Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il termine postmoderno più che una definizione indica un insieme di esperienze che hanno, in comune, una condizione di partenza: il venir meno di alcuni grandi categorie estetiche e produttive, di alcune significative discriminazioni che hanno svolto una funzione di riferimento e orientamento, non solo nella società, ma anche delle singole pratiche artistiche. Così come nelle arti visuali e nell’architettura, nelle poetiche cinematografiche che chiamiamo postmoderne, è forte un riferimento al presente assoluto dei generi e dei linguaggi, come bacino inesauribile di arnesi che rendono ancora possibile la narrazione.
Con la fine del sistema hollywoodiano viene a cadere un forte modello di riferimento, in positivo come il negativo, per i cineasti europei. Meta di fortuna economica o rifugio dalle dittature, quello americano classico realizzato negli studios esprimeva comunque un’idea di cinema fortemente strutturata rispetto alla quale calibrare la propria identità d’artista, sia che si volesse aderire a essa sia che ci si volesse opporre ai suoi presupposti e optare per strade diverse e antagoniste.
Se è difficile definire un ambito postmoderno per il cinema è possibile tuttavia riconscerne alcuni caratteri che lo avvicinano alle condizioni in cui versa l’intera società in un determinato contesto storico e sociale. In un sistema in cui fare un film appare sempre più come un’impresa isolata e una scommessa basata su capitali ingentissimi, in cui le identità si contaminano e si frammentano, in cui le coordinate geopolitiche e psicologiche del pianeta sono continuamente sottoposte a revisioni radicali, l’artista appare, da un lato, sempre più consapevole di muoversi in un universo nel quale le grandi narrazioni (ideologie, religioni, appartenenze etniche e così via) hanno perduto la loro spinta propulsiva e dove non solo i bisogni materiali tradizionali ma persino quelli psicologici sono stati sostanzialmente appagati, lasciando però spazio a nuovi tipi di malessere difficili da qualificare e descrivere (prima fra tutte la nostalgia per tutte quelle certezze – non necessariamente positive – che sono state lasciate alle spalle).
Se per Fredric Jameson il cinema postmoderno inizia a manifestarsi già ai tempi della nouvelle vague, ad esempio con la frammentazione citazionista e l’atteggiamento ironico e ludico dell’artista verso se stesso e le coordinate del proprio lavoro presenti in un film come Fino all’ultimo respiro (1959) di Jean-Luc Godard, per un altro studioso della crisi della modernità come David Harvey, tale passaggio si sarebbe effettivamente compiuto solo alcuni anni più tardi e sarebbe stato assunto anche a livello tematico in pellicole come Blade Runner (1982) di Ridley Scott o Il cielo sopra Berlino (Der Himmel uber Berlin, 1987) di Wim Wenders.
Il ragionamento appare convincente anche perché gli autori dei due film – inglese il primo e tedesco il secondo – hanno avuto percorsi paralleli destinati a divergere in modo radicale ed emblematico. Cinefili entrambi, con una grande passione per il cinema americano, dopo i loro primi lungometraggi i due tentano la strada hollywoodiana, con esiti catastrofici per Wenders, evidentemente irriducibile alle logiche di quel tipo di produzione, ed esaltanti per Scott che raggiunge un successo planetario con il fantascientifico Alien (1979), perfetto esempio di pellicola in cui i generi si confondono e una sorta di patina spettacolare nasconde la capacità di riflettere in modo acuto su alcuni aspetti della psicologia individuale e sociale. Dunque, tanto in Blade Runner, gigantesco noir futuribile, tratto dalle pagine di un maestro della letteratura fantastica come Philip K. Dick, quanto in Il cielo sopra Berlino, divenuto rapidamente film di culto per intere generazioni di cinefili e ripreso in numerosi sequel e remake, al centro della vicenda ci sono creature che – pur dotate di caratteristiche eccezionali – desiderano o rimpiangono la condizione, limitata ma intensa, degli esseri umani. Da un lato, infatti, abbiamo gli androidi del film di Scott, creature sintetiche che non possono essere distinte dagli umani se non per le performance formidabili che sono in grado di compiere e che hanno come destino quello di concentrare in un tempo brevissimo una quantità esorbitante di esperienze. Dall’altro lato, nel film di Wenders, gli angeli possono vivere in eterno, sapere tutto e spostarsi nello spazio alla velocità del pensiero, ma il loro è un mondo in bianco e nero, fatto di emozioni inconsistenti. Sia i replicanti che gli angeli, ciascuno a suo modo, rappresentano un nuovo tipo di umanità, caratterizzata da capacità potenziali inconcepibili fino a poco tempo addietro, ma al contempo costretta a fare i conti con la perdita di ciò che ne costituiva la natura profonda, la tensione fra finitezza degli orizzonti e capacità di pensare se stessa in una solida proiezione futura piuttosto che nella liquida indistinzione di un presente assoluto, così come lo descrive il sociologo Zygmunt Bauman.
