crioclastia è limitata alla zona bassa dei versanti, perché l'acqua vi è più abbondante, l'evoluzione generale è del tipo della peneplanazione: questa non è che un'ipotesi perché, salvo in Alaska, il regime periglaciale è stato interrotto frequentemente dall'invasione dei ghiacci.
Pianure di accumulo. - Le pianure di accumulo (attivo o morto) sono crivellate di laghi e suddivise in poligoni da fessure e da cuscinetti marginali. Le alluvioni sono imbevute di acqua gelata, che non fonde più stagionalmente dal momento che è protetta da un nuovo strato di alluvioni più recenti, soprattutto quando queste sono poi ricoperte dalla torba. Piccole lenti orizzontali derivano da una segregazione (la migrazione dell'acqua verso un fronte freddo stabilizzato a una certa profondità arricchisce i cristalli) oppure dalla fossilizzazione di antichi laghi gelati. Frammenti verticali di ghiaccio si formano nelle fessure dei suoli poligonali. Durante l'inverno l'insieme di ghiaccio e di alluvioni si contrae a causa della diminuzione della temperatura. L'acqua che si accumula durante l'estate gela in autunno ingrandendo le fessure e così di seguito. La datazione col 14C ha mostrato che certi lembi di ghiaccio erano vecchi di 8.000 anni. Infine il ghiaccio di iniezione consiste in veri ascessi che provengono dall'acqua sotterranea profonda, non gelata, a causa del suo alto tenore in sali disciolti. L'afflusso di ghiaccio solleva le alluvioni in collinette che raggiungono i 100 m di altezza (pingo). La fusione di questo ghiaccio del suolo forma depressioni chiuse analoghe a quelle del carso (termocarso). Gli autori (principalmente sovietici e americani) prospettano qui due tipi di meccanismi.
L'uno segue un andamento ciclico nel quadro del clima attuale. Nelle depressioni nelle quali l'acqua tende ad accumularsi durante l'estate, il ghiaccio intergranulare fonde fino a una maggiore profondità, poiché l'acqua fa da serbatoio di calore. Per autocatalisi appare un vero lago, assai profondo purché i terreni sottostanti non siano più gelati. Inoltre il vento lo ingrandisce seguendo particolari direzioni. Tuttavia, tende a operarsi una certa gerarchizzazione del drenaggio, nel senso che i laghi più elevati si vuotano nei laghi inferiori oppure le loro acque si infiltrano nelle alluvioni sabbiose disgelate. Il fondo prosciugato è allora esposto al gelo che vi crea suoli poligonali con i loro dislivelli e i loro lembi di ghiaccio, e così di seguito.
L'altro meccanismo considerato fa intervenire una perturbazione bioclimatica e considera i laghi come forme di squilibrio. Questa perturbazione può essere sia il riscaldamento dell'Artico, sia, al contrario, una distruzione della foresta situata sulle alluvioni cementate di ghiaccio, che, di conseguenza, vengono direttamente esposte all'insolazione.
b) Accumulo di ghiaccio e forme glaciali
Nelle regioni polari, dove le precipitazioni sono sufficientemente abbondanti, l'accumulo di neve trasformata in ghiaccio sotto l'effetto del proprio peso forma delle calotte autonome che, nel caso della Groenlandia, raggiungono i 3.200 m, e nel caso dell'Antartide i 4.000 m stendendosi su 13 milioni di km2. Soltanto a partire dagli anni cinquanta si è cominciato a studiarli in profondità. La prospezione geofisica mostra un substrato roccioso molto ineguale piegato secondo una curvatura concava verso l'alto per effetto del peso del ghiaccio. La superficie dell'inlandsis, il cui profilo è parabolico, è influenzata in misura assai esigua dai rilievi sottostanti. La sua pendenza risulta da un equilibrio tra il deflusso centrifugo (secondo leggi che si cerca di formulare), e l'apporto di neve. Verso la periferia la velocità si accresce, soprattutto là dove si forma una concentrazione in fiumi di ghiaccio; la durata del percorso dal centro della Groenlandia fino all'Oceano, dove si staccano gli icebergs, viene valutata a oltre un migliaio d'anni. Le datazioni col 14C, realizzate nelle perforazioni della calotta fredda di Thule, hanno mostrato che il ghiaccio basale ha dovuto mettersi in posto circa 100.000 anni fa. L'inlandsis dell'Antartide risale a circa 5 milioni di anni almeno.
Al di fuori delle zone polari la neve si trasforma più rapidamente in ghiaccio (un anno nelle Alpi) principalmente per fusione estiva e conseguente gelo dell'acqua infiltrata. L'accumulo prevale sulla fusione solo nelle regioni montuose (dall'Alaska all'Himālaya). Ad eccezione di alcune piccole calotte sommitali, il ghiaccio si accumula nelle valli adattando il suo spessore alle irregolarità del rilievo preglaciale. La sezione del letto è circa 100.000 volte più grande di quella del letto fluviale, poiché la velocità è dell'ordine di grandezza di 100 m all'anno contro i 50 cm al secondo. Da ciò la formazione di diffluenze.
Soltanto nel corso degli ultimi venti anni le perforazioni hanno permesso di raccogliere alcuni dati sulla velocità dello scorrimento di alcuni ghiacciai per tutto lo spessore, sullo stato del ghiaccio e sul trasporto solido di fondo (per es. osservazione diretta della parte inferiore del Blue Glacier nello Stato di Washington). Sfortunatamente ci troviamo attualmente in un periodo di ritiro; sarebbe pertanto imprudente trarre conclusioni sulla scarsa efficacia dell'erosione glaciale, che ha dovuto essere molto più attiva durante i periodi di avanzata.
D'altra parte si sono applicati i progressi della reologia, acquisiti soprattutto nello studio dei metalli, alla formulazione di una fisica dello scorrimento glaciale, sia a partire dall'esame del profilo verticale delle velocità sia da esperienze di laboratorio. Queste ultime hanno fornito la legge di velocità di deformazione del ghiaccio γ, in funzione della forza di cesellamento T:γ=B•T3,17 (B è una costante dipendente dalla viscosità).
Si è così messo in evidenza che il movimento di quasi tutti i ghiacciai comporta da una parte una deformazione assai simile a quella di un corpo viscoso-plastico, e dall'altra uno scivolamento in massa (da 40 m a 1.000 m l'anno) molto più rapido. Lo scivolamento è relativamente facile quando la base del ghiacciaio si trova a una temperatura vicina a quella del punto di fusione, come si verifica in un gran numero di ghiacciai, non solo nella zona temperata, ma anche nella zona artica: infatti, se lo strato isolante è sufficientemente spesso, esso impedisce alle frigorie superficiali di penetrare, mentre la base riceve il flusso di calore terrestre e il calore prodotto dall'attrito sul fondo del letto. Le variazioni di pressione a monte e a valle delle protuberanze abbassano o elevano il punto di fusione, e ciò è servito di base per una teoria dello scivolamento, prospettata fin dal 1850 e precisata un secolo più tardi da Weertman. A monte la pressione è più forte e pertanto provoca la fusione del ghiaccio. Il peso spinge l'acqua a valle della protuberanza dove la pressione è più debole, e ne deriva un abbassamento della temperatura di fusione che congela la sacca d'acqua; questa è saldata al ghiacciaio in movimento. Se l'acqua è più abbondante, forma un cuscino sotto il ghiacciaio che scivola in blocco (L. Lliboutry).
I rilievi subglaciali di erosione. - Su vaste superfici il rilievo delle montagne della zona temperata e della zona fredda, a ogni altitudine, è direttamente ereditato da un mantello glaciale che raggiungeva la dimensione delle inlandsis nell'America settentrionale e in Europa, e di tipo alaskano nelle montagne più meridionali come le Alpi.
Questi rilievi sono caratterizzati dall'esistenza di potenti contropendenze, principalmente nelle valli a doccia glaciale e nei fiordi (soglie e ombelichi), e dalla disordinata gerarchizzazione delle groppe negli altipiani e nelle medie montagne.
Nella spiegazione di queste forme si incontrano difficoltà particolarmente grandi, perché i processi sfuggono all'osservazione diretta ancor più dell'erosione fluviale. Le teorie dell'erosione glaciale sono state principalmente dedotte dall'esame delle forme stesse, utilizzando leggi molto semplicistiche, acquisite in laboratorio, sulla fisica del ghiaccio, e dati molto scarsi sullo scorrimento glaciale superficiale. Tuttavia le soluzioni possibili si sono delineate dall'inizio del secolo a partire dall'idea che ‛il ghiaccio conserva i rilievi', fino alla posizione della Scuola di Grenoble, secondo la quale esso costituisce uno strumento talmente potente da modificare interamente i rilievi precedenti con un'intensità il cui solo fattore è la portata. In una posizione intermedia si pone il principio enunciato da E. de Martonne: il ghiaccio esalta i contrasti del rilievo preglaciale, perché l'erosione dipende dallo spessore più che dalla velocità.
Si distingue comunemente tra l'erosione meccanica operata dai frammenti rocciosi trasportati alla base del ghiaccio e che scalfiscono e levigano il substrato, e lo sradicamento di blocchi (quarrying). Quest'ultimo fenomeno, nel caso di un frammento di roccia sana e non fessurata, pone un problema delicato. Infatti è impossibile attribuirlo al semplice trasporto da parte del ghiaccio che non può trasmettere nessuna pressione che superi i 2 kg/cm2. D'altronde è ragionevole pensare a una crioclastia subglaciale in tutti i casi in cui la temperatura è vicina a 0 °C e dove il ghiaccio scivola secondo il processo studiato da Weertman, effettivamente osservato all'estremità di una galleria. In queste condizioni di temperatura però le pressioni sviluppate dal gelo sono insufficienti a rompere le rocce, dure come il granito. È dunque probabile che l'essenza del quarrying risulti dalla incorporazione in seno al ghiacciaio di elementi rocciosi già individualizzati da fessure generatesi secondo tre meccanismi principali.
1. Per crioclastia proglaciale a bassissime temperature. Se il ghiacciaio in seguito avanza, esso incorpora il materiale, già disgregato, compresi enormi blocchi che è capace di trasportare. Poiché le fluttuazioni dei ghiacciai sono molteplici, anche nel quadro dell'esperienza storica, si può ritenere che esse siano assai numerose così da permettere lo scavo progressivo delle docce glaciali per tagli successivi.
2. La maggior parte delle grandi docce sono localizzate in fasce anastomizzate di forte fessurazione, come suggerisce il loro disegno, per esempio nei flordi della Scandinavia e della Columbia Britannica. Esse hanno già guidato le valli preglaciali, ma il ghiacciaio può sgombrarle in maniera molto più completa, a causa della sua forte portata e della larghezza del suo letto.
3. Alle diaclasi strutturali si aggiungono diaclasi di decompressione, che risultano dai progressi dell'erosione stessa (J. Lewis) e che sono più profonde di quelle delle valli fluviali, perché il ghiaccio ha scavato più velocemente. Esse saranno sfruttate al momento della prossima avanzata glaciale.
Il ghiaccio è capace di risalire le contropendenze: a) perché al verificarsi dei movimenti di massa è capace di trasmettere delle spinte provenienti da monte; la spinta idrostatica dell'acqua subglaciale verso l'alto, che facilita questo movimento in blocco, è massima negli ombelichi più scavati, in particolare per quelli dei fiordi; b) perché, in regime di scorrimento plastico comprimente, delle linee di flusso si sollevano verso valle.
Infine i torrenti subglaciali circolando sotto pressione sono anch'essi capaci di scorrere in contropendenza. Inoltre a causa della viscosità dovuta alle basse temperature, essi trasportano a valle molte sabbie abrasive e la loro portata molto irregolare può raggiungere valori considerevoli.
In definitiva lo spessore del ghiacciaio sembra il parametro più importante che favorisce l'escavazione nelle valli profonde, conformemente all'intuizione fondamentale di de Martonne nel 1910 (che veramente pensava soprattutto all'abrasione).
Per quel che riguarda l'importanza relativa di quest'ultimo processo e della sua subordinazione all'influenza della velocità e della pendenza non si ha ancora un'identità di vedute tra gli studiosi.
Pianure e colline di accumulo di origine fluvio-glaciale. - La fusione del margine delle inlandsis e dei ghiacciai di montagna provoca l'accumulo dei detriti trasportati, perché le acque di fusione hanno una portata e una capacità di trasporti inferiore a quella del ghiaccio; infatti, benché le acque diano luogo spesso a una rete di canali anastomizzati (sandr), che copre una superficie assai estesa, quest'ultima è inferiore a quella del letto subglaciale. Il totale scioglimento del ghiacciaio lascia sul posto una gran parte dei detriti e pertanto la valle glaciale presenta numerose contropendenze.
All'estremità dei ghiacciai di montagna la costruzione più caratteristica è un anfiteatro, le cui pareti possono raggiungere parecchie centinaia di metri di altezza. Il fianco interno è ripido, perché corrisponde alla pendenza di equilibrio del materiale dopo la fusione del ghiaccio, mentre il versante esterno si raccorda con un profilo concavo a una pianura di pedemonte dove le alluvioni si sedimentano nel fondo del letto fluviale. L'imponenza di questo rilievo si spiega col fatto che il carico dei ghiacciai di montagna è abbondante, sia a causa dell'erosione subglaciale sia del materiale fornito dai versanti che emergono dai ghiacciai. Questa abbondanza è dovuta anche al fatto che il ghiaccio circola rapidamente in funzione della pendenza e dell'attività dell'ablazione che avviene al di sotto del limite delle nevi permanenti. Durante le fasi di ritiro la situazione è diversa; i ghiacciai stagnanti del pedemonte si nascondono a poco a poco sotto il materiale detritico in modo tale che la loro successiva fusione lascia una topografia caotica, dove le cavità corrispondono a resti di ghiaccio sfuggiti più a lungo all'ablazione.
