GEOLOGIA (XVI, p. 619; App. II, 1, p. 1030)
Durante la guerra 1940-45, si constatò che le nostre conoscenze in fatto di oceanografia, e soprattutto di topografia dei fondali oceanici, erano del tutto insufficienti; nel dopoguerra, pertanto, vennero attrezzate, con strumenti più moderni, varie navi oceanografiche con specialisti di tutte le discipline interessate, e in particolare della g., della petrografia e della geofisica. La larga messe di nuovi dati ottenuti permise, verso il 1960, di mettere a punto una nuova teoria, la g. globale o tettonica a placche, che sovvertiva tutte le precedenti cognizioni di g. generale e apriva un enorme e promettente campo di ricerca. Tale teoria permetteva d'interpretare, su nuove basi, la dinamica delle grandi strutture del globo (oceani e continenti) nonché le relazioni tra le caratteristiche geofisiche e petrografiche della crosta (solida e di spessore limitato) e le masse più profonde del mantello terrestre.
Questa nuova teoria, sviluppatasi rapidamente grazie all'intima collaborazione fra geologi, geochimici, sismologi, vulcanologi e petrologi, ha portato a una vera rivoluzione nelle conoscenze geologiche di base, in seguito alle scoperte riguardanti la nascita e l'evoluzione degli oceani. Le prove dell'espansione dei fondi oceanici sembrano infatti aver portato al declino delle ipotesi geologiche "fissiste", che spiegavano, per es., le analogie paleontologiche e le correlazioni stratigrafiche a grande distanza a mezzo di ponti intercontinentali. Nel nuovo quadro offerto dalle correnti "mobiliste", le prospettive classiche appaiono invece capovolte: geosinclinali, catene montuose, moti di deriva delle masse continentali, fosse oceaniche, archi insulari, rilievi sottomarini e sismi a media e grande profondità rappresenterebbero solo delle conseguenze nell'ambito di un sistema mobile in cui gli oceani, divenuti protagonisti, nascono e si sviluppano per una lenta risalita, da dorsali mediane, di materiale simatico (v. oltre) proveniente dal mantello.
I continenti perdono il ruolo primario assegnato loro finora. Essi rappresenterebbero solo i resti di un'originaria crosta sialica più volte smembrata e parzialmente "digerita" dai materiali simatici del sottostante mantello; zattere inerti e passive, alla deriva secondo il gioco dei movimenti in atto.
In un certo senso si torna alla teoria di A. Wegener, con il supercontinente Pangea (fig. 1), formato dalla Laurasia (a nord) e dalla Gondwana (a sud), e l'unico grande oceano Pantalassa; ma per motivi e cause completamente diverse, come si vedrà tra poco, e non per cristallizzare fino alle origini del globo una situazione che troviamo in atto nel Paleozoico superiore e nel Triassico. Anzi, la g. globale si propone, proprio in questi anni, di raccogliere dati per schematizzare le varie situazioni che si sarebbero create in precedenza, nei lunghi tempi del Paleozoico e ancor più dell'Archeozoico; situazioni dovute al vario gioco delle correnti di convezione (v. oltre) nello spazio e nel tempo.
Per una migliore comprensione di quanto segue, si tenga presente che i termini sial e sima, almeno nella loro accezione originaria, sono stati praticamente abbandonati. Le suddivisioni interne del globo terrestre oggi comunemente adottate sono due. La prima rispecchia fedelmente le principali discontinuità di ordine sismico, secondo le quali è possibile distinguere l'interno della Terra in crosta, mantello e nucleo, con ulteriori suddivisioni minori. La seconda ha un significato prevalentemente geodinamico, e pone in grande risalto le caratteristiche di rigidità o plasticità dei materiali; per tale motivo quest'ultima si adatta, meglio della prima, all'inquadramento delle moderne teorie mobiliste. Secondo quest'ultima, l'interno della Terra risulta suddiviso in litosfera, astenosfera, mesosfera e nucleo (fig. 2).