In questo scenario si muove una intera generazione di registi europei che solo in Francia, grazie al sostegno reale di cui gode l’industria cinematografica da parte dello stato, può configurarsi come una sorta di movimento. Giovani autori come Jean-Jacques Beineix con Diva (1982) e Betty Blue (1986); Leos Carax con Boy Meets Girls (1983) e Gli amanti del pont-Neuf (1991) e Luc Besson con Le dernier combat (1982), Nikita (1990) o Léon (1994) si pongono come rappresentanti di un nuovo tipo di autorialità che prova a conciliare le istanze personali, le ossessioni individuali e la ricerca di uno stile riconoscibile con una serie di influenze eterogenee provenienti dal composito universo della pop culture.
Nei loro film si fondano la rilettura di elementi riconducibili al cinema del passato (topoi e stilemi di genere) e la spinta alla contaminazione con l’orizzonte audiovisivo reso assai più complesso dall’irruzione di altri e nuovi media (la tv, il videoclip, il multimedia e così via). I loro eroi cercano la strada di una diversa interiorità, venata di romanticismo nostalgico ma al contempo proiettata verso scenari futuribili e glamour .
A dialogare con loro, in altri paesi europei, sono singoli cineasti che quasi sopravvivono alla crisi generalizzata delle loro cinematografie nazionali, partendo dalla cultura specifica e contingente dei loro paesi d’origine per raggiungere poi una dimensione internazionale proprio in questa capacità di essere contemporaneamente classici e provocatori, canonici e sperimentali.
In Italia, ad esempio, Nanni Moretti mantiene in vita, praticamente da solo, per diversi anni, l’idea stessa di un cinema italiano che stia al di sopra della palude della commedia sexy e boccaccesca che fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta domina il mercato nazionale assieme ai prodotti di provenienza statunitense. Il regista romano è assieme autore e interprete di film assolutamente indipendenti e autobiografici che raccontano le inquietudini e i cambiamenti del loro protagonista, costretto a vivere in una società dominata dal caos e dalla repentina trasformazione di ogni identità, collettiva e individuale. Film come Ecce bombo (1978), Sogni d’oro (1981), Bianca (1984), La messa è finita (1985), raccontano una società italiana indecifrabile e il disorientamento individuale, fra slogan demenziali, banalità del quotidiano, discorsi sociali irritanti e devoti alla dittatura mediatica. Il tutto, però, gestito con una sincerità straordinaria e una brillante naturalezza che spinse inizialmente la critica a collocare Moretti nella schiera dei cosiddetti "nuovi comici", laddove, nel tempo, è divenuto chiaro che i suoi film compongono una sorta di diario generazionale, programmaticamente dichiarato in opere della maturità come Palombella rossa (1989), Caro diario (1993), Aprile (1998), La stanza del figlio (2001), dove alla vecchia formula "il privato è politico" è stata data una originalissima interpretazione cinematografica.