Le più vaste pianure dell'emisfero nord sono dovute a un accumulo persistente. Su di esse si sovrappongono dal basso verso l'alto morene di inlandsis e depositi proglaciali fluviali o eolici (löss), talvolta depositi glaciali marini (Siberia occidentale). Le morene frontali non superano qualche decina di metri d'altezza a causa della scarsità del trasporto solido e della lentezza con la quale il ghiaccio defluisce. Esse volgono i loro fianchi ripidi verso valle quando ghiacci in trasgressione spingono davanti a loro scaglie di suolo gelato. Si è posta molta attenzione, specialmente in Polonia e in Germania, alla superficie interna crivellata di laghi dove si intersecano collinette e cordoni prodotti al momento della fusione rapida della calotta stagnante. Le alluvioni accumulate negli eskers, cordoni paralleli allo scorrimento glaciale, sono state deposte da torrenti fortemente carichi di detriti che circolano nelle fessure superficiali del ghiaccio o invece da torrenti subglaciali che scorrono sotto pressione?
Il rilievo della zona a monte del ghiacciaio. - A monte dei ghiacciai si alza un sistema di creste aguzze, costituite da rocce nude, la cui pendenza supera ovunque il valore limite di aderenza della neve (circa 55°). Al di sotto si installano ghiacciai di circo e di parete, questi ultimi scorrendo per crollo di blocchi. L'impronta del ghiacciaio di circo si nota dal modellamento di una parete subverticale periferica. G. Galibert e L. Lliboutry rifiutano di seguire gli autori che la attribuiscono alla crioclastia che agisce sul fondo del crepaccio terminale. Infatti le variazioni di temperatura osservate sono di 1 °C e lente, cioè insufficienti per rompere la roccia. L'erosione è allora attribuita al superamento dello spessore critico di ghiaccio che permette a questo di erodere.
Gli zigzag nel profilo delle creste dipendono d'altronde dalla densità delle diaclasi strutturali e anche dalle fessure sviluppate dallo squilibrio meccanico dei versanti: per esempio le fessure di trazione screpolano il bordo di rilievi, i cui versanti hanno tendenza a scivolare verso le valli vicine. Possono derivarne delle nicchie sommitali, anch'esse occupate dal ghiaccio. La crioclastia interviene solo nel dettaglio della scultura delle pareti nude, soprattutto nella loro parte inferiore dove le alternanze gelo-disgelo sono sufficientemente numerose. Al contrario i versanti molto alti, coperti da un perenne strato di ghiaccio, sfuggono praticamente all'azione meteorica e pertanto presentano una certa rigidità nelle pendenze.
Appartengono a un tipo molto differente alcuni ghiacciai di circo, che sono separati da superfici non ghiacciate perché il vento impedisce alla neve di accumularvisi. Questa situazione si realizza ai margini delle regioni glaciali a contatto con unità climatiche più calde (Norvegia attuale) o più secche, e in rilievi dalle pendenze modeste. La parete a monte del circo è allora erosa dalla crioclastia. Durante una gran parte dell'anno, la fusione diurna della neve si alterna col gelo notturno e il ruolo del ghiacciaio si limita a spingere i detriti verso l'esterno.
Le alte montagne della zona intertropicale. - Il limite delle nevi non subisce variazioni stagionali sensibili, poiché l'oscillazione termica annua è limitata. D'altra parte, là dove esiste un periodo umido ben marcato che si alterna con un periodo secco, il primo sopraggiunge in estate, quando cioè la fusione è più attiva. Infine questo livello di nevi eterne si trova spessissimo molto al di sopra del livello delle massime precipitazioni. Anche i ghiacciai e le morene sono di modeste dimensioni. La stessa cosa si verifica per quanto riguarda le forme subglaciali ereditate dai periodi freddi o umidi del Quaternario.
Il limite della foresta da nebbia è determinato dall'abbassamento delle temperature notturne che espone la vegetazione e il suolo superficiale al pericolo del gelo durante la maggior parte dall'anno. Si può supporre che le foglie in grado di resistere con l'indurimento fisiologico al gelo notturno sono allora incapaci di utilizzare la forte insolazione diurna che eleva la temperatura del suolo fino ai 30-40 °C. Questa ipotesi permette di capire la xeromorfia di numerosi vegetali montani adattati alla vita in un ambiente in cui le funzioni fisiologiche sono rallentate durante quasi tutto l'anno, benché la media annua sia di 10 °C: ma questa idea non è ancora verificata. Poco verosimile è l'ipotesi di H. Walter, secondo la quale le basse temperature del suolo costituiscono il fattore limitante.
Nelle montagne aride esiste un dominio ‛periglaciale' nel quale geli moderati rappresentano l'agente essenziale del modellamento. Durante la notte gli aghi di ghiaccio sollevano grani di minerali che ricadono più in basso al momento della fusione diurna (pipkrake). Negli scisti più gelivi il soliflusso è talmente intenso da impedire ogni vita vegetale (Cordillera Real in Bolivia, secondo Troll).
12. Prospettive di sviluppo della geografia fisica
Sarebbe dar prova di eccessivo pessimismo insistere sui modesti progressi compiuti dalla geografia fisica dagli inizi del nostro secolo ad oggi. Senza dubbio, in senso estensivo, la nostra conoscenza della Terra si è arricchita rapidamente, ma, come scriveva Goethe, sono i problemi importanti che restano non risolti (per es. l'origine delle superfici di spianamento, la reazione dei vegetali di fronte al freddo, ecc.).
La maggior parte delle ‛leggi' della geografia fisica hanno un'origine induttiva e poggiano su correlazioni tra i fenomeni globali. Esse troveranno la loro piena giustificazione solo quando poggeranno sull'analisi in profondità dei processi.
Come tutte le scienze naturali, la geografia fisica tende a diventare quantitativa. Questa ambizione non proviene da un complesso di inferiorità di fronte alle scienze cosiddette esatte, ma da una presa di coscienza del fatto che le relazioni di causalità non possono essere precisate senza una misura del valore relativo dei fattori in gioco. Anche nel caso in cui, da ultimo, la formula della legge scelta fra molte altre rimane qualitativa.
È ormai tempo di esaminare qui le prospettive dell'analisi spaziale e fattoriale, come strumento di descrizione e di spiegazione per tutti gli aspetti della geografia fisica, benché i suoi metodi siano di applicazione molto recente.
L'analisi spaziale e fattoriale, peraltro, considerata come strumento di descrizione, per esempio del rilievo, ci sembra che non dia risultati superiori all'esame della carta topografica, soprattutto quando la struttura è eterogenea; se ci si richiama alla carta dell'indice di rugosità di una bahada alluviale quaternaria, o di differenti colate di lava, si constata che la carta topografica esprime i contrasti in maniera più netta. Al contrario in un materiale approssimativamente omogeneo la definizione di un sistema di versanti e di solchi vallivi standard è una tappa indispensabile. Si giunge però molto più velocemente a questo risultato mediante la scelta di settori di carte tipiche sulle quali si effettuano poi operazioni morfometriche semplici. Nella ricerca delle cause essa rivela spesso notevoli incertezze che sottraggono tempo prezioso ai ricercatori e agli elaboratori elettronici. Per esempio lo studio statistico della ripartizione delle doline nella pianura Mitchell (S.U.A.) porta alla conclusione che essa non è conforme alla distribuzione di Poisson, e quindi deve dipendere da più di un fattore: cosa della quale a priori si poteva dubitare. Sulla natura di questi fattori, i tipi di distribuzione spesso non ci danno alcun ragguaglio.
Al contrario le operazioni di simulazione e le costruzioni di modelli costituiscono un metodo fruttuoso, analogo a quello della costruzione di un film di cartoni animati. Esse implicano però una conoscenza approfondita sia dei processi elementari sia del loro dosaggio, che deve entrare nel programma del calcolatore elettronico.
L'analisi fattoriale e spaziale pretende di affrontare la spiegazione di tutto un paesaggio, incontrando difficoltà ancora più grandi nel gerarchizzare i fattori. Ci riferiamo all'impresa ambiziosa e originale che è stata applicata a un settore del paesaggio litoraneo bretone dove naturalmente la perturbazione dovuta all'uomo è notevole (v. Massonie e altri, 1971). Le conclusioni del calcolo delle matrici, che ha permesso di definire 3 assi in funzione dei quali si dispongono caratteri e luoghi di osservazione, sono le seguenti: 1) le microcavità e le microgibbosità dei versanti non sono influenzate dagli altri fattori; 2) se si classificano le unità del paesaggio per grado di complessità, le falesie rocciose sono alla base della scala e le foreste al vertice; 3) il massimo di stabilità e di coerenza dei caratteri si trova nei versanti rocciosi o nelle foreste; il minimo, al contatto delle differenti unità e nel dominio influenzato dall'uomo (lande e praterie); 4) l'influenza limitante della pendenza, sui suoli in particolare, è massima sui versanti rocciosi; essa è ostacolata dall'ambiente forestale che permette lo sviluppo di suoli profondi. Il lettore giudicherà senza dubbio che queste ipotesi potevano risultare da una riflessione puramente qualitativa.
Data l'inadeguatezza delle nostre conoscenze per ciò che riguarda i processi elementari, sembra che i nostri sforzi debbano essere rivolti soprattutto in questo senso, sia attraverso la simulazione in laboratorio o nei fitotroni (per colmare le lacune della chimica, della fisica e della fisiologia fondamentali), sia attraverso misure sul terreno. Queste ultime però devono essere effettuate in luoghi diversi (di preferenza lungo i versanti montani seguendo la pendenza naturale dell'acqua) e protratte per alcune decine d'anni, data la discontinuità temporale dei processi geomorfologici e la variabilità dei fenomeni meteorologici; non rispettando queste condizioni, si può arrivare alla conclusione assurda che la superficie del pianeta sia fissa come quella della Luna, che la falesia non arretri, che le valli non si approfondiscano, che in una savana dell'Africa australe non ci sia oggi né peneplanazione, né pediplanazione, ecc.
Ricerche sistematiche di questo genere implicano spese considerevoli in numero di ore per ricercatore e in materiale, indispensabili per una migliore comprensione del nostro ambiente. Tuttavia, perché il peso di queste spese non divenga insopportabile, bisogna considerare accuratamente la redditività di ogni operazione e non scegliere una via a caso.
In questo stadio la determinazione dei coefficienti di correlazione semplice o multipla è un tentativo indispensabile, benché essa non riveli necessariamente la struttura e la gerarchia dei legami di causalità. È più logico dal punto di vista economico applicare questi metodi a un gran numero di dati naturali scelti preliminarmente.
Soltanto quando questa fase sarà superata si potrà pensare a un'analisi spaziale integrale del paesaggio che comporti il confronto di carte a grande scala che rappresentano particolari superfici (cfr., per es., F. Verger e altri, Modèle dynamique de la Pointe d'Aråay, in ‟Mémoires et documents du Centre de recherches et documentation cartographiques et géographiques", 1972, XII, pp. 223-263).
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Geografia umana ed economica
di Philippe Pinchemel
sommario: 1. L'eredità del passato. a) La curiosità geografica. b) Geografia e insegnamento. c) Le carenze epistemologiche. 2. La nuova geografia. a) La rivoluzione concettuale. b) La rivoluzione metodologica. c) Il tempo dei bilanci e delle incertezze. 3. La riunificazione della geografia. a) La coppia natura-spazio. b) L'organizzazione dello spazio. c) Finalità ed effetti dell'organizzazione dello spazio. 4. Conclusione. □ Bibliografia.
1. L'eredità del passato
a) La curiosità geografica
Il primo geografo fu senza dubbio Adamo, il quale, gettato il primo sguardo sul Paradiso Terrestre, dovette chiedersi dove si trovava, prima ancora di ammirare il paesaggio. Da allora miliardi di uomini si sono posti la stessa domanda. Alcuni, non contenti di conoscere il luogo della propria dimora, hanno cercato di sapere che cosa vi fosse al di là del fiume, al di là della montagna, al di là dell'orizzonte. Altri, dotati di maggior curiosità e di spirito più scientifico, hanno tentato di misurare le dimensioni della Terra, di definirne la forma, o addirittura di studiare la sua posizione nell'Universo.
Oggi i cosmonauti descrivono la Terra e la trovano bella, e i satelliti artificiali ci inviano ogni giorno migliaia di fotografie. Nella seconda metà del XX secolo, ci sembra normale vedere la Terra fotografata nella sua interezza e con i suoi colori, al di là delle nubi senza le quali essa sarebbe uno squallido deserto. Quale progresso tra questi due estremi dell'avventura terrestre degli uomini!
Nel corso dei secoli e dei millenni non sono mai venute meno la curiosità e l'ansia di comprendere che cosa fosse effettivamente la Terra, e in particolare la sua superficie, sulla quale si è sviluppata la vita vegetale, animale e umana.
Vi sono stati, è vero, periodi in cui tale curiosità si è attenuata, periodi in cui l'interesse degli uomini si è rivolto più al cielo che alla Terra. Una sorprendente eclisse della geografia si protrasse dal II al XV secolo della nostra era; fu per questo che l'opera di Tolomeo restò la base della conoscenza geografica per ben 1500 anni.
Tuttavia, l'uomo non ha potuto fare a meno di tornare a interessarsi della Terra e di porsi le eterne domande sulla natura dell'ambiente, sull'influenza che egli stesso vi esercita, sulle proprie capacità di modificarlo.
La curiosità geografica ha assunto forme di volta in volta diverse. Quale abitante della Terra, l'uomo ha cercato anzitutto di conoscerne i lineamenti generali: è la straordinaria avventura delle esplorazioni marittime, della scoperta dei contorni dei continenti e delle isole. Solo nel XVIII secolo si è potuto disporre delle tecniche e degli strumenti necessari per misurare esattamente la longitudine e per disegnare carte soddisfacenti a grande scala. Alla storia della ricognizione dei contorni seguì quella dell'esplorazione interna dei continenti e la penetrazione all'interno dell'Africa, dell'America e dell'Asia risultò impresa notevolmente più difficile rispetto alle spedizioni marittime.
Nonostante ciò, l'idea di un mondo ben definito e conosciuto è del tutto errata: non si arriva mai a esaurire la conoscenza di un territorio, e ciò per tre ragioni fondamentali.