Per crosta s'intende la parte più esterna del globo, al disopra della discontinuità sismica detta di Mohorovičić (o semplicemente Moho). Quando si parla di crosta oceanica ci si riferisce propriamente al tipo di crosta, con spessori di circa 10 km, presente su gran parte dei bacini oceanici (circa tre quarti del globo); essa è costituita da rocce femiche e ultrafemiche rigide, con velocità di propagazione delle onde sismiche oscillante intorno a 6,5 km/sec. Il termine crosta continentale è meno univoco, in quanto un tempo era praticamente sinonimo di sial; in realtà la crosta terrestre in corrispondenza dei continenti, potente in media una quarantina di km, risulta composta non solo di ciò che un tempo veniva indicato come sial, ma anche di uno spessore basale considerevole di crosta a caratteristiche (per lo meno geofisiche) del tutto identiche a quelle della crosta oceanica, come se quest'ultima proseguisse inalterata dai fondali oceanici alle aree continentali. A eliminare confusioni, si mantiene il termine crosta continentale a indicare tutto ciò che esiste in corrispondenza dei continenti al disopra della Moho; vi è poi la distinzione fra i due livelli esistenti nell'ambito della crosta continentale: quello sialico (granitico-metamorfico-sedimentario) e quello simatico (di tipo basaltico); essa viene evidenziata introducendo il termine di strato del granito, solido, a densità media 2,7, con velocità di propagazione delle onde sismiche intorno a 5,6 km/ sec. e quello di strato del basalto, anch'esso solido, più denso del precedente, con velocità di propagazione intorno a 6,5 km/sec. I due strati risultano divisi da una discontinuità sismica (detta discontinuità di Conrad), non sempre facilmente accertabile e sul cui significato non tutti sono peraltro d'accordo.
Al disotto della Moho, in corrispondenza sia dei continenti sia degli oceani, per uno spessore di quasi 2900 km, fa seguito il mantello, in buona parte ancora solido, a eccezione della fascia che vedremo caratterizzare l'astenosfera. Esso è costituito con ogni probabilità di materiali basici e ultrabasici ad alta densità; si tratta di masse rocciose della famiglia delle peridotiti, e comunque molto ricche in olivine, con densità superiori a 3 e inferiori a 4.
L'astenosfera è una fascia, posta poco sotto la crosta, di potenza variabile e priva di rigidità e di elasticità, cioè allo stato fuso-viscoso; fascia il cui limite superiore è posto intorno ai 100 km di profondità, mentre sul suo limite inferiore vi sono ancora molti contrasti (secondo alcuni 300, secondo altri 600 km, come ordine di grandezza).
L'astenosfera sarebbe sede di grandi movimenti convettivi ciclici, estremamente lenti, che portano grandi quantità di materiali basici profondi a effondersi in superficie, attraverso quelle grandi linee di discontinuità della litosfera che sono le dorsali oceaniche (fig. 3). Tali movimenti a cicli convettivi verticali, variabili nel tempo e nello spazio, sarebbero dovuti a fenomeni chimico-fisici, con variazione di volume per reazioni chimiche, per modifiche minero-petrografiche (per es., passaggi da gabbro a eclogite o a rocce serpentinizzate), per squilibri termici, ecc. I moti di convezione (fig. 4) coinvolgerebbero in modo del tutto passivo la rigida litosfera sovrastante, e sarebbero la causa non solo della risalita delle masse basiche lungo le dorsali oceaniche, ma anche dei movimenti di espansione laterale dei fondi oceanici; espansione che avverrebbe con un allargamento progressivo, ai due lati di una dorsale, del fondale marino per adduzione di nuovo materiale. Quest'ultimo fuoriesce, solidifica e crea in tal modo nuova crosta di tipo oceanico che ricopre l'area lasciata libera dai due labbri della frattura, i quali si allontanano seguendo il moto di convezione. Il ciclo convettivo è completato dalla discesa, verso l'astenosfera, di altrettanto materiale in corrispondenza dei bordi continentali, lungo enormi piani inclinati (piani di Benjoff, o di subduzione, o di sottoscorrimento). I moti dell'astenosfera sarebbero responsabili sia della nascita che dell'estinzione (o "chiusura") degli oceani. Un oceano infatti può nascere dal nulla (fig. 5), anche in seno a un cratone, quando, attraverso grandi fratture (fosse tettoniche, rift-valleys), inizia a fuoriuscire e ad espandersi il materiale proveniente dall'astenosfera. I bordi della frattura si allontanano, l'oceano si allarga, può divenire enorme e alla fine, una volta cessata l'attività della cellula convettiva in quell'area (e iniziato un meccanismo simile in un'altra area, prossima o lontana), può restringersi gradualmente fino a scomparire.