Allo stesso modo, nella Spagna post-franchista, è emerso prepotentemente il talento di Pedro Almodóvar , esordiente anch’egli con opere pop dal registro comico come Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio (1980), Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988) o melodrammatico come Matador (1986), La legge del desiderio (1987), divenute emblematiche della vitalistica movida madrilena. Qui sono raccontati i destini di personaggi sopra le righe in un trionfo di elementi scelti con cura nell’area del comune cattivo gusto e volutamente esasperati. Nei film successivi viene ulteriormente precisata l’operazione costitutiva del cinema di Almodóvar, la capacità di costruire storie e personaggi profondamente rappresentativi, intensi, a tutto tondo, a partire da materiali bassi, di riciclo, per nulla nobili e comunque inconsueti nella logica dell’arte tradizionalmente intesa. I toni, gli argomenti, il contesto sono gli stessi della cultura di massa contemporanea, delle soap opera, delle telenovelas (tradimenti, amori impossibili, morbosità assortite e paradossali, un intreccio grottesco di eros e thanatos), ma l’intensità e la sensibilità della scrittura e della messa in scena di Almodóvar sono all’altezza dei grandi registi che lo hanno preceduto e lo definiscono come autore capace di conciliare l’aspetto spettacolare e popolare del cinema con una ricerca espressiva di assoluto livello, confermata dal successo planetario di Carne tremula (1997) e Tutto su mia madre (1999).
Sulla stessa lunghezza d’onda pare sintonizzato – pur con le enormi differenze dovute al contesto di provenienza – anche il danese Lars von Trier . Questi, dopo alcuni film estremamente complessi sulla necessità di rivedere continuamente il proprio punto di osservazione sui fatti e sulla storia, specie quella che concerne la koinè europea come L’elemento del crimine (Forbrydelsens element, 1984), Europa (1991), a metà anni Novanta è stato l’ideatore di un vero e proprio manifesto, Dogma (1995), nel quale si forniva una sorta di decalogo per la realizzazione di film in grado di attestare la purezza di una pratica cinematografica slegata dalle logiche del mercato e della società dello spettacolo (si tratta, nelle intenzioni degli autori, di un "voto di castità"). Una notevole quantità di registi, europei, americani, giapponesi ha aderito al progetto che tuttavia va inteso più come una provocazione ideologicamente orientata che non come un sistema di regole da osservare con rigidamente. Tanto è vero che von Trier è stato il primo a contravvenire ai propri comandamenti – rispettati davvero solo nell’estremo Idioti (Dogma 2. Idioterne, 1998) – e ignorati per realizzare i film che lo hanno davvero imposto all’attenzione della critica mondiale. Le onde del destino (Breaking the Waves, 1996) e Dancer in the Dark (2000), quast’ultimo interpretato dalla star islandese del rock, Björk (1965-), sono altrettante parabole melodrammatiche che rivisitano in chiave pop (sempre con notevole carica provocatoria) assunti della filosofia esistenzialista e del protestantesimo nordeuropeo. Il discorso prosegue con Dogville (2003), primo capitolo di una trilogia sulla Grazia, dove sullo statuto divistico della protagonista, Nicole Kidman (1967-), si gioca la partita di un’allegoria grottesca sul destino degli oppressi del mondo e sulla loro legittima volontà di risarcimento. Sul versante dolorosamente vitale dell’Est europeo, invece, si è mossa quasi tutta la carriera di Emir Kusturica, nato a Sarajevo a metà degli anni Cinquanta e cresciuto fra le mille contraddizioni della ex Jugoslavia, fra il fascino esercitato dalle radici balcaniche e gitane e il desiderio di evadere verso società più libere e benestanti. Dopo gli esordi televisivi, Kusturica ha realizzato, da Ti ricordi di Dolly Bell? (1981) a La vita è un miracolo (Zivo je cudo, 2004), passando per Il tempo dei gitani (Dom za vesanje, 1989) e Gatto nero, gatto bianco (1998), un affresco straordinariamente intenso e variegato che racconta, con frequenti incursioni nei territori visionari e onirici del grottesco, le grandi trasformazioni di una zona nevralgica ed esplosiva dell’Europa, avviata con enormi sofferenze verso la modernizzazione. Il valzer del pesce freccia (Arizona Dream, 1992) e il complesso Underground (1995) rappresentano due tentativi di variare i toni e di affrontare direttamente due questioni cruciali come la colonizzazione culturale statunitense e il conflitto che ha smembrato la Jugoslavia dopo la morte di Tito, ma il cinema di Kusturica resta soprattutto legato alla sua capacità di farsi emblema di un cinema di frontiera, nomade per vocazione, che si muove al ritmo delle scatenato cocktail di musiche balcaniche composte da Goran Bregović.