1. Quando si cambia la scala della conoscenza e il modo di rappresentazione appaiono lacune e manchevolezze. Mentre nei paesi sviluppati l'intero territorio è conosciuto e rappresentato a scale comprese tra 1 : 20.000 e 1 : 100.000, la figurazione cartografica della maggior parte della Terra è ben lontana da questo grado di precisione: la conoscenza geografica è per lo più dell'ordine di grandezza 1 : 500.000 - 1 : 1.000.000 e carte dettagliate esistono solo per aree esigue. Pertanto i fatti della superficie terrestre sono accessibili in modo omogeneo solo con l'osservazione diretta. Non è facile immaginare quanto numerosi siano i dati geografici che restano tuttora ignorati.
2. La qualità della conoscenza della superficie terrestre dipende, oltre che dalla scala, anche dall'interpretazione dei fenomeni da parte dell'umanità. In un primo momento gli uomini vedono i fenomeni, ma non sanno integrarli concettualmente in un campo d'osservazione scientifica: li vedono con occhi di uomini, non di scienziati. La descrizione della Terra parte necessariamente dalla scoperta dei fenomeni, ma poi ha bisogno anche dell'elaborazione di concetti, dell'acquisizione di nomenclature e di metodi che consentano di descrivere e di classificare. Fino alla metà del XVIII secolo la descrizione dei paesaggi ha posto problemi di cui attualmente non è facile rendersi conto, perché non esistevano le parole oggi correntemente usate per indicare fatti geografici, sia fisici sia umani.
3. Ogni metro quadrato della superficie terrestre è in continua trasformazione. In geografia, come in ogni altra scienza, l'osservazione statica ha un valore relativo. Soltanto seguendo le evoluzioni e gli adattamenti, i fenomeni divengono intelligibili. Ma la ricerca geografica ha a che fare con ritmi di evoluzione diversissimi a seconda che si tratti di fenomeni d'ordine geologico, biologico, demografico, economico, per tacere delle calamità naturali (inondazioni, siccità, terremoti) e umane (guerre, carestie, rivoluzioni). Inoltre l'evoluzione dei fenomeni geografici può raggiungere dimensioni tali da provocare fratture e mutamenti nella loro stessa natura. Le città esistono da millenni e il loro studio è uno dei settori più progrediti della geografia umana. Ma che c'è di comune, di scientificamente comparabile tra le città di un tempo (e anche le piccole città odierne) da una parte e dall'altra le grandi megalopoli estese su centinaia di chilometri, espressione geografica della crisi della nostra civiltà? Peraltro, tutta presa da interesse per i cambiamenti avvenuti più di recente, la geografia non ha saputo sempre evitare l'insidia di un'eccessiva attenzione per l'attualità o l'aggiornamento dei dati, con il rischio di ridursi a svolgere un ruolo informativo.
Tra la scoperta di un fatto e il suo studio geografico s'inseriscono le tappe dell'identificazione e della rappresentazione. Una delle prime prese di possesso della superficie terrestre da parte degli uomini si esprime attraverso i nomi dati ai fiumi, alle cime montuose, agli appezzamenti di terreno, ai paesi, alle coste. Talora si sottovaluta questa forma di umanizzazione elementare, ma tanto significativa, della superficie terrestre; eppure questi miliardi di nomi rivelano bene gli stati d'animo di conquista o di timore, il ricordo dei luoghi di provenienza, il valore simbolico dei luoghi, l'impressione suscitata dalla scoperta: insomma le relazioni dell'uomo con le forme, i colori e gli ambienti.
Alla denominazione segue la rappresentazione. La storia della cartografia è un altro capitolo della storia geografica dell'umanità, del progressivo superamento delle difficoltà di rappresentazione della sfera sul piano (storia delle proiezioni), del completamento dei contorni continentali, del riempimento degli spazi bianchi sulle carte, della soluzione di grandi enigmi quali il tracciato del Niger, le sorgenti del Nilo, il continente antartico, il passaggio a nord-ovest dell'America settentrionale. Fino all'inizio del XVIII secolo, e quindi in tempi già a noi vicini, tali problemi non avevano ancora trovato soluzione.
La ricerca geografica è antica quanto l'umanità e durerà quanto l'umanità. Ciò è dovuto al fatto che la geografia non è soltanto un'esigenza della curiosità umana, ma è anche, per sua natura, una scienza utile, con possibilità applicative; anzi, questo è un carattere fondamentale della disciplina.
La geografia, infatti, consente di sapere ciò che vi è al di là del campo visivo; di muoversi non a caso, ma con cognizione di quanto esiste in uno spazio anche lontano; di conoscere la fertilità dei suoli, la presenza di risorse minerarie, la posizione delle grandi città, ecc. La geografia è compagna e guida dei militari, dei conquistatori, degli uomini d'affari, dei viaggiatori e dei missionari. Fin dai suoi albori essa si rivela una disciplina ‛impegnata', in grado di fornire ausilio agli uomini politici. Questa tradizione si è perpetuata e ai giorni nostri ha preso nuovo vigore con la geografia applicata, o geografia attiva, operativa, la quale esercita grande fascino sugli studenti, fuorché su quelli che la considerano una forma di collaborazione con un potere che rifiutano.
L'applicazione concreta è stata sempre un aspetto essenziale della geografia, sebbene spesso posto in ombra dalla prevalente funzione pedagogica della disciplina. I re, gli imperatori, i signori erano bramosi di conoscenze geografiche e si circondavano di geografi e di cartografi non per puro piacere intellettuale, ma per disporre di carte dei loro possedimenti, per conoscere le ricchezze dei loro domini e anche, ovviamente, per studiarne i confini e intraprendere spedizioni militari.
b) Geografia e insegnamento
La curiosità dell'uomo per il suo habitat terrestre spiega il fatto che si sia ben presto sentito il bisogno di insegnare la geografia, di trasmetterne la conoscenza alle giovani generazioni. Perciò l'insegnamento è divenuto una delle più importanti funzioni della disciplina e ha avuto notevole influenza nella sua evoluzione: da decenni, infatti, la geografia ha destinato la parte migliore delle sue energie alla formazione di docenti e all'elaborazione di un bagaglio di conoscenze destinate all'insegnamento.
Nella maggior parte degli Stati la geografia - da sola o associata ad altre materie di insegnamento (spesso la storia, perché sembrava opportuno non separare la scienza dello spazio da quella del tempo) - ha ricevuto un trattamento privilegiato, specialmente se confrontato con quello riservato ad altre scienze, economiche e sociali, rimaste escluse dai programmi scolastici.
Nel compiere tale essenziale funzione educativa la geografia ha subito inevitabili trasformazioni. I programmi di geografia, che nelle scuole era la sola scienza umana del tempo presente, hanno presto assunto carattere enciclopedico: i corsi dovevano fornire informazioni sui diversi aspetti del mondo contemporaneo, illustrare le grandi potenze economiche, i mercati e le correnti commerciali, avviare i giovani alla comprensione dei processi economici e dei grandi problemi del proprio tempo.
Poiché lo scopo principale della geografia universitaria era quello di formare gli insegnanti delle scuole secondarie, e i libri e i periodici di geografia erano destinati a questa stessa classe docente, si è sviluppato un vero sistema chiuso, che ha funzionato perfettamente. Le conseguenze di ciò sono evidenti da alcuni anni: la geografia si è sviluppata senza tener conto delle altre scienze e soprattutto senza preoccuparsi della ricerca e delle applicazioni. Grande è la differenza rispetto alla sua posizione nel secolo scorso: nel ventennio 1870-1890 i primi congressi geografici internazionali riunivano diplomatici, militari, commercianti, esploratori e professori universitari; ai congressi attuali partecipano solo questi ultimi.
In tal modo la disciplina ha perduto gran parte della sua credibilità scientifica. Agli occhi dei più essa si identifica quasi esclusivamente col professore di geografia, di cui gli allievi, da adulti, conservano un ricordo non molto lusinghiero, derivante dall'inutile studio mnemonico di cose scarsamente interessanti. C'è, dunque, una profonda discrepanza tra la geografia quale realmente è e l'immagine che se ne fa chi non è geografo.
c) Le carenze epistemologiche
Tale discrepanza è dovuta pure a una carenza epistemologica. La geografia, ferma nella sua tradizione, ha dimenticato per decenni che una scienza si caratterizza per il possesso di una finalità, di una problematica, di una metodologia, di un bagaglio teorico; e, invece di proseguire nella riflessione avviata tra il 1890 e il 1920 dai geografi tedeschi, inglesi, americani e francesi, ha riposato sugli allori.
1. I geografi non hanno definito con esattezza il loro campo di studio. Si sono limitati, secondo le epoche e le proprie inclinazioni, a considerare la geografia una disciplina di sintesi, capace di combinare organicamente numerosi dati: in tal modo la geografia poteva di volta in volta considerarsi un'arte o una scienza o anche una condizione dello spirito, un'attitudine rivelatrice di ‛intelligenza geografica'.
Il fine della geografia consisteva nell'elaborazione di studi regionali: tra il 1910 e il 1950 la fama della scuola geografica francese è stata fondata sul talento, invero notevole, di due generazioni di studiosi universitari impegnati in descrizioni regionali destinate a vedere la luce come tesi o come volumi di una ‛geografia universale' apprezzata in tutto il mondo. Le regioni, la divisione regionale erano presentate come dati di fatto; per maggior rigore la descrizione si fondava su unità naturali - geologiche, climatiche, botaniche - troppo facilmente denominate regioni geografiche.
I geografi sono stati sempre restii ad ammettere la totale appartenenza della geografia alle scienze umane e ad assegnare alla geografia fisica un compito esclusivamente propedeutico. Ciò è dipeso dall'autorità della geografia fisica stessa e dal suo carattere più esplicitamente scientifico, che garantiva rigore alla geografia umana e le apriva le porte delle facoltà scientifiche. Ancor oggi, di solito, la geografia non è compresa nel gruppo delle scienze umane; è considerata piuttosto una scienza-ponte tra quelle naturali e quelle umane.
2. I geografi hanno elaborato una concezione particolaristica, idiografica, della loro disciplina. Le descrizioni regionali tendevano spontaneamente a mettere in luce la personalità originale dello spazio prescelto. L'autore si ripiegava sulla sua regione, non si occupava di confrontarla con altre, di scoprire somiglianze; cercava soltanto di porne in risalto le peculiarità. Questa tendenza che abbiamo definito particolaristica ha improntato e tuttora impronta di sé, più o meno consapevolmente, la ricerca geografica.
All'origine di ciò sta un'errata interpretazione del pensiero dei fondatori della geografia moderna. Questi - per esempio P. Vidal de La Blache (1845-1918) - davano grande importanza agli studi monografici come metodo di raccolta dei dati, come ‛creazione' della materia prima con la quale poter costruire una vera geografia generale.
3. I geografi non hanno approfondito la riflessione metodologica, accontentandosi dell'esempio fornito dalle scienze naturali, matrice dello sviluppo scientifico del XIX secolo. Proprio per questa origine naturalistica i fondatori della geografia umana hanno orientato la loro disciplina verso l'individuazione, la descrizione, la classificazione dei fenomeni e hanno rivolto particolare attenzione ai modelli (dai modelli planimetrici delle aziende agrarie ai modelli di funzioni urbane, dai modelli d'insediamento alle categorie di siti urbani).
4. I geografi hanno privato la geografia di gran parte della sua capacità esplicativa e delle sue possibilità di sviluppo con il rifiuto di qualunque idea d'interpretazione deterministica. La geografia si è sempre posta la questione dei rapporti tra società e ambiente naturale. Per secoli gli uomini hanno affrontato questo problema, proponendo talvolta risposte sorprendenti per acume ed equilibrio. Ma troppo spesso le interpretazioni sono state fraintese, presentate rozzamente e superficialmente. Così, ad esempio, è avvenuto per Montesquieu, il quale ha scritto: ‟I paesi sono coltivati proporzionalmente alla loro libertà, non alla loro fertilità; e se si divide idealmente la Terra ci si stupirà di trovare, nella maggior parte dei casi, disabitate le sue parti più ubertose e grande sviluppo umano in quelle dove il terreno sembra rifiutare tutto" (De l'esprit des lois, XVIII, 3). Questa citazione non rivela certo un pensiero deterministico. Anche altrove Montesquieu esalta esclusivamente i meriti dei governi saggi.
Nella seconda metà del XIX secolo il darwinismo riaprì questa disputa. Ma i concetti di evoluzione e di adattamento, impiegati a sproposito, alimentarono un ambientalismo le cui esagerazioni provocarono fatalmente una reazione eccessiva. Infatti si diffuse, con il nome di determinismo geografico, una tendenza a spiegare tutti i fenomeni umani, sociali, economici con le sole cause fisiche, ancorché si trattasse dell'indole dei popoli, delle loro credenze religiose, delle loro opinioni politiche. Un'analisi approfondita dimostrerebbe che queste posizioni estreme erano l'espressione dell'ansia di ricerca - in quel tempo - di spiegazioni che dessero alla geografia un carattere scientifico, rivelando rapporti causali simili alle leggi delle scienze naturali.
Per reazione agli eccessi di taluni geografi si costituì negli anni venti una corrente di pensiero antideterminista che tuttora sopravvive e che nega qualsiasi influenza di fattori naturali su eventi umani di qualsivoglia tipo. Il pensiero antideterminista ebbe un portavoce eloquente e di autorità internazionale in L. Febvre, del quale pure si sono talvolta sottovalutate la prudenza e l'acutezza delle argomentazioni. Egli scrive: ‟Il profitto. Il calcolo del costo. Ecco che cosa conta sempre di più nell'universo attuale, non la natura" (v. Febvre, 1922, p. 433). Ma poi aggiunge: ‟C'è da compiere un lavoro immenso [...]. Anzitutto un lavoro di geografia fisica [...].Come argomentare sui rapporti che possono esistere su un certo fatto di clima o di rilievo e un certo modo di raggruppamento, di attività delle società umane [...] se prima quel fatto di clima, quel fatto di rilievo non è stato accuratamente [...] studiato [...] non da climatologi o da geologi, ma da geografi [...]?" (ibid., p. 440).