Verso il basso l'astenosfera passa gradualmente alla mesosfera, di nuovo fortemente rigida, che continua fino al nucleo.
Il grado di evoluzione degli oceani. - Già i primi autori che si sono occupati, tra il 1960 e il 1965, di g. marina, hanno riconosciuto vari stadi nella storia evolutiva degli oceani. Il primo è uno stadio embrionale: appaiono nella crosta fratture e fosse tettoniche (rifts) che interessano anche le masse continentali (per es., Rift Valley dell'Africa orientale, la lunga e stretta depressione tettonica che è allineata lungo i Grandi Laghi e che si collega con la valle del Giordano). Il secondo è lo stadio giovanile, con allargamento delle fratture e comparsa locale di magma basico di tipo oceanico sui fondali (Mar Rosso, Golfo di Aden, Mar di Norvegia, Baia di Baffin, Golfo di California). In questa fase s'individua una dorsale in espansione che assume la forma di rilievo sottomarino.
I dati raccolti nel 1969-70 tendono a dimostrare che anche il Mar Tirreno, nella sua parte meridionale, presenta caratteri di oceanicità ed è molto più giovane di quanto si credesse: esso avrebbe assunto la sua struttura attuale, con una fortissima anomalia positiva di gravità (fino a 250 mgal; 1 mgal = 10-3 cm/sec2), solo 4 milioni di anni fa (Pliocene).
Il terzo stadio è di maturità: l'oceano assume le caratteristiche tipiche, con dorsali mediane in piena attività (Atlantico e Indiano); il quarto rappresenta già una fase di declino, con rallentamento o cessazione dell'attività delle dorsali, notevoli sprofondamenti dei fondali, compressioni lungo i margini continentali con formazione di ghirlande insulari (Pacifico occidentale); il quinto stadio (fase di compressione e sollevamento) esprime una tendenza alla chiusura dell'oceano per avvicinamento delle zolle già allontanate, o per lo meno dei loro resti (secondo vari specialisti, il Mediterraneo ne sarebbe un esempio).
L'attuale Mediterraneo non è che un residuo della Tetide, che nel Mesozoico aveva dimensioni molto maggiori e che si andò via via riducendo per l'avvicinamento della Gondwana alla Laurasia. In pieno Mediterraneo vi è un rilievo sommerso che forma una dorsale mediterranea, nella quale le deformazioni sono tuttora attive e coinvolgono i sedimenti del Quaternario.
Nello stadio di chiusura, o ultimo stadio, dell'antico oceano rimane solo una cicatrice, o geosutura, sottolineata dalla presenza di brandelli di oceaniti: con questo termine vengono indicate, per brevità, tutte le masse femiche e ultrafemiche, intrusive o effusive (nonché i loro derivati metamorfosati per serpentinizzazione), che provengono dai vari tipi di emissioni o d'intumescenze in area oceanica. Classico esempio è la ("linea dell'Indo", nell'Himalaya, che sottolinea l'avvenuta saldatura fra la massa euroasiatica e l'India, con chiusura della Tetide interposta.
Anche in Italia gli studi recenti hanno ormai portato alla convinzione che la grande "linea orobica", cui segue la "linea della Drava", sia una sutura oceanica (chiamata in senso lato "linea insubrica"). Dalla "zona delle radici " (Ivrea), da cui sarebbero salite le falde alpine, tale linea attraversa il Lago di Como, segue la Valtellina, viene spostata a nord dalla linea trasversale delle Giudicarie e si continua nella "linea della Val Pusteria e della Drava", fino in Iugoslavia. Lungo tale linea non mancano certo potenti masse di ofioliti, che dovrebbero rappresentare i resti di un antico tratto di fondale oceanico. Se la linea insubrica è una geosutura, l'oceano Tetide sarebbe stato situato fra il crinale delle Alpi e le Prealpi della Lombardia (a sud della Valtellina) e del Veneto (a sud della Pusteria). In tal caso le Alpi calcaree meridionali farebbero corpo con l'Appennino, non con la catena alpina; in effetti le serie lombardo-venete, con un Lias simile in parte al calcare massiccio, con il rosso ammonitico, la maiolica, la scaglia rossa, ecc., sono ben simili alle serie appenniniche e si continuano indisturbate, con eguale stile tettonico, sotto i sedimenti recenti della pianura padano-veneta. Si tenga anche presente che è ben difficile staccare le strutture della catena dell'Atlante (Africa settentrionale) da quelle sicule, che ne sono la continuazione diretta, con formazioni spesso identiche; per cui queste ultime e una parte di quelle del Rif (ambedue vergenti a sud) sono considerate, da vari specialisti, come un'unica entità tettonica. Tutti questi dati s'inquadrano bene nell'ipotesi di un avvicinamento recente dell'Africa all'Europa, con chiusura dell'antica Tetide.
Strutture di passaggio tra i continenti e gli oceani. - I limiti delle placche crostali (v. oltre) possono decorrere in pieno oceano, o in seno a un continente; ma è frequente il caso in cui un lungo tratto di limite coincida con un bordo continentale. Quindi i margini dei continenti rappresentano spesso importanti linee di discontinuità nella struttura della crosta e del mantello superiore. Lungo di essi sono localizzati i maggiori accumuli di sedimenti (che raggiungono spessori fino a 15 km) e si riscontrano le maggiori cinture orogenetiche attive; anche la maggior parte delle precedenti cinture orogenetiche (anteriori all'orogenesi alpina) risulta localizzata lungo margini continentali ora fossilizzati o saldati.
La tettonica a zolle dedica perciò grande attenzione alle aree di transizione fra continenti e oceani, anche se le caratteristiche delle strutture profonde possono venire accertate solo con studi sismici, soprattutto a rifrazione. Tutti gli autori sono concordi nel collegare a variazioni chimico-fisiche profonde lo sviluppo di queste aree, ma vi è ancora disaccordo sull'importanza dei movimenti orizzontali rispetto a quelli verticali. Ovviamente fissisti e mobilisti interpretano i dati in modo essenzialmente diverso. Si ritrovano prove di subsidenza anche imponente nei bacini sedimentari posti ai margini continentali, sia attuali sia fossili, per cui si sarebbe tentati di generalizzare l'importanza dei movimenti verticali; ma in altrettante aree vi sono prove certe di movimenti orizzontali ben maggiori. Ovviamente la risoluzione del problema dipenderà in larga misura da una migliore correlazione fra i dati geologici e geofisici e dalla determinazione precisa delle modalità di formazione dei singoli bacini oceanici.
Grande importanza assume l'interazione fra grandi unità strutturali in movimento, il cui limite spesso coincide con l'area di transizione fra oceani e continenti. Una fossa oceanica, con relative ghirlande insulari, vulcanesimo, alta sismicità, ecc., si formerebbe quando il margine di un'unità va a collidere con quello di un'altra e la velocità d'impatto complessiva supera i 6 cm l'anno: nessuna delle due placche è in grado di assorbire l'urto corrugandosi plasticamente; l'alta velocità d'impatto traduce i movimenti in uno scivolamento, per cui una placca s'infila sotto l'altra (sottoscorrimento o subduzione) lungo piani inclinati di 45° o poco meno e viene gradualmente assorbita dall'astenosfera (fig. 4). Se invece la velocità d'impatto è inferiore a 6 cm l'anno, le due zolle subirebbero entrambe delle deformazioni plastiche e si originerebbe una catena di montagne. Il materiale della crosta, ripiegato dagli sforzi di compressione, aumenterebbe localmente di spessore e darebbe luogo ai grandiosi fenomeni di sovrascorrimento e di tettonica per falde osservabili nelle maggiori catene del globo.