Le conseguenze sull'orientamento della geografia sono state rilevanti. Febvre è stato il vessillifero del paradigma possibilista, basandosi sulle idee di Vidal de La Blache e sostenendo che, in condizioni identiche, le società hanno modo di scegliere tra diverse possibilità nelle loro relazioni con l'ambiente. Per parecchi decenni i geografi non hanno più osato porre in termini positivi questo problema capitale che si colloca al centro della loro scienza. Piuttosto si sono impegnati a raccogliere le prove negative, a insistere sull'inesistenza di ogni influenza naturale e, al contrario, sull'importanza determinante dei fatti sociali, economici, politici. Così le società venivano sradicate, avulse dal loro ambiente talora millenario, cui si negava ogni capacità d'intervento - diretto o indiretto - nello sviluppo delle civiltà, delle culture, dei comportamenti.
La questione del determinismo geografico ha assunto vaste proporzioni solo perché i geografi non si sono preoccupati di delimitare il campo di applicazione delle influenze naturali. Invece di limitarsi a stabilire il ruolo della natura e quello della libertà umana nelle localizzazioni, nelle utilizzazioni, nelle forme spaziali, hanno rivolto il maggiore interesse alle influenze naturali sulle psicologie, le mentalità, le civiltà, proprio in quel campo dove le generalizzazioni affrettate, le intuizioni superficiali, le spiegazioni senza fondamento scientifico sono più rischiose e suscettibili di più secche smentite.
Trascurando in un certo senso la natura, la geografia umana si privava anche delle uniche leggi che le conferivano - o potevano conferirle - un carattere scientifico. Come conseguenza di ciò si delineava una divergenza metodologica tra geografia umana e geografia fisica e s'infrangeva quell'unità più volte ribadita, ma che non aveva più senso dal momento che la prima non ricorreva più alla seconda se non per l'elaborazione di sintesi regionali. Nello stesso tempo la geografia umana si avvicinava alle scienze sociali ed economiche, assumendone le interpretazioni e i nessi causali come basi delle spiegazioni geografiche.
Siffatta debolezza epistemologica spiega come certi concetti sui quali la geografia riteneva di appoggiarsi saldamente non avessero una sufficiente fondatezza. È il caso del ‛paesaggio' che ha rappresentato un importantissimo filone della geografia umana. Lo studio del paesaggio - o, come si diceva comunemente, la descrizione esplicativa dei paesaggi - è stato precocemente considerato dai geografi europei e nordamericani come il fine ultimo della ricerca geografica. La concretezza e la percettibilità dei paesaggi, la combinazione in ciascuno di essi di elementi naturali e umani, la possibilità di leggervi l'ineguale umanizzazione e la diversità delle forme dell'intervento umano, l'apparente stabilità - o almeno la lentezza dei mutamenti - e la frequenza di elementi antichi, la necessità, per una buona descrizione dei paesaggi, di saper associare un'analisi scientifica a una descrizione letteraria e artistica, sono tutti dati che spiegano l'interesse per lo studio del paesaggio e lo sviluppo di vere scuole geografiche fondate su tale concetto. Al Congresso Geografico Internazionale di Amsterdam (1938) esisteva una sezione dedicata al ‛Paesaggio geografico'.
I paesaggi rurali sono stati il terreno prediletto di questo filone di ricerca. Eppure, nonostante la sua importanza, il tema del paesaggio non ha mai raccolto l'unanimità dei consensi dei geografi per diverse ragioni. Anzitutto i suoi sostenitori non sono mai riusciti a elaborare una metodologia corrispondente alla complessità del fatto da studiare; inoltre, la ricchezza epistemologica del concetto è stata sminuita da pesanti critiche, per esempio dalla dimostrazione che alcuni paesaggi potevano trarre in inganno e non esprimevano la realtà delle forze economiche e sociali agenti sul territorio; per molti studiosi il paesaggio rappresenta un mezzo piuttosto che un fine della ricerca geografica.
Rifiutando le relazioni con gli ambienti naturali e non riuscendo a trovare sul tema del paesaggio un ampio consenso, la geografia umana si è orientata in altre direzioni.
Una di queste è stata lo studio della popolazione, che ha dato luogo e dà luogo ancora, talvolta con la denominazione di demogeografia, a numerosi lavori e a sintesi molto apprezzabili. Sembra infatti normale che l'uomo stesso sia l'oggetto della geografia umana; di fatto, proprio attraverso l'uomo passano molte definizioni della geografia. L'ineguale distribuzione degli uomini, l'ampliamento dell'ecumene sono questioni essenziali; la spiegazione delle diverse densità di popolazione, la persistenza di aree di grande addensamento pongono appassionanti interrogativi all'indagine geografica.
D'altra parte questo studio - che ha un evidente significato geografico quando mette in rapporto il fenomeno umano con lo spazio, con le situazioni, con gli ambienti - finisce spesso con il ridursi all'analisi delle distribuzioni spaziali degli elementi e dei caratteri demografici. Nella costruzione delle carte di fecondità, delle carte di classi di età, delle carte di categorie socio-professionali, le spiegazioni sono, com'è giusto, ricercate nei fatti d'ordine economico, sociale, politico; e lo spazio fa semplicemente da supporto alla rappresentazione cartografica dei fenomeni.
Vi sono altri motivi che spiegano il grande successo degli studi sulla popolazione: la facilità di consultazione dei dati demografici e la loro abbondanza consentono confronti sia nello spazio sia nel tempo. Inoltre, questi dati, essendo quantificati o quantificabili, permettono l'impiego dei metodi quantitativi (v. sotto).
La geografia sociale è un'altra delle direzioni antropocentriche della geografia. La sua origine risale alla fine del secolo scorso, quando apparve il concetto di genere di vita. La geografia sociale studia l'organizzazione spaziale delle società umane, la loro proiezione sul suolo, la distribuzione spaziale dei gruppi umani e dei rapporti sociali e i rapporti sociali all'interno di un certo spazio.
Concepita in senso stretto, questa geografia s'inserisce nell'organizzazione dello spazio; in senso lato e in una visuale sociologica, è piuttosto una sociologia geografica che una geografia sociale: recentemente essa, influenzata dagli indirizzi moderni della sociologia e della psicologia, ha preso a interessarsi della differenziazione spaziale dei comportamenti, delle tendenze, dei rapporti sociali, così come dei fatti di percezione dello spazio e dell'ambiente. Allo studio statico di questi fenomeni è stato sostituito quello dei processi di diffusione dei fatti sociali, delle idee, delle tecniche.
Anche la geografia economica, come quella umana, si è sviluppata come una branca essenziale della geografia. In un primo tempo essa pure rispondeva a esigenze d'informazione: informazione, in tal caso, riguardante la localizzazione delle produzioni agricole, minerarie, industriali, i centri industriali, i centri di consumo, le correnti commerciali, ecc. Come i censimenti demografici, così le statistiche economiche, con le loro variazioni annuali, fornivano una nuova documentazione che necessitava di aggiornamenti. Nel passare dalla descrizione - di cui ancora una volta non si può disconoscere l'importanza - all'interpretazione, la geografia economica ha analizzato i fattori di localizzazione delle attività economiche. Le carte e gli atlanti di geografia economica, molto numerosi, documentano il grande sviluppo di questo campo di studio.
Seguendo quest'orientamento della geografia, polarizzato esclusivamente sulle società e sulle loro attività, non più sui rapporti tra società e ambiente e ancor meno sulle espressioni spaziali della società, i geografi hanno esplorato diversi campi di studio: geografia alimentare, geografia medica, geografia elettorale, geografia degli investimenti.
La vastità e la varietà del campo percorso dalla geografia tradizionale assorbivano completamente le energie dei geografi, distogliendoli dalla riflessione epistemologica, dal problema della validità dei loro studi. Rare erano le opere di tal genere, e i geografi che studiavano e scrivevano su tali questioni restavano pressoché inascoltati.
La carenza epistemologica generale si sommava poi alle lacune metodologiche. Per moltissimo tempo il metodo geografico è stato semplicisticamente ridotto allo strumento cartografico. La distribuzione del fenomeno nello spazio giustificava la costruzione e l'interpretazione delle carte. Bisogna onestamente riconoscere l'eccezionale contributo portato dagli atlanti: atlanti mondiali, ma anche regionali (Atlas de France, 1931), e più recentemente atlanti regionali e urbani. Intanto alcune scuole, come quella britannica, prendevano l'iniziativa di carte dell'utilizzazione del suolo e alcuni organismi internazionali costruivano carte della popolazione. Queste imprese, risultato di un'intensa mobilitazione di energie e di un lavoro collettivo, hanno permesso di elaborare sintesi di grande utilità pratica.
È sorprendente che queste realizzazioni cartografiche non abbiano contribuito all'approfondimento dei concetti della geografia. Al contrario, il costante ricorso alla carta ha rafforzato l'idea che tutto ciò che si può rappresentare cartograficamente appartiene alla geografia. Ma tutti i fenomeni terrestri, visibili o invisibili, fissi o mobili, permanenti o temporanei, sono distribuiti sulla superficie della Terra...
Permeati di formazione storica, convinti dell'originalità di ciascun territorio, per molto tempo i geografi non hanno preso seriamente in considerazione la possibilità di uno studio teorico, sistematico della Terra.
A metà del XX secolo il bilancio della geografia presentava un attivo e un passivo. Per un verso questa disciplina aveva assolto da secoli una funzione importante nella conoscenza della superficie terrestre, nella scoperta e nell'inventario di fatti che si presentavano come combinazioni di elementi diversi. La funzione descrittiva della geografia era evidente, altrettanto evidente la mancanza di finalità; ma essa aveva destato molteplici curiosità, germe di molte scienze specialistiche di oggi. Peraltro, la capacità di spiegazione e di teorizzazione era stata sempre debole; le sintesi brillanti, le rare geografie generali avevano fini pedagogici più che scientifici. La geografia appariva - e appare ancor oggi a molti - più idiografica che nomotetica, priva di una reale problematica e di un vero bagaglio metodologico.
Perciò non c'è da stupirsi se la geografia non gode stima nel mondo scientifico e se i suoi rapporti con le altre scienze sono stati spesso difficili; già al tempo di Durkheim c'era competizione tra sociologia e geografia. Ma è soprattutto con gli economisti, con gli etnologi, con gli urbanisti, con gli ecologi che i geografi hanno sempre dovuto battersi per difendere la propria autonomia scientifica, la propria indipendenza epistemologica.
La geografia ha certamente assolto un compito storico essenziale all'epoca in cui gli uomini scoprivano la Terra e abbozzavano embrioni di scienze, epoca in cui bisognava elaborare sintesi regionali e inventari, in certo senso fare un elenco dei luoghi del pianeta Terra. Secondo un parere molto diffuso, adesso la geografia deve cedere il passo alle scienze umane più giovani, non potendo più rivendicare un proprio oggetto e tanto meno aspirare a raggiungere una visione diversa da quella di altre discipline, esse pure attente agli aspetti spaziali e non prive di prospettive di sintesi.
2. La nuova geografia
Questo quadro, che rappresenta insieme la situazione della geografia umana alla metà del nostro secolo e i motivi ricorrenti nel pensiero geografico coevo, deve essere ormai profondamente riveduto. Infatti, nel lasso di una ventina d'anni la geografia ha subito mutamenti notevolissimi: è sorta una ‛nuova geografia' che, fra l'altro, ha reso necessaria una diversa nomenclatura. È chiaro che la nuova geografia non è nata all'improvviso, per generazione spontanea. In passato sono vissuti precursori, uomini diversi per formazione e attività, che hanno affrontato in modo moderno lo studio della geografia, attenti ai problemi di localizzazione, di differenziazione e di organizzazione dello spazio.
La nuova geografia si è sviluppata, a partire dagli anni cinquanta, nel mondo anglosassone, soprattutto negli Stati Uniti, in un paese, cioè, dove il peso della tradizione geografica non era grande come in Europa e dove, diversamente che in Europa, i fatti spaziali potevano essere studiati senza il duplice condizionamento di una lunghissima storia e di un'estrema eterogeneità naturale e culturale. Non bisogna però dimenticare il ruolo svolto da studiosi europei: la teoria delle località centrali è stata elaborata dal geografo tedesco W. Christaller negli anni trenta e esposta dalla prestigiosa tribuna del Congresso Geografico Internazionale di Amsterdam. Ma fu negli Stati Uniti che le idee del Christaller ebbero fortuna; in quel paese, nel 1966, fu pubblicata una traduzione della sua opera. È un bell'esempio di diffusione delle idee e del peso esercitato dalle istituzioni universitarie, esempio sul quale gli storici della geografia farebbero bene a meditare.
La nuova geografia trae origine da due ‛rivoluzioni', una concettuale, l'altra metodologica.
a) La rivoluzione concettuale
La geografia classica descriveva ambienti, regioni, paesaggi, e studiava la distribuzione di fenomeni. La nuova geografia ha avuto il merito di porre al centro dell'attenzione lo spazio terrestre: non più una semplice somma di ambienti o un supporto del paesaggio, ma uno spazio definito, caratterizzato dalle sue dimensioni, dalla sua accessibilità, dai costi di spostamento sulla sua superficie (in tempo e in denaro) di persone e di beni; uno spazio che gli uomini devono popolare, occupare, utilizzare, organizzare allo scopo di crearvi le condizioni ottimali della loro vita socio-economica, e vivere felici o alla ricerca dell'immagine che si sono fatti del benessere; uno spazio che in seguito all'umanizzazione cambia aspetto, acquista nuovi caratteri, si rimodella secondo nuove strutture.
Mentre l'ambiente, nel senso di ambiente naturale (foresta equatoriale, steppa, deserto), esiste di per sé, indipendentemente dall'uomo, lo spazio ha significato solo in relazione alla presenza umana ed è misurato dall'uomo mediante scale umane di valutazione. Lo spazio assume le sue proprietà in rapporto all'uomo: lo spazio davanti alla casa, lo spazio al di là del podere... Lo spazio diviene vicino o lontano, centrale o periferico, a seconda della posizione del punto considerato in rapporto all'uomo, cioè in rapporto al podere, alla fabbrica, al villaggio, alla città!