Il paleomagnetismo a sostegno della geologia globale. - Sarà utile ricordare come una roccia eruttiva, o comunque un materiale suscettibile di magnetizzazione, riceva e conservi un orientamento magnetico (a livello dei suoi componenti cristallini) al momento della sua solidificazione o formazione (v. magnetismo: Magnetismo terrestre, in questa Appendice). Questo orientamento corrisponde alla posizione dei poli magnetici in quel tempo, posizione che può essere uguale a quella attuale, ovvero opposta all'attuale, oppure può formare un angolo rispetto ai poli attuali, quando la massa rocciosa magnetizzata, da cui è stato tratto il campione, abbia in seguito subìto una torsione oraria o antioraria.
Alla magnetizzazione originaria se ne trova sovrapposta una seconda che corrisponde alla posizione attuale dei poli magnetici: quest'ultima ha un punto di Curie più basso e con opportuni accorgimenti (sottoponendola a un campo magnetico che non superi determinati limiti) la magnetizzazione recente scompare; è quindi possibile misurare - se il campione è stato prelevato sul terreno in modo ben orientato - la direzione di quella originaria. I casi più interessanti sono quelli da cui si desume un angolo, che indica una torsione della zona, da cui è stato prelevato il campione, avvenuta fra il momento in cui la roccia in esame si è consolidata o deposta e oggi.
È anche possibile stabilire l'inclinazione magnetica del campione; per es. se un blocco continentale si è spostato dalla zona equatoriale a una diversa latitudine, è possibile stabilire l'entità dello scorrimento verso nord o verso sud e ricostruire, con molti dati, le paleoisocline, in pratica i paralleli magnetici di un tempo, che spesso risultano ben diversi da quelli odierni e indicano quindi vasti movimenti di deriva, nel senso della latitudine, ai quali corrispondono anche variazioni climatiche.
Era noto da tempo che le misure paleomagnetiche non corrispondevano talora con l'attuale distribuzione del campo magnetico terrestre; tuttavia i geologi non avevano dedicato eccessiva attenzione al fenomeno. Negli ultimi anni invece un vivo interesse ha circondato le ricerche sul paleomagnetismo in tutto il mondo, sia nei continenti che in corrispondenza degli oceani. Ne è seguita una ricca messe di risultati sugli spostamenti relativi, antichi e recenti, delle masse continentali, sulle loro torsioni e sulla velocità di espansione dei fondali oceanici.
Quanto alle inversioni di polarità già ipotizzate nel passato, è risultato che la Terra presenta lo stesso grado di probabilità di possedere un campo magnetico "normale" oppure "invertito", variazione che avviene in realtà a intervalli non costanti ma non lontani dall'ordine di mezzo milione o un milione di anni. Questo dato è stato ampiamente confermato dallo studio delle dorsali oceaniche. Come già si è detto, lungo di esse vi è una continua fuoriuscita di magma profondo, con corrispondente espansione del fondale. I cristalli in via di formazione subiscono l'azione del campo magnetico esistente al momento della messa in posto del magma e il loro consolidamento "congela" questo orientamento magnetico. L'azione del campo terrestre permane per un certo tempo uniforme (come orientamento, se non per intensità) e in questo intervallo di tempo, poiché l'espansione nel frattempo continua, si formano ai due lati della dorsale due fasce parallele e speculari con magnetizzazione isorientata. Alla successiva inversione del campo magnetico terrestre, poiché le effusioni e l'espansione continuano con le stesse modalità, si formeranno altre due fasce a polarità invertita parallele e interne alle precedenti, e così via (fig. 6).
Associando i dati paleomagnetici con datazioni assolute è stato addirittura possibile recentemente fornire una scala cronologica paleomagnetica che interessa l'intervallo fra il Cretacico e il Quaternario, ora utilizzata come interessante mezzo di correlazione stratigrafica e come strumento indiretto per la misurazione degli spostamenti relativi delle zolle in movimento. Le fitte bande paleomagnetiche a polarità alternamente normale e invertita, disposte simmetricamente ai due lati della dorsale oceanica mondiale, oltre a fornire la prova più evidente dell'espansione dei fondi oceanici a partire dalle creste mediane e a fotografare gli spostamenti della dorsale lungo le linee trasversali di frattura, costituiscono una delle scoperte più affascinanti, in campo geologico, dell'ultimo decennio. Dall'ampiezza e dall'andamento delle bande, e tenuto conto della scala ora citata, si è potuto stabilire non solo la direzione, ma anche la velocità di espansione nelle singole parti della dorsale: circa 2 cm/anno nell'Atlantico meridionale; 3,5 cm/anno nell'Oceano Indiano meridionale; 4,5 cm/anno nel Pacifico nord-orientale e nell'Oceano Antartico.
Il paleomagnetismo offre, sugli spostamenti subiti dai continenti, tutta una serie di dati, fra cui particolarmente interessanti quelli relativi a movimenti di deriva dei continenti già nel Carbonifero e nel Paleozoico inferiore (Australia, piattaforma russa, scudo siberiano) e a movimenti di torsione, o rotazione, avvenuti in tempi recenti. Anche al limite fra il Paleozoico e il Mesozoico sembra essere esistita una fase di deriva continentale; in Europa, Nord-America e Africa le direzioni paleomagnetiche del Permiano differiscono infatti di circa 30° da quelle del Triassico, mentre in Australia le direzioni paleomagnetiche permiane si continuano senza variazioni in quelle del Mesozoico. I moti di deriva sembrerebbero dunque far parte di un aspetto ricorrente della storia geologica.
Altri dati paleomagnetici mettono in evidenza le varie fasi di separazione fra vecchio e nuovo mondo durante la formazione dell'Atlantico, a partire da non più di 150 milioni di anni fa. Un'altra serie di dati riguardo i rapporti fra Laurasia e Gondwana durante il Mesozoico e il Terziario. Gli studi paleomagnetici sulla Tetide e regioni adiacenti sembrano suggerire dei movimenti relativi di frizione (a direzione est-ovest) fra i due blocchi in corrispondenza della fascia orogenica alpina, oltre che massicci spostamenti verso nord del blocco africano e indiano.
Per citare qualche esempio dei risultati forniti dalle misure paleomagnetiche, ricorderemo che l'arcipelago giapponese si è curvato ad arco nella prima parte dell'era cenozoica, mentre in precedenza doveva essere rettilineo; la Spagna, in un tempo di poco anteriore, ha subito una rotazione di circa 35° in senso antiorario, avvicinandosi al Marocco e creando i presupposti per lo stretto di Gibilterra: questa stessa rotazione ha creato l'apertura del golfo di Biscaglia, nato da una frattura allargatasi a cuneo; il massiccio sardo-corso era in origine addossato alla Francia e alla Spagna: nell'Oligocene, ruotando in senso antiorario di circa 40° secondo un asse il cui perno era situato pressappoco dov'è ora Genova, questo microcontinente si sarebbe avvicinato all'Italia portandosi nella situazione attuale. Il subcontinente indiano faceva parte delle terre di Gondwana ed era situato molto più a sud; inoltre la sua punta meridionale era allora rivolta verso ovest; con l'evoluzione dell'Oceano Indiano, esso andò alla deriva verso nord, ruotando in senso antiorario di 90°, finché - urtando contro la placca asiatica - provocò il sollevamento della catena himalayana. Anche gli Appennini e le Alpi calcaree meridionali hanno subito rotazioni, ma gli studi a tal riguardo sono appena avviati.