Gli ambienti naturali descritti dai geografi erano in certo senso ambienti ‛ecologici' di cui non si consideravano le proprietà spaziali, che restavano scientificamente ignorate. Tali proprietà spaziali sono di due tipi. Ve ne sono alcune oggettive, definite dalle coordinate cartesiane, dalle misure lineari e di superficie, dalle configurazioni, dalle forme. Un ambiente naturale, ad esempio la foresta, è definito dalle sue dimensioni, dalle sue forme, dalla sua posizione, dalla sua relazione con i continenti, le coste, le isole, dai suoi rapporti con i diversi ambienti limitrofi.
Ma questi ambienti, che l'osservatore pretende di descrivere scientificamente, non sono percepiti esattamente nello stesso modo dai popoli e dalle società che vi abitano e che li umanizzano. Negli ultimi decenni i geografi, oltre ad aver ritrovato lo spazio, hanno scoperto, o riscoperto, l'importanza - accanto alla descrizione di spazi assoluti e oggettivi - della relatività dello spazio e dei vari modi in cui esso può essere percepito. Ogni uomo, ogni comunità, ogni società percepisce lo spazio cartesiano attraverso filtri dovuti alle mentalità, alle credenze, allo sfruttamento economico in termini di possibilità e di bisogni, alle capacità tecniche... Il concetto di spazio è diventato relativo e si è arricchito di una serie di qualificazioni mutuate dalla psicologia: spazio latente, manifesto, vissuto, subito, accettato, dominato.
Questo filone di studi si è irrobustito con lo sviluppo delle ricerche dei nessi causali. Dovendo spiegare fenomeni di localizzazione, di strutture, di condizioni di utilizzazione, di popolamento, i geografi hanno dedicato sempre maggiore attenzione ai processi decisionali, alle percezioni e ai comportamenti dei responsabili delle decisioni.
Per spiegare le localizzazioni e le differenziazioni la nuova geografia si è rivolta ai processi e ai meccanismi che operano nello spazio assai più che a quanto è presente nello spazio stesso. L'individuazione dei processi spaziali - cioè dei fattori di differenziazione, di strutturazione e di organizzazione dello spazio - è divenuta più importante della descrizione dei fatti che vi si svolgono.
La concezione statica dello spazio è stata sostituita da una concezione dinamica. Infatti, le unità di popolamento e di produzione esprimono relazioni tra flussi: flussi di persone, di materie prime, di prodotti industriali, di servizi, di capitali, di idee, flussi che si propagano seguendo itinerari materializzati dalle infrastrutture di circolazione; e ciò spiega l'importanza acquisita dagli studi sui processi di diffusione e di migrazione.
Tutti questi studi dinamici, volti alla ricerca di processi e di cause e impregnati del concetto di relatività della percezione, giungono all'identificazione di un ordine spaziale e all'analisi di modelli di organizzazione spaziale. Queste strutture spaziali sono state definite per mezzo di concetti che erano da tempo noti alla geografia classica, ma non erano stati utilizzati in una prospettiva epistemologica centrale: concetti di flussi, di reti, di nodi, di gerarchie, di superfici.
Tali concetti erano già presenti nella geografia fisica. Un bacino idrografico, ad esempio, è un'unità ben individuata, costituita da una rete di corsi d'acqua i cui nodi corrispondono alle confluenze; il deflusso che si concentra nel fondovalle raccoglie le acque dilavanti che scendono dai pendii. Allo stesso modo, i flussi economici e umani - flussi di merci, di lavoratori, di consumatori - s'iscrivono nello spazio con le reti di circolazione che essi stessi costruiscono e utilizzano. Tali reti formano delle maglie i cui nodi sono rappresentati dai centri (centri minerari, industriali, commerciali, di servizi), ‛località centrali' gerarchicamente disposte, poiché i beni e i servizi non hanno tutti la stessa importanza né sono tutti diretti alla stessa clientela. I villaggi e le città - dal piccolo aggregato elementare al centro di mercato settimanale, alla grande metropoli di parecchi milioni di abitanti, passando attraverso gli altri livelli della gerarchia urbana - sono l'espressione spaziale dei nodi nei quali convergono le vie di comunicazione delle reti ferroviaria, stradale, aerea, marittima, fluviale e delle telecomunicazioni.
L'introduzione di questi nuovi concetti, conseguenza del maggior interesse per i valori e i significati dello spazio, ha modificato di molto la visione geografica dello spazio terrestre. Si considerino, a titolo di esempio, i fondamentali studi compiuti sul mondo rurale dalla geografia classica, soprattutto a opera di A. Demangeon, il cui nome è rimasto legato allo studio degli insediamenti rurali e delle abitazioni rurali. In tali lavori i paesaggi rurali sono stati minuziosamente analizzati, classificati, interpretati; all'esame degli insediamenti umani è seguito quello delle trame parcellari, dei paesaggi aperti o chiusi, della distribuzione delle diverse forme di utilizzazione del suolo che hanno portato alla costruzione delle carte sintetiche. Un considerevole lavoro in tal senso è stato svolto a livello internazionale. Il paradigma di tali studi era il paesaggio, cioè il risultato di una combinazione di elementi distribuiti inegualmente e con diversa intensità.
È sintomatico che il fattore di unificazione e di strutturazione di questi elementi, la rete delle comunicazioni (dal sentiero che s'addentra nei campi alla strada principale che conduce al centro aziendale o alla città), sia stato studiato solo marginalmente e spesso da un punto di vista storico, ponendo in risalto prevalentemente la sua persistenza dall'antichità o dall'età medioevale.
Invece, gli studi recenti sugli spazi rurali prendono le mosse dalle aziende considerate come il polo di un'organizzazione di parcelle ben definite per localizzazione, forma e superficie, costituenti nel loro complesso un sistema economico. La struttura spaziale di ogni azienda riflette, in ciascuna parcella, una strategia spaziale che è il risultato delle idee, degli investimenti, dei vincoli ecologici, fondiari e tecnologici di generazioni di agricoltori. Le aziende a loro volta fanno parte integrante di un sistema di organizzazione spaziale, alla scala del villaggio o del comune. Lo studio della struttura parcellare, pertanto, viene condotto soprattutto in base alla rete di sentieri e di strade che servono più o meno efficientemente le parcelle; e lo studio dell'azienda, in base alle relazioni di questa con i centri di livello uguale o superiore.
Ma i cambiamenti più consistenti riguardano la geografia urbana. Le monografie classiche del periodo tra le due guerre, completate, sul piano generale, da saggi di tipologia funzionale delle città, sono state sostituite dapprima da studi delle reti urbane, all'interno di quadri regionali o nazionali, poi dall'elaborazione di modelli delle reti stesse.
Nella geografia tradizionale - e in particolare negli studi regionali, che erano considerati l'espressione più alta della geografia - si cercava di enucleare i caratteri specifici, originali, di una regione o di una città. Con la nuova geografia, invece, l'attenzione è stata spostata sulle identità e sulle somiglianze, eliminando, in principio, tutti gli elementi che deformano il modello teorico. Tutto ciò che è specifico, vale a dire tutto ciò che è dovuto a fatti ecologici, storici e culturali particolari, verrà esaminato successivamente per spiegare le deviazioni dal modello stesso.
Partendo da una superficie omogenea, isotropa, priva di rilievi e di fiumi, si analizzano le condizioni di una distribuzione teorica degli insediamenti, delle aziende, dei villaggi, delle città. Condizioni simili, del resto, esistono anche nella realtà, sia per condizioni naturali (per es., la regione francese della Beauce), sia perché create artificialmente (polders). Successivamente, per supposizione o studiando casi reali, s'introduce nel modello una valle (o una catena, o un litorale) e se ne studiano gli effetti sulla trama teorica.
b) La rivoluzione metodologica
Com'è ovvio, la geografia umana si è giovata della diffusione dei metodi matematici nelle scienze umane, metodi già da tempo adottati da alcune scienze naturali (climatologia, botanica, idrologia). Poiché ogni scienza progredisce attraverso un continuo alternarsi di momenti induttivi e deduttivi, la nuova metodologia, sostituendo quella tradizionale (intuitiva ed essenzialmente induttiva), rispondeva al desiderio di una conoscenza più rigorosa della realtà geografica; e rispondeva anche all'esigenza di elaborazione teorica e di astrazione. La pubblicazione, avvenuta nel 1962, del volume Theorical Geography di W. Bunge è stata la prima manifestazione di questa rivoluzione metodologica.
La diffusione dei metodi quantitativi è stata più rapida nel mondo anglosassone, più lenta altrove. Partiti dall'impiego dei metodi statistici più semplici, delle analisi di correlazione, delle analisi matriciali, oggi i geografi sono arrivati a usare anche quelli dell'analisi multivariata (analisi fattoriale) e della modellizzazione; i modelli stocastici (o di probabilità), i modelli di simulazione, l'analisi dei sistemi, il ricorso alla teoria dei giochi sono tutti argomenti trattati nelle opere geografiche pubblicate nel decennio 1965-1975.
Siffatta metodologia risponde alla volontà di dominare la realtà geografica, di coglierla rigorosamente attraverso una ricostruzione teorica a partire da ipotesi e postulati; ambizione prometeica nel mondo delle scienze umane, ricerca della via per una qualità autenticamente scientifica.
I nuovi strumenti metodologici hanno contribuito potentemente all'abbandono dell'antica tendenza della geografia, alla sua evoluzione in scienza nomotetica; hanno ridotto di molto la predilezione per gli studi monografici, stimolando invece quelli comparativi; hanno introdotto i metodi di sondaggio e di campionamento; hanno indotto i geografi a esaminare territori continui e con aspetti simili, poiché lo scopo essenziale della ricerca è ormai la misura delle irregolarità e delle deformazioni dei campi spaziali.
Come nelle altre scienze umane, ma in misura assai maggiore, in geografia il rinnovamento della disciplina è strettamente legato a quello dei dati e della loro elaborazione (i dati della teledetenzione, che è appena agli albori, l'elaborazione informatica dei dati, l'automazione della cartografia). Sono evidenti la diversità e la ricchezza indiscutibili di questa nuova geografia, il cui merito fondamentale risiede nel rigore scientifico delle posizioni di partenza. A distanza di tempo si deve constatare come la geografia tradizionale, totalmente assorbita dalla sua funzione di descrizione esplicativa, avesse dimenticato che la ricerca scientifica non può prescindere dall'identificazione di un problema e dalla formulazione di domande. Certo, la geografia classica si poneva domande ma erano domande non centrate, non finalizzate, in definitiva neppure coscienti. Il nuovo orientamento ha dato ai geografi il conforto di un'assoluta sicurezza intellettuale; la geografia si è imposta come scienza dello spazio a fianco della storia scienza del tempo: si ritrovava così la distinzione kantiana.
c) Il tempo dei bilanci e delle incertezze
Dopo un quarto di secolo si può tentare un bilancio della nuova geografia, bilancio cui essa stessa contribuisce con un'autocritica. Alcuni di coloro che ne erano i più accesi sostenitori pensano che ormai la nuova geografia abbia fatto il suo tempo; e c'è anche chi le rimprovera le stesse mancanze che venivano attribuite alla geografia tradizionale.
Una prima constatazione riguarda il metodo: il rinnovamento metodologico ha finito con il prevalere su quello epistemologico. I geografi, e i matematici che hanno collaborato alle loro ricerche, hanno spesso giocato a fare gli apprendisti stregoni, orientandosi verso tecniche sempre più raffinate senza poi ottenere risultati sostanzialmente diversi da quelli già raggiunti dalla vecchia geografia; e hanno finito così per sembrare più interessati all'applicazione dei nuovi strumenti - suggestivi per la loro tecnicità - che alla soluzione dei problemi geografici. La nuova geografia non ha prodotto un corpo organico di teorie; una delle poche acquisizioni teoriche è stata quella delle località centrali, vecchia ormai di quarant'anni.
È occorso molto tempo perché i geografi capissero che le tecniche quantitative conosciute non sono direttamente applicabili ai problemi spaziali, che gli elementi e le strutture spaziali non sono della stessa natura di quelli studiati da psicologi ed economisti, ma hanno piuttosto affinità con l'oggetto delle ricerche dei botanici e dei forestali. E ciò perché l'analisi geografica deve prendere in esame numerosi e diversi oggetti; e anche perché le serie statistiche variano nello spazio e interferiscono le une con le altre in modo estremamente complicato. I fenomeni di autocorrelazione spaziale necessitano, dunque, di tecniche molto elaborate.
Invece di costruire un corpo di conoscenze utili e suscettibili di applicazioni, la nuova geografia ha avuto tendenza a chiudersi in un universo troppo teorico e poco accessibile ai non iniziati, a causa del suo vocabolario e del suo strumentario quantitativo. Sul piano concettuale, lo spazio - oggetto dell'analisi geografica - appare ancora molto vasto, anche limitandosi alla superficie terrestre, dato che tutti i fenomeni presenti sulla superficie terrestre riguardano la geografia e tutti devono necessariamente essere studiati nelle loro localizzazioni, distribuzioni, proprietà e relazioni spaziali. La geografia non può trovare la propria finalità nel campo delle sole proprietà spaziali dei fenomeni, quali che essi siano; e la nuova geografia in ciò somiglia all'antica. Alcuni geografi, nell'affrontare il problema della razionalità di una scienza fondata sullo spazio, si sono posti la questione della realtà stessa del concetto di spazio: lo spazio è un oggetto o un'idea?
Inoltre da questo orientamento della nuova geografia è scaturita una frattura concettuale importante: la frattura tra le reti e gli spazi intermedi. A forza di concentrare l'interesse sulle reti, le gerarchie, gli assi strutturanti, i flussi e i traffici, il resto dello spazio - quello fuori della rete - finisce con l'essere ridotto a un residuo, uno spazio interstiziale; e si trascura così una parte non indifferente della realtà geografica.
Ciò finisce con il rafforzare l'idea della coesistenza di due geografie: la geografia delle strutture spaziali e la geografia dei paesaggi, la geografia dello spazio come contenente e la geografia dello spazio come contenuto. Le scale relativamente piccole adottate dalla nuova geografia hanno molto contribuito a una tale frattura, sopprimendo di fatto gli spazi tra le reti.
Infine, la nuova geografia è incorsa in una grave contraddizione: esaltando al massimo la ricerca scientifica dei processi, è stata portata a considerare le società come agenti di sistemi cibernetici; ma al tempo stesso tutta una serie di studi rivelava il ruolo insostituibile degli agenti e dei processi di decisione e i legami tra questi agenti, i sistemi politico-economici e le ideologie. La nuova geografia, che era insorta contro il determinismo ecologico, cadeva in altre due forme di determinismo: un determinismo probabilistico di tipo atomico e un determinismo ideologico. Inoltre, l'importanza attribuita alla percezione portava a trasferire sull'osservatore le caratteristiche particolaristiche che la geografia classica attribuiva ai fatti osservati.
La riduzione dell'analisi geografica a modelli, a sistemi di strutture spaziali ha provocato, per reazione, una rivalutazione dei dati culturali nell'interpretazione geografica.
La vecchia geografia umana ha avuto così l'appoggio di una nuova geografia ‛culturale', alimentata da un filone ‛radicale' apparso nella geografia nordamericana dopo il 1970 e in quella europea dopo il 1975, connesso con la contestazione studentesca esplosa in tutto il mondo (e in particolare negli Stati Uniti al tempo della guerra del Vietnam), con la diffusione di ideologie di sinistra nel mondo della cultura e con la penetrazione di correnti di pensiero marxista nelle scienze umane.
Secondo questa geografia culturale, i rapporti spaziali - come tutti i rapporti sociali, di cui sono espressione - vanno considerati come rapporti di forze. La geografia, inserita nei quadri istituzionali universitari, diffonderebbe, più o meno consapevolmente, l'ideologia dominante, giustificando un dominio dello spazio su scala mondiale (società multinazionali), internazionale (colonialismo politico, culturale, economico), nazionale (differenze regionali); sotto l'apparenza di disciplina scolastica e universitaria, la geografia sarebbe in realtà uno strumento di potere e di governo e sarebbe stata da sempre asservita ai detentori del potere e ai militari (perché qualunque strategia deve necessariamente inserirsi nello spazio).
Queste riflessioni e queste posizioni hanno alimentato due correnti di pensiero che, coscientemente o no, demoliscono del tutto la nuova geografia, descritta come superata o addirittura reazionaria. Una di esse si pone il problema dei valori, individuali o sociali, che sottendono la teoria e la pratica della geografia. Largamente diffusa nelle scienze umane, questa corrente si fonda sul postulato che una ricerca obiettiva non può esistere, perché i ricercatori sono individui con caratteristiche psichiche e mentali specifiche, e lavorano nell'ambito di istituzioni sociali e politiche che influiscono sugli orientamenti di ricerca e sui contenuti ideologici.
La seconda corrente ritiene che il geografo non debba perdersi in ricerche prive di utilità sociale, anche se di grande interesse teorico. Troppi gravi problemi urgono, dal sottosviluppo alle carestie, dagli squilibri dei redditi alle bidonvilles; il geografo deve impegnarsi a fianco dei diseredati e non partecipare con i suoi studi e le sue esperienze, consapevolmente o inconsapevolmente, alle strategie spaziali dei potenti.
La distinzione tra studioso e cittadino militante non ha senso per questi geografi nei quali la rivolta contro le ineguaglianze e le ingiustizie di questo mondo prevale sulla curiosità e sul desiderio di investigazione scientifica, del resto secondo loro impossibile. Addirittura essi ritengono di non dover dare più alcuna collaborazione alle istituzioni responsabili dell'oppressione e dello sfruttamento. È un atteggiamento generoso, e in alcuni paesi coraggioso, che rivela però una certa confusione di idee e un'interpretazione manichea e alquanto semplicistica della realtà. Percorrere fino in fondo una tale strada equivale a negare la possibilità di una qualsiasi ricerca scientifica e la possibilità di comprensione e di cooperazione tra studiosi provenienti da società e culture diverse.
La vita della geografia negli ultimi venticinque anni è stata, dunque, molto intensa e movimentata, in netto contrasto con la sicurezza trionfalistica del periodo tra le due guerre mondiali, caratterizzato da una tranquilla certezza e da una posizione di privilegio pedagogico. È forse giunto ora il tempo di una lucida maturità.
3. La riunificazione della geografia
La geografia classica e la nuova geografia sono due momenti fondamentali nella storia della disciplina, momenti che corrispondono a due tendenze dello spirito scientifico e rispecchiano la storia delle scienze umane.
Le due geografie si rifanno a due diversi paradigmi: il paradigma della natura e dei suoi rapporti con le società (la Terra e la sua umanizzazione); il paradigma dello spazio e della sua sistemazione (l'organizzazione dello spazio terrestre).
La geografia classica riserva un interesse prioritario alle società tradizionali, ai generi di vita, ai paesaggi, che esprimono relazioni plurisecolari con l'ambiente geografico. La nuova geografia della metà del XX secolo, rinnegando - senza dubbio in modo sconsiderato - i suoi precedenti, getta nuova luce sulle localizzazioni, sulle distribuzioni spaziali, sulle reti, sui flussi, sulla dinamica delle relazioni sociali ed economiche.
a) La coppia natura-spazio
Non si può dissociare ciò che è strettamente integrato. La superficie terrestre è contemporaneamente ambiente naturale e spazio, quest'ultimo inteso come campo di localizzazioni e correlazioni organizzato dalle società; è contemporaneamente opera di natura e di cultura. Gli uomini hanno ben compreso da tempo che la superficie della Terra presenta ambienti naturali diversi; hanno individuato obiettivamente la foresta equatoriale, la steppa, la tundra, la taiga; ma le interpretazioni diventavano soggettive allorché si doveva valutarne le risorse, le possibilità, i vantaggi o gli svantaggi in termini di utilizzazione e di popolamento. Alcuni di questi ambienti vengono definiti naturali, nonostante che da millenni gli uomini li abbiano abitati, modificandoli, arricchendoli o impoverendoli, ampliando o riducendo le loro dimensioni. In alcuni di questi ambienti il dinamismo ecologico particolarmente marcato poneva l'uomo in condizione d'inferiorità, così che la sua azione di dissodamento o di costruzione di piste era poco appariscente e veniva facilmente cancellata dalla natura. E tuttavia questi ambienti naturali, per la presenza stessa dell'uomo, divenivano ambienti geografici, e tra essi e l'uomo si venivano intessendo complessi rapporti di osmosi. Gli ambienti naturali sono divenuti ambienti geografici, e poi ambienti umanizzati, attraverso l'azione persistente delle civiltà.
Ma questi ambienti derivati dalla natura e inegualmente umanizzati non sono le uniche componenti della diversificazione della superficie terrestre. Anche le società, come la natura, si differenziano in gruppi eterogenei che s'iscrivono in propri spazi: spazi etnici, spazi sociali, spazi giuridici, spazi economici, spazi politici, spazi psicologici. Tali spazi umani, combinati tra loro armonicamente o disarmonicamente, si esprimono con propri limiti e proprie forme sulla superficie terrestre, diversificandola ulteriormente con la varietà dei tipi di popolamento, dei tipi di cultura, dei tipi di rapporti con gli elementi naturali.
Se gli ambienti naturali fossero uniformi, omogenei, gli spazi umani si disporrebbero senza dubbio semplicemente, obbedendo a principi di distanza, di gradiente, di portata, di attrazione, di gravità, quindi senza alterazioni e deformazioni notevoli.
Ma i fatti spaziali si manifestano in ambienti geografici che sono insieme attivi e passivi. In altre parole, l'ambiente geografico derivato dalla natura e lo spazio derivato dalla società si ritrovano fusi in una sola immagine, in una sola creazione.
Le combinazioni degli ambienti naturali e degli spazi umani comportano l'enorme differenziazione della superficie terrestre e la sua sempre maggiore complessità. L'azione umana, intervenendo nella dinamica degli ambienti con una volontà, con una finalità, con capacità tecniche - e quindi in modo profondamente diverso dalle azioni delle altre specie animali - ha introdotto una nuova dimensione nella superficie terrestre.
Alcuni geografi ritengono che una siffatta concezione integratrice porti alla riunificazione della geografia. Tra la geografia umana di una volta e l'odierna geografia culturale, tra la geografia regionale di ieri e l'analisi regionale (o la scienza regionale) contemporanea, esiste un'evidente continuità, nonostante i cambiamenti di metodi e di tecniche. La geografia, associando un'ecologia umana a un'analisi spaziale, consente di giungere alla conoscenza globale delle parti della superficie terrestre, traguardo ambizioso rincorso da tutti i geografi. Ma, sebbene altamente suggestiva, questa visione ecumenica della geografia non soddisfa del tutto. Il problema chiave della riunificazione della geografia è sempre quello della sua finalità.
Non basta parlare di sintesi della natura e della cultura, degli ambienti naturali e degli spazi umani; occorre definire le espressioni di queste relazioni e gli oggetti di studio. Vi fu certamente un tempo in cui la geografia, nata prima di altre scienze naturali e umane aventi obiettivi meglio precisati, poteva ambire alla sintesi di tutto ciò che è presente su un lembo della superficie terrestre; ambizione che, oggi come in passato, tende a soddisfare la curiosità geografica di ogni essere umano e spiega il duraturo successo dei volumi e delle collane di geografia regionale. Ma oggi non è possibile elaborare una sintesi interdisciplinare con pretese universali; d'altronde, tutte le scienze che studiano fatti presenti sulla superficie della Terra si occupano degli aspetti spaziali di localizzazione e di distribuzione (fino a non molto tempo fa si sarebbe detto degli ‛aspetti geografici' di tali fenomeni).
b) L'organizzazione dello spazio
A partire dagli anni sessanta, nella nuova geografia si è usata sempre più frequentemente l'espressione ‛organizzazione dello spazio', espressione che si ricollega a due tipi fondamentali di analisi spaziale, entrambi derivati dai concetti di poli e di reti: l'analisi delle reti urbane e quella della differenziazione degli spazi urbani e agricoli in rapporto ai centri (urbani e agricoli).
Spesso, tuttavia, l'analisi non risponde completamente al significato del concetto. È necessario, quindi, riferirsi rigorosamente al concetto stesso e approfondirlo perché la geografia trovi la sua piena autonomia scientifica.
Prendiamo un fenomeno universalmente diffuso come la città ed esaminiamo come lo affrontano gli specialisti di diverse discipline. Ecologi e urbanisti studiano i rapporti tra la sua estensione e le condizioni naturali, il suo inserimento ecologico e architettonico nel paesaggio. I demografi si occupano della popolazione, definendone gli elementi, la struttura e la dinamica. I sociologi guardano a questa popolazione come a una società organizzata, differenziata in gruppi e in classi sociali che rivelano comportamenti specifici. Gli economisti considerano la città come un'entità economica che produce e consuma, costituita da unità di produzione e da famiglie consumatrici. Psicologi (più esattamente psicosociologi), storici, architetti si dedicano a studi complementari.
Poiché tutti i fenomeni si distribuiscono nello spazio, alcuni di questi studi si valgono di rappresentazioni cartografiche delle distribuzioni e delle ripartizioni. Carte della ripartizione delle età (o dei paesi di provenienza, o dei quadri dirigenti) rivelano le differenze di densità, di distribuzione, di localizzazione. Dal momento che gli specialisti non si occupano sempre né sistematicamente della ripartizione spaziale, i geografi spesso ritengono che questo sia un loro specifico compito e tendono a interessarsi delle proprietà spaziali dei fatti più diversi, elaborando geografie speciali, quali la geografia elettorale, medica, sociale. Ma accanto agli uomini e ai prodotti, ai fatti economici, sociali, demografici, esiste un'altra realtà: quella dell'iscrizione di tali fatti nello spazio - con le loro forme e combinazioni e i loro adattamenti alla coesistenza spaziale - nonché dei rapporti di ogni genere esistenti, e spazialmente espressi, tra tutte queste categorie di fenomeni.
Tornando all'esempio della città, il geografo troverà posto vicino agli altri specialisti per studiare la differenziazione degli spazi urbani in quanto espressioni di un'organizzazione e di una strutturazione. Non si tratta di studiare le relazioni degli uomini tra loro, né i gruppi umani, né i fatti d'ordine economico, ma di comprendere attraverso quali processi l'intervento dell'uomo umanizzi e organizzi gli ambienti, perseguendo, secondo una logica spaziale, l'utilizzazione ottimale del suolo in funzione di determinati obiettivi.
1. Le espressioni dell'organizzazione territoriale. - In qual modo l'organizzazione dello spazio si esprime geograficamente, cioè sulla superficie della Terra? Si esprime in localizzazioni, divisioni, organizzazioni.
Le localizzazioni. L'uomo, sia preso individualmente sia come collettività, s'insedia e opera sulla superficie della Terra. Su di essa costruisce case, fabbriche, fattorie; coltiva, utilizza le risorse; ed è presente su di essa anzitutto come membro di un gruppo più o meno complesso (dalla famiglia alla nazione).
A ogni presenza umana, a ogni opera umana, corrispondono localizzazioni. Orbene, la localizzazione non è mai indipendente, poiché è sempre connessa con ciò che la circonda, con fenomeni dello stesso tipo e con altri fenomeni; da ciò discende che i caratteri propri del fatto ‛localizzato' sono completati, modificati, positivamente o negativamente, dalle proprietà legate all'ubicazione.
Accade così che molti organismi collettivi non compiono efficacemente la propria funzione a causa di un'infelice ubicazione; un'università, un complesso ospedaliero, un centro amministrativo assolveranno il loro compito in modo più o meno soddisfacente a seconda che siano bene o male ubicati, bene o male serviti, bene o male integrati nel tessuto urbano o immediatamente circostante, bene o male ubicati e collegati rispetto ad altri organismi dello stesso tipo, più o meno suscettibili di adattarsi agli sviluppi urbani successivi.
Insomma, una localizzazione, qualunque sia e per isolata che possa apparire, non è mai del tutto autonoma, indipendente; è sempre collegata con altre, fa parte di un sistema di rapporti e di una rete di distribuzione senza i quali non avrebbe ragione d'essere.
Ogni localizzazione appare dunque come un elemento di uno di quegli spazi particolari ai quali abbiamo accennato (spazio universitario, spazio medico, spazio amministrativo), ma è anche uno degli elementi dello spazio reale, dello spazio geografico, in cui s'incastra come la tessera di un mosaico; diventa, infine, uno degli elementi di trasformazione dell'ambiente preesistente, naturale o umano.