Le placche crostali. - Osservando la distribuzione della sismicità del globo, concentrata secondo fasce strette, continue e ben definite, è possibile dividere la superficie terrestre in enormi placche rigide asismiche limitate da strette zone sismicamente attive. Le principali sono sei (fig. 7) e, come si nota, corrispondono solo in parte alle grandi unità strutturali che eravamo soliti considerare in g. generale.
Lo spessore di tali placche non è ben conosciuto, e forse non è costante, ma sembra che un ordine di grandezza medio di 100 km sia abbastanza vicino al vero. Le placche non vanno infatti confuse con la crosta, che ne costituisce solo una parte, ma al contrario vanno considerate fino al limite fra la massa rigida e l'astenosfera. Abbandonati i termini tradizionali di sial e sima, tutto ciò che si trova al disopra dell'astenosfera (e costituisce quindi le placche) viene considerato come un'unica entità strutturale. Ne deriva che la parte inferiore di ogni placca è composta dello stesso materiale che costituisce la parte superiore del mantello, probabilmente di periodotite (roccia composta in gran parte di olivina). La parte superiore della placca è invece costituita da qualche decina di migliaia di metri di rocce basaltiche, ricoperte o direttamente da formazioni sedimentarie, oppure da una crosta granitico-metamorfica di tipo continentale.
La tettonica a placche tende a spiegare l'evoluzione della crosta terrestre (ivi comprese naturalmente le varie fasi tettoniche, la nascita degli oceani, ecc.) con i movimenti relativi delle varie unità rigide. Il meccanismo invocato chiama in causa la continua formazione di nuova crosta osservata lungo le dorsali mediane, con movimento di divergenza a partire dalla linea di emissione del materiale; movimento compensato da una discesa delle placche oceaniche lungo le fosse marginali in direzione dell'astenosfera (movimento di convergenza nelle aree di subduzione). Il tutto sembra in buon accordo con un modello di lenti moti convettivi profondi.
Ma i casi possibili sono più di uno. Occorre tener conto del tipo di placche che vengono a contatto e della loro velocità relativa. Già si è visto come, con velocità relative d'impatto superiori a 6 cm/anno, una placca s'infila sotto l'altra senza provocare corrugamenti orogenetici. Il bordo crostale rigido s'immerge così verso l'astenosfera e viene riassimilato. Il moto di discesa di questa porzione crostale spiega la presenza, al disopra di essa, di vulcani, arcipelaghi e fosse; lungo i piani di frizione fra le due placche a contatto (zone di Benjoff) si avranno gl'ipocentri dei più importanti sismi profondi, e in vari casi anche produzione di calore e risalita di magmi. Le lave dei vulcani situati oltre la zona di contatto (sul lato continentale, cioè sulla verticale degl'ipocentri profondi) sono frequentemente di tipo andesitico. Esse differiscono dai materiali che fuoriescono dalle dorsali per la loro abbondanza in silice, e possono venire spiegate con una digestione magmatica di sedimenti oceanici o di materiali sialici continentali. Se invece la velocità d'impatto è inferiore a 6 cm/anno, le due placche subiscono, come si è visto, una deformazione plastica e si origina un nuovo rilievo. Ma a questo punto occorre operare una distinzione netta fra i tre casi possibili: 1) che le placche siano ambedue oceaniche; 2) che una sia oceanica e l'altra continentale (formata quindi da una massa a bassa densità, che non può sottoscorrere); 3) infine, che ambedue siano continentali. Possiamo avere in tal modo tre tipi di movimenti: a) una placca oceanica s'immerge sotto un'altra placca oceanica; il risultato è la formazione di una fossa e di una ghirlanda di isole (per es., Tonga); b) una placca oceanica s'immerge sotto una placca continentale; si forma una fossa e, verso il continente, un rilievo; il corrugamento è legato fondamentalmente, oltre che alla velocità, alla difficoltà delle masse granitico-metamorfiche, più leggere, di seguire il moto di subduzione (per es., catena andina); c) vengono a contatto due placche ognuna delle quali comprende un continente: i blocchi continentali, a un certo punto, collidono e si sovrappongono, dando luogo a una zona in cui lo spessore della crosta è anormalmente elevato (per es., Himalaya).