Ogni localizzazione corrisponde all'esercizio di una funzione (residenziale, produttiva, di servizio, di comunicazione, ecc.). Tali funzioni si dispongono gerarchicamente, a livelli molto differenti tra loro, da quello locale a quello mondiale, passando attraverso i livelli regionali, interregionali, nazionali, internazionali, intercontinentali. Così avviene per le strade, per gli aeroporti e in genere per tutti gli organismi di produzione, preposti ai servizi e alle relazioni.
Un'autostrada internazionale che, attraverso una valle alpina, colleghi l'Europa settentrionale con quella meridionale, ha un significato di localizzazione d'importanza ben superiore a quella di una strada secondaria. La localizzazione del maggior aeroporto internazionale di una grande potenza politica e quella di un aeroporto di terza categoria pongono problemi diversi, discendono da diversi livelli decisionali e non danno certo origine agli stessi conflitti di concorrenza territoriale.
Queste funzioni, diverse per natura e per dimensioni, coesistono forzatamente, inserendo nello spazio un mosaico molto eterogeneo, che fatalmente determina problemi di coesistenza.
Dal momento in cui si decide la localizzazione, la funzione s'incarna in un elemento morfologico durevole del paesaggio, entra a far parte della composizione urbana o rurale, modifica la linea dell'orizzonte, trasforma il luogo.
Le divisioni dello spazio. Il primo intervento di una comunità umana in un ambiente consiste nel delimitare il proprio territorio, prenderne possesso, proclamarne la conquista; tutto ciò viene espresso tracciando dei confini. Tribù, etnie, collettività, nazioni, Stati proclamano o rivendicano il loro diritto di proprietà collettiva sui territori fissando dei confini. La gestione dello spazio ha bisogno di tale divisione, politica e amministrativa.
Gli uomini prendono possesso dello spazio anche a un altro livello, quello della proprietà del suolo ai fini dell'utilizzazione. Spesso si dimentica che questa forma di appropriazione del suolo, antica quanto l'uomo, ha significati profondi. Originariamente il catasto aveva un significato religioso, la divisione del suolo voleva essere l'immagine del cosmo. Ma i sistemi fondiari differiscono molto nelle varie società: sistemi consuetudinari e collettivi delle società africane, in cui la proprietà nasce dal lavoro del suolo; sistemi delle società occidentali, all'interno delle quali si distinguono regioni in cui prevale la proprietà contadina e altre in cui prevale la proprietà di persone abitanti in città; sistemi di proprietà di Stato dei paesi comunisti.
La divisione parcellare, legata alla proprietà fondiaria, è il fattore principale dell'umanizzazione della superficie terrestre. Lo studio delle dimensioni, delle forme, dei raggruppamenti parcellari introduce il geografo in un universo estremamente vario di tecniche, di comportamenti, di rapporti tra classi sociali. Nello studio delle strutture parcellari si coglie nella sua pienezza l'espressione geografica delle strutture sociali in ambiente rurale, si vede un sistema socio-economico materializzarsi in una struttura spaziale terrestre. Nelle città, l'appropriazione del suolo è il primo anello di una catena formata dall'edilizia, dal rinnovamento del patrimonio immobiliare, dall'ampliamento degli spazi urbanizzati e dalla speculazione.
La proprietà del suolo è il fattore determinante della sua utilizzazione. Il proprietario è l'arbitro della sua destinazione o della sua concessione in uso. Perciò la differenziazione dell'utilizzazione del suolo, secondo categorie responsabili dell'intarsio sorprendente che si presenta a uno sguardo panoramico, è condizionata dai dati di fatto geografici ed ecologici che il possessore del terreno può prendere in considerazione, ma soprattutto dal posto che una parcella o una proprietà occupa nella strategia spaziale del proprietario o del locatario. Inoltre, l'utilizzazione è fortemente condizionata dalle dimensioni, dalla forma e dall'ubicazione della parcella.
Le società, le culture, le civiltà si materializzano e si esprimono nelle strutture parcellari che creano dal nulla secondo la loro immagine della Terra, la loro percezione dell'ambiente attraverso modelli preesistenti, insomma secondo un pensiero geografico determinato.
Le organizzazioni. Le trame amministrative, fondiarie e di utilizzazione del suolo, sorprendenti per la loro regolarità, non sono isotrope; tutti i loro punti di localizzazione, tutte le loro componenti di base sono ubicati in rapporto all'esistenza di centri dove si localizzano i luoghi di comando, di decisione, d'investimento, o più semplicemente di mercato, di scambio di beni e di servizi. Tutte queste trame s'intersecano con altre trame, quelle dei flussi, della circolazione, delle relazioni.
La fattoria è il centro dell'azienda agricola; il villaggio è il centro del comune rurale; la cittadina è il capoluogo di una piccola regione; la metropoli con diversi milioni di abitanti è la capitale di un grande Stato; New York, Takya, Londra e poche altre città sono centri di comando su scala mondiale.
Un villaggio di 200 abitanti e una metropoli delle dimensioni di New York non si somigliano, ma hanno in comune certe funzioni: sono nodi di relazioni e organizzano uno spazio; la loro posizione determina la distribuzione delle localizzazioni e soprattutto la costruzione delle reti di relazione.
Il crocevia, il nodo di comunicazioni sono l'espressione geografica delle infrastrutture che permettono lo sviluppo di una vita economica e sociale. La pista, il sentiero, la strada sono certamente, insieme con la parcella, l'area coltivata e l'insediamento, l'impronta più notevole dell'azione umana sulla superficie terrestre; chi si trova sul bordo dell'autostrada o in prossimità di un centro o di un incrocio è avvantaggiato rispetto a chi si trova su una strada secondaria o lontano dal centro. Questa differenza si definisce in termini di accessibilità, di tempo, di costo.
Infatti le infrastrutture di relazione e di distribuzione sono fattori di differenziazione dello spazio, importanti quanto, nell'ambiente naturale, le valli e gli spartiacque.
Lo spazio situato lungo le infrastrutture è favorito in termini di valore fondiario, d'uso e di servizi. L'influenza del nodo, del centro, del polo e l'effetto di polarizzazione diminuiscono con la distanza fino a cessare là dove comincia la zona d'influenza di un altro centro. È grande merito del Christaller aver analizzato, studiando il caso della Germania meridionale, i processi che conducono a una strutturazione esagonale degli spazi.
All'interno di ogni zona d'influenza la differenziazione spaziale sarà determinata da dati topologici di vicinanza o lontananza rispetto al centro. In ambiente rurale le forme di utilizzazione agricola si distribuiscono in zone concentriche in funzione del costo del terreno, dei sistemi di coltura, del valore dei prodotti e delle condizioni del mercato: le aree ortive e quelle destinate all'allevamento da latte saranno le più vicine, quelle destinate all'allevamento da carne e allo sfruttamento forestale le più lontane (a meno che la foresta non assuma funzione ricreativa). In ambiente urbano avviene una differenziazione analoga del costo del terreno in funzione della centralità.
Le zone d'influenza dei centri di polarizzazione sono territori in posizione subordinata. Sono regioni polarizzate, regioni funzionali, regioni nodali, assai diverse dalle regioni naturali definite da uno o più caratteri fisici. La divisione di un territorio è l'espressione della sua rete di centri e le dimensioni delle regioni sono proporzionali al raggio d'azione dei centri stessi.
Tutti questi fatti geografici non hanno le stesse dimensioni e la stessa portata. Pertanto la gerarchia è un fondamento delle strutture spaziali, così come lo è in natura nell'organizzazione di un bacino idrografico, all'interno del quale i corsi d'acqua sono gerarchizzati per assicurare il deflusso di un volume idrico crescente da monte a valle. In un territorio si riscontra una gerarchia di centri, corrispondente ai diversi livelli di funzioni, e una gerarchia delle reti di relazione e di distribuzione, corrispondente ai diversi livelli di traffici. Il controllo territoriale di una regione è assicurato da questi diversi livelli che agiscono come intermediari della ‛capitale' o della ‛metropoli'.
2. Le relazioni fra le trame. - L'analisi geografica non si ferma all'analisi di queste differenti trame e reti, poiché le une e le altre coesistono e si sviluppano integrandosi insieme.
Le relazioni fra le trame umane. Il problema più rilevante è quello dell'articolazione delle trame fra loro, delle loro reciproche influenze e relazioni. La trama fondiaria, ad esempio, condiziona fortemente la varietà dell'utilizzazione del suolo. La trama parcellare, che è collegata con quella fondiaria, non è indipendente dalle maglie della rete viaria. Infine, l'insieme delle reti si colloca nel campo dinamico dei centri e dei poli.
Ora, la coesistenza e l'integrazione spaziale di tutti i tracciati e di tutte le forme iscritti nella superficie terrestre sono molto complesse e molto delicate. Anche in tal caso l'analisi delle realizzazioni umane rivela una gamma di esperienze e di pratiche spaziali veramente sorprendente.
Senza pretendere di sviluppare sistematicamente questi dati, ci limiteremo a mettere in luce tre aspetti: quelli della coerenza spaziale, della dinamica spaziale e dell'inerzia spaziale.
Uno dei migliori esempi di coerenza spaziale è offerto dall'organizzazione dello spazio in un polder (bonifica) poco dopo la sua realizzazione e nei primi tempi del suo popolamento. Tutto quello che c'è, è stato fatto in un periodo brevissimo, in base a possibilità tecniche e a programmi economici e sociali ritenuti ottimali sotto ogni riguardo. L'insieme delle trame parcellari, degli insediamenti e delle strade è stato concepito unitariamente: fattorie, nuclei, villaggi, città centrale si distribuiscono regolarmente, in una gerarchia direttamente ispirata alla teoria di Christaller. Tutte le parcelle sono servite da reti di relazione.
Una simile coerenza si spiega con l'unità di concezione e con la simultaneità di arrivo, nel polder da poco prosciugato, di tutti gli elementi dello spazio. La coerenza si riscontra, oltre che fra le trame, anche fra le forme e le funzioni agricole, artigianali, residenziali, urbane.
Un altro tipo di coerenza, in un altro tipo di sistemazione spaziale, è rappresentato da Brasilia, come, del resto, da tutte le città del mondo di nuova fondazione.
Ma, in questo caso, il controllo di tutte le forze intervenute nel centro urbano sorto dal nulla non ha potuto essere esercitato in forma generale e totale come nell'esempio del polder, perché qui, accanto ai responsabili dello sviluppo urbanistico, sono intervenuti numerosi altri agenti che hanno alterato, mutato, sconvolto i programmi fissati. D'altra parte, gli effetti indotti scatenati dall'operazione - soprattutto l'arrivo di numerosi immigranti in cerca di lavoro - sfuggivano al controllo; donde uno squilibrio tra alloggi disponibili e abitanti in cerca d'alloggio, squilibrio che si risente anche a livello di costi e di redditi, e la comparsa delle bidonvilles.
Peraltro, accanto a questi esempi di coerenza, l'analisi spaziale rivela casi molto più frequenti d'incoerenza: incoerenza fra le trame (trama parcellare, trama fondiaria, trama di utilizzazione del suolo), incoerenza fra le trame e le reti (trama parcellare e rete di comunicazione), incoerenza fra le forme e le funzioni. Le periferie urbane sono certamente i modelli spaziali in cui si accumulano e si giustappongono le incoerenze più vistose.
Ciascun elemento dello spazio organizzato e umanizzato ha propri ritmi di evoluzione e di durata, ha proprie possibilità di adattamento e di flessibilità. La casa è costruita perché duri un certo numero di anni, l'attività di una fabbrica si protrarrà per un certo periodo, il canale resterà in funzione per diversi decenni. Ma ognuno di essi ha una sua dinamica condizionata da numerosi e differenti fattori: l'invecchiamento, la vetustà, l'ammortamento dei capitali investiti, il cambiamento di proprietario, il cambiamento di funzione, l'espropriazione; senza considerare le disgrazie e le catastrofi.
Nello spazio rurale l'utilizzazione del suolo varia con la congiuntura, con i progressi agronomici e, soprattutto, con la capacità innovativa degli agricoltori e con la rapidità di diffusione delle informazioni e delle idee. Le trasformazioni agricole, le ricomposizioni fondiarie, l'abbattimento delle scarpate divisorie e delle siepi procedono con un ritmo più lento, incontrano maggiori resistenze. I trasferimenti di abitati sono ancora più rari e rappresentano una vera ‛rivoluzione' geografica. Nello spazio urbano le interdipendenze sono molto più forti e la concatenazione tra parcellare, edificato, forme, reti e funzioni è assai più complessa.
La dinamica spaziale iscrive nel suolo strutture che esprimono - da un'epoca all'altra - la diversità dei principî e delle tecniche che le guidano. Tuttavia le innovazioni tecnologiche hanno esercitato la loro influenza sulle organizzazioni spaziali, dalla scoperta del fuoco a quella dell'energia nucleare, dall'invenzione della ruota alla diffusione dell'automobile.
Le osservazioni sulla coerenza e sulla dinamica spaziale conducono al concetto d'inerzia spaziale. Tutto ciò che si materializza e si fissa sulla superficie terrestre acquista un carattere di permanenza e durata. Una volta che si traccia una strada, che sorge un incrocio, che si costruisce una fattoria o una città, sembra che questi elementi acquisiscano una posizione di privilegio dalla quale possono permettersi di sfidare le ingiurie del tempo.
Infatti, la rete stradale di gran parte d'Europa deriva da quella romana. Gli insediamenti rurali risalgono alle diverse tappe del popolamento e del dissodamento medioevali. Le ubicazioni delle città sono, tra i vari fatti geografici, quelli che mostrano la maggior capacità di persistenza, e così, di conseguenza, gli incroci e le reti stradali che esse controllano.
Le trame spaziali iscritte nel suolo acquistano insomma una persistenza che rende qualunque ‛geografia' una struttura invecchiata subito dopo la nascita, in via di superamento non appena realizzata, per il fatto che tutti i fattori che hanno contribuito a dare allo spazio una certa struttura evolvono con ritmi ben più rapidi: accrescimento demografico, espansioni e crisi economiche, cambiamenti dei sistemi politici (per es. i paesi socialisti dell'Europa orientale, compresa l'Unione Sovietica, non hanno del tutto assorbito le strutture spaziali dei sistemi precedenti).