Quanto è stato esposto finora mette in luce che la teoria della tettonica a placche, nata dall'intima fusione di ricerche geologiche, geofisiche e oceanografiche, costituisce finora il modello più coerente per una risposta ai maggiori problemi della g.: le modalità della deriva dei continenti, l'origine delle catene montuose, la nascita e l'evoluzione delle geosinclinali; e anche se in parte ancora lacunosa e avversata da alcuni studiosi, difficilmente potrà essere sostituita da un'altra teoria che spieghi in modo altrettanto soddisfacente l'enorme massa di dati raccolti negli ultimi cinque lustri.
Prima di concludere, converrà accennare alle linee di ricerca che si stanno seguendo per cercare movimenti più antichi di quelli avvenuti dal Giurassico a oggi. La ricostruzione delle terre e degli oceani secondo i dati della g. globale è soddisfacente risalendo fino al Giurassico; ma non vi è motivo di ritenere che nei quattro e più miliardi di anni che hanno preceduto quel periodo non vi siano state altre correnti di convezione, e quindi altre derive dei blocchi crostali, altre nascite o morti di oceani sconosciuti. Considerando una catena montuosa come la cicatrice (o i segni dello scontro) di placche crostali già in movimento, vediamo che in esse figurano due elementi di primaria importanza. Uno è la presenza e distribuzione delle "pietre verdi" (rocce gabbriche, peridotiti, serpentini), che rappresentano lembi di oceaniti strappati alla crosta oceanica e pizzicati entro le masse orogenizzate; l'altro è la presenza di cospicui giacimenti di rame: si è infatti convinti che lungo le più evidenti cicatrici dovute alla tettonica a zolle vadano a concentrarsi, provenendo dal profondo, minerali di rame in grande quantità.
Ora, i più forti studiosi di geodinamica sono convinti che la ricerca della distribuzione delle pietre verdi e dei giacimenti di rame entro aree cratonizzate sia il modo più semplice per individuare fasce corrispondenti ad antichi giochi di deriva antecedenti a quello che diede la Pangea. Un altro valido ausilio lo si ottiene con fitte misurazioni radiometriche delle varie strutture. Fasce rocciose della stessa età, comprese tra zolle più antiche, potrebbero indicare una saldatura a causa di antiche collisioni per correnti di convezione e relativi movimenti crostali. Si veda, per es., la fig. 8, frutto di lunghi studi con un gran numero di datazioni di rocce. È convinzione di vari geologi americani che verso il centro dell'America settentrionale vi sia un nucleo antichissimo: non è concesso di sapere se esso a sua volta sia stato orogenizzato più di tre miliardi di anni fa, perché si tratta di una zolla, con le più antiche rocce americane, che non può esser messa a confronto con nuclei ancor più antichi. Da allora a oggi, con 5 successive derive e conseguenti orogenesi, quello scudo si sarebbe sempre più esteso, perdendo nel contempo parti di zolle oggi poste sotto il livello del mare, o staccatesi durante i movimenti, o digerite in profondità lungo i piani di Benjoff.
Come valido ausilio a queste ricerche, si effettuano anche misurazioni paleomagnetiche che rivelino nelle zolle eventuali derive e torsioni più antiche di quelle posteriori alla Pangea. Altre ricerche geodinamiche, sedimentologiche e petrografiche cercano decisi cambiamenti climatici nel tempo, interpretandoli come derive verso l'equatore o verso i poli. È comunque ancora lontano il momento in cui si potranno costruire mappe con situazioni paleogeografiche attendibili anteriori a 200 milioni di anni.
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