L'inerzia spaziale, pertanto, offre ulteriori spunti d'interesse all'analisi geografica: facendo dello spazio un archivio di forme, consente di coglierne i mancati adattamenti. Dunque, la vita delle società si svolge in un ambiente geografico e con un'organizzazione spaziale sfasati, in più o meno grave discordanza con le tecniche e le funzioni contemporanee. Le nostre città ne sono l'immagine più vistosa e insieme più drammatica.
Le relazioni fra le trame umane e le trame naturali. Finora si è parlato soltanto di rapporti fra le trame e le reti, ignorando gli ambienti naturali. Ma siccome le strutture parcellari, le categorie di utilizzazione del suolo, le infrastrutture di relazione e di distribuzione si collocano in ambienti naturali estremamente vari, i modelli e le concezioni di organizzazione, di localizzazione, di modi di popolamento devono obbligatoriamente adattarsi alle condizioni dell'ambiente.
Per dirla con maggior chiarezza, bisogna tener presente che i modi nei quali le società organizzano i loro territori, e che emanano dal profondo delle culture e delle civiltà, sono essi pure influenzati, non sempre coscientemente, da tali condizioni.
Il problema del determinismo è stato già accennato. A questo punto non è possibile negare l'esistenza di un certo determinismo geografico, un'influenza dei fattori naturali sui processi di distribuzione, di differenziazione e di organizzazione.
Talvolta le organizzazioni spaziali non oppongono difficoltà allo studio perché danno origine a paesaggi semplici: è il caso dei paesaggi monogenici, quali quello delle townships dell'America anglosassone (che a distanza di secoli ripete, se non le finalità delle divisioni catastali romane, almeno la loro semplicità), quello dei polders, quello delle città nuove. Ma la storia dell'umanità - resa complessa dalle migrazioni, dagli spostamenti di confine, dalle espansioni culturali ha portato alla costruzione soprattutto di paesaggi poligenici. Certi territori sono come le tessere di un mosaico: ognuna con la propria storia e la propria cronologia, ma - e ciò è fondamentale - in coesistenza spaziale.
La comprensione delle possibilità offerte da un ambiente, la sua utilizzazione ottimale, l'adattamento alle sue particolarità sono sicuramente l'espressione più completa dell'intelligenza umana. Gli effetti del determinismo non sono diretti: la natura del terreno o del clima non determina direttamente la scelta e la localizzazione di una coltura, il sito di una città. Gli effetti passano sempre attraverso la decisione e la libertà umana: è sempre l'uomo che sceglie, e può accettare o respingere, può comprendere i messaggi dell'ambiente, ma anche rifiutarli.
Pertanto lo studio geografico rivela la saggezza e la dissennatezza degli uomini nei loro rapporti con la Terra. È saggezza o follia occupare i delta e costruirvi prodigiosi sistemi di canali e di parcelle inondabili? È saggio o insensato costruire terrazze coltivabili sui ripidi pendii delle montagne tropicali e reti irrigue sotterranee nei paesi aridi?
La sovrapposizione delle trame di organizzazione e degli ambienti naturali - di per sé già molto differenziati - comporta la grandissima varietà di aspetti che si riscontra sulla superficie terrestre. Le innumerevoli combinazioni risultanti dall'alleanza della natura e della cultura sono la causa dell'infinita gamma di paesaggi offerti dalla Terra.
Un tempo la geografia, nel descrivere gli aspetti della superficie terrestre, apriva e richiudeva successivamente un certo numero di cassetti. Oggi, nello studiare l'organizzazione dello spazio, deve analizzare, spiegare e valutare le strutture spaziali, nei loro elementi, nella loro dinamica, nelle loro combinazioni. Con l'adozione dei moderni concetti di polarizzazione di reti e di organizzazione dello spazio, il tradizionale concetto di geografia regionale ha subito un sostanziale cambiamento, ma non ci si deve stupire se, come in passato, lo studio regionale costituisce la parte essenziale della ricerca geografica.
Le localizzazioni, le divisioni, le organizzazioni territoriali sono espressioni contingenti, relative, di modelli teorici, di rappresentazioni culturali, di fatti di civiltà. Gli uomini devono venire a patti con tendenze, situazioni, vantaggi o costrizioni d'ogni genere. La parte della natura e la parte dell'uomo nella differenziazione e nell'organizzazione della superficie terrestre variano grandemente secondo l'antichità della presenza degli uomini nel territorio, la loro organizzazione sociale ed economica, le loro possibilità d'investimento e le loro capacità tecnologiche, i loro pensieri e le loro immagini spaziali.
c) Finalità ed effetti dell'organizzazione dello spazio
I geografi si trovano in presenza di una superficie terrestre che, attraverso i paesaggi e al di là di questi, rivela la prodigiosa storia delle società umane come fattori geografici. È una storia appassionante e straordinaria, che avvicina l'uomo al suo habitat terrestre e gli fa comprendere l'imponenza dell'opera di generazioni precedenti e di popoli che pure gli appaiono tanto diversi; ma è anche una storia che gli dà la consapevolezza e la misura dell'azione umana e delle sue responsabilità.
Infatti, la ricerca geografica porta alla valutazione delle azioni dell'uomo, al giudizio sui risultati dell'organizzazione dello spazio. Da millenni stiamo umanizzando il nostro pianeta con interventi diversi, con mezzi sempre più efficaci. A quale scopo? Con quali conseguenze?
Si possono distinguere quattro gruppi di valori.
Un primo gruppo è costituito da valori d'ordine economico, legati alla presa di possesso del suolo, alla conquista coloniale. L'organizzazione dello spazio è concepita con il solo fine di uno sfruttamento delle risorse: risorse agricole, forestali, minerarie, industriali, umane (nel caso di sfruttamento della manodopera), turistiche (sfruttamento del mare, di particolari luoghi, di condizioni climatiche favorevoli, ecc.). La concezione che guida questo sfruttamento è quella del profitto, del massimo reddito con il minimo investimento; nella localizzazione si scelgono le soluzioni meno costose, meno aleatorie, più redditizie. È il caso dei paesi sottosviluppati al momento del loro decollo economico, delle regioni in piena industrializzazione, dei territori sottoposti a uno sfruttamento selvaggio e disordinato.
I risultati geografici sono evidenti e numerosi: i ‛paesi neri' delle vecchie regioni industriali, le città dominate dall'attività mineraria o industriale, spesso da un solo ramo dell'industria. Tutto lo spazio è organizzato in funzione della fabbrica, in rapporto alle fabbriche e ai pozzi minerari, attorno ai quali sorgono i quartieri operai e le bidonvilles. Questo spazio - caratterizzato da uniformità e omogeneità sociale - è concepito unicamente come ambiente di lavoro; i suoi abitanti sono considerati solo come fattori di produzione.
All'altro estremo della serie troviamo le ‛fabbriche' del tempo libero (stazioni per gli sport invernali, stazioni balneari, ecc.), dove l'ambiente è concepito in modo da fornire un solo prodotto standardizzato e dal gusto programmato, con l'unico scopo di stimolare la massima spesa.
Gli spazi organizzati in funzione di questi valori sono uniformi, monotoni, squilibrati nelle loro dotazioni, concentrati al massimo; i valori economici (costi fondiari, ecc.) sono parimenti all'origine delle localizzazioni e delle delocalizzazioni degli impianti e quindi dell'isolamento o del non isolamento di un territorio.
Un altro gruppo comprende valori d'ordine sociale, derivati da concezioni idealistiche, socialiste, filantropiche, umanitarie, le quali si propongono di fornire all'uomo delle condizioni ambientali e di vita che gli permettano non solo di lavorare, ma di soddisfare pienamente le esigenze individuali, familiari e di vita sociale; le organizzazioni spaziali mostrano la tendenza ad assicurare servizi diversificati.
Tali valori sono stati espressi, attraverso i secoli, nei progetti di città ideali, nelle città degli utopisti, nei falansteri e nelle prime città-giardino britanniche del XIX e del principio del XX secolo. Da una trentina d'anni questa finalità sociale ha preso forma in alcune città nuove, i cui elementi sono tutti orientati verso la creazione di un ambiente di vita dotato di tutte le attrattive ormai assenti nella vecchia città, con i suoi ghetti, le sue segregazioni, i suoi tuguri, le sue difficoltà di trasporto.
Le piante urbane, i quartieri, i servizi culturali e sociali, gli spazi verdi, le piste ciclabili, le vie e le piazze riservate ai pedoni fanno di tali organismi urbani delle città veramente ‛nuove'. Simili valori sono stati riscoperti da qualche tempo anche nelle vecchie città, dove si comincia a provvedere al risanamento dei centri storici, al restauro di antichi quartieri, alla riorganizzazione del traffico.
Un terzo gruppo è quello dei fattori ecologici. Qualsiasi azione geografica altera gli ambienti naturali, introducendo elementi estranei nei processi che regolano i delicati equilibri tra atmosfera, idrosfera, litosfera e biosfera. Non è certo il caso di insistere qui sulle responsabilità delle società nella trasformazione del mantello vegetale, nell'accelerazione dell'erosione, nei cambiamenti climatici.
In questi ultimi anni si è manifestato in tutto il mondo un movimento di difesa ecologica, di protezione della natura, anzi di ritorno alla natura. Per reazione alle aggressioni di cui la natura è stata vittima e agli inquinamenti di ogni sorta, si chiede agli uomini di rispettare la natura.
Di fatto, bisogna ammettere che dovunque le società umane siano presenti da almeno una cinquantina d'anni la parola natura non ha più senso. Da secoli, anzi da millenni, l'uomo è intervenuto nei processi di trasformazione degli ambienti naturali, che ne sono risultati profondamente umanizzati.
D'altronde, il comportamento delle società non può essere studiato solo come fatto ecologico: diversamente dagli animali, che sono semplici elementi dell'ambiente, l'uomo, per la sua intelligenza, per la sua libertà, per la sua capacità di progredire, è contemporaneamente nella natura e fuori della natura. Dagli uomini non si può pretendere un rispetto assoluto e semplicistico di una natura la quale, fra l'altro, dispone di una dinamica di adattamento. I valori ecologici che l'uomo ha il dovere di conoscere e tenere nella giusta considerazione sono valori quantitativi e qualitativi, capacità, valori di soglia, valori limite.
Vi sono infine dei valori d'ordine geografico. Una simile espressione non sorprenderà certo chi sarà giunto alla fine della lettura di questo testo e ricorderà quanto si è detto sulla dinamica e la coerenza spaziale.
I valori geografici positivi conducono a organizzazioni spaziali integrate e coerenti, a espressioni morfologiche di qualità, capaci di creare un ambiente di vita autentico.
Si prendono in considerazione valori geografici positivi quando nella decisione di una localizzazione industriale, urbana, stradale si tiene conto di tutte le possibili implicazioni spaziali e non ci si pone esclusivamente dal punto di vista funzionale, economiéo, o anche ecologico.
Molte regioni della Terra, grazie all'inerzia spaziale, hanno ereditato - da società rurali tradizionali o da società urbane preindustriali - organizzazioni territoriali e paesaggi di grande bellezza: sono testimonianze della realtà dei valori geografici. Sono anche testimonianze di tali valori - in questo caso negativi - i sintomi di patologie spaziali che si manifestano nelle periferie, nelle formazioni suburbane estensive, nella giustapposizione di residenze e di assi autostradali, nelle bidonvilles, nei ‛paesi neri' industriali, nelle campagne spopolate e depresse; e anche nelle gerarchie incomplete delle città e delle reti.
Tutti i valori di cui si è parlato coesistono in uno stesso spazio. Spetta al geografo studiarli attentamente per poter procedere a una diagnosi e fissare una linea terapeutica.
4. Conclusione
Il geografo francese M. Sorre applicava spesso alla geografia alcune parole di Cristo riferite nel Vangelo di San Giovanni: ‟Vi sono molte celle nella casa del Padre mio". In effetti, con il passar del tempo i geografi hanno moltiplicato le celle del campo di studio della geografia, con il rischio di annullare la realtà della casa e la sua unità. È evidente che la curiosità scientifica non può essere regolamentata e che non si può vietare agli studiosi l'uno o l'altro indirizzo di ricerca: la storia della scienza insegna che il progresso cammina più lungo i margini che sulle strade già tracciate e frequentate.
È certo, però, che i geografi hanno esagerato facendo della geografia una comoda copertura per l'esercizio di attività scientifiche le quali, in certi casi, non conservavano più alcun rapporto fra loro e neanche risultavano ormai più utili le une alle altre.
L'evoluzione concettuale e metodologica dell'ultimo venticinquennio ha rappresentato un progresso importante, ma un progresso unilaterale, imperniato sul concetto di spazio. Occorre progredire ancora per dotare la geografia di una specifica connotazione scientifica.
In questi ultimi decenni del XX secolo, quando tutte le azioni umane stanno ormai costruendo la geografia del 2000, si assiste a una nuova scoperta della Terra: una Terra più piccola, accessibile da ogni parte, della cui superficie i satelliti artificiali stanno rivelando tutti i caratteri; una natura terrestre esposta agli effetti e agli eccessi di una rivoluzione tecnologica appena iniziata; degli ambienti umanizzati che accusano squilibri dovuti a effetti di saturazione e di congestione nelle megalopoli e di sottopopolamento nelle campagne, con aumento degli squilibri tra gli spazi, le regioni, i continenti.
Gli uomini si accorgono di saper molto poco dei problemi di analisi, di dominio e di gestione della coppia natura-spazio; si accorgono di essere, come ha scritto il Bunge, ‟analfabeti dello spazio".
La geografia, nel suo nuovo volto, si presenta come geonomia e insieme geosofia: geonomia, cioè scienza dell'organizzazione della superficie terrestre; geosofia, cioè saggia consapevolezza delle relazioni con la Terra, capace di ricondurre gli uomini alle civiltà e alle culture ereditate da secoli di rapporti con gli ambienti, nonché al rispetto di quanto esiste su questo piccolo pianeta che accompagna verso il suo destino un'umanità unica nell'Universo.
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